Tornando indietro a settembre, come già ricordato, la conflittualità operaia urbana diviene il caposaldo della politica del conflitto dei ceti subalterni e del movimento comunista. Sono numerosi e imponenti gli scioperi dell’autunno, dove vengono lanciate parole d’ordine radicali che richiamano alle aspirazioni autonomiste del ’45:
"Mentre raffiche di licenziamenti si abbattono sulla Caproni, sulla Lagomarsino, sull’Isotta Fraschini, le Rubinetterie alla fine del novembre 1947 diventano un caposaldo decisivo perché, dicono i dirigenti camerali, la Edison è il cuore della Confindustria e se la Edison ci rimetterà le penne tutta la Confindustria subirà l’influsso di questa sconfitta. […] 'Bisogna dare un colpo più energico'. E questo è costituito appunto dal fatto che il comitato d’agitazione prenda in mano la gestione della fabbrica, riesca a far marciare la produzione, anche se è impossibile immetterla sul mercato 'perché il liquidatore della fabbrica diffida i clienti'. Nonostante simili difficoltà, l’autogestione risulta a parere dei dirigenti camerali il fattore decisivo che assicura nel giro di poco tempo una felice soluzione della vertenza, con la revoca del provvedimento di liquidazione. […] L’esempio delle Rubinetterie resta significativo, anche perché esso viene esportato di lì a poco nelle campagne […]. Nel dicembre 1947 si profila infatti lo sciopero dei mungitori della provincia, sciopero aspro per le rabbiose reazioni degli agrari e i loro propositi di violenza, sciopero pericoloso perché minaccia di privare del latte la città e riaprire le ostilità fra il centro urbano e la campagna, a tutto favore delle forze reazionarie. E allora la decisione caldeggiata dalla sinistra è quella che i mungitori si approprino del latte e diventino i diretti fornitori della città stessa: 'si tratta di una nuova forma di lotta', dichiara Busetto, richiamando espressamente l’esempio delle Rubinetterie per rassicurare al tempo stesso la minoranza cattolica […] 'non di un atto rivoluzionario che leda il principio di proprietà; è solo un diritto di pegno che i salariati prendono nei confronti degli agrari'." <408
Diversi sentimenti ruotano attorno alla forma conflittuale dell’autogestione: se per i lavoratori essa è pratica antagonista o al più rivoluzionaria, i dirigenti invece tendono a presentarla come espressione di quella disciplina del lavoro propria della classe operaia secondo l’ideologia della ricostruzione. I lavoratori sono portatori di quel senso di responsabilità nazionale e collettiva di cui, invece, i padroni non sono capaci. Intendiamoci: la cultura del produrre, l’idea che 'prima di prima di esprimere ogni rivendicazione è necessario aver compiuto il proprio dovere' <409, è radicata e diffusa tra i lavoratori manuali da diverse generazioni; il primo operaismo, quello del Partito operaio che non permetteva l’iscrizione a intellettuali e studenti, ha nel culto della fatica fisica e della produzione un proprio carattere fondativo.
"Il senso del dovere rispetto al proprio lavoro è, infatti, profondamente radicato in questi operai perché il lavoro stesso, la posizione professionale, costituisce, probabilmente, l’asse portante sul quale si incentra la loro identità sociale e la loro autostima. Il lavoro è lo strumento attraverso il quale realizzare l’ambizione a migliorare la propria condizione sociale e di lavoro: in questo senso, si tratta ancora di operai di professione per i quali il mestiere è una sfera di difesa che protegge la loro autonomia e consente una resistenza che condiziona in senso limitativo l’autorità imprenditoriale." <410
Carattere centrale di questo produttivismo, però, è proprio la difesa della propria dignità e della propria posizione di forza, di potere, conquistata: mai la subalternità che, invece, a volte essi riconoscono nella retorica della Ricostruzione proposta da governi, imprenditori e, spesso, dai loro stessi dirigenti sindacali e di partito. La loro è dunque una 'collaborazione antagonista': "quando i tentativi imprenditoriali di riprendere il pieno possesso dell’organizzazione produttiva provocheranno i primi interventi sui tempi di lavoro e sui cottimi, la reazione operaia sarà immediata perché verrà messa in discussione la possibilità di lavorare secondo le regole consuetudinarie di un orgoglioso sapere operaio e verranno attaccati gli spazi di autonomia decisionale dei lavoratori. Nei primi anni del dopoguerra - almeno fino al 1948 e, seppure in forme più contrastate, anche nel 1949 - ciò non avviene: i militanti operai riescono infatti ad avere una parte preponderante nel definire le regole del proprio lavoro e dell’attività produttiva in fabbrica e - per quanto possa apparire in un primo momento paradossale - proprio per questa loro forza antagonista si dispongono favorevolmente verso le ipotesi di collaborazione produttiva con la controparte." <411
La crisi nera di Milano, che vede un’economia cittadina sull’orlo del collasso, vede in condizione particolarmente precaria le piccole e medie aziende, mentre le grandi sono minacciate dalla rottura unilaterale da parte della Confindustria sulle trattative legate al rinnovo della tregua salariale. L’offensiva padronale, forte di un primo successo nella vertenza sulle assemblee di fabbrica e sull’indebolimento delle Commissioni interne, utilizza anche le serrate (nonostante il loro divieto formale) durante la vertenza della FIOM sul rinnovo del contratto di categoria: la Camera del Lavoro risponde con uno sciopero di 48 ore il 16-17 settembre. Il 24 ottobre, invece, un imponente sciopero di Milano e provincia risponde all’aut-aut degli industriali sullo sblocco totale dei licenziamenti.
Sull’onda di questa nuova, breve, stagione del controllo operaio viene convocato a Milano, il 23 novembre, il congresso nazionale dei consigli di gestione, su impulso in particolare di Luigi Longo e dell’ex presidente CLNAI, il socialista Rodolfo Morandi. Intervengono oltre 7000 delegati di commissioni interne e CDG, secondo la segreteria del PCI il congresso "dovrà rappresentare la prima tappa conclusiva di un grande movimento di massa, guidato dalle forze del lavoro, che passano al contrattacco per arrestare e capovolgere l’azione che i gruppi capitalistici sviluppano in Italia con l’appoggio del governo nero". Mentre, nella sua mozione finale, l’assise "fa voti perché tutte le forze e i movimenti democratici si affianchino in un grande fronte del lavoro, della pace, della libertà, per un profondo rinnovamento strutturale della società italiana, che sottragga l’economia nazionale al dispotico arbitrio e al sabotaggio dei gruppi capitalistici e monopolistici dominanti, e la salvi dal marasma e dalla catastrofe […]. La salvaguardia della nostra industria e l’avvio alle riforme di struttura…non possono venire che dalla classe lavoratrice…La forma attraverso la quale la classe lavoratrice adempie a questa sua funzione è quella del controllo delle forze del lavoro sulla produzione attuato con i Consigli di gestione. […] la lotta per i Cdg diventa ormai una lotta di liberazione dall’oppressione dei gruppi monopolistici che dovrà essere condotta con lo stesso spirito con cui l’”altra” lotta di liberazione portò appunto alla nascita dei Cdg." <412
La preoccupazione della Direzione comunista, sia quella regionale che nazionale, è che la nuova linea di contrattacco di partito e sindacato venga scambiata per una parola d’ordine rivoluzionaria e insurrezionale (e che 'con lo stesso spirito' sia interpretato dalla base come 'con gli stessi mezzi'). Si vuole evitare da un lato la rottura definitiva con la minoranza cattolica interna alla CGIL unitaria e, dall’altro, salvaguardare l’esistenza legale del movimento comunista. Togliatti diffida dell’azione extraparlamentare (questo è il principale punto di divergenza con Secchia e gli operaisti), vorrebbe indirizzare tutte le energie della base in chiave elettoralistica, isolando al tempo stesso il classismo settario e aprendo ai ceti medi. Da questo punto di vista, Milano rappresenta il cuore della tendenza estremista interna (sia a livello di dirigenza che di base) e uno degli ostacoli più importanti al consenso nei confronti della teoria della democrazia progressiva.
Tuttavia la sua prospettiva era già in parte entrata in crisi per il mutato quadro politico all’indomani delle elezioni di giugno ’46 e con il radicalizzarsi del conflitto sociale nell’estate-autunno dello stesso anno:
"La 'democrazia progressiva' è una formula nella quale possono essere compresi diversi contenuti: in termini generali indica senza dubbio una strategia gradualistica, tesa a modificare progressivamente i rapporti di forza a favore della sinistra e del PCI, concretando così in misure socialmente sempre più incisive e radicali il mutamento che questo partito si propone. Ma la 'democrazia progressiva' ha come termine di riferimento - almeno all’inizio - un sistema politico, quello perseguito dai comunisti, che proprio intorno alla metà del 1946, con il referendum e le elezioni della Costituente, appare ormai irraggiungibile. […] D’altra parte, l’azione concreta al governo, dalla svolta di Salerno in poi, valorizza oggettivamente gli elementi di continuità col passato piuttosto che quelli di rottura." <413
Le concessioni all’ala dura e alle pressioni della base, portano Togliatti ad ammettere la possibilità di uno scontro violento, che non avrebbe certo visto i comunisti sottrarvisi; ma ciò non significa abbandonare l’asse della democrazia progressiva, la cui validità viene confermata in un contesto politico dove l’offensiva conservatrice è interpretata come attacco diretto alla democrazia, con tentativi provocatori di indurre il PCI a riadottare la prospettiva greca che ne avrebbe determinato l’uscita dalla legalità. Democrazia progressiva, ora, significa lotta sul piano istituzionale-elettorale, sempre prevedendo la “carta” della pressione da conflitto, per rovesciare i settori più retrivi e reazionari della borghesia. Su questo, nonostante le divergenze tattiche, si trova d’accordo con Secchia, il quale ribadisce: "noi non lavoriamo affatto con la prospettiva della guerra civile." <414
L’importante però per il Migliore è che "Anche in questo caso il partito mantenga un orientamento democratico. Questa impostazione la ritroveremo in molti discorsi e interventi successivi, e in particolare - non a caso - dopo il 18 aprile, e indica fino a che punto la democrazia progressiva, intesa come una democrazia in movimento, sia considerata insidiata dalla reazione […]. " <415
L’episodio di convergenza delle molte cause della conflittualità sociale è la cosiddetta 'guerra di Troilo': Ettore Troilo è uno degli ultimi prefetti nominati dal CLN rimasto in carica nel novembre del ’47; uomo del Partito d’Azione, di provata fede antifascista, è molto apprezzato dagli operai e dai sindacalisti della città. I rapporti tra lui e il ministro degli Interni sono tesi da tempo, per la differente modalità che hanno nel gestire l’ordine pubblico e le mobilitazioni dei lavoratori; nel momento in cui Troilo si rifiuta di reprimere uno sciopero indetto contro i licenziamenti, Scelba trova il pretesto per destituirlo. Per protesta, il sindaco socialista Greppi, il vicesindaco Montagnani e altri assessori si dimettono in solidarietà col prefetto; il loro esempio è seguito da altri 156 amministratori socialisti e comunisti della provincia. Non solo: il 28 novembre, prima che giungano militari e poliziotti a presidiare la prefettura, posta in stato d’assedio, le strade sono bloccate da migliaia di operai in sciopero giunti da Sesto e dalle principali fabbriche della città (Alfa Romeo, Isotta Fraschini, Caproni, Borletti, Brown Boveri, Pirelli, Breda, Bianchi, Magneti, Ercole Marelli), che occupano simbolicamente proprio il palazzo della prefettura in corso Monforte. Mentre vengono erette barricate e rispuntano le armi, da Roma giunge l’ordine al comando militare di assumere tutti i poteri amministrativi della città e della provincia. Milano è di fatto completamente bloccata e si giunge ad un soffio dallo scontro diretto tra militari, operai ed ex partigiani armati.
"L’annuncio ufficiale della cessazione del lavoro viene dato alle 13,30 e tutti i giornali sospendono le pubblicazioni, la radio stessa interrompe le trasmissioni, limitandosi a diffondere comunicati. Molti negozi abbassano le saracinesche, cinematografi e teatri sono chiusi. I tranvai vengono avviati verso le rimesse, mentre squadre di sorveglianza chiudono in centro i negozi e i cinematografi ancora aperti, bloccando anche le auto pubbliche che continuano a prestare servizio. Tutte le officine interrompono il lavoro. Verso le 16 giunge da Roma al generale Capizzi una disposizione in base alla quale tutti i poteri militari e civili nella città e nella provincia di Milano dovrebbero essere assunti dall’autorità militare. Mentre Genova si dichiara pronta allo sciopero generale, 'ventimila partigiani scendono in piazza Vittoria, da molte parti spuntano fuori le armi'." <416
La sommossa è guidata da Giancarlo Pajetta e da un comitato d’agitazione, cui non prendono parte le correnti moderate del sindacato unitario. Tra gli uomini del servizio d’ordine, sono presenti gli esponenti principali della 'Volante rossa'. Le decisioni prese dal Partito comunista milanese non furono influenzate solo dalle spinte della base, ma furono anche consapevole scelta dei dirigenti locali. Durante l’intera vicenda, Comitato centrale e Direzione del PCI seguono gli sviluppi degli eventi con una certa freddezza; sembra addirittura che, quando Pajetta telefona a Togliatti per informalo dell’avvenuta occupazione di Corso Monforte, questi abbia commentato: 'E ora cosa te ne fai?' <417. Mentre il pensiero di parte del gruppo dirigente milanese andava all’insurrezione, per prendere il potere in una situazione che sembrava favorevole, la Dirigenza a Roma esprime forte dissenso e invita a concludere i negoziati pacificamente. E qualche giorno dopo, quando si riunisce la Direzione, Pajetta subisce l’attacco sarcastico del segretario: "Credevi che la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno fossero a tua disposizione a Milano per venire rovesciati od occupati alla baionetta? Bell’impresa. Quanti giorni o quante ore avresti resistito come un garibaldino fuori tempo massimo? So bene che ti chiami Nullo […]. Ma nulla avresti concluso." <418
Di fatto, dopo giorni di trattative locali e il silenzio da parte di Scelba e del governo centrale, si trova una sorta di accordo al ribasso per i sostenitori di Troilo: il prefetto viene infatti comunque destituito e al suo posto viene insediato un gretto burocrate di Pavia, invece dell’originale funzionario di Torino, che a Milano non aveva buona fama.
Pajetta da l’ordine di smobilitare e, nel giro di due giorni, i lavoratori rientrano negli stabilimenti. Al termine della vicenda, i vertici regionali del partito vengono sostituiti (segretario lombardo diventa Agostino Novella, dirigente fedele alla linea moderata); mentre i dirigenti milanesi, nonostante i richiami ufficiali, non vengono toccati. Prima di poterli isolare, Roma dovrà aspettare che passi la febbre partigiana e si costituisca una base di consenso attorno alla futura politica di rinnovamento.
Ma di questo ci occuperemo più avanti.
[NOTE]
407 C. Bermani, op. cit., p. 84
408 L. Ganapini, op. cit., pp. 250-51
409 L. Bertucelli, Nazione operaia, op. cit., p. 76
410 Ibidem, p. 77
411 Ibidem, p. 81
412 Documenti presentati al Congresso nazionale dei Consigli di gestione e delle Commissioni interne, p. 9, UESISA 1947, cit. in G. Galli, op. cit., pp. 178-79
413 R. Martinelli, op. cit., pp. 109-10
414 E. Collotti (a cura di), Archivio Pietro Secchia (1945-1973), p. 110, Feltrinelli 1973
415 R. Martinelli, op. cit., pp. 303-04
416 C. Bermani, op. cit., p. 89
417 A. Cossutta, Una storia comunista, p. 50, Rizzoli 2004
418 Riferito in M. Caprara, Il sedativo Togliatti, Il Giornale 12 agosto 1987, cit. in C. Bermani, op. cit., p. 91
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017
"Mentre raffiche di licenziamenti si abbattono sulla Caproni, sulla Lagomarsino, sull’Isotta Fraschini, le Rubinetterie alla fine del novembre 1947 diventano un caposaldo decisivo perché, dicono i dirigenti camerali, la Edison è il cuore della Confindustria e se la Edison ci rimetterà le penne tutta la Confindustria subirà l’influsso di questa sconfitta. […] 'Bisogna dare un colpo più energico'. E questo è costituito appunto dal fatto che il comitato d’agitazione prenda in mano la gestione della fabbrica, riesca a far marciare la produzione, anche se è impossibile immetterla sul mercato 'perché il liquidatore della fabbrica diffida i clienti'. Nonostante simili difficoltà, l’autogestione risulta a parere dei dirigenti camerali il fattore decisivo che assicura nel giro di poco tempo una felice soluzione della vertenza, con la revoca del provvedimento di liquidazione. […] L’esempio delle Rubinetterie resta significativo, anche perché esso viene esportato di lì a poco nelle campagne […]. Nel dicembre 1947 si profila infatti lo sciopero dei mungitori della provincia, sciopero aspro per le rabbiose reazioni degli agrari e i loro propositi di violenza, sciopero pericoloso perché minaccia di privare del latte la città e riaprire le ostilità fra il centro urbano e la campagna, a tutto favore delle forze reazionarie. E allora la decisione caldeggiata dalla sinistra è quella che i mungitori si approprino del latte e diventino i diretti fornitori della città stessa: 'si tratta di una nuova forma di lotta', dichiara Busetto, richiamando espressamente l’esempio delle Rubinetterie per rassicurare al tempo stesso la minoranza cattolica […] 'non di un atto rivoluzionario che leda il principio di proprietà; è solo un diritto di pegno che i salariati prendono nei confronti degli agrari'." <408
Diversi sentimenti ruotano attorno alla forma conflittuale dell’autogestione: se per i lavoratori essa è pratica antagonista o al più rivoluzionaria, i dirigenti invece tendono a presentarla come espressione di quella disciplina del lavoro propria della classe operaia secondo l’ideologia della ricostruzione. I lavoratori sono portatori di quel senso di responsabilità nazionale e collettiva di cui, invece, i padroni non sono capaci. Intendiamoci: la cultura del produrre, l’idea che 'prima di prima di esprimere ogni rivendicazione è necessario aver compiuto il proprio dovere' <409, è radicata e diffusa tra i lavoratori manuali da diverse generazioni; il primo operaismo, quello del Partito operaio che non permetteva l’iscrizione a intellettuali e studenti, ha nel culto della fatica fisica e della produzione un proprio carattere fondativo.
"Il senso del dovere rispetto al proprio lavoro è, infatti, profondamente radicato in questi operai perché il lavoro stesso, la posizione professionale, costituisce, probabilmente, l’asse portante sul quale si incentra la loro identità sociale e la loro autostima. Il lavoro è lo strumento attraverso il quale realizzare l’ambizione a migliorare la propria condizione sociale e di lavoro: in questo senso, si tratta ancora di operai di professione per i quali il mestiere è una sfera di difesa che protegge la loro autonomia e consente una resistenza che condiziona in senso limitativo l’autorità imprenditoriale." <410
Carattere centrale di questo produttivismo, però, è proprio la difesa della propria dignità e della propria posizione di forza, di potere, conquistata: mai la subalternità che, invece, a volte essi riconoscono nella retorica della Ricostruzione proposta da governi, imprenditori e, spesso, dai loro stessi dirigenti sindacali e di partito. La loro è dunque una 'collaborazione antagonista': "quando i tentativi imprenditoriali di riprendere il pieno possesso dell’organizzazione produttiva provocheranno i primi interventi sui tempi di lavoro e sui cottimi, la reazione operaia sarà immediata perché verrà messa in discussione la possibilità di lavorare secondo le regole consuetudinarie di un orgoglioso sapere operaio e verranno attaccati gli spazi di autonomia decisionale dei lavoratori. Nei primi anni del dopoguerra - almeno fino al 1948 e, seppure in forme più contrastate, anche nel 1949 - ciò non avviene: i militanti operai riescono infatti ad avere una parte preponderante nel definire le regole del proprio lavoro e dell’attività produttiva in fabbrica e - per quanto possa apparire in un primo momento paradossale - proprio per questa loro forza antagonista si dispongono favorevolmente verso le ipotesi di collaborazione produttiva con la controparte." <411
La crisi nera di Milano, che vede un’economia cittadina sull’orlo del collasso, vede in condizione particolarmente precaria le piccole e medie aziende, mentre le grandi sono minacciate dalla rottura unilaterale da parte della Confindustria sulle trattative legate al rinnovo della tregua salariale. L’offensiva padronale, forte di un primo successo nella vertenza sulle assemblee di fabbrica e sull’indebolimento delle Commissioni interne, utilizza anche le serrate (nonostante il loro divieto formale) durante la vertenza della FIOM sul rinnovo del contratto di categoria: la Camera del Lavoro risponde con uno sciopero di 48 ore il 16-17 settembre. Il 24 ottobre, invece, un imponente sciopero di Milano e provincia risponde all’aut-aut degli industriali sullo sblocco totale dei licenziamenti.
Sull’onda di questa nuova, breve, stagione del controllo operaio viene convocato a Milano, il 23 novembre, il congresso nazionale dei consigli di gestione, su impulso in particolare di Luigi Longo e dell’ex presidente CLNAI, il socialista Rodolfo Morandi. Intervengono oltre 7000 delegati di commissioni interne e CDG, secondo la segreteria del PCI il congresso "dovrà rappresentare la prima tappa conclusiva di un grande movimento di massa, guidato dalle forze del lavoro, che passano al contrattacco per arrestare e capovolgere l’azione che i gruppi capitalistici sviluppano in Italia con l’appoggio del governo nero". Mentre, nella sua mozione finale, l’assise "fa voti perché tutte le forze e i movimenti democratici si affianchino in un grande fronte del lavoro, della pace, della libertà, per un profondo rinnovamento strutturale della società italiana, che sottragga l’economia nazionale al dispotico arbitrio e al sabotaggio dei gruppi capitalistici e monopolistici dominanti, e la salvi dal marasma e dalla catastrofe […]. La salvaguardia della nostra industria e l’avvio alle riforme di struttura…non possono venire che dalla classe lavoratrice…La forma attraverso la quale la classe lavoratrice adempie a questa sua funzione è quella del controllo delle forze del lavoro sulla produzione attuato con i Consigli di gestione. […] la lotta per i Cdg diventa ormai una lotta di liberazione dall’oppressione dei gruppi monopolistici che dovrà essere condotta con lo stesso spirito con cui l’”altra” lotta di liberazione portò appunto alla nascita dei Cdg." <412
La preoccupazione della Direzione comunista, sia quella regionale che nazionale, è che la nuova linea di contrattacco di partito e sindacato venga scambiata per una parola d’ordine rivoluzionaria e insurrezionale (e che 'con lo stesso spirito' sia interpretato dalla base come 'con gli stessi mezzi'). Si vuole evitare da un lato la rottura definitiva con la minoranza cattolica interna alla CGIL unitaria e, dall’altro, salvaguardare l’esistenza legale del movimento comunista. Togliatti diffida dell’azione extraparlamentare (questo è il principale punto di divergenza con Secchia e gli operaisti), vorrebbe indirizzare tutte le energie della base in chiave elettoralistica, isolando al tempo stesso il classismo settario e aprendo ai ceti medi. Da questo punto di vista, Milano rappresenta il cuore della tendenza estremista interna (sia a livello di dirigenza che di base) e uno degli ostacoli più importanti al consenso nei confronti della teoria della democrazia progressiva.
Tuttavia la sua prospettiva era già in parte entrata in crisi per il mutato quadro politico all’indomani delle elezioni di giugno ’46 e con il radicalizzarsi del conflitto sociale nell’estate-autunno dello stesso anno:
"La 'democrazia progressiva' è una formula nella quale possono essere compresi diversi contenuti: in termini generali indica senza dubbio una strategia gradualistica, tesa a modificare progressivamente i rapporti di forza a favore della sinistra e del PCI, concretando così in misure socialmente sempre più incisive e radicali il mutamento che questo partito si propone. Ma la 'democrazia progressiva' ha come termine di riferimento - almeno all’inizio - un sistema politico, quello perseguito dai comunisti, che proprio intorno alla metà del 1946, con il referendum e le elezioni della Costituente, appare ormai irraggiungibile. […] D’altra parte, l’azione concreta al governo, dalla svolta di Salerno in poi, valorizza oggettivamente gli elementi di continuità col passato piuttosto che quelli di rottura." <413
Le concessioni all’ala dura e alle pressioni della base, portano Togliatti ad ammettere la possibilità di uno scontro violento, che non avrebbe certo visto i comunisti sottrarvisi; ma ciò non significa abbandonare l’asse della democrazia progressiva, la cui validità viene confermata in un contesto politico dove l’offensiva conservatrice è interpretata come attacco diretto alla democrazia, con tentativi provocatori di indurre il PCI a riadottare la prospettiva greca che ne avrebbe determinato l’uscita dalla legalità. Democrazia progressiva, ora, significa lotta sul piano istituzionale-elettorale, sempre prevedendo la “carta” della pressione da conflitto, per rovesciare i settori più retrivi e reazionari della borghesia. Su questo, nonostante le divergenze tattiche, si trova d’accordo con Secchia, il quale ribadisce: "noi non lavoriamo affatto con la prospettiva della guerra civile." <414
L’importante però per il Migliore è che "Anche in questo caso il partito mantenga un orientamento democratico. Questa impostazione la ritroveremo in molti discorsi e interventi successivi, e in particolare - non a caso - dopo il 18 aprile, e indica fino a che punto la democrazia progressiva, intesa come una democrazia in movimento, sia considerata insidiata dalla reazione […]. " <415
L’episodio di convergenza delle molte cause della conflittualità sociale è la cosiddetta 'guerra di Troilo': Ettore Troilo è uno degli ultimi prefetti nominati dal CLN rimasto in carica nel novembre del ’47; uomo del Partito d’Azione, di provata fede antifascista, è molto apprezzato dagli operai e dai sindacalisti della città. I rapporti tra lui e il ministro degli Interni sono tesi da tempo, per la differente modalità che hanno nel gestire l’ordine pubblico e le mobilitazioni dei lavoratori; nel momento in cui Troilo si rifiuta di reprimere uno sciopero indetto contro i licenziamenti, Scelba trova il pretesto per destituirlo. Per protesta, il sindaco socialista Greppi, il vicesindaco Montagnani e altri assessori si dimettono in solidarietà col prefetto; il loro esempio è seguito da altri 156 amministratori socialisti e comunisti della provincia. Non solo: il 28 novembre, prima che giungano militari e poliziotti a presidiare la prefettura, posta in stato d’assedio, le strade sono bloccate da migliaia di operai in sciopero giunti da Sesto e dalle principali fabbriche della città (Alfa Romeo, Isotta Fraschini, Caproni, Borletti, Brown Boveri, Pirelli, Breda, Bianchi, Magneti, Ercole Marelli), che occupano simbolicamente proprio il palazzo della prefettura in corso Monforte. Mentre vengono erette barricate e rispuntano le armi, da Roma giunge l’ordine al comando militare di assumere tutti i poteri amministrativi della città e della provincia. Milano è di fatto completamente bloccata e si giunge ad un soffio dallo scontro diretto tra militari, operai ed ex partigiani armati.
"L’annuncio ufficiale della cessazione del lavoro viene dato alle 13,30 e tutti i giornali sospendono le pubblicazioni, la radio stessa interrompe le trasmissioni, limitandosi a diffondere comunicati. Molti negozi abbassano le saracinesche, cinematografi e teatri sono chiusi. I tranvai vengono avviati verso le rimesse, mentre squadre di sorveglianza chiudono in centro i negozi e i cinematografi ancora aperti, bloccando anche le auto pubbliche che continuano a prestare servizio. Tutte le officine interrompono il lavoro. Verso le 16 giunge da Roma al generale Capizzi una disposizione in base alla quale tutti i poteri militari e civili nella città e nella provincia di Milano dovrebbero essere assunti dall’autorità militare. Mentre Genova si dichiara pronta allo sciopero generale, 'ventimila partigiani scendono in piazza Vittoria, da molte parti spuntano fuori le armi'." <416
La sommossa è guidata da Giancarlo Pajetta e da un comitato d’agitazione, cui non prendono parte le correnti moderate del sindacato unitario. Tra gli uomini del servizio d’ordine, sono presenti gli esponenti principali della 'Volante rossa'. Le decisioni prese dal Partito comunista milanese non furono influenzate solo dalle spinte della base, ma furono anche consapevole scelta dei dirigenti locali. Durante l’intera vicenda, Comitato centrale e Direzione del PCI seguono gli sviluppi degli eventi con una certa freddezza; sembra addirittura che, quando Pajetta telefona a Togliatti per informalo dell’avvenuta occupazione di Corso Monforte, questi abbia commentato: 'E ora cosa te ne fai?' <417. Mentre il pensiero di parte del gruppo dirigente milanese andava all’insurrezione, per prendere il potere in una situazione che sembrava favorevole, la Dirigenza a Roma esprime forte dissenso e invita a concludere i negoziati pacificamente. E qualche giorno dopo, quando si riunisce la Direzione, Pajetta subisce l’attacco sarcastico del segretario: "Credevi che la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno fossero a tua disposizione a Milano per venire rovesciati od occupati alla baionetta? Bell’impresa. Quanti giorni o quante ore avresti resistito come un garibaldino fuori tempo massimo? So bene che ti chiami Nullo […]. Ma nulla avresti concluso." <418
Di fatto, dopo giorni di trattative locali e il silenzio da parte di Scelba e del governo centrale, si trova una sorta di accordo al ribasso per i sostenitori di Troilo: il prefetto viene infatti comunque destituito e al suo posto viene insediato un gretto burocrate di Pavia, invece dell’originale funzionario di Torino, che a Milano non aveva buona fama.
Pajetta da l’ordine di smobilitare e, nel giro di due giorni, i lavoratori rientrano negli stabilimenti. Al termine della vicenda, i vertici regionali del partito vengono sostituiti (segretario lombardo diventa Agostino Novella, dirigente fedele alla linea moderata); mentre i dirigenti milanesi, nonostante i richiami ufficiali, non vengono toccati. Prima di poterli isolare, Roma dovrà aspettare che passi la febbre partigiana e si costituisca una base di consenso attorno alla futura politica di rinnovamento.
Ma di questo ci occuperemo più avanti.
[NOTE]
407 C. Bermani, op. cit., p. 84
408 L. Ganapini, op. cit., pp. 250-51
409 L. Bertucelli, Nazione operaia, op. cit., p. 76
410 Ibidem, p. 77
411 Ibidem, p. 81
412 Documenti presentati al Congresso nazionale dei Consigli di gestione e delle Commissioni interne, p. 9, UESISA 1947, cit. in G. Galli, op. cit., pp. 178-79
413 R. Martinelli, op. cit., pp. 109-10
414 E. Collotti (a cura di), Archivio Pietro Secchia (1945-1973), p. 110, Feltrinelli 1973
415 R. Martinelli, op. cit., pp. 303-04
416 C. Bermani, op. cit., p. 89
417 A. Cossutta, Una storia comunista, p. 50, Rizzoli 2004
418 Riferito in M. Caprara, Il sedativo Togliatti, Il Giornale 12 agosto 1987, cit. in C. Bermani, op. cit., p. 91
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017