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domenica 20 giugno 2021

Passo della Novena (di Giorgio Orelli)

Giorgio Orelli, Friburgo, 1941 - Fonte: Giorgio Orelli

A mezzo d’uno di quei giorni di primo settembre
che per cinti, selle e bocchette tiran fuori
dalla tana le finte pigre
marmotte e le addormentano sui sassi,
nel mio paese d’origine è ancora
tempo da fieno, tace
la madreperla della fisarmonica.
E lasciato l’ospizio (la donna dagli occhi
troppo azzurri, le teste dei camosci
da gran tempo caduti:
vita rappresa come dentro un quarzo!),
s’invecchia quanto più rari si fanno
gli alberi, quanto più il fiume
ringiovanisce.

Io e mio padre quando fu che bevemmo
la prima volta a questa fonte?
Già notturna è l’ombra
da cui risale il pastore a cacciare
le vacche ai cespi estremi.
E giunge con la riga del suo fischio
un uccello, s’arresta, gli trema
accanto l’erba mutellina.

Poi, sul passo, guardare, stancarsi di guardare,
chiudersi nel rumore fitto d’elitre,
scoscendere colà
dove al camoscio ultimo nato e incerto
volga gli occhi la madre,
soave per lo scoglio sconcio ed erto.

Giorgio Orelli, Passo della Novena in L’ora del tempo, Mondadori, 1962

 

sabato 24 aprile 2021

Dolce sera: la luna si disfoglia


Maria Luisa Spaziani - Fonte: La Stampa

III
L'esordio poetico: Le acque del Sabato
Sere di inverno
Sere di inverno al mio paese antico,
dove piomba il falchetto dentro i pozzi
d'aria, tra l'uno e l'altro campanile.
Sere rapite a un'onda di sambuchi
invisibili, ai vetri dei muretti
d'ultimo sole accesi, dove indugia
non so che gusto d'embrici e di neve.
Vorrei cogliervi tutte, o mie nel tempo
ebbre, sfogliate voci lungo l'arida
corona dell'inverno,
e ricomporvi in musica, parole
sopra uno stelo eterno
.
- M.L. Spaziani, Le acque del Sabato -
[...] In una intervista del 1977 la Spaziani, ancora in proposito alla scelta del titolo, dice: "Mi aveva colpito l'espressione: il fiume che scorre il sabato non ha lo stesso ritmo morale, per così dire, del fiume che scorre negli altri giorni, perché è un'acqua sacralizzata. L'acqua della poesia è diversa: è l'acqua del sabato: è l'acqua della festa, l'acqua del rito."
Inizialmente vi fu un silenzio totale della critica, finché il 12 ottobre 1954 non uscì sul “Corriere della Sera” un articolo di Emilio Cecchi, il quale definiva la raccolta poetica di Maria Luisa Spaziani come "uno dei libri più magnanimi delle recenti generazioni, dove la cultura si sposa con la natura".
[...] Le acque del Sabato raccoglie componimenti scritti dalla poetessa tra i venticinque e i trent'anni. Questa prima opera è fortemente legata ai luoghi d'infanzia, in particolare alla “villetta dei ciliegi” e alla campagna astigiana (la madre nacque a Mongardino d'Asti) e, non a caso, verrà definita come "il libro della mia preistoria".
Sono anni in cui la Spaziani viaggia molto e nella raccolta si possono scorgere poesie su Venezia, Edimburgo e Parigi, oltre che ai sopracitati luoghi natii ai quali rimase sempre molto legata. La contrapposizione fra la patria e l'estero è quella fra immobilità dell'essere e la mobilità del viaggio, mezzo di conoscenza, punto per una nuova partenza: "Mille strade ci attendono ancora".
In questa prima raccolta vengono anticipati temi che ricorreranno insistentemente nella produzione successiva: la solitudine, la distanza e la rievocazione dei luoghi amati, per quanto riguarda la sfera emozionale, la luna e il mare come elementi della natura che di volta in volta si fanno portatori di significati diversi. Inoltre emerge fin dai primi scritti la centralità della parola, strumento di verità; essa, come si diceva, è esatta ed incisiva, volta a cogliere la concretezza della vita.
[...] Luigi Baldacci definisce la poesia della Spaziani come "una poesia di voce, ricca di quel suono che Leopardi riteneva intrinseco alla funzione della poesia, prima che i moderni ne smarrissero l'eco e i vestigi". Da questa breve affermazione emerge l'idea fondamentale della prima raccolta e di quelle successive, e cioè l'unione fra canto e parola.
La poetessa rivendica una propria autonomia nel quadro letterario a lei contemporaneo, e afferma che la sua poesia ha subito degli influssi shopenaueriani, per quanto riguarda la "radice nera" di sottofondo, e che la sua formazione è avvenuta su autori francesi come Baudelaire e Rimbaud, attraverso la lettura delle emozionati poesie di Anna Achmatova e dalla scrittura etica e spirituale di Rilke. Sicuramente in ambito italiano sono state fondamentali le personalità di Pascoli per quanto riguarda la metrica, d'Annunzio per il panismo, Montale emerge nell'uso aperto del pronome "Tu" e nell'endecasillabo montaliano più volte ricordato, Saba e Quasimodo, poeti a lei contemporanei che pubblicarono le loro prime poesie sulla rivista "Il Dado". Tuttavia, come bene ha osservato Paolo Lagazzi, la Spaziani con la sua originalità ha saputo confondere le acque e nascondere le tracce.
In proposito alla “radice nera” presente nella sua poesia, mi affiora subito alla mente il componimento posto in apertura de Le acque del Sabato:
Non fare che ti tocchi
l'ansito cupo, il battito sulfureo
che dalla terra mascherata,
primavera, si svincola feroce.
Corri, stagione, sul tuo filo azzurro
di polline e di vento.
Cielo per noi sarebbe
fin la maceria sotterranea
se nei meandri sconosciuti, tetri
come le nostre viscere,
il dilagante fiore nero
per noi felici maturasse in segreto
.
[...] Le acque del Sabato rievocano la dimensione del ricordo e della memoria che trasfigurano in un linguaggio poetico che tenta di squarciare il "velo di maya" per penetrare nel profondo e raggiungere il nocciolo della vita.
La Spaziani ricorda che vi è un contrappunto fra la realtà vissuta e la realtà ricordata, tema prettamente proustiano. La poetessa è debitrice della teoria della memoria di Proust, il quale distingueva la memoria volontaria rievocata dall'intelligenza e per questo arida, e la memoria involontaria che riemerge tramite le sensazioni pure.
La reminiscenza quindi affiora dalla memoria involontaria, attraverso essa vi è il recupero del passato che altrimenti cadrebbe nell'oblio. La poesia della Spaziani è fatta di ricordi, di sensazioni e di oggetti concreti, ci ripropone momenti quotidiani in chiave lirica, momenti che talvolta vengono trasfigurati dalla riflessione poetica.
La poesia come contemplazione infatti si riferisce ad oggetti concreti, ma tende a creare intorno a loro un alone di solitudine, questo il motivo principale dei toni malinconici della raccolta.
Ora scende il grigiore
Ora scende il grigiore in mezzo ai vicoli
che un liuto strazia e allarga oltre l'umano
mio tempo, arido ai ricordi.
E mattini ritornano leggeri,
agili sui selciati di rugiada
i nostri passi, i nostri lunghi indugi
sugli eroi dell'Iliade.
O mattini d'estate che memoria
del dolore gelosa in sé contrasta!
Un liuto sospirava una canzone
dietro le canne polverose.
Memoria-autunno-morte, biondo cerchio,
sempre più oscurandoti mi stringi,
feroce amore.

Nel componimento sopracitato è vivo il tema della memoria del passato che ritorna al di fuori del tempo, che sembra essere restio ad accogliere il ricordo.
[...] Ma la luna diventa emblema della solitudine quando la poetessa si trova lontano dalla sua patria, in una città fredda dalle tinte fosche non paragonabili alle luci mattutine italiane.
Edimburgo
Se qui la fredda luce non risveglia
le tinte dei mattini della patria
non chiamarmi, città. Piovono oscure
non so che angosce, o attese, o solitudini.
S'animano le caserme nella sveglia
dell'alba. Ulula un cane da un balcone.
Passa un carretto solitario, un nome
nessuna cosa più scandisce.
Contro il cielo che imbianca,
solo un cipresso e il campanile e un roco
carosello di rondini s'imbruna.
Ma l'Italia è lontana. E questa è valle
e tempo e suono della luna.

La malinconia viene descritta in modo diverso nel componimento Giudecca, la città di Venezia porta con sé un alone di mistero e di attesa e la poetessa osserva i giochi d'acqua della laguna, ascolta il canto lamentoso dei gondolieri che si inabissa nelle acque scure. L'atmosfera è dominata dalla luna, forse il sole splende in un altro luogo rigoglioso e proteso verso la vita. Al v.6 compare la cicogna che nell'immaginario collettivo porta il pargolo e quindi a livello generale annuncia ancora una volta la nascita/rinascita.
Giudecca
Dolce sera: la luna si disfoglia
lenta sulla palude dell'attesa.
Passano i gondolieri, il loro grido
sprofonda, e mai più al mondo tornerà.
Lontanissimo forse il sole splende
su voli in gloria di cicogne, forse
una bionda stagione i ricchi frutti
per te matura, per te s'inghirlanda.
Io qui raccolgo i cerchi che la riva
pigra rimanda. Sono la tua statua
senza occhi né mani.
Quella storia che chiamano la vita
avrà un senso domani
.
Intensa la descrizione della luna, vista come un foglio che si adagia sull'acqua, lì si riflette e sembra “disfogliarsi” perché muta continuamente i suoi contorni incerti sulla laguna mossa dal passaggio di una gondola. I contorni incerti della luna sono gli stessi della vita, che non sempre sembra aver un senso.
Un componimento che, a mio avviso, sintetizza molto bene il concetto della solitudine. Tale sensazione la troviamo soprattutto nella prima quartina, dove si pone l'accento sull'attesa e sul grido dei gondolieri che naufraga nella laguna solitaria. Anche la luna ha una sua importanza nella lirica sopracitata, infatti è descritta come elemento naturale che sottende al ciclo vitale, concetto che nella raccolta La radice del mare (1999) verrà nuovamente ribadito. Le maree vengono qui accostate al pensiero intermittente, che cala e che cresce, che ora è produttivo e ora è spento. La poetessa colloquia con la luna in giorni di triste solitudine e ma anche di felicità.
Nella nebbia dormiamo, eppure la luna c'è,
se ne sta assorta e remota nei suoi feudi lontani.
Non vista comanderà nelle maree,
sui miei pensieri in alto intermittenti?
Con lei ho colloquiato in giorni di solitudine,
quando fra grigio e nero, s'intrecciava il mio tempo.
Nemmeno quand'ero felice l'ho dimenticata,
e nei suoi mari senz'acqua saltavo, delfino in amore
. [...]
Giulia Dell'Anna, L'universo poetico di Maria Luisa Spaziani, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari, Venezia, Anno Accademico 2011/2012, pp. 19-34

martedì 16 marzo 2021

Questa matita

Sandro Bajini - Fonte: Teatrionline

"I luoghi della tua fanciullezza / non sono un ermo colle / o il sottobosco coi suoi mirtilli, / è un cortile assolato, / il bagno nella tinozza, / il sapone che si faceva  / sempre più esiguo (per pudore?), / o i giochi sotto la neve, / il richiamo di zie inquiete, / il broncio della rinuncia, / quand’eri felice e non lo sapevi"
Sandro Bajini, da Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017

"Questa matita / ch'io uso talvolta e gli altri mai, / questo curioso connubio / di legno e di grafite in cilindrica veste, / sarà ancora qui quand'io sarò là: / questo mi dico / e subito qualcuno / in tono perentorio mi assicura / ( sa il diavolo da chi lo ha saputo ) / che immortale è invece l'anima mia, / come del resto tutte le altre; / ed io che non sapevo di averla / (come si fa sapere se hai l'anima o no?) / non so se devo rallegrarmi"
Sandro Bajini, da Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015

Parafrasi da Lamennais:
"Perché andare incontro / alle esigenze dei poveri / quando si può contare / sulla loro rassegnazione?"
Parafrasi da Barbusse:
"Israeliani e palestinesi / non sono più due popoli / che si uccidono a vicenda / ma un unico grande popolo / che si suicida" Sandro Bajini [...] Domani pomeriggio alle 16.30, presso il Museo Civico Borea d’Olmo di Sanremo, Marco Innocenti presenterà l’ultimo libro di Sandro Bajini ‘Del modo di trascorrere le ore. Conversazioni sul teatro, la poesia, la politica e tutto il mondo universo attraverso la biografia di un autore’ (Philobiblon Edizioni). Si tratta di poesie tratte dalla raccolta ‘Ipogrammi’ dello stesso Bajini, che verranno lette da Alberto Guglielmi e Michele Guarnaccia. In programma anche un intervento musicale del contrabassista Giuliano Raimondo.
Sandro Bajini è commediografo, narratore, poeta, traduttore. In questo  libro-dialogo, che è intervista e biografia si racconta con l’ironia che lo contraddistingue e ne fa un autore satirico graffiante e un maestro del paradosso. Il libro è ricco di episodi anche molto divertenti e descrive una galleria di personaggi che l’autore ha conosciuto e frequentato (Giulio Preti, Giorgio Strehler, Eduardo De Filippo, Carmelo Bene, Dario Fo, Enzo Jannacci e numerosi altri.) Un libro divertente, ironico, dissacrante [...] Chiara Salvini, ... Pensieri di Capodanno 2014/2015...neldeliriononeromaisola, 20 gennaio 2015

"Non è vietata la speranza ma è molto difficile che questo accada, quando i nostri ideali sono gli stessi del nostro avversario"
Sandro Bajini in Marco Innocenti, Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010

"È la lontananza che fa lo stupore. E a tal proposito vi dico subito che lo stupore sul mio pianeta esiste in misura molto limitata, e così dicasi di un suo derivato, la meraviglia. Noi siamo ricchi di materie prime, come l’elio, il bicarbonato, il seltz, gli idrati di carbonio, il pritanio (un minerale che esiste solo da noi), i biscotti, il tetracloruro di berillio, i tovaglioli, ma manchiamo di stupore. Sì, ce n’è un po’ qua e là, nel suolo e nel sottosuolo, ma del tutto insufficiente al fabbisogno, che è piuttosto elevato, poiché la gente è stufa di non stupirsi più di niente".
Sandro Bajini

E’ questo che m’inquieta.
Non puoi muovere un passo
Che inciampi in un poeta
Sandro Bajini

Avete mai provato a recitare? Io sì. Se fossi un attore, evidentemente questa risposta sarebbe cretina. Ma non sono un attore, anche se in anni lontani ho scritto e fatto rappresentare diverse cose per il teatro. Tuttavia sul palcoscenico, a recitare un testo qualsiasi, non ero mai salito.
A farmici salire provvidero le circostanze. Non dico in quale anno, per evitare malinconie. Vi basti sapere che in quell’anno (ma sì, diciamolo, era il 1970) il regista Fantasio Piccoli, che dirigeva il teatro San Babila di Milano, mi incaricò di scrivere un testo per le scuole, che rievocasse la vita e le opere di Carlo Goldoni. Lo spettacolo non entrava nel cartellone ufficiale, si sarebbe rappresentato al mattino per le scuole milanesi, e doveva costare poco.
L’interpretazione era affidata ovviamente agli attori minori della compagnia, dove per “minore” si intende quell’attore che, talvolta bravissimo, non può sostenere le prime parti perché non ha fama sufficiente né certe caratteristiche esteriori e vocali (ci vogliono anche quelle; un attore di bassa statura non potrà mai essere Agamennone).
Avevo con Fantasio un rapporto di amicizia. L’anno precedente avevo tradotto due commedie per il suo teatro, una di Shaw e una di Feydeau, che avevano avuto successo, soprattutto per l’interpretazione di formidabili attori come Renzo Ricci, Eva Magni ed Ernesto Calindri; ma devo ricordare anche le due attrici giovani: Bedy Moratti, sorella dell’attuale presidente dell’Internazionale (ovviamente, la squadra di calcio) e Valeria Ciangottini, che di fatto debuttava in teatro dopo la sua mitica comparsa nella Dolce vita di Fellini.
Mi misi all’opera e presentai il mio Processo a Goldoni, dove il processo era quello che le antiche “maschere” muovevano al riformatore Carlo Goldoni.
Vi erano ovviamente inserti di canovacci dell’Arte e di opera goldoniane, i polemici interventi di Giuseppe Baretti e di Carlo Gozzi, insomma una panoramica storica che partecipata drammaticamente diventava una “lezione” divertente.
Fantasio lodò il mio lavoro, ma nel pensare alle parti si trovò subito in imbarazzo. Non vedeva fra gli attori che aveva a disposizione chi potesse interpretare Goldoni. Il personaggio appariva in scena ormai vecchio mentre scriveva le sue Memorie.
Gli avevo affidato il compito del narratore, mentre la vicenda si svolgeva in “flash back”. Il protagonista era lui, ma la sua non era una grande parte. E del resto gli attori disponibili avevano già una loro importante funzione nello spettacolo.
Come fare? A un certo punto Fantasio mi disse: “Perché Goldoni non lo fai tu?”.
Potete immaginare il mio stupore. Fantasio aggiunse che non scherzava, che mi aveva sentito mentre leggevo le cose mie e che era sicuro che avrei fatto bene.
“Hai delle doti native di attore” mi disse. E aggiunse: “Posso avere qualche dubbio su di te come drammaturgo; ma come attore mi dai il massimo affidamento”.
Come accade nelle proposte di matrimonio, mi lasciò qualche giorno per pensarci. Ebbi anch’io la mia “notte dell’Innominato”, poi con una incoscienza che vorrei chiamare giovanile (ma non posso perché avevo varcato da poco i quaranta) mandai ogni dubbio al diavolo e dissi sì.
La mia avventura incominciò subito con le prove. E fu davvero un’avventura perché mi consentì di fare scoperte del tutto impreviste.
La prima cosa che appresi fu che non dovevo affatto “diventare un altro”. Mi convinsi ben presto che non dovevo “mettermi nei panni di Goldoni”, perché era invece Goldoni che si metteva nei panni miei. Non aveva la minima importanza che egli fosse nato più di due secoli prima. Avevo letto le sue opere più importanti e qualcuna delle sue meno note, e mi sembrava di averle scritte io. E i fatti della sua vita erano diventati fatti miei.
Naturalmente avevo bisogno dei suoi Memoirs per sapere che cosa mi fosse accaduto nel 1750; ma non perché quegli eventi non mi riguardassero ma perché dopo tanti anni li avevo, per così dire, dimenticati. E quando scoprivo che cosa avevo fatto e detto mi veniva da pensare: “Ah, sì, ora ricordo”.
Che cosa dunque voleva dire, per me, “recitare”? Adesso lo sapevo: voleva dire “ricordare”. Ed ero io che ricordavo, non lui. Lungi dal sentirmi un altro, proprio nel “recitare” sentivo di essere me stesso. Compresi allora un fatto apparentemente paradossale: è nella vita che si recita, non nel teatro. Nella vita domina il relativo, e le circostanze ci costringono ad assumere un ruolo. Non è possibile avere rapporti sociali senza questa “maschera”, come ci ricordò a suo tempo Pirandello. E come sappiamo bene, per ottenere determinati scopi, qualche volta un individuo finge sentimenti che non ha.
In una sola situazione egli non può fingere: quando recita sopra un palcoscenico un testo della letteratura drammatica. L’attrice che presta la sua voce a Giulietta sarebbe bugiarda soltanto se dicesse a Romeo che non lo ama; ma non può.
Giulietta ama Romeo in eterno, e non sono possibili dubbi: sta scritto.
Recitando, ossia rivivendo, l’attrice ha la possibilità, unica, di essere finalmente sincera. Non avrà mai, nella sua vita privata, un’occasione migliore per dichiarare il proprio amore a qualcuno con altrettanta certezza; e sulla sincerità dei sentimenti di Giulietta, e quindi dei propri, è garante Shakespeare.
Compresi allora che il teatro (grande o piccolo, può essere un capolavoro drammatico o una farsaccia) ha un grande potere liberatorio e consente agli attori di vincere le proprie nevrosi, come è stato sostenuto.
Anche a me capitò la stessa cosa.
Mi sentivo leggero, ilare, puro in tutti i sensi.
Le recite andarono bene, le scolaresche furono attente al di là del ragionevole (ne temevo le intemperanze).
Ma non è questo che importa. Avevo attuato senza volerlo una psicoterapia di cui avevo bisogno.
Sandro Bajini, Come è bello recitare, La Forza di Vivere, Anno XXVI, n° 2, ottobre 2009

[...] [Sandro Bajini] Drammaturgo, narratore e scrittore, laureato in medicina, si è dedicato interamente alla scrittura fin dagli anni '60: ha tradotto Molière, Marivaux, Feydeau, Ionesco, è stato autore di testi satirici per il teatro che gli valsero talvolta le ire della censura (Come siam bravi quaggiù, con Vittorio Franceschi, 1960, Il capitale morale, 1961), talvolta metaforici e amaramente ironici (Dinner, con Gina Lagorio, 1983), e successi acclamati come MefistoValzer con Tino Buazzelli (1977) Bajini spazia attraverso molte attività: dalla saggistica teatrale per l’editore De Angeli (è stato per decenni insegnante di Storia del teatro all’Accademia dei Filodrammatici), all’attività editoriale (è stato responsabile della Sezione Teatro per Garzanti), agli interventi giornalistici (ha diretto Tempo medico) fino alla poesia e alla narrativa, agli spettacoli di marionette per Gianni Colla (La regina della neve, con scene e costumi di Luigi Veronesi, 1988-89).
Giocati sul paradossale, sul satirico, sull’umorismo nero, i testi di Bajini sono costruiti attraverso aforismi, trovate, jeux de mots.
Redazione, Chiacchieratine con Sandro Bajini, Teatrionline, 22 gennaio 2021

sabato 26 dicembre 2020

La poesia del beà

Il tramonto ci invitava verso casa.
La nonna raggruppava parte del raccolto e quello che non stava sulla carriola del nonno finiva in due canestri.

Erano i regali quotidiani del Prau [nel territorio di Camporosso (IM)].

Un fascio profumato di erbe e scarti di verdure dell’orto, che finiva in un telo. Fatto con due sacchi cuciti insieme con quattro lacci ai lati, si chiamava “lensurun”, un lenzuolo povero e disprezzato.

Conteneva la cena per conigli e galline.

Poi la nonna, con un fazzoletto dai colori di un prato sbiadito, fazzoletto che girava attorno alle mani, costruiva un piccolo cerchio, simile ad un nido che finiva sulla sua testa.
Serviva da ammortizzatore al peso di quello che sembrava un grande ombrello rovesciato.
Quando era ben posizionato sul suo capo, il nonno caricava il “lensurun.”

La nonna con i due canestri, uno per mano per l’equilibrio, sembrava un‘acrobata.
Il percorso non era facile: occorreva superare il bedale rialzato.
Ad un lato del sentiero scendeva veloce alle fasce sottostanti un’acqua trasparente.

Le gambe strofinavano, salendo, menta acquatica e nepeta, che esalavano i profumi della fine del giorno.
A noi nulla davano da portare, sapendo che avremmo perduto il carico per strada, mentre raccoglievamo piccoli maggiolini verde-blu. Insetti dal colore delle opali, piccoli gioielli.

Povera nonna carica come un somaro, che giunta a casa doveva ancora lavare, tagliare, cuocere la fatica dell’orto!

Quanti soli di tarassaco, violette, selene, abbiamo reciso, noi bambine per farle naufragare nel nostro mare. Un rigagnolo nel verde, percorso dall’acqua a giorni prestabiliti.

Quanti concerti con improvvisati flauti di germogli di canne riempivano i pomeriggi!

La nostra merenda vicino ad una baracca di canne era un banchetto.
Per il nonno e per noi aveva il sapore di una liturgia.
Mentre l’acqua scivolava nei solchi e abbeverava tutte le verdure si poteva fare una sosta.
Sempre con un occhio vigile all’acqua che facesse il giro giusto.
Non dimenticando nessuno degli assetati.

Estraeva il suo coltellino a scatto, quello per fare gli innesti con la punta curva. Lo puliva sulle braghe di fustagno e tagliava i pomodori da mettere sul pane. Una fiaschetta di olio, il sale estratto da un fazzoletto, che aveva visto tempi migliori, e poi l’operazione magica che riduceva il cetriolo in quattro perfette strisce, lasciando i semi intatti.

Ne ricordo il colore, il gusto ed il rumore sotto i denti.

Continuo a tagliare ancora il cetriolo in quattro per vedere luccicare i semi, per ricordare quei momenti magici.

Questi i ricordi di noi bambine, quando in estate, libere dalla scuola, seguivamo i nonni nel loro grande orto.
Percorrevamo una strada dai bordi fioriti, che seguiva prati a fieno e campagne curate come le stanze di casa.

Tutto serviva alla sopravvivenza.

Libere di correre e giocare, ma guai a rovinare i canaletti o “surchi“, strade che il nonno tracciava all’acqua: le piante dovevano bere tutte!
Quella terra non lontana dal torrente era di consistenza sabbiosa.

Un passo falso e quello sbarramento disegnato con cura dal nonno crollava.
Seguivano le terribili minacce di cacciata dall’eden.

Gris de lin