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domenica 13 novembre 2022

Nel 1947 Milano rappresenta il cuore della tendenza estremista interna al partito comunista


Tornando indietro a settembre, come già ricordato, la conflittualità operaia urbana diviene il caposaldo della politica del conflitto dei ceti subalterni e del movimento comunista. Sono numerosi e imponenti gli scioperi dell’autunno, dove vengono lanciate parole d’ordine radicali che richiamano alle aspirazioni autonomiste del ’45:
"Mentre raffiche di licenziamenti si abbattono sulla Caproni, sulla Lagomarsino, sull’Isotta Fraschini, le Rubinetterie alla fine del novembre 1947 diventano un caposaldo decisivo perché, dicono i dirigenti camerali, la Edison è il cuore della Confindustria e se la Edison ci rimetterà le penne tutta la Confindustria subirà l’influsso di questa sconfitta. […] 'Bisogna dare un colpo più energico'. E questo è costituito appunto dal fatto che il comitato d’agitazione prenda in mano la gestione della fabbrica, riesca a far marciare la produzione, anche se è impossibile immetterla sul mercato 'perché il liquidatore della fabbrica diffida i clienti'. Nonostante simili difficoltà, l’autogestione risulta a parere dei dirigenti camerali il fattore decisivo che assicura nel giro di poco tempo una felice soluzione della vertenza, con la revoca del provvedimento di liquidazione. […] L’esempio delle Rubinetterie resta significativo, anche perché esso viene esportato di lì a poco nelle campagne […]. Nel dicembre 1947 si profila infatti lo sciopero dei mungitori della provincia, sciopero aspro per le rabbiose reazioni degli agrari e i loro propositi di violenza, sciopero pericoloso perché minaccia di privare del latte la città e riaprire le ostilità fra il centro urbano e la campagna, a tutto favore delle forze reazionarie. E allora la decisione caldeggiata dalla sinistra è quella che i mungitori si approprino del latte e diventino i diretti fornitori della città stessa: 'si tratta di una nuova forma di lotta', dichiara Busetto, richiamando espressamente l’esempio delle Rubinetterie per rassicurare al tempo stesso la minoranza cattolica […] 'non di un atto rivoluzionario che leda il principio di proprietà; è solo un diritto di pegno che i salariati prendono nei confronti degli agrari'." <408
Diversi sentimenti ruotano attorno alla forma conflittuale dell’autogestione: se per i lavoratori essa è pratica antagonista o al più rivoluzionaria, i dirigenti invece tendono a presentarla come espressione di quella disciplina del lavoro propria della classe operaia secondo l’ideologia della ricostruzione. I lavoratori sono portatori di quel senso di responsabilità nazionale e collettiva di cui, invece, i padroni non sono capaci. Intendiamoci: la cultura del produrre, l’idea che 'prima di prima di esprimere ogni rivendicazione è necessario aver compiuto il proprio dovere' <409, è radicata e diffusa tra i lavoratori manuali da diverse generazioni; il primo operaismo, quello del Partito operaio che non permetteva l’iscrizione a intellettuali e studenti, ha nel culto della fatica fisica e della produzione un proprio carattere fondativo.
"Il senso del dovere rispetto al proprio lavoro è, infatti, profondamente radicato in questi operai perché il lavoro stesso, la posizione professionale, costituisce, probabilmente, l’asse portante sul quale si incentra la loro identità sociale e la loro autostima. Il lavoro è lo strumento attraverso il quale realizzare l’ambizione a migliorare la propria condizione sociale e di lavoro: in questo senso, si tratta ancora di operai di professione per i quali il mestiere è una sfera di difesa che protegge la loro autonomia e consente una resistenza che condiziona in senso limitativo l’autorità imprenditoriale." <410
Carattere centrale di questo produttivismo, però, è proprio la difesa della propria dignità e della propria posizione di forza, di potere, conquistata: mai la subalternità che, invece, a volte essi riconoscono nella retorica della Ricostruzione proposta da governi, imprenditori e, spesso, dai loro stessi dirigenti sindacali e di partito. La loro è dunque una 'collaborazione antagonista': "quando i tentativi imprenditoriali di riprendere il pieno possesso dell’organizzazione produttiva provocheranno i primi interventi sui tempi di lavoro e sui cottimi, la reazione operaia sarà immediata perché verrà messa in discussione la possibilità di lavorare secondo le regole consuetudinarie di un orgoglioso sapere operaio e verranno attaccati gli spazi di autonomia decisionale dei lavoratori. Nei primi anni del dopoguerra - almeno fino al 1948 e, seppure in forme più contrastate, anche nel 1949 - ciò non avviene: i militanti operai riescono infatti ad avere una parte preponderante nel definire le regole del proprio lavoro e dell’attività produttiva in fabbrica e - per quanto possa apparire in un primo momento paradossale - proprio per questa loro forza antagonista si dispongono favorevolmente verso le ipotesi di collaborazione produttiva con la controparte." <411
La crisi nera di Milano, che vede un’economia cittadina sull’orlo del collasso, vede in condizione particolarmente precaria le piccole e medie aziende, mentre le grandi sono minacciate dalla rottura unilaterale da parte della Confindustria sulle trattative legate al rinnovo della tregua salariale. L’offensiva padronale, forte di un primo successo nella vertenza sulle assemblee di fabbrica e sull’indebolimento delle Commissioni interne, utilizza anche le serrate (nonostante il loro divieto formale) durante la vertenza della FIOM sul rinnovo del contratto di categoria: la Camera del Lavoro risponde con uno sciopero di 48 ore il 16-17 settembre. Il 24 ottobre, invece, un imponente sciopero di Milano e provincia risponde all’aut-aut degli industriali sullo sblocco totale dei licenziamenti.
Sull’onda di questa nuova, breve, stagione del controllo operaio viene convocato a Milano, il 23 novembre, il congresso nazionale dei consigli di gestione, su impulso in particolare di Luigi Longo e dell’ex presidente CLNAI, il socialista Rodolfo Morandi. Intervengono oltre 7000 delegati di commissioni interne e CDG, secondo la segreteria del PCI il congresso "dovrà rappresentare la prima tappa conclusiva di un grande movimento di massa, guidato dalle forze del lavoro, che passano al contrattacco per arrestare e capovolgere l’azione che i gruppi capitalistici sviluppano in Italia con l’appoggio del governo nero". Mentre, nella sua mozione finale, l’assise "fa voti perché tutte le forze e i movimenti democratici si affianchino in un grande fronte del lavoro, della pace, della libertà, per un profondo rinnovamento strutturale della società italiana, che sottragga l’economia nazionale al dispotico arbitrio e al sabotaggio dei gruppi capitalistici e monopolistici dominanti, e la salvi dal marasma e dalla catastrofe […]. La salvaguardia della nostra industria e l’avvio alle riforme di struttura…non possono venire che dalla classe lavoratrice…La forma attraverso la quale la classe lavoratrice adempie a questa sua funzione è quella del controllo delle forze del lavoro sulla produzione attuato con i Consigli di gestione. […] la lotta per i Cdg diventa ormai una lotta di liberazione dall’oppressione dei gruppi monopolistici che dovrà essere condotta con lo stesso spirito con cui l’”altra” lotta di liberazione portò appunto alla nascita dei Cdg." <412
La preoccupazione della Direzione comunista, sia quella regionale che nazionale, è che la nuova linea di contrattacco di partito e sindacato venga scambiata per una parola d’ordine rivoluzionaria e insurrezionale (e che 'con lo stesso spirito' sia interpretato dalla base come 'con gli stessi mezzi'). Si vuole evitare da un lato la rottura definitiva con la minoranza cattolica interna alla CGIL unitaria e, dall’altro, salvaguardare l’esistenza legale del movimento comunista. Togliatti diffida dell’azione extraparlamentare (questo è il principale punto di divergenza con Secchia e gli operaisti), vorrebbe indirizzare tutte le energie della base in chiave elettoralistica, isolando al tempo stesso il classismo settario e aprendo ai ceti medi. Da questo punto di vista, Milano rappresenta il cuore della tendenza estremista interna (sia a livello di dirigenza che di base) e uno degli ostacoli più importanti al consenso nei confronti della teoria della democrazia progressiva.
Tuttavia la sua prospettiva era già in parte entrata in crisi per il mutato quadro politico all’indomani delle elezioni di giugno ’46 e con il radicalizzarsi del conflitto sociale nell’estate-autunno dello stesso anno:
"La 'democrazia progressiva' è una formula nella quale possono essere compresi diversi contenuti: in termini generali indica senza dubbio una strategia gradualistica, tesa a modificare progressivamente i rapporti di forza a favore della sinistra e del PCI, concretando così in misure socialmente sempre più incisive e radicali il mutamento che questo partito si propone. Ma la 'democrazia progressiva' ha come termine di riferimento - almeno all’inizio - un sistema politico, quello perseguito dai comunisti, che proprio intorno alla metà del 1946, con il referendum e le elezioni della Costituente, appare ormai irraggiungibile. […] D’altra parte, l’azione concreta al governo, dalla svolta di Salerno in poi, valorizza oggettivamente gli elementi di continuità col passato piuttosto che quelli di rottura." <413
Le concessioni all’ala dura e alle pressioni della base, portano Togliatti ad ammettere la possibilità di uno scontro violento, che non avrebbe certo visto i comunisti sottrarvisi; ma ciò non significa abbandonare l’asse della democrazia progressiva, la cui validità viene confermata in un contesto politico dove l’offensiva conservatrice è interpretata come attacco diretto alla democrazia, con tentativi provocatori di indurre il PCI a riadottare la prospettiva greca che ne avrebbe determinato l’uscita dalla legalità. Democrazia progressiva, ora, significa lotta sul piano istituzionale-elettorale, sempre prevedendo la “carta” della pressione da conflitto, per rovesciare i settori più retrivi e reazionari della borghesia. Su questo, nonostante le divergenze tattiche, si trova d’accordo con Secchia, il quale ribadisce: "noi non lavoriamo affatto con la prospettiva della guerra civile." <414
L’importante però per il Migliore è che "Anche in questo caso il partito mantenga un orientamento democratico. Questa impostazione la ritroveremo in molti discorsi e interventi successivi, e in particolare - non a caso - dopo il 18 aprile, e indica fino a che punto la democrazia progressiva, intesa come una democrazia in movimento, sia considerata insidiata dalla reazione […]. " <415
L’episodio di convergenza delle molte cause della conflittualità sociale è la cosiddetta 'guerra di Troilo': Ettore Troilo è uno degli ultimi prefetti nominati dal CLN rimasto in carica nel novembre del ’47; uomo del Partito d’Azione, di provata fede antifascista, è molto apprezzato dagli operai e dai sindacalisti della città. I rapporti tra lui e il ministro degli Interni sono tesi da tempo, per la differente modalità che hanno nel gestire l’ordine pubblico e le mobilitazioni dei lavoratori; nel momento in cui Troilo si rifiuta di reprimere uno sciopero indetto contro i licenziamenti, Scelba trova il pretesto per destituirlo. Per protesta, il sindaco socialista Greppi, il vicesindaco Montagnani e altri assessori si dimettono in solidarietà col prefetto; il loro esempio è seguito da altri 156 amministratori socialisti e comunisti della provincia. Non solo: il 28 novembre, prima che giungano militari e poliziotti a presidiare la prefettura, posta in stato d’assedio, le strade sono bloccate da migliaia di operai in sciopero giunti da Sesto e dalle principali fabbriche della città (Alfa Romeo, Isotta Fraschini, Caproni, Borletti, Brown Boveri, Pirelli, Breda, Bianchi, Magneti, Ercole Marelli), che occupano simbolicamente proprio il palazzo della prefettura in corso Monforte. Mentre vengono erette barricate e rispuntano le armi, da Roma giunge l’ordine al comando militare di assumere tutti i poteri amministrativi della città e della provincia. Milano è di fatto completamente bloccata e si giunge ad un soffio dallo scontro diretto tra militari, operai ed ex partigiani armati.
"L’annuncio ufficiale della cessazione del lavoro viene dato alle 13,30 e tutti i giornali sospendono le pubblicazioni, la radio stessa interrompe le trasmissioni, limitandosi a diffondere comunicati. Molti negozi abbassano le saracinesche, cinematografi e teatri sono chiusi. I tranvai vengono avviati verso le rimesse, mentre squadre di sorveglianza chiudono in centro i negozi e i cinematografi ancora aperti, bloccando anche le auto pubbliche che continuano a prestare servizio. Tutte le officine interrompono il lavoro. Verso le 16 giunge da Roma al generale Capizzi una disposizione in base alla quale tutti i poteri militari e civili nella città e nella provincia di Milano dovrebbero essere assunti dall’autorità militare. Mentre Genova si dichiara pronta allo sciopero generale, 'ventimila partigiani scendono in piazza Vittoria, da molte parti spuntano fuori le armi'." <416
La sommossa è guidata da Giancarlo Pajetta e da un comitato d’agitazione, cui non prendono parte le correnti moderate del sindacato unitario. Tra gli uomini del servizio d’ordine, sono presenti gli esponenti principali della 'Volante rossa'. Le decisioni prese dal Partito comunista milanese non furono influenzate solo dalle spinte della base, ma furono anche consapevole scelta dei dirigenti locali. Durante l’intera vicenda, Comitato centrale e Direzione del PCI seguono gli sviluppi degli eventi con una certa freddezza; sembra addirittura che, quando Pajetta telefona a Togliatti per informalo dell’avvenuta occupazione di Corso Monforte, questi abbia commentato: 'E ora cosa te ne fai?' <417. Mentre il pensiero di parte del gruppo dirigente milanese andava all’insurrezione, per prendere il potere in una situazione che sembrava favorevole, la Dirigenza a Roma esprime forte dissenso e invita a concludere i negoziati pacificamente. E qualche giorno dopo, quando si riunisce la Direzione, Pajetta subisce l’attacco sarcastico del segretario: "Credevi che la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno fossero a tua disposizione a Milano per venire rovesciati od occupati alla baionetta? Bell’impresa. Quanti giorni o quante ore avresti resistito come un garibaldino fuori tempo massimo? So bene che ti chiami Nullo […]. Ma nulla avresti concluso." <418
Di fatto, dopo giorni di trattative locali e il silenzio da parte di Scelba e del governo centrale, si trova una sorta di accordo al ribasso per i sostenitori di Troilo: il prefetto viene infatti comunque destituito e al suo posto viene insediato un gretto burocrate di Pavia, invece dell’originale funzionario di Torino, che a Milano non aveva buona fama.
Pajetta da l’ordine di smobilitare e, nel giro di due giorni, i lavoratori rientrano negli stabilimenti. Al termine della vicenda, i vertici regionali del partito vengono sostituiti (segretario lombardo diventa Agostino Novella, dirigente fedele alla linea moderata); mentre i dirigenti milanesi, nonostante i richiami ufficiali, non vengono toccati. Prima di poterli isolare, Roma dovrà aspettare che passi la febbre partigiana e si costituisca una base di consenso attorno alla futura politica di rinnovamento.
Ma di questo ci occuperemo più avanti.
[NOTE]
407 C. Bermani, op. cit., p. 84
408 L. Ganapini, op. cit., pp. 250-51
409 L. Bertucelli, Nazione operaia, op. cit., p. 76
410 Ibidem, p. 77
411 Ibidem, p. 81
412 Documenti presentati al Congresso nazionale dei Consigli di gestione e delle Commissioni interne, p. 9, UESISA 1947, cit. in G. Galli, op. cit., pp. 178-79
413 R. Martinelli, op. cit., pp. 109-10
414 E. Collotti (a cura di), Archivio Pietro Secchia (1945-1973), p. 110, Feltrinelli 1973
415 R. Martinelli, op. cit., pp. 303-04
416 C. Bermani, op. cit., p. 89
417 A. Cossutta, Una storia comunista, p. 50, Rizzoli 2004
418 Riferito in M. Caprara, Il sedativo Togliatti, Il Giornale 12 agosto 1987, cit. in C. Bermani, op. cit., p. 91

Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

mercoledì 31 agosto 2022

Da notare come le aperture del PCd’I e dell’Internazionale alla democrazia in chiave antifascista aprano proprio in questi anni le porte a molti nuovi aderenti


Anche in Togliatti, come nell’Internazionale, vediamo il permanere (in un lasso di tempo che va dal 1924 all’inizio della guerra di Spagna) di una doppia tendenza. Se da una parte l’eredità dell’intransigenza classista e comunista è ancora presente, anche per fattori di necessaria rappresentatività all’interno del partito, la componente antifascista e frontista vede l’emergere di una figura che sarà sempre più sensibile alla tematica della mediazione e dell’interclassismo proprio nell’obiettivo di combattere le dittature reazionarie che vanno affermandosi nel suolo europeo. Nelle sue "Lezioni sul fascismo", infatti, troviamo dei netti rimandi a quella che è la politica che va affermandosi per la maggiore lungo la direttrice togliattiana. Troviamo, per esempio, l’ammissione della necessità di difendere le conquiste che il proletariato ha saputo compiere nel sistema democratico precedente all’affermazione del fascismo, sistema che quindi non viene più assimilato, come prima, alla degenerazione fascista, ma che già si presenta come una fase antecedente nella quale è possibile riscontrare delle conquiste da difendere. <3
Una conclusione che pare scontata, meno se la si fa coincidere con una apertura che proprio Togliatti, sulla scorta di un ritorno ad uno status quo ante, inizia a mostrare verso il restante spettro politico europeo, anche non comunista. L’antifascismo stesso proprio in questo decennio di gestazione va definendosi come un coagulatore di forze eterogenee, anche democratiche, che come obiettivo principale non hanno più la realizzazione di un mondo nuovo, o di una
rivoluzione senza compromessi da realizzarsi in un futuro incerto, ma l’eliminazione attuale del comune nemico fascista. In tutta l’opera togliattiana possiamo notare come questa politica di combattimento che egli promuove contro il fascismo da leader comunista preveda anche una abile infiltrazione all’interno dei gangli gestionali e delle organizzazioni fasciste. <4 Una tattica, quella del combattere il nemico dal suo interno, che sarà anch’essa costante, e che in questa fase vede una prima, importante implementazione. Un approccio, quello poc’anzi evidenziato, totalmente diverso rispetto alla tattica riconducibile all’epoca bordighista, all’intransigenza classista o al rifiuto settario del confronto, un approccio fatto ora di una significativa empatia, di un tentativo di comprensione delle dinamiche fasciste per meglio combatterle dal loro interno. Un convincimento continuo della massa avvicinata per svariate ragioni dal regime, che va portata sulla via della conversione ad un messaggio più confacente ai suoi interessi.
Questa “vasta e coraggiosa utilizzazione delle possibilità legali offerte dal fascismo” <5 diventa un lavoro di convincimento e penetrazione che, nelle infime possibilità di lotta offerte dalla situazione di ampia repressione del contesto italiano, deve essere svolta anche con l’aiuto e la collaborazione della socialdemocrazia. Il lavoro di analisi fatto in questi anni dal partito e dal suo leader consiste in un profondo riesame anche della politica comunista, capace di evidenziare pure fasi di autocritica; emblematico è il caso della trattazione del dopolavoro, ammettendo che mai prima del fascismo è esistita una organizzazione capace di centralizzare le necessità culturali e sportive delle masse. E’ essenziale notare come le aperture del PCd’I e dell’Internazionale alla democrazia in chiave antifascista aprano proprio in questi anni le porte a molti nuovi aderenti, che nei partiti comunisti europei trovano non più un intimo ritrovo per pochi rivoluzionari, ma una base popolare di lotta e applicazione reale delle necessità più impellenti dell’attualità.
Un atteggiamento che si ripercuoterà anche sulla grande promotrice di questo atteggiamento, quell’Unione Sovietica staliniana che, grazie all’atteggiamento tenuto in particolare nella guerra di Spagna, vedrà catalizzare su di sé la simpatia di moltissimi politici, intellettuali e uomini di cultura per nulla vicini al comunismo (come ad esempio Aldous Huxley, George Bernard Shaw o Heinrich Mann) ma attirati dalla coerenza antifascista del nuovo corso politico. <6
In questi anni anche il PCd’I svestirà i panni del partito su misura per la sola classe operaia, e nella resistenza antifascista prebellica troverà la prima grande adesione di popolazione eterogenea, su base interclassista. Un approccio che anche in Togliatti tende ad approssimarsi sempre più all’anticlassismo, al compromesso con la borghesia, all’accantonamento di una chiusura settaria che appare sempre più dannosa e inutile ai suoi occhi, una astrazione che negli anni a cavallo tra il secondo e il terzo decennio del Ventesimo secolo poteva essere considerata un peccato imperdonabile, oltre che uno sbaglio senza eguali. Idea, quest’ultima, confortata anche nell’infelice esperienza applicativa portata in dote dalla condanna del social-fascismo e dal rifiuto di collaborazione con la socialdemocrazia, un rifiuto che nella Germania prehitleriana ha significato solamente l’agevolare il compito al partito nazionalsocialista tedesco nella sua presa del potere, con un fronte popolare diviso, indebolito e incapace di offrire una valida diga al trionfo delle istanze naziste. <7 Tra i successi travolgenti ottenuti dai regimi fascisti, la durezza della repressione, l’inefficacia della retorica rivoluzionaria e le nuove esigenze sovietiche, Togliatti porterà a compimento una maturazione fondamentale per la sua figura politica e per il suo partito, una maturazione che, assieme a tutti i suoi responsabili, vedrà una prima, grande applicazione nella guerra civile spagnola [1936-1939], una sorta di battesimo dell’antifascismo che, seppur catastrofico nei suoi esiti, vedrà l’implementazione di una tattica di fondamentale importanza per le future sorti dell’Europa.
[NOTE]
3 Palmiro Togliatti, Lezioni sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1976, pag. 13-14
4 Charles F. Delzell, I nemici di Mussolini, Roma, Castelvecchi, 2013, per approfondire l’infiltrazione comunista nelle organizzazioni fasciste si veda in particolare l’analisi contenuta nel capitolo “Il quarto congresso del PCI in Germania”
5 Aldo Grandi, Ruggero Zangrandi. Una biografia, Catanzaro, Abramo, 1994, pag. 76
6 Gabriele Ranzato, L’eclissi della democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pag. 336-337
7 Cit., pag. 20-21
Alessandro Catto, Palmiro Togliatti, il PCI e la democrazia progressiva tra lotta antifascista e costituzionalizzazione, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2015/2016

Viceversa, un termine come ‘popolo’ andò via via acquisendo sempre più rilevanza nel discorso comunista italiano. Un più ampio impiego del lemma si ebbe per esempio durante gli anni trenta, soprattutto con la politica del fronte popolare antifascista e dopo il VII congresso del Komintérn, svoltosi tra il 25 luglio e il 20 agosto del 1935, l’ultimo prima del suo scioglimento. Se il termine ‘popolo’ su l’Unità aveva avuto una frequenza trascurabile tra il 1924 e la prima metà degli anni trenta, oltretutto quasi sempre come specificazione nazionale di altri popoli, la situazione apparve <105 rovesciata nel decennio successivo. Sul quinto numero dell’edizione clandestina del 1935, il popolo italiano era protagonista dell’azione contro l’«avventura brigantesca del governo fascista» <106. Ugualmente accadeva sul settimo numero, dove il popolo faceva la sua comparsa tra i destinatari dell’appello del partito <107. Il dodicesimo si rivolgeva poi direttamente al popolo, titolando “Popolo d’Italia, imponi la pace!” <108, e così il tredicesimo, “Il popolo italiano ha parlato!” <109. Sul quindicesimo numero l’Unità scagionava completamente il popolo italiano dalle sanzioni che nell’ottobre del 1935 la Società delle nazioni aveva applicato al paese per l’aggressione all’Etiopia. Infatti spiegava: «È contro i responsabili della guerra, è contro il fascismo aggressore che le sanzioni sono applicate - non contro il popolo italiano. Le sanzioni sono destinate a stroncare la guerra infame e disastrosa in cui il fascismo ha gettato l’Italia - non a soffocare economicamente il popolo italiano» <110.
Nel secondo numero del 1936 l’Unità insisteva proprio su questo punto: “Il popolo italiano non è responsabile della guerra!”, mentre lo era Mussolini, che <111 «[condannava] il popolo italiano alla fame ed alla morte» <112. Non era responsabilità dei «cinquecentomila giovani» che erano stati «mandati lontano, a soggiogare un altro popolo, con le armi» perché era stato «detto loro che ciò era necessario, nell’interesse del popolo italiano». Le «promesse fatte al popolo non [erano state] mantenute»: «il popolo italiano [era] sacrificato e oppresso», «sotto la minaccia di essere trascinato in una nuova guerra», «alla mercé di un pugno di sfruttatori»: «i grandi finanzieri, i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri» <113.
[...] Nell’articolo “Una grande lezione”, sull’ottavo numero de l’Unità del 1936, si poteva inoltre leggere: «L’eco dei recenti avvenimenti politici e sociali della Francia è giunta rapidamente nella Penisola, e vi ha portato una vaga speranza. L’istinto della classe operaia e del popolo intero, permette loro di stabilire, senza difficoltà, la identificazione degli obbiettivi [sic] dei popoli che lottano e che vincono, con i propri obbiettivi [sic]. Perciò le lotte del popolo spagnuolo, del popolo francese - e del popolo della lontana Cina! - giungono al cuore del nostro popolo, come il suono della campana che annuncia la nuova alba» <117.
Ugualmente, alla fine del 1937, un articolo di Ruggero Grieco invocava l’«unione del popolo» e la «solidarietà fra tutti i popoli» come arma decisiva contro la guerra <118. Da un lato la comunanza spirituale tra il popolo italiano e gli altri popoli in lotta contro il nazifascismo - che tra il 1937 e il 1939 trovava luogo privilegiato nella guerra civile spagnola <119 -, dall’altro le narrazioni delle promesse al popolo italiano non mantenute dal regime e il discorso del prezzo pagato dal popolo per averci creduto <120, costituirono, nel decennio a seguire (1938-1948), la base discorsiva del processo di totale assoluzione del popolo italiano.
Nel 1937, sulla stampa clandestina il ‘popolo’ cominciò a giocare un’importante funzione nel discorso in merito alla morte di Antonio Gramsci. Nell’articolo “L’estremo saluto del partito”, apparso sul sesto numero de l’Unità 1937, la frequenza del lemma ‘popolo’ era più alta che negli articoli dello stesso periodo.
[NOTE]
105 Come il popolo cinese: “La rivoluzione cinese. L’offensiva contro l’esercito del popolo”, l’Unità, III, 30 (4 febbraio 1926); “L’insurrezione del popolo cinese”, l’Unità, II, 129 (6 giugno 1925). Il popolo russo: “I capi della Seconda Internazionale predicano la guerra civile… contro il Governo dei Soviet”, l’Unità, II, 129 (6 giugno 1925). Il popolo macedone: “Le lotte del popolo macedone nelle dichiarazioni di un capo rivoluzionario”, l’Unità, I, 159 (16 agosto 1924). Il popolo italiano: “Il vivace fermento del popolo italiano”, l’Unità, I, 108 (18 giugno 1924); “Il popolo italiano potrà mai sapere chi sono accusati da Rossi, Finzi e Filippelli?”, l’Unità, I, 145 (31 luglio 1924).
106 “Il popolo italiano reagisce all’avventura brigantesca del governo fascista”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 5 (1935).
107 “Salviamo il nostro paese dalla catastrofe! (Appello del Comitato Centrale del Partito Comunista d’Italia)”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 7 (1935).
108 “Popolo d’Italia, imponi la pace!””, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 12 (1935). 109 “Il popolo italiano ha parlato!”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 13 (1935).
110 “Il responsabile delle sanzioni è il governo di Mussolini! Finisca la guerra!, deve essere il grido di tutto il popolo italiano”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 15 (1935).
111 Un gruppo di professionisti, “Il popolo italiano non è responsabile della guerra!”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 2 (1936).
112 R. Grieco [Ruggero Grieco], “Mussolini prepara un nuovo macello!”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 1 (1936).
113 R. Grieco [Ruggero Grieco], “Ex combattenti dell’Africa Orientale! Popolo italiano!”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 1 (1936).
117 “Una grande lezione”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 8 (1936).
118 Ruggero Grieco, “Unione del popolo e solidarietà fra tutti i popoli per la pace e per la libertà”, l’Unità, Edizione clandestina, XIV, 14 (1937).
119 Nel 1937 fu soprattutto la lotta del popolo spagnolo a occupare le pagine de l’Unità: “Solidarietà del popolo italiano per i repubblicani spagnuoli”, sul secondo numero; “In difesa della Spagna del popolo”, sul terzo, sul quale, nella manchette, era scritto: «La vittoria della Sagna del popolo è anche nelle mani del popolo italiano»; “La solidarietà del popolo italiano con la repubblica spagnuola”, sul quinto; “Lavoratore italiano! Il fronte spagnuolo della libertà passa anche per il nostro paese”, sul settimo; Velio Spano, “Il popolo spagnuolo lotta per la vittoria”, sul decimo.
Giulia Bassi, Parole che mobilitano. Il concetto di ‘popolo’ tra storia politica e semantica storica nel partito comunista italiano, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2015/2016
 
Il Partito Comunista d'Italia (PCdI) nasce il 21 gennaio 1921 da una scissione dal Partito Socialista Italiano (PSI) in occasione del XVI Congresso di quest'ultimo (Spriano 1967-1975, I: 108-121). Il dibattito di lungo corso tra massimalisti (radicali, favorevoli al perseguimento del programma massimo) e minimalisti (riformisti, per una declinazione graduale degli obiettivi) registra un salto di qualità in seguito alla Rivoluzione d'Ottobre (1917) e alla conseguente costituzione del Comintern (1919), l'Internazionale Comunista che si propone di coordinare i partiti comunisti periferici sulla base delle indicazioni dell'organizzazione centrale, il Partito Comunista dell'Unione Sovietica (PCUS). Dal ruolo dell'organizzazione sponsorizzatrice nella fondazione del PCdI deriva dunque la “legittimazione esterna” del partito che ne condizionerà gli sviluppi successivi. Il processo di “bolscevizzazione” del partito promosso dal Comintern è tuttavia interrotto dall'avvento del fascismo e dal “passaggio alla illegalità” del PCdI (Panebianco 1982: 157-158). Nel 1923 la leadership di Amadeo Bordiga nel partito viene sconfessata direttamente da Mosca che, approfittando dell'arresto di quest'ultimo, lo rimuove accusandolo di eterodossia e di trockismo (Spriano 1967-1975, I: 429-456). Questo intervento apre la strada a un cambiamento al vertice del PCdI clandestino: nel corso del III Congresso (1926) si afferma una coalizione dominante di osservanza sovietica diretta da Antonio Gramsci (che assume il ruolo di Segretario) e da Palmiro Togliatti (Spriano 1967-1975, I: 510-513). L'8 novembre dello stesso anno Gramsci viene arrestato e morirà in carcere dopo undici anni di prigionia; i suoi 'Quaderni' contribuiranno in maniera decisiva alla ridefinizione dell'identità comunista nella seconda metà degli anni Cinquanta. Ormai scisso tra una direzione in esilio e un'organizzazione clandestina in Italia, il partito attraversa una fase turbolenta, decimato dalla repressione fascista e dalle epurazioni sovietiche, prima di stabilizzarsi con l'ascesa alla Segreteria di Togliatti (Agosti 1999: 26-33). Gli anni Trenta vedono un inasprirsi del controllo del Comintern sulle organizzazioni affiliate: nel 1938 il Comitato centrale del PCdI viene sciolto; Togliatti consolida così la sua preminenza nel partito grazie al rapporto diretto con Iosif Stalin (Spriano 1967-1975, III: 246-261). Il patto tedesco-sovietico (1939) e la conseguente formulazione della teoria della “guerra imperialista” da parte di Mosca mettono in difficoltà la tattica frontista che il PCdI stava portando avanti assieme agli altri partiti antifascisti, confermando ancora una volta come il Comintern agisse come strumento della politica estera dell'URSS (Spriano 1967-1975, III: 309-316). L'Operazione Barbarossa che i nazisti inaugurano nel 1942 produce un nuovo rivolgimento, ovvero la definizione di “guerra antifascista”, e ha quindi conseguenze anche sul PCdI, che torna a promuovere larghe intese tra le forze che si oppongono al regime per provocarne la caduta. Nel 1943 il Comintern viene sciolto e il PCdI assume la denominazione di Partito Comunista Italiano (PCI). Con le dimissioni di Benito Mussolini, l'ascesa di Pietro Badoglio e la sconfessione del Patto d'acciaio che legava l'Italia alla Germania, inizia nel Centro-Nord la Resistenza all'occupazione nazista. Dopo aver faticosamente riorganizzato la propria struttura clandestina, i comunisti si rivelano i principali animatori degli scioperi e delle lotte antinaziste (Spriano 1967-1975, IV: 345-358). Ottenuto l'assenso di Stalin, Togliatti rientra in Italia nel marzo 1944 e avvia la “Svolta di Salerno”, ovvero la disponibilità dei comunisti a entrare in un governo di pacificazione nazionale: si vuole privilegiare la guerra contro gli invasori tedeschi rispetto alla disputa sulla questione istituzionale causata dalla pregiudiziale antimonarchica degli altri partiti laici (Agosti 2009: 51). Togliatti promuove inoltre il “partito nuovo”, nazionale e di massa, ponendo le basi “per uno sviluppo che contiene una sensibile «deviazione» dal modello sovietico”, cioè l'organizzazione di quadri formata da rivoluzionari di professione (Panebianco 1982: 158). La funzione originale del rinnovato PCI è nella “democrazia progressiva” ovvero nell'inclusione delle grandi masse popolari nella gestione politica del Paese: “L'obiettivo che noi proporremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo. […] Questo vuol dire che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza e sul dominio di un solo partito” (Togliatti in Spriano 1967-1975, V: 389). Il PCI entra quindi a far parte dei governi Badoglio, Bonomi, Parri e De Gasperi (con Togliatti al Ministero di Grazia e Giustizia), prima di essere estromesso da quest'ultimo nel maggio 1947, a causa dell'irrigidimento dei rapporti tra USA e URSS e della fedeltà atlantica della DC. Per il resto della sua vicenda storica, il PCI non ricoprirà più incarichi di governo: è la “conventio ad excludendum” che accomuna le esigenze internazionali degli USA e i vantaggi interni della DC.
Alle prime elezioni dopo il ventennio fascista, il PCI sfiora il 19% dei voti e nel 1948 si presenta assieme ai socialisti nel Fronte Democratico Popolare ottenendo però un deludente 31% (alle precedenti consultazioni la somma dei due partiti superava il 39%). Il sistema elettorale proporzionale e la consistente affermazione della DC (48%) stabilizzano il Paese sul perno centrista che ne costituirà la costante per quasi mezzo secolo (Mack Smith 1997: 571).
La difficile transizione post-fascista e la ricostituzione del Comintern sotto nuove vesti (Cominform) provocano un riflesso difensivo nel PCI, che ripiega su se stesso con un parziale ritorno organizzativo al modello leninista (Agosti 1999: 63-65).
Francesco Andreani, The dissolution of the Italian Communist Party and the identity of the Left: ideology and party organisation, a thesis submitted to the University of Birmingham, 2013