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sabato 4 febbraio 2023

I militi fascisti giunsero a Poggiolo, attraverso i boschi, senza essere avvistati

Castelletto Uzzone (CN). Fonte: Langhe.net

Ma l’episodio più tragico avvenne proprio negli ultimi giorni, il 20 aprile, quando gli arditi del III° Gruppo Esplorante della “San Marco”, travestiti da partigiani, colsero di sorpresa tra Castelletto Uzzone (CN) e Monesiglio (CN) le difese autonome. Molti uomini caddero in combattimento: i prigionieri furono torturati e uccisi. Alla fine della giornata la brigata aveva perso qualcosa come 24 volontari, ma ciò non provocò sbandamenti di sorta e l’unità poté prendere parte alla liberazione della Val Bormida, come vedremo più avanti.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000



Siamo al 20 aprile 1945, cinque giorni prima della Liberazione. La fine della guerra era nell’aria. Radio Londra aveva trasmesso la notizia della ripresa delle attività alleate sul fronte italiano e informava regolarmente sulla loro rapida avanzata.
La guerra, per noi, stava veramente per finire. Tutti ne eravamo a conoscenza.
Proprio a quattro passi da casa nostra, lungo la Strada Cairo-Cortemilia, a Castelletto Uzzone, e per l’esattezza nei pressi della frazione di Poggiolo, era stanziato un distaccamento partigiano appartenente alla Brigata Savona. Meno di quaranta uomini.
Sapevano che gli avversari stavano ormai capitolando. Con tutta probabilità, sentendosi ormai al sicuro e ritenendo che i loro avversari non avessero più intenzione di fare attacchi a sorpresa, avevano anche allentato le misure di sicurezza.
Invece, proprio nel pieno della notte del 20 aprile, cinquanta italiani della GNR, comandati dal capitano Giovanni Ferraris, assieme ad altri cinquanta del 3° Gruppo Esplorante della Divisione San Marco, comandati dal tenente colonnello Vito Marcianò, partendo da Monesiglio, nell’altra valle, dove erano stanziati, giunsero a Poggiolo, attraverso i boschi, senza essere avvistati. Si appostarono strategicamente e, fatto giorno, attaccarono incominciando a sparare dal basso. Presi alla sprovvista i partigiani tentarono lo sganciamento verso l’alto, ma finirono sotto i colpi di quelli che si erano appostati al di sopra. Risposero al fuoco, ma dovettero soccombere.
Molti caddero feriti e, come dimostra il referto medico legale, furono uccisi e sfigurati da violenti colpi inferti sulla testa con scarpate e con il calcio dei fucili. Fu un’orrenda carneficina.
Le vittime furono:
Remo Briata, di Cairo Montenotte
Aldo Coccoli, da Brescia
Alessandro Caroli, da Rimini
Silvio Catellani, da Reggio Emilia
Pietro Guarriento, da Agna PD
Leonardo Nobili, da Gorgonzola
Salvatore Michele, da Lavello PT
Giuseppe Schipani, da Crotone
Vincenzo Verrando, da Bordighera.
Si salvarono soltanto quei partigiani che tentarono la fuga verso Cortemilia.  Undici di quelli che si avviarono verso l’alto, rimasti senza munizioni, dovettero arrendersi.
Fatti prigionieri, per loro iniziarono subito feroci sevizie. Portati a Monesiglio, il giorno dopo sono stati fucilati uno per volta e seppelliti in una fossa comune. Soltanto uno di loro, riconosciuto come un ex milite della San Marco, fu impiccato al ponte di Monesiglio.
Questi i loro nomi:
Guido Ferraro, da Cairo Montenotte
Francesco Arcidiacono, da Palermo
Luciano Caponi, da Milano
Osvaldo Cigliuti, da Savona
Nicola De Palma, da Bari
Anselmo Dodi, da Reggio Calabria
Luigi Gibia, da Vercelli
Bruno Manzini, da Reggio Emilia
Nino Mezzadra, da Pavia
Arturo Saetti, da Rovigo
Salvatore Impellizzeri, da Enna
Cinque giorni dopo finiva la guerra. Qualcuno di loro la fece franca. Altri furono catturati e processati dalla Corte d’Assise di Cuneo, accusati di una lunga lista di delitti. Alcuni furono condannati a morte, altri all’ergastolo. Poi intervennero gli atti di clemenza e tornarono tutti liberi.
Gianfranco Sangalli, I ricordi di un vecchio bacucco, Le Rive della Bormida (immagini di Cairo e dintorni), 9 dicembre 2019

Nella giornata di ieri sabato 4 giugno si è svolta nel paese di Castelletto Uzzone la Cerimonia in ricordo dell'eccidio nazifascista, avvenuto il 20 aprile 1945 e dove caddero dieci partigiani combattenti.
La Cerimonia è iniziata  con la deposizione di una corona di alloro da parte del Sindaco di Castelletto Annamaria Molinari e con l'onore ai caduti alla presenza di un picchetto del Corpo Militare della Croce Rossa e la benedizione del cippo partigiano.
La seconda parte della Cerimonia si è svolta nella Sala Consigliare, dopo i saluti Istituzionali da parte del Sindaco di Castelletto Uzzone e dei rappresentanti dei Comuni di Cairo Montenotte con l'Assessore Alberto Poggio e del Consigliere Comunale in rappresentanza del Comune di Vado Ligure Sergio Verdino, si sono succeduti gli interventi delle Sezioni Anpi di Cairo Montenotte e Vado Ligure, dove è stato ricordato il partigiano Schipani Giuseppe "audace"e il partigiano Dario Ferrando "Aldo", ancora vivente.
Al termine della Cerimonia sono stati consegnati alcuni riconoscimenti da parte dell'Amministrazione Comunale e dell'Anpi ai famigliari del partigiano Schipani Giuseppe e degli altri sopravvissuti a quel barbaro eccidio avvenuto a pochi giorni della Liberazione.
Redazione, Vado Ligure: Cerimonia in ricordo dell'eccidio partigiano di Castelletto Uzzone, Savona news.it, 5 giugno 2016

Monesiglio (CN). Fonte: mapio.net

Lanfrit Gioacchino, milite della Compagnia OP di Imperia.
Deposizione di Lanfrit Gioacchino del 20.3.1946: Un giorno siamo partiti per un’azione di rastrellamento nella zona di Castelletto Uzzone. Giunti nei pressi di Pruneto, il comandante della compagnia, Capitano Ferraris, divise la compagnia in due gruppi, del primo, comandato dallo stesso Ferraris, facevo parte anch’io. Il gruppo si portò su una altura, vicino ad una casa. In questa operazione il Ferraris, traendo in inganno i partigiani, li aggirò alle spalle, facendo capire loro che eravamo anche noi partigiani. Quando i partigiani si sono accorti del trucco hanno ingaggiato battaglia ma ormai era troppo tardi. Nel combattimento trovava la morte il milite Zappella Pietro e rimaneva ferito il milite Agnello Giuseppe. Da parte partigiana rimaneva una decina di morti mentre altri 11 vennero catturati e accompagnati a Monesiglio, ove vennero rinchiusi in una stanza. Io mi recai a vedere i catturati e vidi che Zappella Lorenzo, fratello del nostro caduto, con il milite Agnello li picchiavano barbaramente. Il Ferraris interrogò quindi i prigionieri ed uno di questi fu accompagnato sul ponte di Monesilio ove venne impiccato e ricordo che gli esecutori furono i militi Zappella, Bardelloni Primo e Agnesi Luigi. Gli altri dieci prigionieri vennero fucilati a gruppi di cinque nei pressi del cimitero di Monesilio e messi poi in due fosse comuni.
Leonardo Sandri, Processo ai fascisti: una documentazione, Vol. 9 - Liguria: Imperia - Savona - La Spezia, StreetLib, Milano, 2019 
 
Nel 1943 il Tenente Giovanni Ferraris, nato nel dicembre del 1916, si trovava ad Imperia nel 41° Reggimento di Fanteria. Dopo gli avvenimenti dell'8 settembre fu fra i primi e più convinti ad aderire alla R.S.I. - Il ricostruendo partito fascista provvide subito a nominare il tenente colonello Bussi comandante della G.N.R. di Imperia e questi affidò al tenente Ferraris il comando di una costituenda Compagnia di Ordine Pubblico.
La C.O.P. aveva il compito primario di dare la caccia ai partigiani e di scovare i renitenti alla leva che si tenevano nascosti.
La compagnia raggiunse ben presto un organico di 150 unità, ma gli elementi su cui il Ferraris poteva realmente fare pieno affidamento non superarono mai le trenta unità.
Questi erano veramente militi fedelissimi ed a loro vennero imputate le maggiori nefandezze compiute nel prosieguo delle loro attività.
Pur dipendendo gerarchicamente dal Capo della Provincia, la C.O.P. godeva della più ampia autonomia decisionale ed ebbe modo di dimostrarlo molto presto, distinguendosi nella lotta contro i partigiani. Questo valse al Ferraris la promozione a Capitano. Gli stessi tedeschi, ammirati dalla sua audacia, gli conferirono più di una onoreficenza.
Il reparto O.P. aveva stanza a Chiusavecchia, dove rimase per lunghi mesi. Era però dotato di una grande mobilità e per lunghi mesi creò il terrore nella zona, massacrando, impiccando e uccidendo nel modo più truce i partigiani che catturava.
Su ordine del comando tedesco la maggior parte Compagnia O.P. nel gennaio del 1945 viene trasferita a Monesiglio per combattere i partigiani delle Langhe. Anche in questa zona instaurano il terrore fra la popolazione civile, bruciando case isolate e intere borgate, uccidendo partigiani. La loro ultima impresa a Poggiolo di Castelletto Uzzone dove sorprendono un gruppo di partigiani, ne massacrano subito dieci, altri undici vengono catturati e giustiziati il giorno dopo a Monesiglio. Uno di loro, riconosciuto come ex commilitone, viene impiccato al ponte del paese. Dopo cinque giorni era il 25 aprile!
ghirghi, La banda Ferraris, La Resistenza in provincia di Savona e zone limitrofe, 5 ottobre 2009

giovedì 16 dicembre 2021

Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese

Una vista dal Colle del Melogno - Fonte: Luca Magini su Mapio.net

Ai primi di settembre del 1944 sembrò per qualche tempo che la liberazione potesse essere vicina. Gli Alleati erano sbarcati in Provenza il 15 agosto, provocando un rapido crollo delle posizioni tedesche in tutta la Francia meridionale. Sembrava ora ragionevole attendersi un’offensiva generale degli americani attraverso i passi alpini, approfittando della stagione ancora clemente e dell’appoggio delle forti formazioni partigiane piemontesi e liguri, che certo non sarebbe mancato. Ma gli strateghi angloamericani avevano altri progetti: ritenendo prioritario l’attacco allo schieramento nemico tra i Vosgi e i Paesi Bassi, fermarono le loro truppe su una linea che lasciava il confine franco-italiano e l’intera valle del Roia saldamente in mani tedesche. Siffatta scelta, forse opportuna dal punto di vista militare, condannò tutto il Nord Italia ad un nuovo inverno di occupazione, ma, probabilmente, gli evitò le immani distruzioni causate dai combattimenti nel resto del Paese.
Nel clima di fibrillazione di quei giorni, alimentato ad arte dalla trionfalistica propaganda di Radio Londra, i partigiani imperiesi della Prima Zona ligure, credendo fosse giunta l’”ora x”, abbozzarono una calata insurrezionale sui centri della costa che venne stroncata sul nascere da un vasto rastrellamento tedesco talmente tempista da risultare sospetto <1.
I savonesi, meno numerosi ed organizzati oltre che più distanti dal fronte, continuarono la loro attività di guerriglia con il consueto vigore, ma senza esporsi in arrischiate azioni su grande scala. Dopotutto, lo stesso Comando Generale delle Brigate Garibaldi avrebbe rammentato pochi giorni dopo che “L’ora x è già suonata” <2 e che pertanto l’obiettivo principale dei partigiani non doveva consistere solo nel prepararsi ad una futura insurrezione, bensì nell’attaccare giorno per giorno il nemico senza mai concedergli tregua <3.
A Savona come altrove, questa direttiva giunse a conforto di una linea d’azione ormai perseguita da mesi.
La tarda estate vide un contemporaneo fenomeno di rafforzamento quantitativo e qualitativo delle unità partigiane di montagna e di città e un serio indebolimento dei corpi armati della RSI: in particolare la divisione “San Marco” continuava ad essere falcidiata dalle diserzioni, come rilevavano le scarne note informative della GNR <4. Molti “marò” erano spinti a “tagliare la corda” dalle insistenti voci di un prossimo ritorno in Germania della divisione, tanto che il 14 settembre il generale Farina dovette intervenire di persona con un ordine del giorno rivolto ai suoi uomini che recitava testualmente: ”Le voci messe in giro sono false ed hanno l’unico scopo di far perdere la fiducia a quelli fra noi che sono più deboli. Io so che qualcuno ha perso la testa e, lasciandosi ingannare dalla propaganda avversaria, si è messo in condizioni di pagare con la propria vita il disonore e la stupidaggine di aver creduto ai traditori. La propaganda nemica e i traditori interni hanno ora di nuovo fatto subdolamente circolare la voce che i reparti italiani ritornerebbero oltr’Alpe, in Germania. Io sono uomo di parola e sono gran signore del mio onore e di quello della divisione “San Marco”. Malgrado tutte le debolezze già dimostrate, io do fiducia a tutti e assicuro che noi abbiamo il diritto e il dovere di rimanere tutti al nostro posto di combattimento. Nessuno dubiti. Nel territorio di guerra italiano noi continueremo fino all’ultimo a combattere” <5.
Le rassicurazioni di Farina trovarono tuttavia orecchie sorde a qualsiasi richiamo, mentre le paure e le lamentele dei “sammarchini” erano oggetto della più sentita (ed interessata) comprensione da parte degli uomini e delle donne della Resistenza savonese. Un quadro realistico ed impressionante dello sbandamento attraversato dalla grande unità comandata da Farina è dato dal furibondo rapporto stilato dal generale tedesco Ott, ispettore dei gruppi di addestramento della Wehrmacht presso le divisioni dell’esercito della RSI, che il 16 settembre aveva fatto visita alla “San Marco”, riportandone un’impressione terribile. A detta di Ott, entro la metà del mese i disertori della “San Marco” erano già qualcosa come 1400 (il 10% dell’intera divisione!). Più in dettaglio, Ott notava come le diserzioni raggiungessero punte impressionanti (20%!) nelle truppe addette ai rifornimenti e nelle piccole pattuglie, mentre i reparti regolari parevano tenere in misura accettabile. Per ovviare a tale disastro, Ott avanzava una serie di proposte quali la sorveglianza di militari tedeschi su tutte le operazioni di rifornimento, fucilazioni, presa di ostaggi e invio di civili in lager per stroncare l’istigazione a disertare, un controllo meticoloso degli uomini che portasse all’eliminazione degli ”elementi cattivi” in particolare tra gli ufficiali e i nuovi arrivati, l’impiego del controspionaggio divisionale (sezione Ic) per la sorveglianza degli ufficiali e dei rapporti della truppa con i civili, un deciso attivismo nella lotta antiribelli per incoraggiare gli uomini, che dovevano comunque essere tenuti sempre impegnati, il ristabilimento di una disciplina ferrea e un attento esame del comportamento degli ex Carabinieri impiegati come polizia militare <6.
Tanta attenzione era pienamente giustificata dalle abnormi dimensioni del fenomeno e dalla crescente aggressività delle formazioni partigiane, che si erano ormai scrollate di dosso qualsiasi atteggiamento di tipo attendista. E se tra le aspre montagne liguri il pericolo era sempre in agguato, nel capoluogo e negli altri centri della costa la sicurezza era un fattore di giorno in giorno più aleatorio a causa dell’inarrestabile crescita organizzativa delle SAP, che aveva consentito il sorgere di nuovi distaccamenti e il rafforzamento di quelli esistenti, nonché l’estensione dell’area di attività dei gruppi sapisti.
Le zone che videro svilupparsi nuovi nuclei SAP furono quelle ad occidente di Savona. A Quiliano, sede sorvegliatissima di ben due comandi reggimentali della “San Marco”, e nella frazione di Valleggia, sorsero a fine agosto i distaccamenti “Rocca” e “Baldo”, forti di un pugno di uomini ciascuno, ma validamente appoggiati dai civili. La zona di Quiliano era nevralgica per i garibaldini, perché da essa e dalla Valle di Vado passava la gran parte dei rifornimenti di armi e volontari destinati alla Seconda Brigata <7. Pullulante di spie, doppiogiochisti, disertori, staffette e delatori, il Quilianese divenne rapidamente un fulcro della guerra civile, e il clima di violenza che vi si instaurò a partire dall’estate permase ancora a lungo dopo la Liberazione. Nella confinante area di Vado i sapisti, non ancora organizzati in brigata, ottennero in agosto e settembre notevoli successi nell’opera di reclutamento di “sammarchini” da inviare in montagna con armi e munizioni. A Porto Vado, a Sant’Ermete e nella Valle di Vado interi presidi, forti di decine di uomini, si squagliarono per le diserzioni e i continui attacchi dei sapisti finalizzati al recupero degli uomini <8. Come avveniva regolarmente in questi casi, una buona metà dei “marò” che disertavano si unì ai partigiani della Seconda Brigata; i restanti, dopo breve tempo, venivano lasciati andare sulla parola, e prendevano la strada di casa. In seguito al controllo sempre più stretto esercitato sulla zona a dispetto dei rabbiosi rastrellamenti, i sapisti furono poi in grado di creare addirittura un ospedaletto da campo per i garibaldini feriti, alloggiato in una stalla del paese di Segno <9. Se a Spotorno, sede del Comando generale tedesco per la Riviera di Ponente, l’attività dei piccoli nuclei ancora non formalizzati si espletava nell’accompagnamento dei disertori della “San Marco” al distaccamento “Calcagno”, a Finale e a Pietra Ligure operavano i distaccamenti SAP “Simini” e “Volpe” (poi “Fofi”), che il 28 agosto formarono la brigata “Perotti”. Questa unità nacque per coordinare i gruppi fondati da “Basilio” (Orso Pino), precedentemente organizzati come GAP, e poté subito fare affidamento sul personale dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, attivo centro nevralgico della resistenza al fascismo repubblicano <10.
Per la Seconda Brigata il mese di settembre significò una lieve diminuzione dell’attività <11 accompagnata da una rapida espansione degli organici. Infatti, stando ai documenti, non meno di 553 uomini risultano essere entrati a far parte dei vari distaccamenti garibaldini durante il mese in questione (e si trattò del dato mensile più elevato in assoluto) <12, anche se bisogna tener conto dei passaggi di volontari da un’unità all’altra. Almeno la metà erano disertori della “San Marco” <13, che andarono a formare il grosso dell’organico di tre distaccamenti, il “Minetto”, poi trasferito nelle Langhe alle dipendenze della 16a Brigata Garibaldi a metà ottobre <14, il “Bruzzone” ed il “Maccari”. Significativa è la quasi totale assenza di disertori della “San Marco” nei ranghi del distaccamento “Calcagno” in questo periodo: da un lato il “distaccamento modello” era già sufficientemente fornito di uomini atti al combattimento, dall’altro il suo accampamento fungeva sovente da centro di smistamento delle nuove reclute verso le altre unità garibaldine. In tal modo la “purezza” ideologica ed etnica (i volontari erano pressoché tutti di Savona, Vado e Quiliano) della “punta di diamante” del partigianato garibaldino savonese si manteneva intatta.
Nel complicato e a tratti oscuro quadro della formazione dei nuovi distaccamenti riveste un certo interesse il caso del “Moroni”, che viene citato a partire dall’8 settembre 1944. Questo distaccamento si trasformò ben presto in un’autentica succursale ligure dell’Armata Rossa perché tra il 15 ed il 20 del mese vi furono incorporati ben 22 cittadini sovietici <15, soldati non più giovanissimi che con tutta probabilità servivano controvoglia nella Wehrmacht come Hiwis (Hilfswillige, ossia “volontari” reclutati nei lager in cui a milioni morivano di fame i prigionieri di guerra sovietici). Non si trattava dell’unico distaccamento “internazionalista”: anche il “Revetria” era ben fornito di russi, polacchi e perfino tedeschi ed austriaci antinazisti o più semplicemente stanchi di battersi per qualcosa in cui non credevano <16.
L’attività armata dei garibaldini, pur meno intensa che nel mese precedente a causa dei problemi organizzativi accennati sopra, si mantenne su livelli tali da perpetuare lo stato d’emergenza in tutta la provincia. In più, come vedremo in dettaglio, il raggio d’azione della Seconda Brigata si allargò a raggiera fin verso l’Albenganese, l’Alta Val Tanaro e le Langhe. I primi ad attaccare furono i volontari del neonato distaccamento “Minetto”, che il giorno 2 prelevarono il presidio “San Marco” di Pietra Ligure (19 uomini) con tutte le armi in dotazione <17, e i veterani del “Calcagno”, che ai primi del mese <18 piombarono di sorpresa con quattro squadre sul Semaforo di Capo Noli, ottenendo la resa di sedici “marò” e recuperando un ingente quantitativo di materiale.
Tre giorni dopo il Comando Brigata corse un rischio gravissimo in seguito ad un’improvvisa puntata nemica. In piena notte un forte contingente misto (forse 200 uomini, probabilmente di meno) composto da SS e Feldgrau (polizia militare tedesca) con cani poliziotto scese furtivamente dalla cima del Settepani nel tentativo di sorprendere il Comando acquartierato presso la base del distaccamento “Maccari”, nelle vicinanze del paese di Osiglia, ma non riuscì ad eliminare le due sentinelle senza far uso delle armi da fuoco, e ciò consentì ai garibaldini di battere rapidamente in ritirata senza ulteriori perdite, ripiegando sul campo del “Nino Bori” dopo una lunga marcia di trasferimento <19.
Anche il “Revetria” sfuggì ad un rastrellamento compiuto dagli “Arditi” della “San Marco”, che ne incendiarono l’accampamento; poco dopo, rinforzato dalla squadra GAP del Comando Brigata, il distaccamento passò al contrattacco infliggendo serie perdite al nemico in ritirata <20.
Entrambe le puntate nazifasciste erano ispirate ad una nuova dottrina della controguerriglia che prevedeva attacchi limitati ma improvvisi e frequenti in luogo di grandi rastrellamenti condotti con forze preponderanti ma poco mobili <21. In realtà la lotta antipartigiana fu poi condotta applicando di volta in volta il sistema più adatto in relazione all’importanza dell’obiettivo e alle forze a disposizione dei rastrellatori. Il 10 agosto un importante successo fu riportato dal “Giacosa”, che si impadronì di una polveriera tra Millesimo e Cengio catturando ben 43 “marò” e rastrellando armi e munizioni in quantità <22. Il giorno successivo vide all’attacco il distaccamento “Bruzzone”, che guidato da “Ernesto” (Gino De Marco) e “Gelo” (Angelo Miniati) assaltò una postazione tedesca a Nucetto, in Val Tanaro, uccidendo due soldati <23. Il 14 fallì un attacco portato dal distaccamento “Rebagliati” contro il presidio di Calice Ligure <24: rimase sul terreno il partigiano “Falco” (Franco Leonardi, romano, classe 1925 <25).
Proprio a Calice era acquartierata la Controbanda della “San Marco”, un reparto specializzato nella repressione antipartigiana alle dipendenze del III° Battaglione del VI° Reggimento. Si trattava inizialmente di un centinaio di “marò”, scelti tra i più decisi e fanatici e comandati dal tenente Costanzo Lunardini coadiuvato dal sottotenente Fracassi <26. Armati ed addestrati in modo eccellente, gli uomini della Controbanda di Calice iniziarono subito un serrato duello con i garibaldini locali e in particolar modo con il distaccamento “Rebagliati”, che a più riprese pagò a caro prezzo la ferocia e l’astuzia di questi commandos, usi ad ogni atrocità e più volte travestiti da partigiani per ingannare i civili.
Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese.
[NOTE]
1.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 161.
2.    Ibidem.
3.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 77.
4.    Cfr. ibidem, pp. 77 - 78 e G. Gimelli, op.cit., vol. I, p. 162.
5.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit, p. 78.
6.    Ibidem, p. 74.
7.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
8.    Ibidem, vol. I, pp. 74 - 75.
9.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 106.
10.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 75.
11.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
12.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 76.
13.    E. Caviglia, op. cit., p. 490.
14.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 107.
15.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
16.    Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, INSMLI - Istituto Gramsci - Feltrinelli, Milano, 1979, vol. I, p. 281.
17.    Ibidem, vol. I, pp. 293 - 295.
18.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
19.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 165 - 166.
20.    G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Mondatori, Milano, 1995, p. 261.
21.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
22.    Ibidem, p. 81.
23.    Per lo sciopero del 1° marzo 1944 vedi in ibidem, pp. 84 - 90; cfr. G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 188 - 191.
24.    Addirittura, pochi giorni prima, tutti i questori delle province interessate dallo sciopero si erano riuniti a Valdagno.
25.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 108.
26.    Per la strage di Valloria, vedi R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., pp. 90 - 92.
Stefano d’Adamo, "Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45)", Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000
 
La Controbanda! Storia e operazioni del III Gruppo Esplorante Arditi e della Controbanda di Calice Ligure ‐ Divisione F.M. San Marco - Edito da ITALIA Storica, Genova 2014 - Formato 17x24, 300 pagine, più di 150 illustrazioni b/n e colori e riproduzioni di documenti e due mappe...
Sadici torturatori di partigiani e rastrellatori di civili inermi, o una delle migliori unità per la controguerriglia delle forze italo-tedesche in Italia nel 1943-1945? Il III Gruppo Esplorante della Divisione Fanteria di Marina “San Marco” dell’Esercito Nazionale Repubblicano, derivante dal 10° Reggimento Arditi e comandato dal Tenente Colonnello Vito Marcianò, contese con successo l’entroterra ligure e le Langhe ai partigiani dal 1944 al 1945, non subendo le tattiche partigiane, con il loro stillicidio di imboscate e colpi di mano, ma rivoltando verso le bande queste stesse tattiche, affinate e messe in pratica con la spietata efficienza militare tipica dei reparti Arditi. Il Gruppo operò prima in Liguria alle dipendenze della 34. Infanterie-Division del Generale Theobald Lieb, che seppe per primo sfruttarne appieno le capacità offensive, e poi rientrò alla Divisione “San Marco”, mantenendo però sempre, dato l’altissimo spirito di corpo e rendimento degli Arditi e il carisma del loro comandante, una netta indipendenza d’azione dalla Grande Unità. Gli Arditi del Comandante Marcianò divennero presto un vero incubo per le formazioni partigiane, costantemente individuate e braccate dalle pattuglie a lungo raggio del Gruppo Esplorante, capaci di penetrare sin nei rifugi ritenuti più sicuri dalle bande. Le operazioni del Reparto sono qui ricostruite in dettaglio attraverso un bilanciato confronto di spesso contrastanti fonti edite e d'archivio, tra le quali il verbale del processo al Comandante Marcianò e a diversi membri dell'Esplorante tenuto ad Asti nel 1947, qui riprodotto per la prima volta, integrate dalle voci relative al Gruppo del Diario di guerra della Divisione e da un resoconto sulle sue azioni scritto nel dopoguerra dal Generale Comandante della “San Marco” Amilcare Farina. Un capitolo tratta poi il secondo reparto specializzato nella controguerriglia della Divisione “San Marco”, ossia la “Controbanda” del Tenente Costanzo Lunardini del III Battaglione del 6° Reggimento Fanteria di Marina, accasermata a Calice Ligure nel 1944-1945. Altre sezioni del libro includono le uniformi, i distintivi e l'equipaggiamento dei reparti in oggetto, le decorazioni al Valor Militare concesse, le tenute da controinterdizione nei conflitti contemporanei e una vasta iconografia, spesso inedita.
a cura di Andrea Lombardi, Zimmerit Forum