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giovedì 16 giugno 2022

Il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia Rame


Nel presentare il suo libro-intervista a Franca Rame "Non è tempo di nostalgia", Joseph Farrell parte dalle peculiarità - già evidenziate nel precedente capitolo della tradizione del teatro italiano, affermando che esso "ha dato relativamente pochi scrittori al canone convenzionale del teatro europeo. Penso che questo sia dovuto al fatto che il teatro italiano nel contesto di quello europeo sia anomalo, nel senso che è essenzialmente un teatro attoriale e non autoriale. Secondo il mio parere nella tradizione del teatro italiano il personaggio dominante è sempre stato l’attore, l’attore di un tipo molto particolare". <278
Entrando, però, nello specifico del caso di Franca Rame, aggiunge: "Franca è figlia d’arte, come Eleonora Duse, come Adelaide Ristori e molte altre. È importante sottolineare che l’attrice era nata in una famiglia di attori girovaghi, la Compagnia Rame si ritiene che affondi le sue radici nel Settecento. Fino alla fondazione dei teatri stabili erano famiglie di quel tipo che erano il cuore del teatro italiano, attori che improvvisavano. La Rame è nata praticamente sulla scena, ha fatto la sua prima comparsa quando aveva solamente otto giorni. Nel corso dell’intervista Franca ha spiegato come la Compagnia Rame producesse i propri testi, suo padre era il capocomico, radunava la famiglia e distribuiva i vari ruoli. Questa è la tradizione del teatro italiano, è una tradizione essenzialmente ed esclusivamente italiana e Franca Rame è stata l’ultima grande rappresentante di quella tradizione, perché adesso non esiste più". <279
Ora, che tipo di compagnia era, quella dei Rame? <280 Franca la definisce, prima di tutto come “una famiglia di attori, con una tradizione che possiamo far risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento.” <281 Il concetto di “famiglia”, però, è da precisare. Altrove, infatti, Franca spiega che, almeno nel periodo in cui lei vi ha lavorato: “Per «famiglia», in verità, si intendeva l’insieme di due diversi nuclei familiari, più attori e attrici scritturati, nonché un numero cospicuo di dilettanti.” <282 I due nuclei familiari, per quanto diversi, erano comunque imparentati, “due famiglie associate dei Rame, quella di mio zio Tommaso e l’altra, di mio padre Domenico” <283 e, ai membri della famiglia, si aggiungevano, inoltre, altri attori e altre attrici, sia di professione, sia dilettanti, che facevano nella compagnia il loro apprendistato, in cerca di una formazione diversa da quella tradizionale. <284
Sull’origine storica della compagnia, le notizie divergono: come abbiamo visto, Farrell la colloca “nel Settecento”; Franca, nel 2009, dichiara: “I capostipiti della mia famiglia risalgono a una cosa come cinque secoli fa” <285, ma, nel 2013, sostiene che la sua tradizione possa “risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento”. Quest’ultima ipotesi è riportata anche da altre fonti: Silvia Varale, infatti, afferma che Franca “proviene da una famiglia di attori girovaghi, le cui antiche tradizioni risalgono al ’600” <286 e anche il critico letterario svedese (membro dell’Accademia di Svezia, dal 1997 al 2009) Horace Engdahl afferma: "The Rame family’s ties to the theatre are very old. Since the late 17th century, they have been actors, and puppet masters, as the occasion required". <287
Nella sua monografia su Enrico Maria Salerno, invece, Valentina Esposito <288 afferma che "La Compagnia della Famiglia Rame, compagnia di marionettisti ambulanti, era stata fondata da Domenico Rame, nonno di Tommaso, agli inizi dell’Ottocento. Nell’intestazione delle lettere a Salerno, sono indicati data e luogo del primo spettacolo: Torino 1821". <289
A corroborare quest’ultima ipotesi concorrono le parole dello stesso Tommaso Rame (lo zio di Franca), il quale, in una lettera a Enrico Maria Salerno, definisce la compagnia “antica perché il mio povero nonno Domenico in Torino diede vita al teatro nel 1821 (con spettacoli di marionette)”. <290 Certo, questo non impedisce di ipotizzare che il “povero nonno Domenico” Rame (bisnonno di Franca) potesse discendere anch’egli da teatranti ed essere, quindi a sua volta, “figlio d’arte”. Non lo si può escludere, poiché il mestiere s’imparava “a bottega” e molto spesso la bottega era la famiglia. Figli d’arte, infatti, erano coloro che vantavano un’antica e continua tradizione familiare: ad esserlo in senso assoluto, non bastava essere nato da attori. Per averne il sacro crisma, la prima condizione era l’anzianità della discendenza. Era una vera e propria nobiltà sui generis quella dei figli d’arte e tanto maggiore era la gloria di appartenervi e tanto più legittimi i diritti di appartenenza quanto a più remoti lombi risalisse la primogenitura. <291
Ad ogni modo, il solo dato certo sull’esatta collocazione storica dell’origine della compagnia è la sua fondazione ufficiale, nel 1821, il che significa comunque che essa -per dirla con le parole dello zio Tommaso- è “antica” (alla nascita di Franca, nel 1929, stando a quanto afferma Tommaso, il gruppo ha già più d’un secolo), il che ci conduce a supporre che la tradizione della Commedia dell’Arte non si sia mai del tutto interrotta, come invece riteneva Copeau e ritengono tuttora Claudia Contin e Ferruccio Merisi.
La direzione della compagnia -ponendo come sua data di nascita il 1821-, dopo Domenico (il fondatore, bisnonno di Franca), passa a suo figlio, il marionettista Pio (1849-1921), il quale, a sua volta, ha tre “figli d’arte”: Domenico (il padre di Franca) <292, Stella e Tommaso. La compagnia, però, non comincia già nella forma che ha quando Franca nasce. Per quasi cento anni, il carro dei Rame girovaga per i paesi e le cittadine del Piemonte e della Lombardia unicamente con spettacoli di marionette e burattini. I primi cambiamenti risalgono agli inizi del Novecento, quando Domenico Rame (futuro padre di Franca) “dal 1908 introdusse spettacoli in cui attori ‘veri’ affiancavano le marionette” <293. Dal 1921, poi, lo stesso repertorio destinato alle marionette viene adattato esclusivamente ad attori veri e tramandato di generazione in generazione.
Col passaggio al teatro di persona, la stessa compagnia cambia nome, per assumere quello di “Gruppo Artistico Famiglia Rame”. Dunque, abbandonato definitivamente il teatro di figura, “l’attività teatrale della compagnia drammatica ambulante continuerà fino al 1940” <294, proseguendo, così, col teatro di persona fino allo scioglimento. Così Franca spiega le ragioni del passaggio al teatro di persona: "Con l’avvento del cinema sonoro (1920), mio padre, mio zio e tutta la compagnia intuiscono che «il teatro delle marionette» sarà presto messo in crisi, schiacciato da questo nuovo straordinario e anche un po’ magico mezzo di spettacolo. Con grande dolore del nonno Pio, decidono un cambiamento radicale del loro programma e della loro condizione: «Reciteremo noi i nostri spettacoli, entreremo in scena noi, al posto delle marionette»". Così le due famiglie dei Rame si sostituiscono ai pupazzi di legno (vere e proprie sculture snodate, tre delle quali sono ancora oggi esposte al Museo della Scala di Milano). <295
Ma il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia, anzi: mette il gruppo di fronte alla necessità di sondare nuove possibilità nella loro arte attoriale, non senza far comunque tesoro dell’esperienza passata, che si rivela fondamentale prima di tutto sul piano scenografico: "I miei hanno cominciato con il teatro delle marionette e con quello dei burattini. Padroneggiavano ambedue i mestieri. <296 Arrivato il cinema, questo tipo di teatro andò via via perdendosi. I miei capirono che dovevano cambiare genere e si misero a fare, appunto, teatro di persona, utilizzando tutti i trucchi del teatro delle marionette che conoscevano molto bene. In questo modo riuscivano a creare degli effetti da film americani di adesso, ovviamente con le dovute proporzioni. Per quei tempi era qualcosa di impensabile". <297
Quest’utilizzo di “tutti i trucchi del teatro delle marionette” e la loro applicazione al teatro di persona rappresenta il vantaggio della compagnia dei Rame, rispetto alle altre compagnie di giro dell’epoca: "montagne che si spaccano in quattro a vista, palazzi che crollano, un treno che appare piccolissimo lassù nella montagna e che, man mano che avanza nei turniché entrando o uscendo dalle gallerie, s’ingrandisce fino a entrare in proscenio con il muso della locomotiva a grandezza quasi naturale. E poi mari in tempesta, nubi che solcano minacciose il cielo tra lampi e tuoni, gente che vola, scene in tulle in primo piano, che illuminate a dovere ti facevano immaginare come fosse il paradiso". <298
I Rame sanno bene di dovere alla tradizione la conoscenza di questi mezzi, perché sono “tutti gli espedienti tecnici delle macchine di spettacolo del Seicento perfezionate dal Bibbiena dentro la scenotecnica delle marionette.” <299 Il fatto interessante non è solo il loro utilizzo nel teatro di figura, né tanto il loro successivo trasporto nel teatro di persona, quanto soprattutto la scelta consapevole di costituire, in questo modo, una forma di spettacolo realmente alternativa alla settima arte, creando sulla scena “effetti da film americani” (fatte, ovviamente, le debite proporzioni).
In qualche modo, i Rame riaffermano la peculiarità del teatro (e la sua dignità professionale: si pensi all’attività di Domenico come Presidente dell’A.I.E.S.V.) rispetto al cinema, proprio nel momento in cui, da un lato, i Futuristi decretano l’imminente morte del primo sotto i colpi del secondo e, dall’altro -di lì a poco-, il Fascismo tenterà di trasportare il modello di produzione industriale cinematografica nell’arte teatrale. Cioè, in mezzo a questi due poli, i Rame sono -di fatto- un notevole esempio di resistenza attuata dalla grande arte degli attoriautori. E in questo, ben consapevolmente, essi si riallacciano alla tradizione del teatro all’italiana, ovvero alla Commedia dell’Arte.
Pochi anni prima di questo momento di svolta, a Bobbio -dove, nel 1912, la compagnia è appena arrivata per presentare uno spettacolo di marionette-, la futura madre di Franca (Emilia Baldini) conosce Domenico. Non proviene dall’ambiente del teatro -è una maestra-, ma entra nella compagnia l’anno successivo, nel momento in cui i due si sposano. Inizialmente si occupa dei costumi delle marionette e dei burattini; col passaggio al teatro di persona diverrà la prim’attrice del gruppo. Con tenerezza Franca rievoca il loro incontro: "La loro è una storia bellissima. Lei passava la settimana a insegnare in un villaggio su in montagna, scendeva in paese solo il fine settimana. Un giorno di vacanza e di festa, arriva il teatro delle marionette per fare spettacolo. Mamma è fra il pubblico, ad applaudire incantata. Con le altre ragazze va a fare i complimenti ai teatranti e conosce mio padre. Poi arriva il carnevale. Le sette sorelle vanno al ballo con eleganti abiti cuciti da loro stesse. Nel grande salone c’è mio padre, che indossa un abito azzurro da re. I due si guardano e ballano fino a tarda notte, fulminati. [...] Si sono scritti per un anno, poi si sono sposati". <300
Lo scioglimento della compagnia risale -come già detto- al 1940, cioè corrisponde all’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Nel corso degli anni di guerra, il teatro viaggiante della famiglia, infatti, viene destinato dal regime ad altro uso. Questo non implica l’interruzione dell’attività teatrale di tutti i membri della famiglia: Domenico continuerà a occuparsi di teatro fino alla morte, nel 1948; Franca, rimasta al seguito del padre nella sua attività d’attrice (dopo una breve parentesi in cui tenta di diventare infermiera), lascerà la famiglia nel 1950, assieme alla sorella Pia, per prodursi nella rivista: nella stagione 1950-’51 verrà, infatti, scritturata nella compagnia primaria di prosa di Tino Scotti <301 per lo spettacolo "Ghe pensi mi" <302 di Marcello Marchesi <303, in scena al Teatro Olimpia di Milano.
Tornando al suo teatro viaggiante, la compagnia teatrale girovaga dei Rame "si esibiva in un suo teatro in legno, smontabile, che conteneva oltre 800 posti a sedere e girava per i paesi e le cittadine della Lombardia, Veneto e Piemonte, recitando drammoni e operette. (Durante la guerra venne requisito dal governo e fu usato come ospedale da campo)". <304
Franca racconta dettagliatamente come fosse fatto questo teatro, a cominciare dai nomi dei macchinari, che le dovevano sembrare strani, dal momento che lo zio Tommaso, alla domanda, postale da lei, sulla loro origine "rispose: «Ce li siamo presi dalla marineria, a partire dalle corde, che noi chiamiamo appunto ‘cime’ come i marinai, e poi la fune lunga e la media; le vele, la randa di quinta, le fiancate e gli stangoni; dai marinai abbiamo appreso anche lo stesso modo di far nodi, di issare le scene e i fondali». «Ma che vuol dire questo? Che i primi attori erano marinai?» «No, non propriamente, ma di certo conoscevano bene come si costruisce una nave.»" <305
Perché questi primi attori conoscessero “bene come si costruisce una nave” non ci viene chiarito, ma è abbastanza per comprendere la ragione per cui Domenico chiamasse questo teatro viaggiante “Arca di Noè” <306. In realtà, dietro questo appellativo si rivela anche un riferimento religioso, rivisitato in chiave architettonica. Prosegue, infatti, Franca, sempre in merito: "Di qui, per analogia, mi appare l’immagine del nostro teatro smontabile. Mio fratello, che aveva qualche nozione d’architettura, diceva che era stato progettato secondo i canoni tipici di una primordiale chiesa metodista. [...] «Che significa?» gli chiesi. Enrico mi rispose: «Quando i Quaccheri arrivarono in America cercarono di mettere in piedi strutture che permettessero di raccogliere qualche centinaio di persone e tenerle al coperto. Usavano il legno, e la pianta di quelle piccole chiese era a croce.» [...] A nostra volta abbiamo scelto quell’impianto. Ogni asse o tavola era stata preparata «a terra» e issata solo dopo che tutti i pezzi erano approntati. Si sceglieva un prato o un terreno solido su cui si disegnava la pianta, e via!" <307
La stessa costruzione del teatro doveva affascinare Franca, che ne ha ricordi risalenti all’infanzia, ma riporta anche particolari interessanti sulla sua struttura: "Mi ricordo la prima volta che montarono il teatro, avevo poco più di sei anni: vidi gli operai issare quei pali tenendoli ritti per mezzo di funi. Lassù, in cima a lunghe scale, stavano i carpentieri, che incastravano i traversoni delle trabeazioni e poi li bloccavano coi bulloni. Era il vanto di mio padre, quando, ammirandolo, esclamava pieno d’orgoglio: «È come l’Arca di Noè, questo nostro vascello, tutto a incastro senza manco un chiodo. Si può montare o smontare in una giornata sola!» Dopo un paio d’ore ecco la gabbia dell’intero edificio già leggibile e pronta perché vi venissero sistemate le pareti. <308 [...] «Fate attenzione» disse a ‘sto punto mio padre, «vi voglio far notare un particolare straordinario di questa nostra struttura mobile: in primavera, d’estate e in autunno noi potremo dar spettacolo al fresco, senza pareti!» Così dicendo diede l’ordine e gli operai spinsero le pareti che si spostavano sulle loro guide. Mio padre contava ad alta voce: «Uno, due, tre...» Arrivò al dieci e tutte le pareti erano sparite, nascoste dietro il fondale. Un «ooh!» di meraviglia esplose sotto le trabeazioni del nostro tempio magico". <309
Franca racconta anche la ragione che spinge la famiglia a dotarsi di un teatro di questo tipo: essa risiede, sostanzialmente, nell’esigenza di disporre di uno spazio in qualche modo libero, non soggetto a condizionamenti esterni e a censure. A questo proposito, narra un aneddoto che sarà opportuno riportare per intero: "Pia, la seconda delle mie sorelle, [...] si lamentava a tormentone di questo andare in giro per piazze, costretti a subire le angherie, spesso ricattatorie, dei gestori delle sale private, parrocchiali o comunali, senza nessun rispetto della parola data o di un contratto stipulato e depositato. L’insulto che fece esplodere la rabbia nella nostra compagnia fu determinato dal parroco di un orrendo borgo del Lecchese che, dopo la rappresentazione del 'Giordano Bruno', dal fondo della platea arrivò come un giudice dell’Inquisizione in palcoscenico e ci ordinò brutalmente di far fagotto. Il prete gestore del locale salì in palcoscenico e urlò: «Tirate su i vostri stracci e, fra un’ora, voi e la vostra gente: sloggiate!» Mio padre diventò pallido, quasi più bianco dei suoi capelli bianchi, poi chiese: «Cosa vi ha tanto indignato, dello spettacolo?». «Il fatto del supplizio prima del rogo», rispose don Giussani (così si chiamava il prete), «quel far ingoiare uno straccio al condannato e poi tappargli la bocca con quella museruola perché non potesse proferir parola: questa è proprio una insopportabile menzogna gratuita da socialisti». Sempre per inciso devo ricordarvi che il fatto avveniva nel 1935, cioè in pieno fascismo, e fra Mussolini e il Vaticano si era appena firmato il famoso Concordato. «Macché gratuita!» risponde mio padre. «È nel testo accettato dal Ministero e già rappresentato centinaia di volte in Italia!». «Non me ne importa un fico dei timbri e dei permessi. Qui nel mio teatro non accetto i rossi, e basta così.»
Facemmo fagotto, come si dice, tutti zitti, nessuno proferì parola, ma era un silenzio più rumoroso di un uragano. Mi ricordo che quella notte io dormivo nella stessa camera di mio padre e mia madre. Loro continuavano, seppur sottovoce, a parlare. Ogni tanto sbottavano in grida. A un certo punto mi alzai avvolta nella coperta e protestai: «Io domani devo andare a scuola e voi non mi fate dormire. Non voglio addormentarmi come al solito con la testa sul banco!». «No, non preoccuparti, non dovrai andarci a scuola. Domani si parte per Novara.». «Recitiamo lì? In che teatro si va?». «Nel nostro. Lì c’è una cooperativa di carpentieri che ce lo costruirà.»" <310
L’episodio è molto esplicativo sia della formazione politica di Franca, sia delle scelte che, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, lei farà con Dario. Da questo aneddoto, infatti, s’intuisce quanto la percezione del mondo come luogo che non permette una reale libertà espressiva sia radicata, nell’interiorità di Franca, fin dall’infanzia, tanto che potremmo dire che essa costituisca il proprio DNA politico, la propria eredità genetico-ideologica. È l’esperienza della propria famiglia a far crescere in Franca la consapevolezza che gli spazi di libertà vanno conquistati e che nessuno li concede (o, quanto meno, non senza secondi fini). Ma quell’esperienza infonde in lei, fin dalla giovinezza, anche il senso della definizione di “spazio libero”: si tratta di costruire luoghi di fronte ai quali lo Stato (o tutto ciò che, in qualche modo, rappresenta i poteri forti del mondo - sia pure un banale parroco di paese) faccia un passo indietro, per permettere ai singoli spiriti liberi di poter fare un passo avanti. È quello spazio che -facendo un calembour col suo nome di battesimo- chiamiamo qui “Zona Franca” [...]
[NOTE]
278 STOPPINI, Alessandra, “Intervista allo scrittore Joseph Farrell e all’editrice Silvia Della Porta”, 10 luglio 2013, in: http://www.sololibri.net/Intervista-allo-scrittore-Joseph.html, consultata il 9 luglio 2016.
279 Ibidem.
280 In ricordo della compagnia (che meriterebbe uno studio a sé stante), Franca ha scritto e recitato un incontro-spettacolo intitolato Ricordi di famiglia, andato in scena per la prima volta a Bobbio il 29 aprile 2000, nel quale propone una carrellata di inedite situazioni vissute in famiglia tra il comico e il grottesco. Cfr. [AUTORE NON INDICATO], “A Bobbio con Franca Rame mostra e ricordi di famiglia”, in: «Libertà», 23 aprile 2000.
281 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
282 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., p. 11.
283 Ivi, p. 12.
284 È il caso, per esempio di Enrico Maria Salerno. Nato a Milano nel 1926, entra nell’autunno del 1945 (a diciannove anni) nella Compagnia Rame - sotto la direzione di Tommaso -, come contrasto (così, nel gergo dei girovaghi, vengono chiamati gli estranei alla famiglia), cercando, allo stesso tempo, di conciliare la nascente vocazione d’attore con la frequenza regolare dei corsi all’Università. Franca racconta che, per spiegare la sua scelta, egli “disse: «Io sono venuto qui per imparare. Sono già stato allievo di un’Accademia d’Arte, ma dopo un mese mi sono reso conto che stavo perdendo il mio tempo. Qui invece sento che mi posso arricchire di qualcosa. Per favore, insegnatemi a recitare alla vostra maniera.»” (Ivi, p. 18) Rimarrà nella compagnia fino all’aprile del 1946.
285 Ivi, p. 21.
286 VARALE, Silvia, “Nel laboratorio di Dario Fo e Franca Rame. 1 - A colloquio con Franca, un’operosa ape regina”, in: D’ANGELI, Concetta e SORIANI, Simone (a cura di), Op. cit., p. 11.
287 ENGDAHL, Horace (a cura di), Nobel Lectures. Literature 1996-2000, New Jersey, London, Singapore, Hong Kong, World Scientific, 2002, p. 21.
288 Regista e drammaturga, Valentina Esposito (Roma, 1975), dal 1995 lavora presso il Centro Studi “Enrico Maria Salerno”, svolgendo attività di promozione culturale e produzione teatrale a livello nazionale ed europeo, con particolare attenzione ai problemi sociali. Dal 2003, collabora con Fabio Cavalli nella direzione del Laboratorio Teatrale del Carcere di Rebibbia, a Roma (testimoniato dal film "Cesare deve morire" dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, di cui, tra il 2011 e il 2012, è stata responsabile organizzativa della parte teatrale). Nel 2013 ha fondato, con Fabio Cavalli, l’Accademia di Teatro Sociale con i detenuti in misura alternativa e gli ex detenuti del Carcere di Rebibbia - laboratorio di formazione teatrale permanente esterno al carcere. Attualmente Insegna Teatro nel Sociale presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha esordito nel cinema con la regìa di "Ombre della sera", docu-film interpretato dai membri dell’Accademia di Teatro Sociale e Pippo Delbono (Italia, colore 2016).
289 ESPOSITO, Valentina, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994 (Tesi di Laurea in Scienze Umanistiche - Corso di Laurea in Lettere - Università “La Sapienza” di Roma), 2004, p. 8, scaricabile alla pagina web: http://enricomariasalerno.it/biografia_artistica.htm, consultata il 10 luglio 2016.
290 RAME, Tommaso, “Lettera a Enrico Maria Salerno”, Varese, 30 maggio 1959, in «Archivio E.M.S. - Epistolario». L’«Archivio Enrico Maria Salerno» si trova a Castelnuovo di Porto (Roma), all’interno dell’abitazione dell’attore.
291 TOFANO, Sergio, Il teatro all’antica italiana, Roma, Bulzoni Editore, 1985, pp. 71-72.
292 Domenico Rame (1885-1948) ha ideali socialisti. Nel 1913 sposa Emilia Baldini ed è sotto la sua direzione che la compagnia passa dal teatro di figura a quello di persona. Il fratello Tommaso (1888-1968) è suo stretto collaboratore. Nominato Cavaliere nel 1936, Domenico, dal 1940, sarà Direttore del Teatro Odeon di Milano (dove proprio Dario Fo muove i suoi primi passi) e, di lì a poco, Presidente dell’Associazione Italiana Esercenti Spettacoli Viaggianti (A.I.E.S.V.).
293 [AUTORE NON INDICATO], “Lo Scheletro di Pio Rame”, in: Catalogo del Museo dei Burattini di Budrio. Collezione Zanella-Pasqualini, Comune di Budrio (Bologna), 2000, p. 46.
294 Ibidem.
295 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 39 e 41.
296 Sarà bene, qui, precisare che la marionetta è un pupazzo di legno, stoffa o altro materiale, che compare in scena a corpo intero ed è mosso a distanza o con accorgimenti non visibili (i fili, il più delle volte, che la muovono dall’alto); mentre il burattino è un pupazzo con il corpo di pezza e la testa di legno o di altro materiale, che compare in scena a mezzo busto ed è mosso dal basso, dalla mano del burattinaio, che lo infila come un guanto. Nell’Ottocento, tuttavia, quest’ultimo termine diviene talmente popolare da indicare entrambi i tipi di pupazzo (il che spiega perché Pinocchio -che tecnicamente è una marionetta- sia definito dal Collodi “burattino senza fili”).
297 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
298 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 41-42.
299 Ivi, p. 42.
300 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., pp. 25-26.
301 Dopo essere stato calciatore professionista tra il 1924 e il 1933, Tino Scotti (1905-1984) inizia la carriera come attore di teatro, calcando le assi di palcoscenici sui quali vengono prodotti spettacoli di varietà e di teatro di rivista. Dotato di una memoria eccezionale e di una straordinaria capacità oratoria, si contraddistingue per la velocità e la precisione delle sue parlate, sempre convulse e frenetiche, ma mai incomprensibili. Per questo motivo, viene benevolmente soprannominato Tino “Scatti”. Da buon caratterista, inventa due personaggi destinati a segnarne il successo: il cavaliere con il famoso motto “Ghe pensi mi” e il bauscia, emblemi di una milanesità agli antipodi.
302 Interpretato, insieme a Tino Scotti, da Franca e Pia Rame, Sandra Mondaini e Annì Celli.
303 Intellettuale poliedrico, Marcello Marchesi (1912-1978) è giornalista, scrittore di varietà radiofonici e televisivi, sceneggiatore, regista cinematografico e teatrale, paroliere, attore e talent scout. Ha scritto e diretto una conquantina di testi per il teatro di rivista, interpretati dai più importanti attori e dalle più importanti attrici in Italia.
304 [AUTORE NON INDICATO], “Biografia - Franca Rame”, consultabile alla pagina web: http://www.archivio.francarame.it/bioFranca.aspx, consultata l’11 luglio 2016.
305 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 22-23.
306 Ivi, p. 20.
307 Ivi, pp. 23-24.
308 Ivi, p. 24.
309 Ivi, p. 26.
310 Ivi, pp. 24-25.
Fabio Contu, Zona Franca (Rame), Tesi di dottorato, Università di Siviglia, Anno accademico 2016-2017

Enrico Maria Salerno inizia il suo apprendistato d’attore sul palcoscenico ambulante della famiglia Rame. E’ l’autunno del 1945, la compagnia percorre le province del Piemonte e della Lombardia ridotte in macerie dai lunghi anni di guerra.
A bordo del carro “La balorda”, Tommaso Rame allestisce nelle piazze dei paesi l’antico repertorio un tempo destinato al teatro di marionette. Nel suo “registro delle recite”, annota le partecipazioni dei giovani allievi-attori. Il nome di Enrico Salerno compare accanto a tre ruoli: Giuliano Dè Medici nel Cardinale di Louis Napoléon Parker, il Tenente Ruggero ne Le due orfanelle di Adolphe Dennery e Paride nel Romeo e Giulietta di Shakespeare.
La tradizione che la famiglia porta con sé è quella della commedia dell’arte, una tradizione antica che si tramanda di padre in figlio direttamente sul palcoscenico. Accanto ai “figli d’arte”, Salerno impara le regole del “recitare all’improvviso”, gli schemi fissi dei canovacci, le convenzioni che reggono il teatro delle parti e dei ruoli.
Ha un grande amore per la scrittura. A Milano riesce a lavorare come cronista e reporter per la Cineteatro-Lancio, frequentando contemporaneamente i corsi di regia: ha appena vent’anni quando intervista Vittorio De Sica.
Valentina Esposito, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994, Tesi di laurea, Università “La Sapienza” di Roma, 2004

venerdì 15 ottobre 2021

Questa mia singolarità doveva essere imbarazzante


Ionesco, in una conversazione con Edith Mora, apparsa nel 1960 e poi raccolta in Note e contronote, ad un certo punto ricorda le sue opere di prosa narrativa: Ho scritto tre racconti, comico-tragici, molto fantastici, come il mio teatro, che sono diventati tre commedie: Amedeo, poi Sicario senza paga e Il rinoceronte. Quando furono scritti, mi resi conto che erano, effettivamente, delle commedie in nuce. Ma un racconto è rimasto tale. Si tratta de Il solitario, 1973, dove il protagonista narra in prima persona la vita che gli capita di vivere, grazie ad un’eredità, dopo un precoce ritiro dal lavoro impiegatizio: dedito all’alcool, scettico sulla politica (“non è il pallone a contare, e quando quelle squadre più grandi che sono le nazioni si scagliano le une contro le altre o le classi sociali si fanno la guerra, non è per ragioni economiche né patriottiche né di giustizia o libertà, ma semplicemente per il conflitto in sé, per il bisogno di farsi la guerra”), ossessionato dal timore di cadere nella noia, l’uomo registra i piccoli avvenimenti della quotidianità, quasi insignificanti (“Attraversai il viale sulle strisce, una ragazza mi urtò con il gomito e si scusò, poi io urtai il gomito di un uomo e mi scusai”) e trascorre una vita oziosa, anonima, insignificante. È un everyman, e ad un certo punto ci mostra un suo autoritratto.

Mi passavo la mano sul viso. Sentivo i peli duri che cominciavano già a imbiancare, mi guardavo e non mi piacevo: il naso era troppo grande, gli occhi di un azzurro slavato, inespressivi, il viso un po’ gonfio, i capelli mal pettinati e troppo lunghi perchè non andavo abbastanza spesso dal barbiere, le orecchie troppo grandi, le rughe nel gonfiore, nessuno era come me, tutti senza dubbio avvertivano che non era come gli altri.

Nessuno è come lui? O tutti sono come lui?

Questa mia singolarità doveva essere imbarazzante. Non che il mio viso avesse qualcosa di anormale. Ero come gli altri e allo stesso tempo non ero come gli altri. Il carattere insolito della mia persona traspariva certo attraverso la pelle. È vero, per strada non mi fissavano, la gente non si voltava a guardarmi. Però, è vero, c’era la portinaia, la vicina con il suo cagnolino, Jeanine, la domestica, che scuoteva spesso il capo guardandomi, e la cameriera del ristorante che aveva nei miei confronti un atteggiamento decisamente particolare, in parte di amicizia, in parte di disprezzo.

ll paese, intanto, è attraversato da scontri violenti, incomprensibili:

«Entri in fretta» mi gridò la cameriera. «Forse domani saremo ancora aperti. Dopodomani è difficile.» Sedetti al mio solito posto. Nella vetrata c’erano fori e grosse incrinature. «Sì» disse «quelli di dentro hanno sparato a quelli di fuori e quelli di fuori ai nostri clienti. Oggi c’è testina di maiale all’aceto.» «Andate via?» «Il proprietario non ha voluto mettersi a fare il capofila della rivoluzione. Non ne ha più l’età. E poi non è sicuro di vincere. Allora, ce l’hanno con lui. »

«Se fossero rivoluzionari veri» disse il proprietario sopraggiunto in quel momento «forse andrei ad aiutarli. Ma in realtà sono reazionari.» «E i loro avversari?» «Sono reazionari anche quelli. Sono due bande di reazionari. Una pagata dai lapponi, l’altra dai turchi.»

Tutto verrà distrutto, e poi inizierà l’opera di ricostruzione (a cui seguirà, viene subito da pensare, un’ennesima opera di distruzione). In questa vita che procede in modo insensato non si intravede speranza di salvezza, se non in una sorta di visione celestiale, che conclude la narrazione:

Avrei potuto toccare il cespuglio, la scala. La luce era molto forte, ma non faceva male agli occhi. Gli scalini brillavano. Il giardino si avvicinava a me, mi circondava, ne facevo parte, ero al centro. Passarono anni, o secondi. La scala si avvicinò a me. Si fermò quando era quasi sopra la mia testa. Passarono anni, o secondi. Poi tutto si allontanò, sembrò dissolversi. La scala scomparve, poi il cespuglio, gli alberi. Poi le colonne con l’arco trionfale. Qualcosa di quella luce che era penetrata in me rimase. Pensai che era un segno.

Che Ionesco sia un miscredente nei confronti della storia lo sappiamo da sempre: “Esiste un mito della storia che sarebbe ora di«demitizzare», per usare una parola alla moda. Infatti sono sempre state alcune coscienze isolate a rappresentare, contro tutti, la coscienza universale”, dice in un’altra pagina delle Note, conversando con Claude Sarraute. Ed è proprio all’inizio di questo dialogo che Ionesco esprime una sua visione dei conflitti umani, che sembra un commento - anticipato, perché siamo qui nel gennaio 1960 - alle descrizione dei disordini politici nel Solitario:

Ricordo d’essere sempre stato colpito nel corso della mia vita da quelli che si potrebbero chiamare movimenti d’opinione, dalla loro rapida evoluzione, a cui forza di contagio uguaglia quella di una vera e propria epidemia. Improvvisamente la gente si lascia sopraffare da una religione, una dottrina, un fanatismo nuovi, insomma da ciò che i professori di filosofia e i giornalisti con pretese filosofiche chiamano «l’esigenza del momento storico». Assistiamo allora ad una vera mutazione mentale. Non so se l’ha notato, ma quando le persone non condividono più la nostra opinione, quando non possiamo più interderci con loro abbiamo l’impressione di aver a che fare con dei mostri.

E in Chi osa non odiare diventa un traditore, sempre nelle Note, infine:

Mi sembra che oggi come sempre le religioni e le ideologie non siano e non siano mai state altro che alibi, maschere, pretesti di questa volontà di assassinio. Dell’istinto di distruzione, di un’aggressività fondamentale, dell’odio profondo che l’uomo nutre verso l’uomo […] I guardiani della società hanno isti-tuito i bagni penali, i nemici della società assassinano: credo persino che i bagni penali siano apparsi prima ancora dei delitti. Non dico nulla di nuovo se dichiaro di temere coloro che desiderano ardentemente la salvezza o la felicità dell’umanità. Quando vedo un missionario, fuggo come quando vedo un criminale demente armato di pugnale. Si dirà che oggi «bisogna scegliere». «Bisogna scegliere il male minore. Ha più valore ciò che va nel senso della storia»: ma dov’è il senso della storia? Io credo che questo sia un nuovo inganno, una nuova giustificazione ideologica dello stesso impulso all’assassinio: poiché in questo modo si è «impegnati», e si ha una ragione più sottile di patteggiare o di iscriversi nell’uno o nell’altro partito di massacratori.

Si può essere d’accordo in tutto, in parte o per nulla con le posizioni di Ionesco. Ma il suo anarchismo disperato è puro e sincero. In questo cupo inizio millennio dove ci si continua a uccidere in nome dei “grandi ideali”, dove l’ipocrita slogan della fine delle ideologie si accompagna ad eccidi e tirannie motivati da forti e folli e torve e ridicole giustificazioni ideologiche (costruite con associazioni concettuali arbitrarie e falsi sillogismi e apposizioni acritiche di pochi elementi rigidi, pseudo-esplicativi), dove, in molti casi, si è astanti di una degenerazione dell’intelligenza in rigidità e stupidità, dove ancora gli stati nazionali sono retti da retorici discorsi sull’amor di patria e sui sacri valori, ec., bene, non possiamo non amare Ionesco. I nichilisti ci aiutano a mantenerci sempre in dubbio, a cercare altrove, a non cadere nei dogmatismi. Non è poco, anzi, è moltissimo.

Marco Innocenti, Ionesco il solitario in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno X, N° 4 (40), ottobre-dicembre 2019

[Marco Innocenti è autore di diverse opere, tra le quali: articoli in Mellophonium; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l'Europa. L'immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d'occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sandro Bajini, Del modo di trascorrere le ore. Intervista a cura di Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2012; Sull'arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 - 11/2013; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006]

martedì 16 marzo 2021

Questa matita

Sandro Bajini - Fonte: Teatrionline

"I luoghi della tua fanciullezza / non sono un ermo colle / o il sottobosco coi suoi mirtilli, / è un cortile assolato, / il bagno nella tinozza, / il sapone che si faceva  / sempre più esiguo (per pudore?), / o i giochi sotto la neve, / il richiamo di zie inquiete, / il broncio della rinuncia, / quand’eri felice e non lo sapevi"
Sandro Bajini, da Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017

"Questa matita / ch'io uso talvolta e gli altri mai, / questo curioso connubio / di legno e di grafite in cilindrica veste, / sarà ancora qui quand'io sarò là: / questo mi dico / e subito qualcuno / in tono perentorio mi assicura / ( sa il diavolo da chi lo ha saputo ) / che immortale è invece l'anima mia, / come del resto tutte le altre; / ed io che non sapevo di averla / (come si fa sapere se hai l'anima o no?) / non so se devo rallegrarmi"
Sandro Bajini, da Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015

Parafrasi da Lamennais:
"Perché andare incontro / alle esigenze dei poveri / quando si può contare / sulla loro rassegnazione?"
Parafrasi da Barbusse:
"Israeliani e palestinesi / non sono più due popoli / che si uccidono a vicenda / ma un unico grande popolo / che si suicida" Sandro Bajini [...] Domani pomeriggio alle 16.30, presso il Museo Civico Borea d’Olmo di Sanremo, Marco Innocenti presenterà l’ultimo libro di Sandro Bajini ‘Del modo di trascorrere le ore. Conversazioni sul teatro, la poesia, la politica e tutto il mondo universo attraverso la biografia di un autore’ (Philobiblon Edizioni). Si tratta di poesie tratte dalla raccolta ‘Ipogrammi’ dello stesso Bajini, che verranno lette da Alberto Guglielmi e Michele Guarnaccia. In programma anche un intervento musicale del contrabassista Giuliano Raimondo.
Sandro Bajini è commediografo, narratore, poeta, traduttore. In questo  libro-dialogo, che è intervista e biografia si racconta con l’ironia che lo contraddistingue e ne fa un autore satirico graffiante e un maestro del paradosso. Il libro è ricco di episodi anche molto divertenti e descrive una galleria di personaggi che l’autore ha conosciuto e frequentato (Giulio Preti, Giorgio Strehler, Eduardo De Filippo, Carmelo Bene, Dario Fo, Enzo Jannacci e numerosi altri.) Un libro divertente, ironico, dissacrante [...] Chiara Salvini, ... Pensieri di Capodanno 2014/2015...neldeliriononeromaisola, 20 gennaio 2015

"Non è vietata la speranza ma è molto difficile che questo accada, quando i nostri ideali sono gli stessi del nostro avversario"
Sandro Bajini in Marco Innocenti, Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010

"È la lontananza che fa lo stupore. E a tal proposito vi dico subito che lo stupore sul mio pianeta esiste in misura molto limitata, e così dicasi di un suo derivato, la meraviglia. Noi siamo ricchi di materie prime, come l’elio, il bicarbonato, il seltz, gli idrati di carbonio, il pritanio (un minerale che esiste solo da noi), i biscotti, il tetracloruro di berillio, i tovaglioli, ma manchiamo di stupore. Sì, ce n’è un po’ qua e là, nel suolo e nel sottosuolo, ma del tutto insufficiente al fabbisogno, che è piuttosto elevato, poiché la gente è stufa di non stupirsi più di niente".
Sandro Bajini

E’ questo che m’inquieta.
Non puoi muovere un passo
Che inciampi in un poeta
Sandro Bajini

Avete mai provato a recitare? Io sì. Se fossi un attore, evidentemente questa risposta sarebbe cretina. Ma non sono un attore, anche se in anni lontani ho scritto e fatto rappresentare diverse cose per il teatro. Tuttavia sul palcoscenico, a recitare un testo qualsiasi, non ero mai salito.
A farmici salire provvidero le circostanze. Non dico in quale anno, per evitare malinconie. Vi basti sapere che in quell’anno (ma sì, diciamolo, era il 1970) il regista Fantasio Piccoli, che dirigeva il teatro San Babila di Milano, mi incaricò di scrivere un testo per le scuole, che rievocasse la vita e le opere di Carlo Goldoni. Lo spettacolo non entrava nel cartellone ufficiale, si sarebbe rappresentato al mattino per le scuole milanesi, e doveva costare poco.
L’interpretazione era affidata ovviamente agli attori minori della compagnia, dove per “minore” si intende quell’attore che, talvolta bravissimo, non può sostenere le prime parti perché non ha fama sufficiente né certe caratteristiche esteriori e vocali (ci vogliono anche quelle; un attore di bassa statura non potrà mai essere Agamennone).
Avevo con Fantasio un rapporto di amicizia. L’anno precedente avevo tradotto due commedie per il suo teatro, una di Shaw e una di Feydeau, che avevano avuto successo, soprattutto per l’interpretazione di formidabili attori come Renzo Ricci, Eva Magni ed Ernesto Calindri; ma devo ricordare anche le due attrici giovani: Bedy Moratti, sorella dell’attuale presidente dell’Internazionale (ovviamente, la squadra di calcio) e Valeria Ciangottini, che di fatto debuttava in teatro dopo la sua mitica comparsa nella Dolce vita di Fellini.
Mi misi all’opera e presentai il mio Processo a Goldoni, dove il processo era quello che le antiche “maschere” muovevano al riformatore Carlo Goldoni.
Vi erano ovviamente inserti di canovacci dell’Arte e di opera goldoniane, i polemici interventi di Giuseppe Baretti e di Carlo Gozzi, insomma una panoramica storica che partecipata drammaticamente diventava una “lezione” divertente.
Fantasio lodò il mio lavoro, ma nel pensare alle parti si trovò subito in imbarazzo. Non vedeva fra gli attori che aveva a disposizione chi potesse interpretare Goldoni. Il personaggio appariva in scena ormai vecchio mentre scriveva le sue Memorie.
Gli avevo affidato il compito del narratore, mentre la vicenda si svolgeva in “flash back”. Il protagonista era lui, ma la sua non era una grande parte. E del resto gli attori disponibili avevano già una loro importante funzione nello spettacolo.
Come fare? A un certo punto Fantasio mi disse: “Perché Goldoni non lo fai tu?”.
Potete immaginare il mio stupore. Fantasio aggiunse che non scherzava, che mi aveva sentito mentre leggevo le cose mie e che era sicuro che avrei fatto bene.
“Hai delle doti native di attore” mi disse. E aggiunse: “Posso avere qualche dubbio su di te come drammaturgo; ma come attore mi dai il massimo affidamento”.
Come accade nelle proposte di matrimonio, mi lasciò qualche giorno per pensarci. Ebbi anch’io la mia “notte dell’Innominato”, poi con una incoscienza che vorrei chiamare giovanile (ma non posso perché avevo varcato da poco i quaranta) mandai ogni dubbio al diavolo e dissi sì.
La mia avventura incominciò subito con le prove. E fu davvero un’avventura perché mi consentì di fare scoperte del tutto impreviste.
La prima cosa che appresi fu che non dovevo affatto “diventare un altro”. Mi convinsi ben presto che non dovevo “mettermi nei panni di Goldoni”, perché era invece Goldoni che si metteva nei panni miei. Non aveva la minima importanza che egli fosse nato più di due secoli prima. Avevo letto le sue opere più importanti e qualcuna delle sue meno note, e mi sembrava di averle scritte io. E i fatti della sua vita erano diventati fatti miei.
Naturalmente avevo bisogno dei suoi Memoirs per sapere che cosa mi fosse accaduto nel 1750; ma non perché quegli eventi non mi riguardassero ma perché dopo tanti anni li avevo, per così dire, dimenticati. E quando scoprivo che cosa avevo fatto e detto mi veniva da pensare: “Ah, sì, ora ricordo”.
Che cosa dunque voleva dire, per me, “recitare”? Adesso lo sapevo: voleva dire “ricordare”. Ed ero io che ricordavo, non lui. Lungi dal sentirmi un altro, proprio nel “recitare” sentivo di essere me stesso. Compresi allora un fatto apparentemente paradossale: è nella vita che si recita, non nel teatro. Nella vita domina il relativo, e le circostanze ci costringono ad assumere un ruolo. Non è possibile avere rapporti sociali senza questa “maschera”, come ci ricordò a suo tempo Pirandello. E come sappiamo bene, per ottenere determinati scopi, qualche volta un individuo finge sentimenti che non ha.
In una sola situazione egli non può fingere: quando recita sopra un palcoscenico un testo della letteratura drammatica. L’attrice che presta la sua voce a Giulietta sarebbe bugiarda soltanto se dicesse a Romeo che non lo ama; ma non può.
Giulietta ama Romeo in eterno, e non sono possibili dubbi: sta scritto.
Recitando, ossia rivivendo, l’attrice ha la possibilità, unica, di essere finalmente sincera. Non avrà mai, nella sua vita privata, un’occasione migliore per dichiarare il proprio amore a qualcuno con altrettanta certezza; e sulla sincerità dei sentimenti di Giulietta, e quindi dei propri, è garante Shakespeare.
Compresi allora che il teatro (grande o piccolo, può essere un capolavoro drammatico o una farsaccia) ha un grande potere liberatorio e consente agli attori di vincere le proprie nevrosi, come è stato sostenuto.
Anche a me capitò la stessa cosa.
Mi sentivo leggero, ilare, puro in tutti i sensi.
Le recite andarono bene, le scolaresche furono attente al di là del ragionevole (ne temevo le intemperanze).
Ma non è questo che importa. Avevo attuato senza volerlo una psicoterapia di cui avevo bisogno.
Sandro Bajini, Come è bello recitare, La Forza di Vivere, Anno XXVI, n° 2, ottobre 2009

[...] [Sandro Bajini] Drammaturgo, narratore e scrittore, laureato in medicina, si è dedicato interamente alla scrittura fin dagli anni '60: ha tradotto Molière, Marivaux, Feydeau, Ionesco, è stato autore di testi satirici per il teatro che gli valsero talvolta le ire della censura (Come siam bravi quaggiù, con Vittorio Franceschi, 1960, Il capitale morale, 1961), talvolta metaforici e amaramente ironici (Dinner, con Gina Lagorio, 1983), e successi acclamati come MefistoValzer con Tino Buazzelli (1977) Bajini spazia attraverso molte attività: dalla saggistica teatrale per l’editore De Angeli (è stato per decenni insegnante di Storia del teatro all’Accademia dei Filodrammatici), all’attività editoriale (è stato responsabile della Sezione Teatro per Garzanti), agli interventi giornalistici (ha diretto Tempo medico) fino alla poesia e alla narrativa, agli spettacoli di marionette per Gianni Colla (La regina della neve, con scene e costumi di Luigi Veronesi, 1988-89).
Giocati sul paradossale, sul satirico, sull’umorismo nero, i testi di Bajini sono costruiti attraverso aforismi, trovate, jeux de mots.
Redazione, Chiacchieratine con Sandro Bajini, Teatrionline, 22 gennaio 2021