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mercoledì 11 ottobre 2023

Il compromesso degasperiano si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza


Come abbiamo già visto sui temi economici, Mario Del Pero ha invece sottolineato nel suo lavoro sulla natura del rapporto DC-USA all’inizio della Guerra fredda che parlare di totale subalternità di De Gasperi e dei suoi all’alleato americano non è storicamente del tutto corretto: le venature autonomiste e nazionaliste presenti in buona parte della coalizione governativa tesero sempre ad accettare l’influenza atlantica, ma utilizzando la presenza e le pressioni americane spesso per fini dettati dalle logiche nazionali. D’accordo si dice anche Scoppola, in un paragone con il partito moderato risorgimentale che condividiamo e, dal nostro punto di vista, racchiude un significato storico molto più denso: "Non eravamo pienamente liberi ma non eravamo neppure del tutto dipendenti dalle decisioni altrui: influire sulle decisioni americane era l’unica via possibile e responsabile che un uomo politico illuminato potesse seguire. Cosa aveva fatto, negli dell’unificazione, Cavour se non utilizzare il quadro internazionale ai suoi fini, prendendo atto realisticamente dei rapporti di forza esistenti?" <554
Così sul piano economico, su quello militare e, anche, sulle misure di contenimento anticomunista che, in particolare dopo lo scoppio del conflitto coreano, assunsero sempre più caratteri anticostituzionali, De Gasperi resistette e non solo per opportunismo: "Valutando la posizione di De Gasperi sulla base delle pressioni interne ed esterne che egli ricevette affinché venisse promossa una più decisa azione anticomunista, non si può però fare a meno di notare una certa moderazione nelle scelte dello statista trentino. Da questo punto di vista sia il contenuto dei provvedimenti dell’autunno 1950 (con il rigetto dell’ipotesi di utilizzare volontari per svolgere funzioni di polizia) che la gestione dell’iter di approvazione dei medesimi testi di legge (che si arenarono in parlamento o non vennero nemmeno presentati) sembrano costituire un tipico compromesso degasperiano. Un compromesso finalizzato non solo a soddisfare le pressioni statunitensi, ma anche ad attutire posizioni più radicali presenti all’interno dell’alleanza di governo così come nel mondo cattolico organizzato". <555
'Compromesso degasperiano' che si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza, senza tuttavia compromettere gli equilibri a suo favore, correndo il rischio di cedere quote di potere troppo elevate ai settori oltranzisti poi difficilmente controllabili: "È difficile sfuggire alla sensazione che questa scarsa disponibilità non fosse determinata anche dal timore che la pedissequa applicazione delle misure chiaramente anticostituzionali richieste da Washington avrebbe finito per travolgere la democrazia italiana, portando il paese sull’orlo della guerra civile e ponendo le premesse per una svolta autoritaria di cui potevano essere vittime anche De Gasperi e la stessa Democrazia Cristiana". <556
Sostanzialmente d’accordo si dice anche Bertucelli quando riflette sui motivi del rifiuto, da parte della classe dirigente centrista, dell’alternativa salazariana: "I comunisti vengono esclusi da ogni ruolo di governo o di direzione nella struttura dello Stato, ma continuano a partecipare alle istituzioni della democrazia rappresentativa. La realizzazione di questo delicato equilibrio […] richiede però alleanze forti e impone l’anticomunismo come fattore di coesione irrinunciabile. Un anticomunismo variegato e polimorfo, spesso connotato socialmente, che diviene un tratto distintivo della democrazia del dopoguerra, in grado di relegare in posizione subalterna le culture riformatrici dei partiti di governo e le spinte modernizzatrici nella società". <557
È l’esperienza antifascista, il coinvolgimento profondo di una parte significativa di popolazione e di paese nella guerra di Liberazione, la tendenza ancora embrionale ma manifestatasi di settori non comunisti della società a fare causa comune con PCI e PSI, a impedire tra le altre cose la svolta autoritaria: "La stessa Costituzione, esito alto del tormentato passaggio dal fascismo alla Repubblica e cifra straordinaria di discontinuità con il passato, può essere sospesa, limitata, forzata, ma non se ne possono oltrepassare le norme fondamentali, non tanto perché l’opposizione comunista ne fa una bandiera, ma perché da quella carta trae legittimità lo stesso ceto di governo del dopoguerra che si identifica con la libertà e il nuovo Stato italiano, sorto dalle ceneri dell’otto settembre, e inserito ora in un nuovo ordine internazionale". <558
Queste considerazioni che negano l’asservimento totale e l’imperialismo come categorie utili, in questo contesto, a spiegare l’equilibrio centrista tra costituzione formale (prodotto della Resistenza, fondata sul nesso democrazia-antifascismo) e costituzione materiale (prodotto della Guerra fredda, fondata sul nesso democrazia-anticomunismo), servono a problematizzare il quadro: la sociologia dei conflitti tende a suddividere le modalità di svolgimento e gestione del conflitto da parte degli attori in campo secondo categorie che distinguono chiaramente tra contesto democratico e contesto non-democratico.
Questo ci pone una domanda: è possibile considerare così nettamente separate le due dimensioni? Probabilmente è più corretto ammettere la presenza di sfumature: l’esperienza storica ha dimostrato come diversi gradi di democrazia interna si basino su eccezioni alla norma democratica ufficiale, che intaccano la struttura delle opportunità politiche anche per coloro che sono riconosciuti come cittadini a pieno titolo. Le discriminazioni de iure, soprattutto in presenza di un conflitto interno, che si manifesti sia nelle forme delle campagne dei movimenti sociali, sia del conflitto letale o armato, comportano spesso restrizioni alle libertà politiche e aumento di potere nelle mani di forze dell’ordine e apparati di sicurezza. Si tratta dunque di una potenziale causa di de-democratizzazione. Contrariamente a quanto osservato da C. Tilly e S. Tarrow <559, però, questo processo non è necessariamente innescato da governi democratici a bassa capacità, né tantomeno che hanno subìto un trauma o un indebolimento: paradossalmente sono proprio le democrazie segmentate forti <560 a disporre dei dispositivi dell’eccezione e ad applicarli. In questo, il condizionamento culturale è centrale nell’interpretazione dei fatti sociali e nella percezione del nemico.
Quella che costruisce la classe dirigente neo-popolare e centrista appare a tutti gli effetti una democrazia limitata più che protetta: la molteplicità degli apparati di sicurezza e il peso dell’esercito (che vedremo nelle prossime pagine) non rappresentano infatti un potere capace di dettare l’agenda politica e determinare l’azione di governo (non in modo complessivo quanto meno); è un complesso intreccio tra attori e soggetti, spesso in conflitto tra loro, fatto di condizionamenti e azioni di diversa natura, che però non giunge mai a sollevare il governo dalle proprie prerogative costituzionali. Il sistema di ordine pubblico e agibilità politica che costruiscono Scelba e De Gasperi dunque non tende tanto a proteggere i diritti costituzionali, quanto a limitarne l’accesso per ampi settori sociali e politici. E questa è una tendenza di lungo periodo: "le tradizioni dell’Italia unita sia al livello istituzionale sia al livello delle strategie prevalenti verso gli sfidanti sono di tipo esclusivo. Le istituzioni del regno sabaudo erano caratterizzate da un forte centralismo, un’accentuata supremazia del governo di fronte a un parlamento debole, e una forte influenza dell’esecutivo anche sul potere giudiziario. La domanda che da parte del potere politico giungeva alle forze di polizia, anch’esse tenute sotto stretto controllo, era generalmente quella di una rigida protezione dell’ordine costituito, utilizzando anche le strategie più brutali. […] Il regime fascista portò a un’ulteriore accentuazione dei tratti esclusivi delle istituzioni statali. La legislazione (il codice penale, la legge di Pubblica sicurezza) varata durante il fascismo restò a lungo in vigore anche nella repubblica democratica, con conseguenze durature in termini di un riconoscimento debole dei diritti democratici. […] La forte correzione introdotta dalla costituzione repubblicana nel campo delle istituzioni formali ebbe inizialmente effetti solo parziali a causa dell’ostruzionismo della maggioranza che ostacolò l’introduzione delle nuove istituzioni di controllo e di decentramento del potere come la corte costituzionale, il consiglio superiore della magistratura, le regioni e il referendum". <561
Limitazione che diventa conferma dell’esclusione tradizionale delle classi subalterne: "Queste limitazioni, giustificate proprio con un presunto pericolo per la democrazia, si riflessero in una continuità nella strategia di esclusione del movimento operaio, delle sue organizzazioni e dei suoi partiti, che si cercava di confinare nello spazio della subcultura rossa". <562
Su questo punto non si trova d’accordo Scoppola, che invece ha sottolineato la differenza tra il paternalismo prefascista e il neopopolarismo degasperiano, soprattutto sulla questione sociale e sul ruolo delle classi subalterne: "per De Gasperi la giustizia sociale non discende nella realtà solo in virtù della sua forza morale, non è affidata ad uno Stato attento, dall’alto, al benessere delle plebi […], ma è il frutto di una presenza nuova, attraverso la democrazia politica e il suffragio universale su cui essa si fonda, di operai e contadini nella vita politica. […] La classe lavoratrice nella sua concezione è protagonista e non oggetto di un’azione di rinnovamento sociale […]". <563
Bisogna operare qui, secondo noi, una distinzione tra quella che è la teoria politica, la consapevolezza, che lo statista trentino dimostra e quella che risulta essere la prassi seguita dai suoi governi. Per le ragioni sopra riportate e che ritroveremo nel seguito dell’esposizione, ritroviamo i medesimi motivi da cui nacque, storicamente, la particolare 'subcultura rossa' italiana, e che nel secondo dopoguerra contribuiscono al riprodursi dei suoi caratteri antagonisti e rivoluzionaristi; elementi dovuti anche alla rottura tra i poteri pubblici e le istanze del lavoro, o meglio al rifiuto dei primi nei confronti delle richieste contenute nella politica del conflitto dei ceti subalterni. Costante di lungo periodo che, unitamente al nuovo contesto geopolitico e interpretativo della Guerra fredda, produce il "paradosso - giustificato con costanti richiami all’eccezionalità della situazione italiana - di uno Stato democratico costretto ad affidare le sue sorti ai rigori di una vigilanza autoritaria". <564
[NOTE]
554 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, p. 181
555 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, 2001, p. 106
556 Ibidem, p. 156
557 L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Unicopli, 2012, p. 84
558 Ibidem, p. 85
559 C. Tilly, S. Tarrow, La politica del conflitto, pp. 81-84, Mondadori 2008
560 Regimi politici democratico-parlamentari che presentano al loro interno diversi gradi di concessione della cittadinanza politica e di accesso ai diritti civili, producendo così segmenti interni di democrazia. L’esclusione o la limitazione può derivare da criteri etnici, religiosi, politici.
561 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 24-25
562 Ibidem, p. 25
563 P. Scoppola, op. cit., pp. 91-92
564 G.C. Marino, op. cit., p. 57
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

venerdì 16 dicembre 2022

Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità


Luigi Einaudi fin dal 1944 aveva lanciato il suo durissimo atto d’accusa verso il prefetto, con il celebre grido: "Il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze!" <619
Aggiungendo la sua visione (condivisa da antifascisti di diverso orientamento) di radicale antitesi tra figura prefettizia e democrazia: "Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. […] Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro". <620
L’identificazione tra prefetto e fascismo è profonda, soprattutto per il movimento partigiano del centro-nord e in particolare per i gappisti impegnati nella resistenza urbana; mentre il dibattito politico, che vede contrapporsi per i primi mesi [del secondo dopoguerra] un’opzione più sensibile alle autonomie locali, anticentralista, alla centralizzazione dello Stato post-fascista, ha tra i suoi temi principali proprio il ruolo prefettizio. Questo è dunque antitetico alla democrazia, rappresenta il pericolo permanente della degenerazione se non in dittatura, quanto meno in uno stato di polizia. Tuttavia, per i medesimi motivi per cui il governo Parri non sceglie la strada della rottura, optando invece per la continuità attraverso la depoliticizzazione, allo stesso modo il prefetto è visto come uno strumento di garanzia e tutela: di fronte a una situazione di emergenza sociale, debolezza statale, scarso controllo dell’ordine pubblico, Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità: "Percepito solo come strumento della politica di controllo e di repressione dello Stato fascista, non ha possibilità di ottenere la riconferma. Invece, man mano che passa il tempo, questa rappresentazione si trasforma e il prefetto appare, a una parte della classe politica, come un mezzo importante di garanzia dell’ordine pubblico ma anche come organo fondamentale nell’opera di ricostruzione, sia del paese concreto che della legalità". <621
Nei mesi che precedono le elezioni per la costituente, il fronte abolizionista perde progressivamente forza e iniziativa, mentre la riconversione democratica dell’immagine prefettizia si impone; la democrazia cui si fa riferimento è quella che emerge dall’egemonia del partito moderato, di cui si fanno interpreti i liberali (che infatti causano la caduta del governo Parri) e il nuovo presidente del consiglio democristiano. Per i primi, che presentano un decalogo programmatico durante la crisi di governo, "la revoca dei prefetti e dei questori dei CLN figurava tra i punti più insistiti (insieme allo svuotamento totale dei CLN e alla fine dell’epurazione). Così, mentre un autorevolissimo liberale come Einaudi aveva lanciato il grido di battaglia 'via il prefetto!', grido tutt’altro che privo di eco fra le stesse file liberali, nel governo di cui era stato la mosca cocchiera il PLI avrebbe interpretato quel grido quale 'via i prefetti della Liberazione!" <622
De Gasperi invece, prima ancora di prendere in mano il Viminale, con l’appoggio di Romita, avrebbe avviato l’allontanamento di tutti i prefetti CLN dai loro incarichi (uno dei punti chiave del piano rivendicativo del ciclo conflittuale in questo periodo, fino al suo momento più importante rappresentato dal caso Troilo), avvalendosi tra l’altro del decreto fascista del 1937 ancora in vigore, relativo al ripristino dei funzionari di carriera. In piena discussione sulla redazione della Carta, di fronte a tutti i prefetti riuniti a Roma nel novembre ’46, dirà "Dalla Costituente molti organismi potranno uscire trasformati, ma oggidì ancora i prefetti sono gli organi più immediati del governo, i responsabili più diretti dell’amministrazione; e, in ogni caso, i criteri fondamentali ch’essi devono seguire, frutto dell’esperienza ed emanazione d’immutabili norme di diritto ravvivato dallo spirito democratico, potranno essere rifusi in altre forme, ma non essere distorti o rinnegati, a scanso di portare lo Stato alla dissoluzione o all’assorbimento nella dittatura di parte". <623
Da strumento della possibile distorsione autoritaria a garanzia invalicabile dell’ordinamento democratico repubblicano: la metamorfosi così realizzata a livello culturale e di immagine pubblica permette anche di giustificare il permanere delle prerogative forti del prefetto, proprio partendo dal presupposto che la democrazia e lo Stato devono dimostrare la propria forza e capacità di controllo.
La prima legge post-fascista relativa ai poteri prefettizi (9 giugno 1947) conferma il cosiddetto 'controllo di legittimità', ovvero la prerogativa di controllo sul rispetto del principio di legalità da parte degli enti locali. La fine del dibattito costituzionale conferma di fatto lo status quo.
In secondo luogo, il mantenimento del TULPS comporta anche la sopravvivenza di quelle norme sui poteri speciali del ministro degli Interni e dei prefetti in caso di 'pericolo pubblico'; paradossalmente proprio Scelba aveva proposto in un primo momento, nel ’48-’49, di abolire quelle norme considerate di netto marchio autoritario, ovvero "per quanto riguarda il prefetto, si tratta di sopprimere l’articolo 2 che gli consente, in caso di urgenza, di emettere ordinanze normative e soprattutto il titolo IX che dà la facoltà, negli articoli 214 e 215, al ministro dell’Interno e ai prefetti di istituire lo stato di pericolo pubblico. In questo caso, 'durante lo stato di pericolo pubblico il Prefetto può ordinare l’arresto o la detenzione di qualsiasi persona, qualora ciò ritenga necessario per ristabilire o per conservare l’ordine pubblico', secondo la legge del 1926". <624
È poi lo stesso Scelba che, poco tempo dopo, nel corso del dibattito parlamentare del marzo ’50, propone di ristabilire il titolo IX, coerentemente con il proprio progetto di legislazione speciale, dove la figura teorizzata del 'superprefetto', di cui parlerà sempre nella famosa intervista del 1988, si avvicinava molto a quanto previsto dalla legge fascista del ’26: "Già nei primi tre mesi del 1948 era stata messa a punto un’infrastruttura capace di far fronte ad un tentativo insurrezionale comunista. L’intero Paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale […], un uomo di sicura energia e di assoluta fiducia. L’entrata in vigore di queste prefetture allargate sarebbe stata automatica nel momento in cui le comunicazioni con Roma fossero state, a causa di una sollevazione, interrotte: allora i superprefetti da me designati avrebbero assunto gli interi poteri dello Stato sapendo esattamente, in base ad un piano preordinato, che cosa fare". <625
L’idea dello Stato propria del clerico-moderatismo, di cui fu espressione il ministro degli Interni poi presidente del consiglio, era legata a una 'ideologia' neutralista e impolitica della macchina statale per cui l’intervento governativo poteva, anzi doveva essere per l’interesse generale; un altro paradosso dello scelbismo fu dunque la piena trasformazione degli strumenti di controllo e governo al servizio di una parte (l’anticomunismo e la DC in particolare) in nome dell’imparzialità.
"La sua concezione della statualità, infatti, coniugava i valori definiti dalla tradizione della borghesia liberale con la dottrina ecclesiologica del potere come servizio da rendere alla società con umile e ferma dedizione. Ne conseguiva un’interessante simbiosi tra i princìpi di autorità riconfermati a tutela dell’ordine ('perché la vita sociale è fatta di gerarchie') e i compiti paternalistici e filantropici ancora attribuiti allo Stato da un certo pensiero cattolico, dal fondo tradizionalista, convertitosi di recente alla fede nella democrazia. […] Il suo proposito ideologico […] si richiamava alla forma classica della statualità borghese per piegarla ai contenuti del suo pensiero di cattolico-popolare: in particolare, all’idea di un bene pubblico e di una verità politica (il 'sano' e 'giusto' ordine sociale, la 'vera' democrazia) di cui le funzioni statali avrebbero dovuto farsi interpreti e difensori inflessibili". <626
[NOTE]
619 L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica (1897-1954), p. 59, Laterza 1973, cit. in Virgile Cirefice, Prefetti e dottrina dello Stato di diritto nei dibattiti, p. 9, in P. Dogliani, M.A. Matard-Bonucci (a cura di), Democrazia insicura, Donzelli editore 2017, p. 5
620 Ivi
621 Virgile Cirefice, op. cit., p. 7
622 C. Pavone, op. cit., p. 154
623 Dichiarazione del presidente del consiglio ministro dell’Interno ai prefetti del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e della Liguria, 19 novembre 1946 in Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio, Gabinetto, 1944-1947, cit. in V. Cirefice, op. cit., p. 8
624 V. Cirefice, op. cit., pp. 13-14
625 M. Scelba, cit. in G. De Lutiis, op. cit., p. 153
626 G.C. Marino, op. cit., pp. 221-22

Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

domenica 13 novembre 2022

Nel 1947 Milano rappresenta il cuore della tendenza estremista interna al partito comunista


Tornando indietro a settembre, come già ricordato, la conflittualità operaia urbana diviene il caposaldo della politica del conflitto dei ceti subalterni e del movimento comunista. Sono numerosi e imponenti gli scioperi dell’autunno, dove vengono lanciate parole d’ordine radicali che richiamano alle aspirazioni autonomiste del ’45:
"Mentre raffiche di licenziamenti si abbattono sulla Caproni, sulla Lagomarsino, sull’Isotta Fraschini, le Rubinetterie alla fine del novembre 1947 diventano un caposaldo decisivo perché, dicono i dirigenti camerali, la Edison è il cuore della Confindustria e se la Edison ci rimetterà le penne tutta la Confindustria subirà l’influsso di questa sconfitta. […] 'Bisogna dare un colpo più energico'. E questo è costituito appunto dal fatto che il comitato d’agitazione prenda in mano la gestione della fabbrica, riesca a far marciare la produzione, anche se è impossibile immetterla sul mercato 'perché il liquidatore della fabbrica diffida i clienti'. Nonostante simili difficoltà, l’autogestione risulta a parere dei dirigenti camerali il fattore decisivo che assicura nel giro di poco tempo una felice soluzione della vertenza, con la revoca del provvedimento di liquidazione. […] L’esempio delle Rubinetterie resta significativo, anche perché esso viene esportato di lì a poco nelle campagne […]. Nel dicembre 1947 si profila infatti lo sciopero dei mungitori della provincia, sciopero aspro per le rabbiose reazioni degli agrari e i loro propositi di violenza, sciopero pericoloso perché minaccia di privare del latte la città e riaprire le ostilità fra il centro urbano e la campagna, a tutto favore delle forze reazionarie. E allora la decisione caldeggiata dalla sinistra è quella che i mungitori si approprino del latte e diventino i diretti fornitori della città stessa: 'si tratta di una nuova forma di lotta', dichiara Busetto, richiamando espressamente l’esempio delle Rubinetterie per rassicurare al tempo stesso la minoranza cattolica […] 'non di un atto rivoluzionario che leda il principio di proprietà; è solo un diritto di pegno che i salariati prendono nei confronti degli agrari'." <408
Diversi sentimenti ruotano attorno alla forma conflittuale dell’autogestione: se per i lavoratori essa è pratica antagonista o al più rivoluzionaria, i dirigenti invece tendono a presentarla come espressione di quella disciplina del lavoro propria della classe operaia secondo l’ideologia della ricostruzione. I lavoratori sono portatori di quel senso di responsabilità nazionale e collettiva di cui, invece, i padroni non sono capaci. Intendiamoci: la cultura del produrre, l’idea che 'prima di prima di esprimere ogni rivendicazione è necessario aver compiuto il proprio dovere' <409, è radicata e diffusa tra i lavoratori manuali da diverse generazioni; il primo operaismo, quello del Partito operaio che non permetteva l’iscrizione a intellettuali e studenti, ha nel culto della fatica fisica e della produzione un proprio carattere fondativo.
"Il senso del dovere rispetto al proprio lavoro è, infatti, profondamente radicato in questi operai perché il lavoro stesso, la posizione professionale, costituisce, probabilmente, l’asse portante sul quale si incentra la loro identità sociale e la loro autostima. Il lavoro è lo strumento attraverso il quale realizzare l’ambizione a migliorare la propria condizione sociale e di lavoro: in questo senso, si tratta ancora di operai di professione per i quali il mestiere è una sfera di difesa che protegge la loro autonomia e consente una resistenza che condiziona in senso limitativo l’autorità imprenditoriale." <410
Carattere centrale di questo produttivismo, però, è proprio la difesa della propria dignità e della propria posizione di forza, di potere, conquistata: mai la subalternità che, invece, a volte essi riconoscono nella retorica della Ricostruzione proposta da governi, imprenditori e, spesso, dai loro stessi dirigenti sindacali e di partito. La loro è dunque una 'collaborazione antagonista': "quando i tentativi imprenditoriali di riprendere il pieno possesso dell’organizzazione produttiva provocheranno i primi interventi sui tempi di lavoro e sui cottimi, la reazione operaia sarà immediata perché verrà messa in discussione la possibilità di lavorare secondo le regole consuetudinarie di un orgoglioso sapere operaio e verranno attaccati gli spazi di autonomia decisionale dei lavoratori. Nei primi anni del dopoguerra - almeno fino al 1948 e, seppure in forme più contrastate, anche nel 1949 - ciò non avviene: i militanti operai riescono infatti ad avere una parte preponderante nel definire le regole del proprio lavoro e dell’attività produttiva in fabbrica e - per quanto possa apparire in un primo momento paradossale - proprio per questa loro forza antagonista si dispongono favorevolmente verso le ipotesi di collaborazione produttiva con la controparte." <411
La crisi nera di Milano, che vede un’economia cittadina sull’orlo del collasso, vede in condizione particolarmente precaria le piccole e medie aziende, mentre le grandi sono minacciate dalla rottura unilaterale da parte della Confindustria sulle trattative legate al rinnovo della tregua salariale. L’offensiva padronale, forte di un primo successo nella vertenza sulle assemblee di fabbrica e sull’indebolimento delle Commissioni interne, utilizza anche le serrate (nonostante il loro divieto formale) durante la vertenza della FIOM sul rinnovo del contratto di categoria: la Camera del Lavoro risponde con uno sciopero di 48 ore il 16-17 settembre. Il 24 ottobre, invece, un imponente sciopero di Milano e provincia risponde all’aut-aut degli industriali sullo sblocco totale dei licenziamenti.
Sull’onda di questa nuova, breve, stagione del controllo operaio viene convocato a Milano, il 23 novembre, il congresso nazionale dei consigli di gestione, su impulso in particolare di Luigi Longo e dell’ex presidente CLNAI, il socialista Rodolfo Morandi. Intervengono oltre 7000 delegati di commissioni interne e CDG, secondo la segreteria del PCI il congresso "dovrà rappresentare la prima tappa conclusiva di un grande movimento di massa, guidato dalle forze del lavoro, che passano al contrattacco per arrestare e capovolgere l’azione che i gruppi capitalistici sviluppano in Italia con l’appoggio del governo nero". Mentre, nella sua mozione finale, l’assise "fa voti perché tutte le forze e i movimenti democratici si affianchino in un grande fronte del lavoro, della pace, della libertà, per un profondo rinnovamento strutturale della società italiana, che sottragga l’economia nazionale al dispotico arbitrio e al sabotaggio dei gruppi capitalistici e monopolistici dominanti, e la salvi dal marasma e dalla catastrofe […]. La salvaguardia della nostra industria e l’avvio alle riforme di struttura…non possono venire che dalla classe lavoratrice…La forma attraverso la quale la classe lavoratrice adempie a questa sua funzione è quella del controllo delle forze del lavoro sulla produzione attuato con i Consigli di gestione. […] la lotta per i Cdg diventa ormai una lotta di liberazione dall’oppressione dei gruppi monopolistici che dovrà essere condotta con lo stesso spirito con cui l’”altra” lotta di liberazione portò appunto alla nascita dei Cdg." <412
La preoccupazione della Direzione comunista, sia quella regionale che nazionale, è che la nuova linea di contrattacco di partito e sindacato venga scambiata per una parola d’ordine rivoluzionaria e insurrezionale (e che 'con lo stesso spirito' sia interpretato dalla base come 'con gli stessi mezzi'). Si vuole evitare da un lato la rottura definitiva con la minoranza cattolica interna alla CGIL unitaria e, dall’altro, salvaguardare l’esistenza legale del movimento comunista. Togliatti diffida dell’azione extraparlamentare (questo è il principale punto di divergenza con Secchia e gli operaisti), vorrebbe indirizzare tutte le energie della base in chiave elettoralistica, isolando al tempo stesso il classismo settario e aprendo ai ceti medi. Da questo punto di vista, Milano rappresenta il cuore della tendenza estremista interna (sia a livello di dirigenza che di base) e uno degli ostacoli più importanti al consenso nei confronti della teoria della democrazia progressiva.
Tuttavia la sua prospettiva era già in parte entrata in crisi per il mutato quadro politico all’indomani delle elezioni di giugno ’46 e con il radicalizzarsi del conflitto sociale nell’estate-autunno dello stesso anno:
"La 'democrazia progressiva' è una formula nella quale possono essere compresi diversi contenuti: in termini generali indica senza dubbio una strategia gradualistica, tesa a modificare progressivamente i rapporti di forza a favore della sinistra e del PCI, concretando così in misure socialmente sempre più incisive e radicali il mutamento che questo partito si propone. Ma la 'democrazia progressiva' ha come termine di riferimento - almeno all’inizio - un sistema politico, quello perseguito dai comunisti, che proprio intorno alla metà del 1946, con il referendum e le elezioni della Costituente, appare ormai irraggiungibile. […] D’altra parte, l’azione concreta al governo, dalla svolta di Salerno in poi, valorizza oggettivamente gli elementi di continuità col passato piuttosto che quelli di rottura." <413
Le concessioni all’ala dura e alle pressioni della base, portano Togliatti ad ammettere la possibilità di uno scontro violento, che non avrebbe certo visto i comunisti sottrarvisi; ma ciò non significa abbandonare l’asse della democrazia progressiva, la cui validità viene confermata in un contesto politico dove l’offensiva conservatrice è interpretata come attacco diretto alla democrazia, con tentativi provocatori di indurre il PCI a riadottare la prospettiva greca che ne avrebbe determinato l’uscita dalla legalità. Democrazia progressiva, ora, significa lotta sul piano istituzionale-elettorale, sempre prevedendo la “carta” della pressione da conflitto, per rovesciare i settori più retrivi e reazionari della borghesia. Su questo, nonostante le divergenze tattiche, si trova d’accordo con Secchia, il quale ribadisce: "noi non lavoriamo affatto con la prospettiva della guerra civile." <414
L’importante però per il Migliore è che "Anche in questo caso il partito mantenga un orientamento democratico. Questa impostazione la ritroveremo in molti discorsi e interventi successivi, e in particolare - non a caso - dopo il 18 aprile, e indica fino a che punto la democrazia progressiva, intesa come una democrazia in movimento, sia considerata insidiata dalla reazione […]. " <415
L’episodio di convergenza delle molte cause della conflittualità sociale è la cosiddetta 'guerra di Troilo': Ettore Troilo è uno degli ultimi prefetti nominati dal CLN rimasto in carica nel novembre del ’47; uomo del Partito d’Azione, di provata fede antifascista, è molto apprezzato dagli operai e dai sindacalisti della città. I rapporti tra lui e il ministro degli Interni sono tesi da tempo, per la differente modalità che hanno nel gestire l’ordine pubblico e le mobilitazioni dei lavoratori; nel momento in cui Troilo si rifiuta di reprimere uno sciopero indetto contro i licenziamenti, Scelba trova il pretesto per destituirlo. Per protesta, il sindaco socialista Greppi, il vicesindaco Montagnani e altri assessori si dimettono in solidarietà col prefetto; il loro esempio è seguito da altri 156 amministratori socialisti e comunisti della provincia. Non solo: il 28 novembre, prima che giungano militari e poliziotti a presidiare la prefettura, posta in stato d’assedio, le strade sono bloccate da migliaia di operai in sciopero giunti da Sesto e dalle principali fabbriche della città (Alfa Romeo, Isotta Fraschini, Caproni, Borletti, Brown Boveri, Pirelli, Breda, Bianchi, Magneti, Ercole Marelli), che occupano simbolicamente proprio il palazzo della prefettura in corso Monforte. Mentre vengono erette barricate e rispuntano le armi, da Roma giunge l’ordine al comando militare di assumere tutti i poteri amministrativi della città e della provincia. Milano è di fatto completamente bloccata e si giunge ad un soffio dallo scontro diretto tra militari, operai ed ex partigiani armati.
"L’annuncio ufficiale della cessazione del lavoro viene dato alle 13,30 e tutti i giornali sospendono le pubblicazioni, la radio stessa interrompe le trasmissioni, limitandosi a diffondere comunicati. Molti negozi abbassano le saracinesche, cinematografi e teatri sono chiusi. I tranvai vengono avviati verso le rimesse, mentre squadre di sorveglianza chiudono in centro i negozi e i cinematografi ancora aperti, bloccando anche le auto pubbliche che continuano a prestare servizio. Tutte le officine interrompono il lavoro. Verso le 16 giunge da Roma al generale Capizzi una disposizione in base alla quale tutti i poteri militari e civili nella città e nella provincia di Milano dovrebbero essere assunti dall’autorità militare. Mentre Genova si dichiara pronta allo sciopero generale, 'ventimila partigiani scendono in piazza Vittoria, da molte parti spuntano fuori le armi'." <416
La sommossa è guidata da Giancarlo Pajetta e da un comitato d’agitazione, cui non prendono parte le correnti moderate del sindacato unitario. Tra gli uomini del servizio d’ordine, sono presenti gli esponenti principali della 'Volante rossa'. Le decisioni prese dal Partito comunista milanese non furono influenzate solo dalle spinte della base, ma furono anche consapevole scelta dei dirigenti locali. Durante l’intera vicenda, Comitato centrale e Direzione del PCI seguono gli sviluppi degli eventi con una certa freddezza; sembra addirittura che, quando Pajetta telefona a Togliatti per informalo dell’avvenuta occupazione di Corso Monforte, questi abbia commentato: 'E ora cosa te ne fai?' <417. Mentre il pensiero di parte del gruppo dirigente milanese andava all’insurrezione, per prendere il potere in una situazione che sembrava favorevole, la Dirigenza a Roma esprime forte dissenso e invita a concludere i negoziati pacificamente. E qualche giorno dopo, quando si riunisce la Direzione, Pajetta subisce l’attacco sarcastico del segretario: "Credevi che la Bastiglia o il Palazzo d’Inverno fossero a tua disposizione a Milano per venire rovesciati od occupati alla baionetta? Bell’impresa. Quanti giorni o quante ore avresti resistito come un garibaldino fuori tempo massimo? So bene che ti chiami Nullo […]. Ma nulla avresti concluso." <418
Di fatto, dopo giorni di trattative locali e il silenzio da parte di Scelba e del governo centrale, si trova una sorta di accordo al ribasso per i sostenitori di Troilo: il prefetto viene infatti comunque destituito e al suo posto viene insediato un gretto burocrate di Pavia, invece dell’originale funzionario di Torino, che a Milano non aveva buona fama.
Pajetta da l’ordine di smobilitare e, nel giro di due giorni, i lavoratori rientrano negli stabilimenti. Al termine della vicenda, i vertici regionali del partito vengono sostituiti (segretario lombardo diventa Agostino Novella, dirigente fedele alla linea moderata); mentre i dirigenti milanesi, nonostante i richiami ufficiali, non vengono toccati. Prima di poterli isolare, Roma dovrà aspettare che passi la febbre partigiana e si costituisca una base di consenso attorno alla futura politica di rinnovamento.
Ma di questo ci occuperemo più avanti.
[NOTE]
407 C. Bermani, op. cit., p. 84
408 L. Ganapini, op. cit., pp. 250-51
409 L. Bertucelli, Nazione operaia, op. cit., p. 76
410 Ibidem, p. 77
411 Ibidem, p. 81
412 Documenti presentati al Congresso nazionale dei Consigli di gestione e delle Commissioni interne, p. 9, UESISA 1947, cit. in G. Galli, op. cit., pp. 178-79
413 R. Martinelli, op. cit., pp. 109-10
414 E. Collotti (a cura di), Archivio Pietro Secchia (1945-1973), p. 110, Feltrinelli 1973
415 R. Martinelli, op. cit., pp. 303-04
416 C. Bermani, op. cit., p. 89
417 A. Cossutta, Una storia comunista, p. 50, Rizzoli 2004
418 Riferito in M. Caprara, Il sedativo Togliatti, Il Giornale 12 agosto 1987, cit. in C. Bermani, op. cit., p. 91

Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017