Un capitolo particolarmente significativo dell'esperienza umana e politica di Edoardo Martino è rappresentato dalla partecipazione alla guerra di liberazione come comandante di una divisione partigiana, la divisione autonoma Patria, formazione militare associata dalla storiografia alla Democrazia Cristiana e alla resistenza “bianca” piemontese. <81 Si tratta a tutti gli effetti dell'esperienza che segnò il punto di svolta, la trasformazione da comandante “Malerba” a parte viva della nascente Democrazia Cristiana alessandrina (anche se non mancano testimonianze della proverbiale ritrosia di Martino nei confronti della politica, come emerge da alcune corrispondenze private). <82
I documenti conservati presso l'abitazione privata di Edoardo Martino e descritti in appendice permettono di ricostruire le caratteristiche e le modalità con cui questo gruppo partecipò alla guerra di liberazione nella provincia di Alessandria, delineando la storia di un gruppo partigiano la cui azione non può essere circoscritta alle azioni militari messe in atto durante la guerra di liberazione.
Mi propongo quindi di tratteggiare un profilo ideologico della divisione Patria che integra, rendendo ragione dell'avvicinamento di Martino alla Democrazia Cristiana e la definizione del suo profilo politico, concentrandomi sulle tre caratteristiche indicative che definiscono l’ideologia che animò l’azione della divisione Patria e del suo comandante. Non prima, però, di aver individuato le caratteristiche salienti del movimento resistenziale in Piemonte e in provincia di Alessandria, per meglio contestualizzare l'azione della formazione partigiana guidata da Martino.
1. La Resistenza in Piemonte
La continuità tra la dissoluzione del Regio Esercito e l’inizio del movimento partigiano è sicuramente un tratto peculiare della resistenza piemontese. Roberto Battaglia coglie tale peculiarità nella pronta risposta dei militari in un processo di maturazione culminato nel momento in cui «aggiungendo alla “guerra” e alla “patria” quell’aggettivo di “fascista”, lo stesso regime aveva contribuito a vanificarne il significato, distruggendo l’idea di una collettività nazionale con obiettivi ed esigenze superiori anteposte a quelli di una singola fazione politica, sicché la guerra si era ridotta a un fatto individuale, in cui l’elemento determinante dell’impegno era l’adesione personale e convinta al fascismo». <83 A ciò va aggiunto un fattore contingente: la IV armata che si stava ritirando dalla Francia rimase sorpresa dall’armistizio ai piedi delle Alpi, ragione per cui quando venne sciolta dal generale Vercellino i suoi componenti che compresero la situazione che si stava delineando si disseminarono nei paesi di fondovalle per poi risalire verso i passi alpini. Rispetto all’attesismo degli ufficiali più alti in grado è doverosa una sottolineatura sulla condotta coraggiosa di molti altri soldati, ufficiali effettivi e di complemento che imbracciarono le armi contro l’occupante tedesco nonostante le reazioni scomposte e incomprensibili dei loro comandanti. <84
L’esperienza della guerra fascista ha accomunato una intera generazione, ragione per cui è legittimo interrogarsi rispetto ai militari e alla «misura» della loro adesione, potremmo dire la «quantità» del loro fascismo, per determinare la qualità del loro successivo impegno antifascista.
[...] Tuttavia, nonostante questo tratto «militare» della resistenza piemontese, la prima formazione che troviamo costituita e stanziata fin dal 12 settembre 1943 fra Valle Gesso e Valle Stura è Italia Libera, composta da una dozzina di civili, azionisti, capeggiati da Duccio Galimberti. Anche loro iniziano la loro avventura partigiana dopo essersi rivolti ad alcuni ufficiali effettivi, e di fronte al rifiuto di guidare la spedizione si pongono come primo obiettivo di organizzarsi solidamente e adeguatamente alla vita in montagna, costituendo il primo nucleo di quelle che saranno le divisioni Giustizia e Libertà del Cuneese.
Nel torinese ebbero immediato successo le iniziative del tenente Pompeo Colajanni (Barbato) <89 con un’ottantina di ex militari quasi tutti di origine meridionale. In val Chisone si insediò la banda Sestriere, composta esclusivamente di militari o graduati del corpo degli alpini, comandati dal sergente Maggiorino Marcellin (Bluter) <90. In Valsesia, spostandosi verso la parte orientale della regione, Cino Moscatelli <91 con un gruppo di ventidue ribelli costituì il primo nucleo delle future formazioni garibaldine della zona, mentre e nella val d’Ossola spicca tra i primi organizzatori Filippo Beltrami <92, che trasforma gli sbandati della zona in una formazione efficiente.
Gli sbandati della IV Armata si concentrano invece nella zona di Boves, presso Cuneo; spesso sono ancora in divisa. Fra loro troviamo un buon numero di ufficiali effettivi, si favoleggia di un imminente sbarco alleato in Liguria e di divisioni alpine ancora intatte e attestate sui monti; ma il 19 settembre di fronte all’attacco tedesco ogni illusione svanisce, la resistenza resta affidata a un pugno di uomini capeggiati da pochi ufficiali subalterni, tra cui si distingue il sergente Ignazio Vian <93; i tedeschi, sorpresi dal contrattacco, sfogano la loro rabbia sulla popolazione di Boves, incendiando l’intero paese e uccidendo 24 persone.
Questa prima fase si può definire «ribellistica», e consiste in un periodo di assestamento e di chiarificazione che perdura fino al dicembre del 1943, favorita dall’inerzia delle truppe nazifasciste. La reazione contro i primi nuclei partigiani è infatti particolarmente lenta, nella convinzione che si sarebbe dileguata ben presto «questa assurda velleità di voler combattere senza armi e senza mezzi contro il più potente esercito del mondo» <94. Questi primi sparuti gruppi di resistenti «in divisa» invece diedero origine alle prime formazioni autonome piemontesi, subendo massicce operazioni di rastrellamento tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1944: i tedeschi miravano infatti «a ripulire dai partigiani le vallate piemontesi» <95, segno che erano diventata una minaccia da neutralizzare.
I primi rastrellamenti in grande stile evidenziarono la debolezza del movimento partigiano piemontese, basate su forme elementari di resistenza delle bande, abbarbicate sulle posizioni di montagna e incapaci di manovra. Pareva impossibile dare vita a un esercito partigiano, ritenendo necessario limitarsi a un’opera organizzativa dei suoi quadri futuri e sciogliendo momentaneamente le formazioni e privilegiando la guerriglia con piccole squadre di sabotatori.
Questa tesi venne esposta nel convegno di Valle Pesio, alla fine di gennaio 1944:
"Là un ufficiale che era stato fra i più brillanti esponenti della banda di Boves sosteneva che, visti i risultati del primo esperimento, bisognava abbandonare l’idea di costruire o mantenere delle formazioni numerose, composte in prevalenza da «uomini»: secondo lui la miglior cosa sarebbe stata formare dei piccoli nuclei di sabotatori e di terroristi, composti esclusivamente di ufficiali, con al massimo qualche uomo per i bassi servizi. Questa idea (condivisa del resto da molti anche altrove, specie fra i «militari») trovò largo seguito fra i presenti al convegno, ma i politici la contrastarono decisamente: la guerra partigiana doveva essere la guerra del popolo italiano; per quanto possibile essa doveva essere impostata e mantenuta su basi e in termini tali da interessare e coinvolgere il maggior numero di persone". <96
I primi difficoltosi passi nella guerra di liberazione evidenziano una prima differenziazione nel fronte dei «ribelli»: da una parte vi sono gli ufficiali effettivi che pur avendo intrapreso la guerriglia continuavano ad essere legati a una concezione legalitaria della guerra, convinti che occorresse affrontare la problematica della preparazione delle «reclute» <97 nella convinzione che ogni azione, se poteva ottenere risultati bellici irrisori, rischiava soprattutto di mettere a repentaglio la sicurezza delle popolazioni. Dall’altra parte invece vi era l’ala politica dei sostenitori della «guerra per bande», dei ribelli il cui nome «corrisponde alla realtà di fatto, indica la funzione ancora polemica o di eversione violenta di ogni struttura tradizionale che i primi partigiani si sono assunta» <98.
La primavera del 1944 portò con sé anche una nuova consapevolezza da parte nemica: la ribellione andava stroncata sul nascere con un’offensiva a vasto raggio, caratterizzata dal contemporaneo sfondamento frontale e dall’aggiramento sulle ali, al fine di non lasciare scampo all’avversario. Al 7 marzo l’operazione investì le valli di Lanzo, al 13 si spostò in Val Casotto, successivamente in Val Varaita. Nella Val Casotto, dove era stata adottata la tattica della difesa rigida frontale, i volontari subirono un rovescio senza precedenti, perdendo i due terzi degli uomini, e solo una esigua schiera di superstiti al comando del capitano Enrico Martini Mauri riuscì a rompere l’accerchiamento e a riparare nelle Langhe. In Val Varaita e in Val di Lanzo le perdite furono minori, ma le bande uscirono dagli scontri disarticolate e scosse.
Nonostante la «batosta» primaverile, l’attività di organizzazione andava via via migliorando, le formazioni e le bande andavano adottando strutture di comando più vicine a quella profilata dal Comitato, pur mantenendo alcuni caratteri originali. Il Comitato Militare gettò le basi, tra il gennaio e il marzo del 1944, del Corpo dei Volontari della Libertà piemontese, nonostante si profilasse all’orizzonte una ulteriore battuta di arresto per l’attività cospirativa: la mattina del 1 aprile il comitato doveva riunirsi nella sacrestia del Duomo di Torino, ma forze imponenti di polizia e di agenti circondarono i dintorni e i cospiratori furono fermati uno ad uno. A seguito di un processo la cui sentenza era evidentemente già scritta la mattina del 5 aprile otto membri del Comitato vennero fucilati, e con la loro morte segnarono la dispersione di un patrimonio di contatti e piani intessuti in quei mesi.
Tuttavia il movimento partigiano si riprese prontamente, il comitato fu ricostituito, anche se ritoccato sulla base della rappresentanza delle varie correnti politiche <99, ereditando dal comitato del generale Perotti una situazione di maggiore concordia e unità d'intenti.
Nonostante colonne di migliaia di uomini avessero battuto le valli alpine e martellato le formazioni garibaldine e Giustizia e Libertà del cuneese non le avevano fiaccate; le bande della Val di Lanzo, temporaneamente ricacciate in alto, ritornavano ad assalire convogli e presidi nemici; quelle delle valli Pellice e Chisone e del Biellese si ingrossavano spostandosi verso la pianura; i volontari di Mauri operavano e crescevano nelle Langhe; in valle Maira, valle Stura e val di Gesso le formazioni GL avevano resistito asserragliate sulle cime tra Italia e Francia.
Stava spuntando «l’estate partigiana», e la caduta di Roma diede un’ulteriore accelerazione al processo di espansione delle formazioni partigiane e all’evolversi dell’organizzazione militare dei resistenti dell’Alta Italia.
[NOTE]
81 In merito alla partecipazione cattolica alla guerra di liberazione, in cui è ricompresa l'azione della divisione e delle brigate “Patria” si veda ad esempio S. TRAMONTIN, La Democrazia cristiana e la Resistenza, in Storia della Democrazia Cristiana, a cura di Francesco Malgeri, vol. 1, 1943-1948. Le origini: la DC dalla Resistenza alla Repubblica, Roma, Cinque Lune, 1987, pp. 66 e ss.; R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1974; PERONA G., Formazioni autonome nella Resistenza, Milano, Franco Angeli, 1996. In merito alla resistenza in Piemonte e in provincia di Alessandria si ricordano in questa sede B. GARIGLIO, I cattolici piemontesi nella guerra e nella Resistenza, in Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, Atti del convegno, Torino 8-9 giugno 1995, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 15-32; G. PANSA, Guerra partigiana tra Genova e Po, Bari, Laterza, 1967; W. VALSESIA - F. GAMBERA, La Resistenza in provincia di Alessandria, Alessandria, ANPI 1976; M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, Milano, Feltrinelli, 1962.
82 In merito si veda la lettera di Luigi Manfredi a Martino del 25 agosto 1950, in Appendice, Per una descrizione del fondo Martino, Corrispondenza, fasc. 3.
83 R. BATTAGLIA, Storia della Resisenza italiana, cit., p. 39.
84 Ci viene ancora in aiuto un episodio raccontato da Nuto Revelli: «Penso al tenente colonnello Palazzi, e ne parlo a Piero. Palazzi con il suo prestigio, il suo coraggio, potrebbe ancora organizzare una resistenza contro i tedeschi. Palazzi è rientrato dalla Russia prima della ritirata, perché malato; non ha vissuto il disastro, ma ha conosciuto i tedeschi. In Grecia, in Albania ha dato il meglio di se stesso, non piegava la schiena di fronte ai comandi; si è fatto perdonare dai suoi ufficiali la scorza dura, il tratto da soldato terribile, esigentissimo. Corriamo da Palazzi, sono le 21. palazzi appare, in pigiama. Ha tardato ad aprire. Sull’uscio di casa ci sbarra l’entrata. Non parla, ci guarda di brutto. Con il pigiama a righe sembra un carcerato. “Colonnello, - gli dico - in caserma tutti scappano. Abbiamo fiducia in lei, venga in caserma. Con lei saremo in molti a sparare…”.Esplode “Fuori dai ciglioni, grida - via, non voglio sapere niente. Tutti pidocchi, tutti pidocchi, fuori dai coglioni”. Scendiamo a testa bassa, mentre continua a urlare, e ogni insulto è una staffilata. Abbraccio Piero. Piangiamo come due bambini.» Cfr. N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 123.
89 Pompeo Colajanni, comandante Nicola Barbato 1906-1987. Già negli anni Venti, giovane comunista, si adoperò per la costituzione di un fronte unitario antifascista del quale facevano parte giovani repubblicani, socialisti, anarchici e comunisti e che per quest’attività subì arresti e perquisizioni. Ufficiale di complemento di cavalleria durante la seconda guerra mondiale, subito dopo l’8 settembre del 1943 organizzò in Val Po, presso Borgo San Dalmazzo, con i suoi soldati, altri ufficiali e civili, una delle prime bande partigiane (il distaccamento garibaldino "Pisacane"), da cui si sarebbero poi sviluppate, brigate, divisioni e raggruppamenti di divisioni. Il nome di "Barbato", divenuto comandante della VIII Zona (Monferrato) e vicecomandante del Comando militare regionale piemontese, divenne presto leggendario per le imprese delle formazioni al suo comando e per la competenza militare. Nell’approssimarsi dell’insurrezione generale ebbe il compito di investire e liberare Torino, coordinando le formazioni Garibaldi, GL, Matteotti e Autonome. Il mattino del 28 aprile Torino era completamente liberata e Colajanni veniva designato vicequestore. Pochi mesi dopo "Barbato" era sottosegretario alla Difesa nel governo Parri e lo fu anche nel primo governo De Gasperi. Sino alla sua scomparsa Colajanni non cessò mai l’attività politica: consultore nazionale, membro della Camera dei deputati, membro del Comitato centrale del PCI, deputato regionale in Sicilia, vice presidente dell’Assemblea siciliana, segretario delle federazioni comuniste di Enna e di Palermo, consigliere nazionale dell’ANPI, attivo nel Consiglio nazionale della pace.
90 Maggiorino Marcellin, nato a Pragelato (Torino) il 16 luglio 1914, deceduto a Sestriere (Torino) nel 2001, maestro di sci, Medaglia d’argento al valor militare. Di umili origini - montanari poverissimi, padre di antica militanza socialista - aveva dovuto emigrare in Francia durante il regime fascista, dovendo presto abbandonare la scuola per cogliere le occasioni d’occupazione che gli si offrivano. Allorché i suoi tornarono in Italia, Maggiorino trovò prima lavoro negli alberghi del Sestriere poi, quando nella località turistica si costituì la scuola di sci che sarebbe diventata famosa, divenne maestro di sci. Questo non gli impedì di tornare spesso, clandestinamente, in Francia, dove - a Cannes e a Lione - aveva mantenuto contatti con i circoli degli emigrati antifascisti. Al ritorno da uno di questi viaggi, Marcellin fu arrestato e, per evitare guai maggiori, si risolse ad arruolarsi negli Alpini. Tra richiami e punizioni per le sue posizioni antifasciste riuscì, soprattutto per la sua abilità di sciatore, a diventare sottufficiale. Partecipò con il 3° Alpini alle operazioni belliche in Francia e in Grecia. Rimpatriato per una ferita, Marcellin fu denunciato e arrestato per propaganda antifascista. Non fu processato perché intervennero i suoi superiori, che non volevano privarsi di un sergente maggiore così bravo a insegnare a sciare agli alpini. Sopraggiunto l’armistizio, Marcellin, diventato "Bluter", riuscì subito a raccogliere nuclei partigiani locali e poi a svilupparli, dando vita alla I Divisione autonoma "Val Chisone". Questa sarebbe poi diventata, al comando di "Bluter", la 44a Divisione Alpina Autonoma "Adolfo Serafino”. Ferito due volte in scontri con i nazifascisti, "Bluter" è stato decorato, oltre che con la Medaglia d’argento, anche della Bronze Star alleata. Dopo la Liberazione ha continuato, per molti anni, a fare il maestro di sci al Sestriere.
91 Vincenzo Moscatelli (Cino) nacque a Novara il 3 febbraio 1908. Comunista e antifascista, continuò la sua attività nel partito durante il regime. Il 26 luglio 1943, giorno successivo alla caduta del fascismo, improvvisò a Borgosesia una manifestazione popolare e, nei quarantacinque giorni del governo Badoglio, riprese a dirigere il movimento antifascista in Valsesia, ristabilendo i contatti con le fila dell'organizzazione. Dopo l'8 settembre fu tra i promotori del Comitato valsesiano di Resistenza (il futuro Cln) e svolse subito, impegnando tutti i suoi risparmi, un'intensa attività per l'organizzazione degli sbandati e della guerriglia, contro le forze che la Repubblica di Salò andava riorganizzando, a fianco dell'esercito di occupazione. Per i meriti acquisiti nella lotta partigiana, Moscatelli fu congedato con il grado di tenente colonnello e gli vennero conferite la medaglia d'argento al valor militare e due croci al merito di guerra. Dopo la Liberazione venne designato sindaco di Novara dal Cln. In seguito, dopo essere stato membro della Consulta nazionale, che doveva preparare l'elezione dell'Assemblea Costituente, e fu parlamentare in più occasioni. Morì a Borgosesia il 31 ottobre 1981. Per la biografia completa si veda il sito web dell’Istituto per la Storia della Resistenza di Biella e Vercelli, www.storia900bivc.it
92 Filippo Beltrami, nato a Cireggio (Novara) nel 1908, caduto a Megolo (Novara) il 13 febbraio 1944, architetto, Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria. Il primo riconoscimento, in qualche modo ufficiale, dell’esistenza nell’Italia occupata di un movimento partigiano, che preoccupava i nazifascisti, è comparso il 29 dicembre 1943 su La Stampa. In un articolo intitolato "I cavalieri della macchia" firmato da Concetto Pettinato, sul giornale torinese si ironizzava a proposito di un "artista lombardo" e di sua moglie, scorrazzanti in Val d'Ossola. Quell’"artista lombardo" era Filippo Beltrami, che sarebbe morto in combattimento un mese e mezzo dopo, cadendo con altri dodici compagni, tra i quali Gianni Citterio, Antonio Di Dio e Gaspare Pajetta. All’epoca capitano d’artiglieria, l’8 settembre del 1943 Beltrami si era trasferito, con moglie e figli, da Milano a Cireggio, in una villa di famiglia. Noto nella zona per le sue idee antifasciste, l’architetto fu ben presto avvicinato da alcuni giovani comunisti che, con un gruppetto di militari sbandati, avevano costituito una formazione partigiana sopra Quarna. Gli offrirono di comandare la piccola banda e il capitano accettò. A dicembre il gruppo contava già oltre duecento effettivi le cui azioni, come dimostrò indirettamente l’articolo su La Stampa, cominciarono a diventare un serio problema per le forze d’occupazione. Per questa ragione il Comando tedesco di stanza a Meina, approfittando del fatto che, nel corso delle ultime azioni, i partigiani di Beltrami erano stati duramente provati, decise di proporgli una sorta di salvacondotto per sgombrare dalla zona. Un colloquio tra il comandante partigiano e quello tedesco, Simon, si concluse con una frase di Beltrami, sferzante come quelle della lettera che aveva spedito a Pettinato dopo la pubblicazione dell’articolo: "…qui siamo a casa nostra, siete voi che dovete andarvene". Il giorno dopo l’incontro, i tedeschi attaccarono di sorpresa e con forze soverchianti la base partigiana di Megolo, che fu occupata soltanto quando i partigiani di Beltrami caddero ad uno ad uno o finirono le munizioni.
93 Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, impiccato a Torino il 22 luglio 1944, maestro elementare e studente in Magistero, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 Vian era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca. Raccolti attorno a sé circa 150 uomini, ne assunse il comando costituendo una delle prime formazioni partigiane e, contrariamente ad altri gruppi che avevano scelto di attendere, cominciò subito la guerriglia. Il 19 settembre la formazione di Vian venne duramente impegnata in combattimento dalle SS del maggiore Joachim Peiper, che avrebbe poi perpetrato la strage di Boves (uccisi 32 paesani inermi e incolpevoli, rase al suolo 44 case, nonostante Peiper si fosse impegnato a non effettuare rappresaglie dopo la restituzione di due SS catturate dai partigiani). Per oltre dodici ore i patrioti resistettero all’attacco nemico, condotto con l’appoggio dell’artiglieria. Mentre Boves bruciava e vi veniva commesso l’eccidio, Vian raggiunse la Val Corvaglia. Alla sua banda affluirono altri volontari, così da raggiungere la forza di una Brigata che continuò, senza tregua, la guerriglia. Nel marzo del 1944, i partigiani di Vian si unirono alle formazioni di Martini Mauri e il giovane tenente assunse la responsabilità di comandante in seconda del 1° Gruppo Divisioni alpine degli "Autonomi". In missione a Torino, il 19 aprile del 1944, il comandante partigiano cadde in mano dei nazifascisti. Venne ripetutamente torturato perché rivelasse nomi e luoghi della Resistenza, ma non cedette. Nel timore di non poter più resistere, dopo settimane di torture, si svenò nel carcere. Fu curato e tre mesi dopo l’arresto, quando a malapena riusciva a reggersi in piedi, i nazifascisti lo impiccarono a un albero nel centro di Torino.
94 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit, p. 190.
95 Ibid, pp.204-205.
96 D. L. BIANCO, Venti mesi di guerra partigiana nel cuneese, Cuneo, Panfilo, 1946, p. 63.
97 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 190. Questo tratto è comune alla preoccupazione che sembra emergere dalla bozza dell’ordine scritto dal comandante Malerba in merito all’arruolamento, in Appendice, Per una descrizione del fondo Martino, Resistenza, fasc. 10.
98 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit, p. 188.
99 Facevano parte del ricostituito Comitato militare il maggiore Gonella e Carlo Marsaglia per il PLI, Maurizio Fracassi per la DC, Pittavino per il PSI, Galimberti per il Pd’A, Pratolongo per il PCI. Inoltre vi erano, in qualità di consulenti militari, il generale Alessandro Trabucchi (Alessandri), il generale Carlo Drago (Nito), il maggiore Creonti e il colonnello Contini (Elle). Cfr M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, cit., p. 100.
Lodovico Como, Dall'Italia all'Europa. Biografia politica di Edoardo Martino (1910-1999), Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2009/2010
I documenti conservati presso l'abitazione privata di Edoardo Martino e descritti in appendice permettono di ricostruire le caratteristiche e le modalità con cui questo gruppo partecipò alla guerra di liberazione nella provincia di Alessandria, delineando la storia di un gruppo partigiano la cui azione non può essere circoscritta alle azioni militari messe in atto durante la guerra di liberazione.
Mi propongo quindi di tratteggiare un profilo ideologico della divisione Patria che integra, rendendo ragione dell'avvicinamento di Martino alla Democrazia Cristiana e la definizione del suo profilo politico, concentrandomi sulle tre caratteristiche indicative che definiscono l’ideologia che animò l’azione della divisione Patria e del suo comandante. Non prima, però, di aver individuato le caratteristiche salienti del movimento resistenziale in Piemonte e in provincia di Alessandria, per meglio contestualizzare l'azione della formazione partigiana guidata da Martino.
1. La Resistenza in Piemonte
La continuità tra la dissoluzione del Regio Esercito e l’inizio del movimento partigiano è sicuramente un tratto peculiare della resistenza piemontese. Roberto Battaglia coglie tale peculiarità nella pronta risposta dei militari in un processo di maturazione culminato nel momento in cui «aggiungendo alla “guerra” e alla “patria” quell’aggettivo di “fascista”, lo stesso regime aveva contribuito a vanificarne il significato, distruggendo l’idea di una collettività nazionale con obiettivi ed esigenze superiori anteposte a quelli di una singola fazione politica, sicché la guerra si era ridotta a un fatto individuale, in cui l’elemento determinante dell’impegno era l’adesione personale e convinta al fascismo». <83 A ciò va aggiunto un fattore contingente: la IV armata che si stava ritirando dalla Francia rimase sorpresa dall’armistizio ai piedi delle Alpi, ragione per cui quando venne sciolta dal generale Vercellino i suoi componenti che compresero la situazione che si stava delineando si disseminarono nei paesi di fondovalle per poi risalire verso i passi alpini. Rispetto all’attesismo degli ufficiali più alti in grado è doverosa una sottolineatura sulla condotta coraggiosa di molti altri soldati, ufficiali effettivi e di complemento che imbracciarono le armi contro l’occupante tedesco nonostante le reazioni scomposte e incomprensibili dei loro comandanti. <84
L’esperienza della guerra fascista ha accomunato una intera generazione, ragione per cui è legittimo interrogarsi rispetto ai militari e alla «misura» della loro adesione, potremmo dire la «quantità» del loro fascismo, per determinare la qualità del loro successivo impegno antifascista.
[...] Tuttavia, nonostante questo tratto «militare» della resistenza piemontese, la prima formazione che troviamo costituita e stanziata fin dal 12 settembre 1943 fra Valle Gesso e Valle Stura è Italia Libera, composta da una dozzina di civili, azionisti, capeggiati da Duccio Galimberti. Anche loro iniziano la loro avventura partigiana dopo essersi rivolti ad alcuni ufficiali effettivi, e di fronte al rifiuto di guidare la spedizione si pongono come primo obiettivo di organizzarsi solidamente e adeguatamente alla vita in montagna, costituendo il primo nucleo di quelle che saranno le divisioni Giustizia e Libertà del Cuneese.
Nel torinese ebbero immediato successo le iniziative del tenente Pompeo Colajanni (Barbato) <89 con un’ottantina di ex militari quasi tutti di origine meridionale. In val Chisone si insediò la banda Sestriere, composta esclusivamente di militari o graduati del corpo degli alpini, comandati dal sergente Maggiorino Marcellin (Bluter) <90. In Valsesia, spostandosi verso la parte orientale della regione, Cino Moscatelli <91 con un gruppo di ventidue ribelli costituì il primo nucleo delle future formazioni garibaldine della zona, mentre e nella val d’Ossola spicca tra i primi organizzatori Filippo Beltrami <92, che trasforma gli sbandati della zona in una formazione efficiente.
Gli sbandati della IV Armata si concentrano invece nella zona di Boves, presso Cuneo; spesso sono ancora in divisa. Fra loro troviamo un buon numero di ufficiali effettivi, si favoleggia di un imminente sbarco alleato in Liguria e di divisioni alpine ancora intatte e attestate sui monti; ma il 19 settembre di fronte all’attacco tedesco ogni illusione svanisce, la resistenza resta affidata a un pugno di uomini capeggiati da pochi ufficiali subalterni, tra cui si distingue il sergente Ignazio Vian <93; i tedeschi, sorpresi dal contrattacco, sfogano la loro rabbia sulla popolazione di Boves, incendiando l’intero paese e uccidendo 24 persone.
Questa prima fase si può definire «ribellistica», e consiste in un periodo di assestamento e di chiarificazione che perdura fino al dicembre del 1943, favorita dall’inerzia delle truppe nazifasciste. La reazione contro i primi nuclei partigiani è infatti particolarmente lenta, nella convinzione che si sarebbe dileguata ben presto «questa assurda velleità di voler combattere senza armi e senza mezzi contro il più potente esercito del mondo» <94. Questi primi sparuti gruppi di resistenti «in divisa» invece diedero origine alle prime formazioni autonome piemontesi, subendo massicce operazioni di rastrellamento tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1944: i tedeschi miravano infatti «a ripulire dai partigiani le vallate piemontesi» <95, segno che erano diventata una minaccia da neutralizzare.
I primi rastrellamenti in grande stile evidenziarono la debolezza del movimento partigiano piemontese, basate su forme elementari di resistenza delle bande, abbarbicate sulle posizioni di montagna e incapaci di manovra. Pareva impossibile dare vita a un esercito partigiano, ritenendo necessario limitarsi a un’opera organizzativa dei suoi quadri futuri e sciogliendo momentaneamente le formazioni e privilegiando la guerriglia con piccole squadre di sabotatori.
Questa tesi venne esposta nel convegno di Valle Pesio, alla fine di gennaio 1944:
"Là un ufficiale che era stato fra i più brillanti esponenti della banda di Boves sosteneva che, visti i risultati del primo esperimento, bisognava abbandonare l’idea di costruire o mantenere delle formazioni numerose, composte in prevalenza da «uomini»: secondo lui la miglior cosa sarebbe stata formare dei piccoli nuclei di sabotatori e di terroristi, composti esclusivamente di ufficiali, con al massimo qualche uomo per i bassi servizi. Questa idea (condivisa del resto da molti anche altrove, specie fra i «militari») trovò largo seguito fra i presenti al convegno, ma i politici la contrastarono decisamente: la guerra partigiana doveva essere la guerra del popolo italiano; per quanto possibile essa doveva essere impostata e mantenuta su basi e in termini tali da interessare e coinvolgere il maggior numero di persone". <96
I primi difficoltosi passi nella guerra di liberazione evidenziano una prima differenziazione nel fronte dei «ribelli»: da una parte vi sono gli ufficiali effettivi che pur avendo intrapreso la guerriglia continuavano ad essere legati a una concezione legalitaria della guerra, convinti che occorresse affrontare la problematica della preparazione delle «reclute» <97 nella convinzione che ogni azione, se poteva ottenere risultati bellici irrisori, rischiava soprattutto di mettere a repentaglio la sicurezza delle popolazioni. Dall’altra parte invece vi era l’ala politica dei sostenitori della «guerra per bande», dei ribelli il cui nome «corrisponde alla realtà di fatto, indica la funzione ancora polemica o di eversione violenta di ogni struttura tradizionale che i primi partigiani si sono assunta» <98.
La primavera del 1944 portò con sé anche una nuova consapevolezza da parte nemica: la ribellione andava stroncata sul nascere con un’offensiva a vasto raggio, caratterizzata dal contemporaneo sfondamento frontale e dall’aggiramento sulle ali, al fine di non lasciare scampo all’avversario. Al 7 marzo l’operazione investì le valli di Lanzo, al 13 si spostò in Val Casotto, successivamente in Val Varaita. Nella Val Casotto, dove era stata adottata la tattica della difesa rigida frontale, i volontari subirono un rovescio senza precedenti, perdendo i due terzi degli uomini, e solo una esigua schiera di superstiti al comando del capitano Enrico Martini Mauri riuscì a rompere l’accerchiamento e a riparare nelle Langhe. In Val Varaita e in Val di Lanzo le perdite furono minori, ma le bande uscirono dagli scontri disarticolate e scosse.
Nonostante la «batosta» primaverile, l’attività di organizzazione andava via via migliorando, le formazioni e le bande andavano adottando strutture di comando più vicine a quella profilata dal Comitato, pur mantenendo alcuni caratteri originali. Il Comitato Militare gettò le basi, tra il gennaio e il marzo del 1944, del Corpo dei Volontari della Libertà piemontese, nonostante si profilasse all’orizzonte una ulteriore battuta di arresto per l’attività cospirativa: la mattina del 1 aprile il comitato doveva riunirsi nella sacrestia del Duomo di Torino, ma forze imponenti di polizia e di agenti circondarono i dintorni e i cospiratori furono fermati uno ad uno. A seguito di un processo la cui sentenza era evidentemente già scritta la mattina del 5 aprile otto membri del Comitato vennero fucilati, e con la loro morte segnarono la dispersione di un patrimonio di contatti e piani intessuti in quei mesi.
Tuttavia il movimento partigiano si riprese prontamente, il comitato fu ricostituito, anche se ritoccato sulla base della rappresentanza delle varie correnti politiche <99, ereditando dal comitato del generale Perotti una situazione di maggiore concordia e unità d'intenti.
Nonostante colonne di migliaia di uomini avessero battuto le valli alpine e martellato le formazioni garibaldine e Giustizia e Libertà del cuneese non le avevano fiaccate; le bande della Val di Lanzo, temporaneamente ricacciate in alto, ritornavano ad assalire convogli e presidi nemici; quelle delle valli Pellice e Chisone e del Biellese si ingrossavano spostandosi verso la pianura; i volontari di Mauri operavano e crescevano nelle Langhe; in valle Maira, valle Stura e val di Gesso le formazioni GL avevano resistito asserragliate sulle cime tra Italia e Francia.
Stava spuntando «l’estate partigiana», e la caduta di Roma diede un’ulteriore accelerazione al processo di espansione delle formazioni partigiane e all’evolversi dell’organizzazione militare dei resistenti dell’Alta Italia.
[NOTE]
81 In merito alla partecipazione cattolica alla guerra di liberazione, in cui è ricompresa l'azione della divisione e delle brigate “Patria” si veda ad esempio S. TRAMONTIN, La Democrazia cristiana e la Resistenza, in Storia della Democrazia Cristiana, a cura di Francesco Malgeri, vol. 1, 1943-1948. Le origini: la DC dalla Resistenza alla Repubblica, Roma, Cinque Lune, 1987, pp. 66 e ss.; R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1974; PERONA G., Formazioni autonome nella Resistenza, Milano, Franco Angeli, 1996. In merito alla resistenza in Piemonte e in provincia di Alessandria si ricordano in questa sede B. GARIGLIO, I cattolici piemontesi nella guerra e nella Resistenza, in Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, Atti del convegno, Torino 8-9 giugno 1995, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 15-32; G. PANSA, Guerra partigiana tra Genova e Po, Bari, Laterza, 1967; W. VALSESIA - F. GAMBERA, La Resistenza in provincia di Alessandria, Alessandria, ANPI 1976; M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, Milano, Feltrinelli, 1962.
82 In merito si veda la lettera di Luigi Manfredi a Martino del 25 agosto 1950, in Appendice, Per una descrizione del fondo Martino, Corrispondenza, fasc. 3.
83 R. BATTAGLIA, Storia della Resisenza italiana, cit., p. 39.
84 Ci viene ancora in aiuto un episodio raccontato da Nuto Revelli: «Penso al tenente colonnello Palazzi, e ne parlo a Piero. Palazzi con il suo prestigio, il suo coraggio, potrebbe ancora organizzare una resistenza contro i tedeschi. Palazzi è rientrato dalla Russia prima della ritirata, perché malato; non ha vissuto il disastro, ma ha conosciuto i tedeschi. In Grecia, in Albania ha dato il meglio di se stesso, non piegava la schiena di fronte ai comandi; si è fatto perdonare dai suoi ufficiali la scorza dura, il tratto da soldato terribile, esigentissimo. Corriamo da Palazzi, sono le 21. palazzi appare, in pigiama. Ha tardato ad aprire. Sull’uscio di casa ci sbarra l’entrata. Non parla, ci guarda di brutto. Con il pigiama a righe sembra un carcerato. “Colonnello, - gli dico - in caserma tutti scappano. Abbiamo fiducia in lei, venga in caserma. Con lei saremo in molti a sparare…”.Esplode “Fuori dai ciglioni, grida - via, non voglio sapere niente. Tutti pidocchi, tutti pidocchi, fuori dai coglioni”. Scendiamo a testa bassa, mentre continua a urlare, e ogni insulto è una staffilata. Abbraccio Piero. Piangiamo come due bambini.» Cfr. N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 123.
89 Pompeo Colajanni, comandante Nicola Barbato 1906-1987. Già negli anni Venti, giovane comunista, si adoperò per la costituzione di un fronte unitario antifascista del quale facevano parte giovani repubblicani, socialisti, anarchici e comunisti e che per quest’attività subì arresti e perquisizioni. Ufficiale di complemento di cavalleria durante la seconda guerra mondiale, subito dopo l’8 settembre del 1943 organizzò in Val Po, presso Borgo San Dalmazzo, con i suoi soldati, altri ufficiali e civili, una delle prime bande partigiane (il distaccamento garibaldino "Pisacane"), da cui si sarebbero poi sviluppate, brigate, divisioni e raggruppamenti di divisioni. Il nome di "Barbato", divenuto comandante della VIII Zona (Monferrato) e vicecomandante del Comando militare regionale piemontese, divenne presto leggendario per le imprese delle formazioni al suo comando e per la competenza militare. Nell’approssimarsi dell’insurrezione generale ebbe il compito di investire e liberare Torino, coordinando le formazioni Garibaldi, GL, Matteotti e Autonome. Il mattino del 28 aprile Torino era completamente liberata e Colajanni veniva designato vicequestore. Pochi mesi dopo "Barbato" era sottosegretario alla Difesa nel governo Parri e lo fu anche nel primo governo De Gasperi. Sino alla sua scomparsa Colajanni non cessò mai l’attività politica: consultore nazionale, membro della Camera dei deputati, membro del Comitato centrale del PCI, deputato regionale in Sicilia, vice presidente dell’Assemblea siciliana, segretario delle federazioni comuniste di Enna e di Palermo, consigliere nazionale dell’ANPI, attivo nel Consiglio nazionale della pace.
90 Maggiorino Marcellin, nato a Pragelato (Torino) il 16 luglio 1914, deceduto a Sestriere (Torino) nel 2001, maestro di sci, Medaglia d’argento al valor militare. Di umili origini - montanari poverissimi, padre di antica militanza socialista - aveva dovuto emigrare in Francia durante il regime fascista, dovendo presto abbandonare la scuola per cogliere le occasioni d’occupazione che gli si offrivano. Allorché i suoi tornarono in Italia, Maggiorino trovò prima lavoro negli alberghi del Sestriere poi, quando nella località turistica si costituì la scuola di sci che sarebbe diventata famosa, divenne maestro di sci. Questo non gli impedì di tornare spesso, clandestinamente, in Francia, dove - a Cannes e a Lione - aveva mantenuto contatti con i circoli degli emigrati antifascisti. Al ritorno da uno di questi viaggi, Marcellin fu arrestato e, per evitare guai maggiori, si risolse ad arruolarsi negli Alpini. Tra richiami e punizioni per le sue posizioni antifasciste riuscì, soprattutto per la sua abilità di sciatore, a diventare sottufficiale. Partecipò con il 3° Alpini alle operazioni belliche in Francia e in Grecia. Rimpatriato per una ferita, Marcellin fu denunciato e arrestato per propaganda antifascista. Non fu processato perché intervennero i suoi superiori, che non volevano privarsi di un sergente maggiore così bravo a insegnare a sciare agli alpini. Sopraggiunto l’armistizio, Marcellin, diventato "Bluter", riuscì subito a raccogliere nuclei partigiani locali e poi a svilupparli, dando vita alla I Divisione autonoma "Val Chisone". Questa sarebbe poi diventata, al comando di "Bluter", la 44a Divisione Alpina Autonoma "Adolfo Serafino”. Ferito due volte in scontri con i nazifascisti, "Bluter" è stato decorato, oltre che con la Medaglia d’argento, anche della Bronze Star alleata. Dopo la Liberazione ha continuato, per molti anni, a fare il maestro di sci al Sestriere.
91 Vincenzo Moscatelli (Cino) nacque a Novara il 3 febbraio 1908. Comunista e antifascista, continuò la sua attività nel partito durante il regime. Il 26 luglio 1943, giorno successivo alla caduta del fascismo, improvvisò a Borgosesia una manifestazione popolare e, nei quarantacinque giorni del governo Badoglio, riprese a dirigere il movimento antifascista in Valsesia, ristabilendo i contatti con le fila dell'organizzazione. Dopo l'8 settembre fu tra i promotori del Comitato valsesiano di Resistenza (il futuro Cln) e svolse subito, impegnando tutti i suoi risparmi, un'intensa attività per l'organizzazione degli sbandati e della guerriglia, contro le forze che la Repubblica di Salò andava riorganizzando, a fianco dell'esercito di occupazione. Per i meriti acquisiti nella lotta partigiana, Moscatelli fu congedato con il grado di tenente colonnello e gli vennero conferite la medaglia d'argento al valor militare e due croci al merito di guerra. Dopo la Liberazione venne designato sindaco di Novara dal Cln. In seguito, dopo essere stato membro della Consulta nazionale, che doveva preparare l'elezione dell'Assemblea Costituente, e fu parlamentare in più occasioni. Morì a Borgosesia il 31 ottobre 1981. Per la biografia completa si veda il sito web dell’Istituto per la Storia della Resistenza di Biella e Vercelli, www.storia900bivc.it
92 Filippo Beltrami, nato a Cireggio (Novara) nel 1908, caduto a Megolo (Novara) il 13 febbraio 1944, architetto, Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria. Il primo riconoscimento, in qualche modo ufficiale, dell’esistenza nell’Italia occupata di un movimento partigiano, che preoccupava i nazifascisti, è comparso il 29 dicembre 1943 su La Stampa. In un articolo intitolato "I cavalieri della macchia" firmato da Concetto Pettinato, sul giornale torinese si ironizzava a proposito di un "artista lombardo" e di sua moglie, scorrazzanti in Val d'Ossola. Quell’"artista lombardo" era Filippo Beltrami, che sarebbe morto in combattimento un mese e mezzo dopo, cadendo con altri dodici compagni, tra i quali Gianni Citterio, Antonio Di Dio e Gaspare Pajetta. All’epoca capitano d’artiglieria, l’8 settembre del 1943 Beltrami si era trasferito, con moglie e figli, da Milano a Cireggio, in una villa di famiglia. Noto nella zona per le sue idee antifasciste, l’architetto fu ben presto avvicinato da alcuni giovani comunisti che, con un gruppetto di militari sbandati, avevano costituito una formazione partigiana sopra Quarna. Gli offrirono di comandare la piccola banda e il capitano accettò. A dicembre il gruppo contava già oltre duecento effettivi le cui azioni, come dimostrò indirettamente l’articolo su La Stampa, cominciarono a diventare un serio problema per le forze d’occupazione. Per questa ragione il Comando tedesco di stanza a Meina, approfittando del fatto che, nel corso delle ultime azioni, i partigiani di Beltrami erano stati duramente provati, decise di proporgli una sorta di salvacondotto per sgombrare dalla zona. Un colloquio tra il comandante partigiano e quello tedesco, Simon, si concluse con una frase di Beltrami, sferzante come quelle della lettera che aveva spedito a Pettinato dopo la pubblicazione dell’articolo: "…qui siamo a casa nostra, siete voi che dovete andarvene". Il giorno dopo l’incontro, i tedeschi attaccarono di sorpresa e con forze soverchianti la base partigiana di Megolo, che fu occupata soltanto quando i partigiani di Beltrami caddero ad uno ad uno o finirono le munizioni.
93 Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, impiccato a Torino il 22 luglio 1944, maestro elementare e studente in Magistero, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 Vian era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca. Raccolti attorno a sé circa 150 uomini, ne assunse il comando costituendo una delle prime formazioni partigiane e, contrariamente ad altri gruppi che avevano scelto di attendere, cominciò subito la guerriglia. Il 19 settembre la formazione di Vian venne duramente impegnata in combattimento dalle SS del maggiore Joachim Peiper, che avrebbe poi perpetrato la strage di Boves (uccisi 32 paesani inermi e incolpevoli, rase al suolo 44 case, nonostante Peiper si fosse impegnato a non effettuare rappresaglie dopo la restituzione di due SS catturate dai partigiani). Per oltre dodici ore i patrioti resistettero all’attacco nemico, condotto con l’appoggio dell’artiglieria. Mentre Boves bruciava e vi veniva commesso l’eccidio, Vian raggiunse la Val Corvaglia. Alla sua banda affluirono altri volontari, così da raggiungere la forza di una Brigata che continuò, senza tregua, la guerriglia. Nel marzo del 1944, i partigiani di Vian si unirono alle formazioni di Martini Mauri e il giovane tenente assunse la responsabilità di comandante in seconda del 1° Gruppo Divisioni alpine degli "Autonomi". In missione a Torino, il 19 aprile del 1944, il comandante partigiano cadde in mano dei nazifascisti. Venne ripetutamente torturato perché rivelasse nomi e luoghi della Resistenza, ma non cedette. Nel timore di non poter più resistere, dopo settimane di torture, si svenò nel carcere. Fu curato e tre mesi dopo l’arresto, quando a malapena riusciva a reggersi in piedi, i nazifascisti lo impiccarono a un albero nel centro di Torino.
94 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit, p. 190.
95 Ibid, pp.204-205.
96 D. L. BIANCO, Venti mesi di guerra partigiana nel cuneese, Cuneo, Panfilo, 1946, p. 63.
97 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 190. Questo tratto è comune alla preoccupazione che sembra emergere dalla bozza dell’ordine scritto dal comandante Malerba in merito all’arruolamento, in Appendice, Per una descrizione del fondo Martino, Resistenza, fasc. 10.
98 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit, p. 188.
99 Facevano parte del ricostituito Comitato militare il maggiore Gonella e Carlo Marsaglia per il PLI, Maurizio Fracassi per la DC, Pittavino per il PSI, Galimberti per il Pd’A, Pratolongo per il PCI. Inoltre vi erano, in qualità di consulenti militari, il generale Alessandro Trabucchi (Alessandri), il generale Carlo Drago (Nito), il maggiore Creonti e il colonnello Contini (Elle). Cfr M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, cit., p. 100.
Lodovico Como, Dall'Italia all'Europa. Biografia politica di Edoardo Martino (1910-1999), Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2009/2010