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domenica 16 aprile 2023

Cenni sulla Resistenza in provincia di Parma

Fornovo di Taro (PR). Fonte: Wikipedia

Nei concitati giorni della proclamazione dell’Armistizio anche il Comitato d’azione antifascista parmense intensifica gli sforzi. In una riunione tenutasi a Mariano il 9 settembre, nella villa del professor Angelo Braga, viene presa la decisione di coordinare gli sforzi degli esili gruppi antifascisti presenti sul territorio e cominciare ad organizzare una concreta opposizione agli occupanti <8. Da subito il nascente CLN si impegna per offrire aiuto e sostegno logistico ai militari alleati in fuga dai campi di prigionia, cercare armi, imbastire una rete di contatti. Il 15 ottobre, nello studio dell’avvocato Francesco Micheli, dirigente del Partito Popolare ed esponente di spicco dell’antifascismo parmense, si costituisce formalmente il Comitato di Liberazione Nazionale di Parma, struttura provinciale di organizzazione e coordinamento della nascente lotta antifascista. Ne fanno parte comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani, liberali, azionisti <9.
Il CLN così costituito deve preoccuparsi di imbastire un’efficiente rete di comunicazioni con i centri del movimento partigiano. Ad attendere a questi compiti sarà un esercito di staffette, che costituiranno, per tutti i mesi della lotta partigiana, i nodi fondamentali di una rete clandestina di comunicazione e informazione. Le staffette sono tradizionalmente, nella memorialistica sulla Resistenza, donne. Per loro era forse più semplice muoversi liberamente sul territorio, destando minori sospetti dei colleghi maschi. Un compito importante che però non esaurisce la varietà dei ruoli ricoperti dalle circa 460 resistenti riconosciute in Provincia di Parma che, per tutti i mesi della lotta partigiana, cureranno feriti, faranno opera di propaganda, consegneranno stampa clandestina, organizzeranno manifestazioni pubbliche, prenderanno parte a combattimenti <10.
All’indomani dell’Armistizio si pongono anche le basi per la formazione delle squadre SAP (Squadre di Azione Patriottica) e GAP (Gruppi d’Azione Patriottica), vere e proprie cellule partigiane clandestine dislocate in città, composte da persone che, anziché abbandonare le proprie case e unirsi alle bande della montagna, continuano a vivere nella propria dimora e mantenere un normale impiego, dietro cui mascherano l’attività di guerriglia, sabotaggio e spionaggio.
Al progressivo consolidamento delle forze antifasciste si accompagna la rapida stabilizzazione del potere tedesco in città: tra settembre ed ottobre il controllo militare e amministrativo della provincia di Parma passa nelle mani del Militärkommandatur 1008, l’amministrazione militare tedesca, stabilitasi a ridosso della Cittadella, tranquillo quartiere residenziale lontano dai possibili obiettivi dei bombardamenti alleati <11.
[NOTE]
8 Gorreri D., Parma ’43. Un popolo in armi per conquistarsi la libertà, Parma, Step, 1975.
9 Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, I caduti della Resistenza di Parma 1921-1945, Parma, Step, 1970, p. 159.
10 Pieroni Bortolotti F., Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia Romagna: 1943-1945, Milano, Vangelista, 1978.
11 Klinkhammer L., Una città sotto l’occupazione tedesca: il caso di Parma, in «Storia e documenti», 5, 1999.
Iara Meloni, Occupazione tedesca e lotta di Liberazione a Parma: una breve introduzione storica in Stefano Rotta, Partigiano Carbonaro. Un ragazzo nella Prima Julia, Parma, Graphital, 2015

In questo capitolo ci si vuole soffermare e analizzare in che modo era strutturato il movimento partigiano parmense e che tipo di rapporti intercorrevano tra i comandi (e organismi) provinciali e quelli regionali o nazionali. Non vuole essere questa la sede per analizzare le caratteristiche e le criticità dei Comitati Nazionali come il CLN o il CLNAI, che sono invece stati ampiamente ed egregiamente trattati da storici come Roberto Battaglia, Claudio Pavone o Santo Peli. <46 Al di là quindi degli organi nazionali, ciò che interessa è focalizzarsi su quelli locali, cercando di dipanare la complicata rete di rapporti interni alla provincia di Parma ed esterni ad essa.
Nel precedente capitolo si è visto come il movimento resistenziale, sin dal suo esordio, sia stato guidato da un organizzazione a carattere nazionale, il CLN <47 appunto, che rappresentava quindi il vertice delle gerarchie di comando. Da questo organo si diramavano e si collegavano tutti i vari Comitati Nazionali sorti nelle città; nel caso di Parma, ricordiamo, questo si formò il 15 ottobre 1944. La fitta rete di collegamenti, non passava direttamente dal CLN nazionale a quelli locali, ma si rapportava anche con organi intermedi, a carattere regionale; per l’Emilia Romagna, era il caso del CUMER (Comando Unico Militare Emilia Romagna). La costituzione dei Comandi regionali si deve all’iniziativa comunista che propose, scrive Battaglia, “di trasformare le vecchie giunte militari in Comandi veri e propri, dotati della necessaria autonomia” <48. I Comandi regionali erano modellati sulla base del Comando Centrale, alle dipendenze del CLNAI, che nacque il 9 giugno 1944 con la costituzione del “Comando Generale per l’Alta Italia occupata del Corpo volontari della libertà” <49.
Alla costituzione del CVL, corrispose una spartizione delle competenze: sommariamente, le attribuzioni del CLNAI erano principalmente di natura politica, quelle del CVL, di carattere militare <50. Al pari di quello centrale, anche i Comitati di Liberazione provinciali e i Comandi locali si basavano su questa divisione. Nel caso parmense, si è visto come nel marzo del 1944, per motivi organizzativi, dal CUMER si formò la Delegazione Nord Emilia, con competenza sulle province di Parma, Reggio e Piacenza <51.  I contatti con il Comando Delegato avvenivano grazie alla costituzione a Fornovo, un paese della provincia parmense, di un Centro Collegamenti del Comando Nord Emilia, nel giugno 1944, affidato ai partigiani Bertini (Bruno Tanzi), Ferrarini (Enzo Costa) e Sergio (Alceste Bucci).
Per completare, sommariamente, il quadro dei rapporti tra la provincia parmense e gli altri organismi presenti sul territorio, è doveroso accennare anche alla presenza del Comando Alleato. Nonostante la scarna documentazione a riguardo, Leonardo Tarantini ci informa del fatto che i primi abboccamenti con gli Alleati risalivano al Natale del 1943. <52
I principali contatti con il Comando angloamericano avvennero per gli accordi relativi agli aviolanci; solo negli ultimi mesi prima della Liberazione, il Comando Alleato interverrà in una questione politica interna al Comando Militare parmense, questione che verrà analizzata successivamente, nel presente capitolo.
La gerarchia di comando non riguardava solo l’assetto nazionale, ma si riproponeva anche a livello provinciale. Nel caso di Parma, al pari delle altre città, il movimento era al suo interno rigidamente suddiviso. All’ultimo gradino della scala piramidale si collocavano le Brigate, gerarchicamente divise in Battaglioni, a loro volta suddivisi in Distaccamenti. Ogni reparto, ricordiamo, aveva il suo Comando composto dal Comandante, il Commissario, i rispettivi vice, l’Intendente e il Capo di Stato Maggiore. Salendo nella scala, al gradino intermedio, si posizionavano le Divisioni. Si tratta di raggruppamenti composti da diverse brigate, che si formarono nel parmense a partire dal febbraio 1945. Una relazione dell’ Ispettore del Nord Emilia, Umberto (Umberto Pestarini), ci informa sui motivi della riorganizzazione in Divisioni: “questo ultimo provvedimento, quello delle Divisioni, fa parte di un piano organico di riforma disciplinare e di dislocazione delle nostre forze […]”. <53 Naturalmente anche le Divisioni avevano il loro Comando. Infine al gradino più alto si trovava il Comando Unico Operativo, che coordinava le Brigate dipendenti e interagiva con i Comandi superiori. A differenza che per le vicine Piacenza e Reggio, a Parma si costituì la Delegazione del Comando Unico, operante nella zona ad Est della Cisa; in teoria essa era subordinata al Comando Unico, ma di fatto operava come autonoma. Sulle mansioni e le questioni inerenti al Comando Unico verrà dedicato un ampio paragrafo del capitolo.
[NOTE]
46 Cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza Italiana, S. Peli, Storia della resistenza in Italia, C. Pavone, Una guerra civile.
47 sarebbe più preciso dire il CLNAI dal momento che a partire dal maggio 1944, “si considera a tutti gli effetti rappresentante del governo legittimo” cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, p. 333.
48 R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, cit. p. 339.
49 Ibidem
50 Per un approfondimento cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, p. 439.
51 Il Comando Nord Emilia era così composto: Comandante: Mario Roveda (Bertola), Commissario: Emilio Suardi (Rinaldi), Vice Comandanti: Amerigo Clocchiatti (Lamberti) e Giovanni Vignali (Bellini), Ispettori: Enzo Costa (Ferrarini) e Bruno Tanzi (Bertini). Cfr. Fernando Cipriani, Guerra partigiana: operazioni nelle provincie di Piacenza, Parma e Reggio Emilia, p.7.
52 Cfr. L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, p. 67.
53 Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma (d’ora in poi AISRECP), Fondo Lotta di Liberazione, busta RI, fasc. QC, f. 19.

Costanza Guidetti, La struttura del comando nel movimento resistenziale a Parma, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2017-2018

A Parma l'attività militare cittadina fu pressoché inesistente fino al 24 febbraio 1944, quando in centro venne ucciso un milite della GNR. Queste difficoltà di azione trovano conferma da quanto riportato nella Relazione della 12ª Brigata Garibaldi, che attribuiva ai GAP unicamente un'azione di recupero di armi per la montagna nel febbraio 1944. Eugenio Copelli “Gianni”, catturato dalla polizia in un'osteria del quartiere Oltretorrente nella serata del 9 marzo 1944 e ucciso subito dopo, veniva indicato quale comandante dei GAP di Parma da un volantino che lo descriveva come un eroico gappista, ma alla prova delle carte d'archivio risulta che dal colpo di febbraio fino al 10 aprile - quando sulla strada Parma-Colorno venne ferito gravemente da un ciclista un milite della Gnr - non si verificò più nessun attentato. Un ultimo colpo di coda del gappismo parmense si ebbe tra i mesi di maggio e luglio 1944, quando vennero segnalate dai Notiziari della GNR alcune sparatorie compiute da ignoti in bicicletta contro militi della RSI.
Maria Grazia Conti, Gruppi di azione patriottica (GAP) in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza nell’Emilia Occidentale, Progetto e coordinamento scientifico: Fabrizio Achilli, Marco Minardi, Massimo Storchi, Progetto di ricerca curato dagli Istituti storici della Resistenza di Parma, Piacenza e Reggio Emilia in Rete e realizzato grazie al contributo disposto dalla legge regionale n. 3/2016 “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento”

Nella provincia di Parma le SAP si organizzarono a partire dall'estate del 1944 nella zona della bassa parmense limitrofa ai paesi di Colorno, Roccabianca, San Secondo e Mezzano di Sotto. Durante l'estate esse disarmarono alcune caserme, effettuarono frequenti sabotaggi alla rete telefonica, alle linee ferroviarie e ai cartelli stradali e sparsero sulle principali vie di comunicazione chiodi antipneumatici per bloccare i mezzi nemici, senza però riuscire ad innescare un movimento di massa nelle campagne circostanti. Queste problematiche furono denunciate nel novembre 1944 proprio dal Comando Terza zona che, in una nota al Comando generale delle brigate Garibaldi, lamentava «l'attendismo» delle comunità locali e la sconnessione esistente tra lotta militare e lotta politica. Sempre nel primo autunno del 1944 cominciò ad esserci traccia di nuclei sappisti anche nella zona a sud della via Emilia, ai bordi della città, ma le azioni, anche in questo caso, non andavano oltre qualche disarmo. Come è noto, i grandi rastrellamenti dell'inverno del 1945 costrinsero le SAP a ritirarsi in montagna per impedire gravose perdite di uomini, lasciando la pianura sotto il controllo dei nazifascisti.
Maria Grazia Conti, Squadre di azione patriottica (SAP) in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza... op. cit.

sabato 22 ottobre 2022

Di tanto in tanto i briganti neri attraversavano Bologna su camioncini

Bologna: Via Malaguti. Fonte: mapio.net

Ai primi del dicembre 1944, le forze tedesche e fasciste di Bologna, riavutesi degli scacchi subiti il 7 ed il 15 novembre dello stesso anno, erano passate decisamente al contrattacco con notevole successo.
Particolarmente attive erano le forze di polizia dirette dal Questore Fabiani, che si era trincerato nel grande palazzo d’angolo fra via Rizzoli e via Castiglione, e da quel suo fortilizio dirigeva un’azione accorta e spietata contro i partigiani.
L’aspetto della città era mutato e si era trasformato in quello di una piazzaforte. Tutte le vie d’accesso al nucleo urbano erano state chiuse da muri e da reticolati; soltanto in corrispondenza delle porte era rimasto un passaggio per il tram e per gli autoveicoli, sorvegliato da soldati tedeschi e da poliziotti italiani. Le caserme delle brigate nere, la casa del fascio, la residenza del Questore e tutti gli uffici pubblici in genere erano cinti di filo spinato, con opere di protezione in muratura fornite di feritoie, con postazioni di mitragliatrici, con riflettori, con cavalli di frisia, che sbarravano tratti di strada.
Di tanto in tanto i briganti neri attraversavano la città su camioncini, tenendo le armi automatiche puntate sui passanti. I tedeschi avevano dichiarata zona proibita, « Sperrzone », per i loro soldati la città vera e propria e così era ben rarò che se ne incontrasse uno; ritenevano molti che il comando germanico avesse voluto chiudere nella «Sperrzone» partigiani e fascisti perchè si distruggessero a vicenda. Si sussurrava anche che Kesserling avesse inviata a Bologna una compagnia di carristi tedeschi per la lotta antipartigiana e che questa compagnia avesse debuttato, in modo veramente non molto felice, nei combattimenti della Bolognina.
Uscendo dalla Città e spingendosi alla periferia, sulle strade principali che conducevano al fronte, distante pochi chilometri dal lato dell’appennino e parecchi da quello della Romagna, passavano spesso isolati di giorno, in colonna di sera, dei militari tedeschi per lo più a piedi, qualche volta in bicicletta. Alla notte transitavano su carrette trainate da cavalli, dando un’impressione di miseria, di sfacelo e di cocciutaggine a chi ricordava le eterne colonne motorizzate, che pochi mesi prima avevano percorso le stesse strade per raggiungere il fronte di Cassino.
Nei quartieri spesso diroccati, posti fra le vie principali, erano sistemati i reparti partigiani, che cercavano faticosamente di riorganizzarsi e di sfuggire al controllo delle varie polizie.
Per poter dirigere la lotta della nostra Brigata (7ª G.A.P.) da un luogo relativamente sicuro, trasportai il comando in via Malaguti N. 31, in un appartamento all’ultimo piano. Avevo scelto quel domicilio perchè si trovava fuori dalla cinta urbana ed in un angolo morto di Bologna; infatti via Malaguti si unisce a via Zanolini e assieme formano un’ansa che congiunge due punti del viale di circonvallazione fra Porta Zamboni e porta San Vitale. La casa scelta era l’ultima di via Malaguti, si trovava proprio all’estremità dell’ansa e, non essendovi quasi mai passaggio di persone per quel punto della strada, si poteva agevolmente controllare la via e, in certo qual modo, prevenire sorprese ed appostamenti polizieschi.
Non appena mi fui trasferito, incominciò il lavoro di riorganizzazione della Brigata che, dal 15 novembre ai primi di dicembre era entrata in crisi. I tedeschi infatti, dopo aver catturato un gruppetto di sappisti, ne uccisero il comandante Mosca ed alcuni componenti, risparmiando coloro che accettarono di entrare al loro servizio, E questi ultimi, scortati da agenti delle SS, presero a pattugliare le vie della città, per far arrestare ogni partigiano che eventualmente incontrassero e riconoscessero. Questo rendeva molto pericoloso ogni spostamento di uomini e poneva in difficoltà anche i collegamenti.
Era in quei giorni ben viva in tutti l’angosciosa impressione suscitata dall’assassinio di quattro notissimi cittadini (prof. Busacchi, avv. Maccaferri, avv. Svampa, industriale Pecori) e già si sussurrava che erano pronte liste di proscrizione per uccidere o deportare in Germania i più eminenti professionisti.
In quest’atmosfera d’incertezza riprendemmo il nostro lavoro; come obbiettivo immediato avevamo la ricerca dei nostri sbandati, il loro inquadramento nei reparti e la sistemazione di questi ultimi in luogo sicuro, perchè potessero riacquistare rapidamente la loro efficeriza combattiva.
Stabilimmo anche un comando accessorio in via Ca’ Selvatica 8/2, da Nazzaro, dove risiedeva l’ufficiale di collegamento Giacomo. Al mattino del 5 dicembre mi recai nella suddetta casa e trovai Giacomo che usciva per recarsi ad un appuntamento con il vice comandante di Brigata, Biondino. Mi promise che sarebbe ritornato alle quattordici, rimasi ad attenderlo, ma all’ora fissata non giunse; il comandante Luigi, arrivato nel frattempo, avanzo l’ipotesi che Giacomo si fosse improvvisamente ammalato ed avesse raggiunta la sua famiglia io invece pensavo al peggio. Aspettammo fino al mattino uccessivo, poi ce ne andammo, ma il dubbio che fosse caduto nelle mani dei nemico era divenuto certezza.
Da via Ca’ Selvatica ci portammo in via Duca D’Aosta, nell’infermeria, dove erano ricoverati 17 feriti dei combattimenti del novemìbre, curati dal capitano medico austriaco Alexander che aveva disertato alcuni mesi prima dall’esercito tedesco ed era passato nelle nostre file. Controllato il buon andamento dell’infermeria, uscimmo ed entrammo in città da porta Sant’Isaia, sorpassando un infinità di carri e carretti tirati da buoi da cavalli da uonuni e carichi di masserizie che affluivano a Bologna dopo lo sfollamento coatto ordinato dai tedeschi nei paesi pedemontani. All’inizio di via Sant’Isaia, presso lo sbocco di via Pietralata proveniente da via Pratelio osservammo che un piccolo gruppo di persone sostava, guardando con curiosità e con timore, ci avvicinammo e vedemmo che via del Pratello era tutta bloccata dalle Brigate Nere. Il nostro pensiero corse subito a Paolo, il vice comandante di Brigata che vi abitava.
Ad un tratto i militi avanzarono verso il gruppo di curiosi, cui ci eravamo mischiati, ed il gruppo si dileguò rapidamente.
Anche Luigi ed io ci salutammo; nel rientrare in via Malaguti, riflettevo sul fatto che in due giorni avevamo perduti i due vice, comandanti di Brigata e l’ufficiale di collegamento. Era pertanto urgente chiudersi nella cospirazione più stretta e passare al contrattacco per generare un po’ d’incertezza nel campo nemico, che, fino a quel momento, dimostrava di esser compatto e ben guidato.
Mentre stavamo prendendo le prime disposizioni per attuare il programma, cominciarono a giungerci cattive notizie da tutti i reparti: ogni giorno qualcuno dei nostri cadeva nelle mani della polizia, diventando una vittima o un provocatore.
Apprendemmo che anche due dei più valorosi gappisti Tempesta e Terremoto erano rimasti nella rete delle SS.
Il 12 dicembre le Brigate Nere piombarono sull’infermeria: personale d’assistenza e feriti arrestati, seviziati e trucidati, tranne il capitano medico austriaco, che si offrì di cercarci, sperando di salvare la propria vita col consegnare la nostra.
In queste condizioni estremamente difficili ricostituimmo i quadri dirigenti, primo passo per arrivare alla riorganizzazione dei reparti ed alla lotta. Libero e Aldo vennero nominati vicecomandanti di Brigata, il posto di ufficiale di collegamento fu assunto dal ravennate Alberto, arrivato in quei giorni da Ferrara, dopo essere sfuggito con audacia alla cattura da parte delle Brigate Nere. Nella casa di via Malaguti, dove tenevo il comando e dove vivevo con la famiglia, tutti i coinquilini, che mi conoscevano con il nome buono e credevano che esercitassi ancora la mia professione di medico, mi creavano attorno una certa atmosfera di sicurezza e di legalità, che, in quei momenti, era preziosa.
Ogni sera la famiglia del piano di sotto, antifascista, saliva da noi ad ascoltare radio Londra e a commentare gli avvenimenti del giorno. Questa condizione di legalità era preziosa e bisognava mantennerla, perciò l’accesso alla casa venne limitato alle persone più fidate, con cui era indispensabile riunirsi per un buon funzionamento del comando.
Venivano: Luigi, che passava per un medico mio amico, il comandante generale Dario, che promovemmo professore, la staffetta Diana, pseudo sarta di mia moglie, Libero, sedicente allievo della facoltà di medicina, e infine Pietro, che, per il suo aspetto dimesso, veniva presentato come l’uomo che porta la spesa ed aiuta nelle faccende di casa.
A mezzo dicembre si seppe che certa Lidia Golinelli (Olga, Vienna), staffetta, era stata catturata assieme al partigiano Formica. Il giovane subito passato per le armi, la ragazza risparmiata ed assunta in servizio dall’ufficio politico investigativo fascista. Lo stesso giorno Alberto dovette fuggire da Bologna perchè individuato da alcuni suoi concittadini fascisti.
Ci chiudemmo in una ancor più stretta cospirazione, mutando anche il nome di battaglia: Luigi divenne Rolando, io Africano, Dario si cambiò in Ciro e Pietro in Rachele. Gli uomini, che da quel momento non ebbero più con noi contatti diretti, ricevettero la comunicazione che i comandanti erano cambiati e che, in considerazione della gravità del momento, era opportuno esercitare l’azione di comando attraverso ordini scritti.
Però, malgrado ogni provvidenza, i compagni continuavano a cadere: uno, due quasi tutti i giorni. Ora era la volta dell’Ada, che uscita per acquistare i viveri ad una squadretta, veniva riconosciuta e prelevata da un reparto di polizia. Ormai sembrava che bastasse affacciarsi all’uscio di casa, per essere impacchettati e portati al fresco.
I piccoli nuclei superstiti ebbero il divieto di uscire dalla base, chè noi avremmo provveduto a tutto. Sostituimmo anche le staffette femminili con elementi nuovi e sconosciuti. Ci occorreva però un uomo che fungesse da tessuto connettivo fra questi vari gruppi, che li vettovagliasse, che trasmettesse gli ordini scritti, che fosse in grado di passare inosservato per ogni via della citià, che potesse entrare in tutte le case senza destar sospetti.
E Pietro incominciò la sua opera di ragno paziente, tessendo solidi fili fra le diverse basi.
Pietro era ricercato dalla polizia con il suo nome vero di Orlandi Diego, non solo, ma molti agenti giravano per la città con la sua fotografia in tasca per riconoscerlo, se per caso lo avessero incontrato, e catturarlo. Pietro però era il miglior cospiratore che io abbia conosciuto. Tutti ignoravano allora il suo nome buono, nessuno sapeva dove dormisse e dove mangiasse. Puntualissimo ai convegni, vi compariva sbucando all’ultimo momento dalla più impensata via d’accesso. Non pronunziava mai una parola più del necessario.
Eravamo d’inverno, la neve, caduta abbondantemente, non era stata rimossa ed aspettava di sciogliersi al sole, e fra la neve, talvolta spingendo un ciclofurgone, tal altra a piedi con una sporta in mano, avvolto nella capparella comune ai nostri contadini, con sul capo un berrettino senza visiera, puntualmente, ogni pomeriggio vedevamo arrivare Pietro, ed il suo arrivo ci dava il senso della continuità e della marcia fatalmente sicura della nostra lotta.
Piuttosto piccolo, dimesso, silenzioso, con un aspetto così umile da non essere notato, Pietro passava dovunque senza incontrare inconvenienti. Del resto aveva ormai una lunga esperienza, tutti i partigiani lo conoscevano di soprannome e di fama, tutti avevano per lui un affettuoso rispetto.
Entrato nella 7ª Brigata G.A.P. poco dopo la costituzione dell’unità, venne destinato, per le sue qualità di ottimo meccanico, alla fabbricazione degli oridigni esplosivi e, accessoriamente, ai servizi di rifornimento in generale. Distese allora una fitta rete di magazzini attraverso tutti i quartieri cittadini, magazzini di cui egli solo conosceva l’ubicazione, destinati a depositi di viveri, di equipaggiamento, di armi, e creò il laboratorio per la fabbricazione degli ordigni esplosivi in via Jacopo della Quercia, laboratorio in cui egli ed i suoi aiutanti confezionavano quegli strumenti di lotta che non servivano soltanto per Bologna, ma per tutta l’Emilia e spesso partivano anche per 1’Italia del Nord.
Quando ci si recava al laboratorio, si vedeva Pietro tranquillo, che lavorava fra casse di tritolo, assistito di solito da Sergio, più raramente da Piccio o da Stefano; lavorava con calma, con pazienza, con metodo, ed esigeva che anche durante i bombardamenti aerei anglosassoni qualcuno rimanesse in laboratorio per impedire che qualche ladro, di quelli che dopo i bombardamenti si abbandonavano al saccheggio, non entrasse nell’appartamento e non scoprisse ciò che era il più geloso segreto della Brigata. I suoi aiutanti arricciavano un poco il naso perchè via Jacopo della Quercia è vicina alla stazione ferroviaria e pertanto al centro di una zona bombardatissima; ma l’esempio del loro capo li costringeva alla disciplina e ve li costrinse anche il giorno in cui una bomba distrusse metà del fabbricato in cui lavoravano. Pietro confezionava ordigni esplosivi di tutti i generi, bombe a miccia, a tempo, a percussione, scatolette per far saltare locomotive in corsa, bottiglie incendiarie da lanciare sugli autocarri; l’arte degli esplosivi non aveva per lui alcun segreto.
Pietro dirigeva anche la riproduzione e la diffusione del materiale di propaganda e dei giornali clandestini, Pietro provvedeva al vettovagliamento della Brigata, Pietro curava che gli uomini avessero le scarpe, i vestiti, le munizioni.
Si diceva che Pietro fosse avaro e i vecchi partigiani giurano ancor oggi che Pietro era avaro, mentre era soltanto un equo e parsimonioso distributore delle nostre magre risorse. Affermavano che si faceva pregare perfino per dare le bombe, mentre voleva essere certo che non andassero sciupate e, prima di mettere in circolazione qualche nuovo tipo, lo collaudava personalmente, di solito contro installazioni ed automezzi tedeschi.
La mattina del 7 novembre Pietro, con un furgoncino carico di bombe, stava dirigendosi verso la base di via del Macello, accerchiata proprio in quel momento dalle Brigate Nere, che lo bloccarono e lo chiusero, assieme al suo accompagnatore Piccio, in un grosso edificio in cui erano raccolti altri rastrellati. Fortunatamente i militi indugiarono prima di verificare il contenuto del furgoncino e Pietro, col suo aiutante e con due partigiane che si trovavano fra rastrellati, scalando muri, calandosi da finestre, entrando in cantine, riuscì a prendere il largo. Il giorno dopo le pattuglie tedesche e fasciste di vigilanza non solo controllarono il contenuto dei furgoncini, ma anche quello delle sporte e perfino delle borsette da donna.
Così Pietro, ricco della passata esperienza, divenne l’assiduo collegamento fra noi e gli uomini immobili nelle basi, mentre Gino, che aveva sostituito Alberto, si occupava di stabilire la rete delle nuove staffette femminili, e Libero preparava al combattimento gli uomini più ardimentosi, che vennero riuniti nella « squadra di polizia ».
Ma i successi nemici continuavano: i gappisti Fulmine e Ciclone; che si erano azzardati ad uscire, vennero attaccati. Fulmine rimase ucciso, Ciclone ferito e prigioniero. Battista, che già aveva abbozzato coi suoi uomini qualche contrattacco ai reparti fascisti, venne incontrato da Olga, che lo fece uccidere dai militi che l’accompagnavano.
La morte di Battista fu 1’ultimo dei colpi avversari perchè ormai i nemici erano stati individuati e gli uomini, squadra di polizia in testa, desideravano il combattimento. Pietro, nel suo continuo peregrinare, era riuscito ad appurare che la cattura di Giacomo e del Biondino era avvenuta in via Sant’Isaia, su indicazione del traditore Giulio Cavicchioli, già appartenente alla squadra Mosca. Mentre i due gappisti venivano tradotti in carcere, Giacomo tentava di fuggire e rimaneva ucciso. La cattura di Paolo restava un mistero, ma non restava un mistero la sua fine eroica. Egli ammise di essere il gappista Paolo, non solo, ma affermò di farsi chiamare anche Luigi, in modo da raccogliere su di sè le responsabilità del comandante di Brigata. Venne fucilato.
Ormai sapevamo che il maggior pericolo era rappresentato dai tre traditori che ci andavano cercando per le vie della città, fortemente scortati da tedeschi e da fascisti: Olga, Cavicchioli e il capitano medico austriaco. Di quest’ultimo si apprese, sui primi di gennaio, che, avendo fatto arrestare soltanto qualche gregario partigiano, non veniva giudicato abbastanza utile dalle SS. le quali lo portarono alla Certosa e lo soppressero.
Muovendoci con molta precauzione, verso il dieci gennaio lanciammo all’attacco la squadra di polizia, comandata da Italiano, che in pochi giorni aprì qualche vuoto nelle file nemiche senza subire perdite.
Incoraggiati, demmo l’ordine di attaccare anche ai distaccamenti di Anzola, Castelmaggiore, Castenaso, Medicina, mentre in città si costituivano altre squadre, che entravano immediatamente in azione.
Allora si vide nettamente quanto fosse effimera la forza tedesca e fascista, che, non avendo capacità di difesa diretta, anticipò per qualche giorno il coprifuoco dalle 20 alle 18, iniziò rastrellamenti in grande di interi quartieri, bloccò strade e piazze per controllare l’identità dei passanti, impose l’affissione davanti alle porte degli appartamenti di un cartello col nome degli occupanti. Ma tutte queste misure valsero soltanto a rendere solidale con noi la popolazione, che sentiva in modo sempre più chiaro il peso dell’occupazione straniera.
La vita di comando, con lo svilupparsi della nostra offensiva, aveva ripreso una sua regolare serenità.
“Jacopo” Aldo Cucchi (Commissario Politico 7ª G.A.P.), Pietro l’artificiere in (a cura di) Antonio Meluschi, Epopea partigiana, ANPI dell’Emilia Romagna, 1947, op. qui ripresa da Istituto Parri

domenica 18 settembre 2022

Macciocchi operava al cuore di una rete femminile che aveva il suo territorio d'azione nel centro di Roma

Roma: uno scorcio di Piazza Navona

4. L’incontro con i GAP <45
“Dato che il partito non poteva fornirci un poligono di tiro, per esercitarci a sparare, con Maria Antonietta andavamo alle bancarelle di Piazza Navona” <46. Così Rinaldo Ricci <47, membro dei GAP romani, in seguito assistente regista di Luchino Visconti, ricorda oggi i giorni in cui lui e Macciocchi facevano “coppia” nell’organizzazione romana della Resistenza. I due si conobbero all’inizio degli anni ‘40, quando entrambi, giovani studenti, davano ripetizioni ai figli del ministro della Cultura, Pavolini.
L’antifascismo, per loro come per tanti altri giovani, era prima di tutto un fatto culturale, alimentato da letture vaste e spesso proibite, sintomo di un'inquietudine delle coscienze cui il plumbeo clima culturale del regime non poteva dare risposte. “Ci influenzava la letteratura americana, ma anche Malraux, Marx”, ricorda Rinaldo Ricci. La condizione umana era stata infatti una lettura determinante per Macciocchi: “Ho letto La condizione umana di Malraux (…) Il fascismo ci aveva tenuto all’oscuro di tutta la cultura straniera, eppure, chissà come, questo Malraux era stato tradotto” <48. Il libraio era meta quotidiana per la giovane, che acquistava libri usati, spesso tenuti “sottobanco”, come nel caso dell’autore francese che tanto la influenzò: “Solo Malraux mi aveva messo in rapporto con i comunisti” <49.
Fu Rinaldo Ricci invece a metterla materialmente in contatto con gli ambienti romani della Resistenza, e in primis con Guttuso <50, che nel suo studio di via Pompeo Magno ospitava gli antifascisti. Come ha scritto Giorgio Galli nella sua Storia del Partito Comunista Italiano, i primi sintomi del risveglio di una coscienza politica durante la guerra erano giunti, già dal 40-41, proprio dagli intellettuali, in particolare quelli dell’ambiente romano: Renato Guttuso, Ruggero Zangrandi <51, Mario Alicata <52, Pietro Ingrao <53, Paolo Bufalini <54, Aldo Natoli <55, Fabrizio Onofri <56, Marco Cesarini Sforza <57, Antonello Trombadori <58. Dopo il 25 luglio del ‘43 Guttuso aveva costituito un comitato pluripartitico per dare assistenza agli antifascisti in carcere, rappresentandovi il PCI. Macciocchi entrò in contatto con quest‟ambiente: incontrò Negarville <59, Di Vittorio <60, Giorgio Amendola <61. Quest'ultimo in particolare avrà un ruolo determinante nella vita di Macciocchi, sia dal punto di vista politico, sia personale, visto che diventerà suo cognato. Figlio di Giovanni Amendola <62, Giorgio si era assunto il compito di seppellirne l’eredità idealista liberale - scrisse Macciocchi - in nome dell’ideologia ufficiale del PCI <63. Giorgio Amendola era un politico accorto, estremamente realista, fedele a Mosca. Il partito doveva seguire la linea dettata dall’URSS, il che in questa fase significava accreditarsi come leale agli occhi delle forze politiche democratiche e degli alleati. Per chi si formò politicamente in quel periodo la parola d'ordine democratica era persino più forte del richiamo alla centralità del proletariato, temporaneamente passata in secondo piano. Con la svolta di Salerno Togliatti propose la collaborazione tra tutte le forze che volessero battersi per la libertà d'Italia accantonando la pregiudiziale dell’abdicazione del re. Nel frattempo la presenza delle truppe angloamericane sul territorio italiano veniva presentata dal PCI come la causa transitoria che impediva di portare avanti una linea rivoluzionaria. Si cominciava a parlare di attesa di “nuove più favorevoli condizioni di lotta per le situazioni future” <64.
Macciocchi intanto fu nominata responsabile delle donne della zona centrale di Roma, e si vide assegnare come primo compito la distribuzione de l’Unità <65. In questa fase iniziale, nella distribuzione di materiali di propaganda, fu affiancata da una giovanissima Miriam Mafai, che ricordò in seguito: “Per tutti i mesi dell’occupazione, continuammo a incontrarci, a distribuire volantini e l’Unità (…). Mi fece leggere Malraux e mi spiegò che i comunisti cinesi erano 'gagliardissimi'” <66.
Dopo l’8 settembre 1943 si assisteva alla rinascita dei partiti politici, l’opposizione antifascista si riorganizzava e nel settembre nasceva il CLN. Accanto a questo, al Nord, nascevano i Gruppi di difesa della donna. A Roma invece era l’occupazione tedesca. Furono mesi interminabili e tragici per la città, durante i quali Macciocchi svolse tutti i compiti propri di una staffetta, facendo da tramite per operazioni militari e di sostegno ai partigiani. Accompagnò Giorgio Amendola, suo futuro cognato, in diversi rifugi, e come lui altri esponenti della rete clandestina, introducendoli in alloggi segreti dove sarebbero stati ospitati e tenuti al riparo. Così conobbe tra gli altri Sandro Pertini, avendo l’incarico di accompagnarlo nell’alloggio clandestino indicatole dal comando della zona <67.
Macciocchi operava al cuore di una rete femminile che aveva il suo territorio d'azione nel centro della città, tra il Lungotevere, piazza del Popolo e piazza Colonna. “Il lavoro femminile nella quinta zona clandestina di Roma (…) non era difficile. Cercavo ragazze antifasciste disposte a svolgere un piccolo lavoro politico come la distribuzione de l’Unità, o qualche volantino clandestino da sparpagliare per Roma, oppure disposte a stare nei posti di blocco sulle arterie stradali che uscivano da Roma, per contare i convogli militari che vi passavano” <68. Le clandestine della zona centrale erano una quindicina, ed erano divise in due spezzoni: quello con compiti di propaganda e di sostegno alle famiglie degli antifascisti incarcerati e quello con compiti propriamente militari. Quest'ultimo dipendeva in parte dal PCI, in parte dal CLN. Erano le partigiane più anziane, sulla quarantina, ad istruire le giovani come Maria Antonietta non solo sui compiti pratici di una staffetta, ma anche sui fondamenti teorici della lotta, trasmettendo alle ragazze rudimenti della filosofia marxista-leninista.
La guerra ha spesso costituito per le donne un'esperienza senza precedenti di responsabilità e libertà, legata alla conquista di spazi tradizionalmente riservati agli uomini, all’apertura di nuovi orizzonti professionali, e spesso, come nel caso della Resistenza, alla partecipazione militare <69. L’attivismo femminile alterava la chiusura sociale ma anche “la rigidità dei modi di abbigliamento e di socialità borghesi” <70. Si tratta spesso di un‟esperienza illusoria, poiché i mutamenti legati alla guerra sono limitati dal rafforzamento, pratico e simbolico, dei ruoli sessuali, oltre ad essere funzione di svariati parametri, quali il gruppo sociale, l’età, la situazione familiare e naturalmente la storia individuale <71.
Nell’autobiografia di Macciocchi si ritrova l’immagine di una vera e propria trasfigurazione legata all’esperienza resistenziale, in linea con altre testimonianze che ci rinviano un'immagine di liberazione femminile legata alla fase del conflitto. Se infatti le donne sono spesso doppiamente travolte dalle guerre, divenendo oggetto di specifiche violenze di genere legate ai conflitti, in molte memorie si ritrova invece come elemento comune l’euforia per la liberazione provvisoria dalle regole e dai rigidi ruoli vincolanti in tempo di pace. Macciocchi descriveva in questi termini la sua liberazione: “Di quell’epoca, mi resta il ricordo di giornate intense, e libere. Provavo la gioia assoluta di voltare le spalle a padre, sorelle, tutela casalinga. La mia emancipazione stava nel mescolarmi agli uomini, ai ragazzi, ai compagni, che avevo visto fino allora solo nell’altra fila di banchi a scuola” <72. Dunque fine della segregazione sessuale, della divisione dei ruoli, anche se solo apparente e transitoria. Il desiderio di emancipazione individuale, la volontà di scardinare un sistema di relazioni sociali soffocanti, appaiono come altrettante motivazioni importanti per comprendere il protagonismo delle donne in quel periodo.
Il 15 febbraio 1944 Macciocchi riceveva l’input per entrare nei gruppi di azione partigiana, i GAP <73. Questi le apparvero come un gruppo di giovani borghesi sicuri, decisi, persino altezzosi.
[NOTE]
45 I GAP, Gruppi d'Azione Patriottica, nacquero su iniziativa del Partito Comunista Italiano, sulla base dell’esperienza della Resistenza francese. Erano articolati in piccoli nuclei di quattro o cinque persone e portavano avanti azioni di sabotaggio nei confronti delle truppe nazifasciste. Sui GAP romani e in particolare su una delle vicende più controverse legate alla loro esperienza, ovvero l’attacco di via Rasella, si veda la ricostruzione del comandande GAP Rosario Bentivegna, protagonista dell’assalto di via Rasella, Achtung Banditen!, Milano, Mursia, 1983, n. ed. 2004. E ancora sulla Resistenza a Roma M. Avagliano G. Le Moli, Muoio innocente. Lettere di caduti della Resistenza a Roma, Milano, Mursia, 1999.
46 Testimonianza di Rinaldo Ricci
47 Rinaldo Ricci (Roma, 1923); è stato assistente alla regia di Luchino Visconti, Franco Zeffirelli e Billy Wilder. Nella sua filmografia ricordiamo con Visconti Il Gattopardo e Rocco e i suoi fratelli, con Franco Zeffirelli Romeo & Juliet. Ha partecipato alla Resistenza.
48 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 77
49 Ivi, p. 77
50 Renato Guttuso (Bagheria, 1911 - Roma, 1987) è stato un pittore italiano, esponente del cosiddetto realismo sociale, e uno dei più illustri nomi della cultura vicini al Partito comunista italiano.
51 Ruggero Zangrandi (1910-1970) è stato un giornalista e scrittore italiano. Si impone al largo pubblico negli anni Sessanta per le sue inchieste sul Sifar e per la sua ricostruzione della mancata difesa di Roma, nel 1943, da parte dello Stato Maggiore italiano.
52 Mario Alicata (Reggio Calabria, 1908 - Roma, 1966) è stato un giornalista e politico italiano. Ha partecipato alla Resistenza. Membro del Comitato centrale del PCI è stato uno dei più stretti collaboratori di Palmiro Togliatti. Ha diretto il quotidiano comunista ‘L’Unità’.
53 Pietro Ingrao (Lenola - Latina 1915), è un giornalista e politico italiano. Partecipò alla Resistenza a Roma e Milano, è stato membro del Comitato centrale del PCI, parlamentare per numerose legislature e presidente della Camera dei Deputati. Ha diretto il quotidiano ‘L’Unità’ e partecipato alla fondazione del Partito Democratico di Sinistra, per abbandonarlo il seguito e aderire al partito della Rifondazione Comunista.
54 Paolo Bufalini (Roma, 1915 - Roma, 2001) è stato un politico italiano. Partigiano, eletto più volte in Parlamento, è stato fra i massimi dirigenti del Partito Comunista Italiano.
55 Aldo Natoli (Messina, 20 settembre 1913) medico, antifascista e deputato italiano per il PCI, fu radiato dal partito con Rossana Rossanda, Luigi Pintor e il gruppo del quotidiano “Il Manifesto” a causa del dissenso sulL’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
56 Fabrizio Onofri (Roma, 1917 - 1982) è stato uno scrittore e dirigente comunista, Medaglia di bronzo al valor militare per il suo impegno nella Resistenza. Fu espulso dal PCI nel '57 in seguito ad una polemica con Togliatti sullo stalinismo.
57 Marco Cesarini Sforza è stato un giornalista e membro del PCI.
58 Antonello Trombadori (Roma, 1917 - Roma, 1993) è stato un giornalista, critico d'arte e politico italiano. Partecipò alla Resistenza e dopo la Liberazione entrò a far parte del Comitato centrale del PCI. Collaboratore di importanti riviste come 'La Ruota', 'Primato', ‘Città’, ‘Corrente’, ‘Cinema’ e ‘Rinascita’, fu eletto quattro volte deputato. Dopo il 1968, si avvicinò dapprima alla corrente migliorista di Paolo Bufalini e Giorgio Napoletano, quindi alle posizioni socialiste. Giorgio Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Milano, Kaos edizioni, 1993.
59 Celeste Negarville (Avigliana, 1905 - Torino, 1959) è stato un politico italiano. Antifascista, nel dopoguerra sarà uno dei maggiori esponenti del PCI e il primo a dirigere l’Unità dopo gli anni di diffusione clandestina. Fu deputato alL’Assemblea Costituente, quindi senatore e più volte sottosegretario. E' stato sindaco di Torino nell’immediato dopoguerra. Ha contribuito alla sceneggiatura del film di Rossellini Roma città aperta.
60 Giuseppe Di Vittorio (Cerignola, 1892 - Lecco, 1957) è stato un politico e sindacalista italiano. Proveniente da una famiglia di contadini, partecipò da antifascista alla guerra civile spagnola e quindi alla Resistenza in Italia nelle Brigate Garibaldi. Nel 1945 fu eletto segretario della CGIL che aveva contribuito a rifondare e che guidò fino alla sua morte.
61 Giorgio Amendola (Roma, 1907 - Roma, 1980) è stato un politico italiano, autore di numerosi libri. Figlio di Giovanni Amendola e dell’intellettuale lituana Eva Kuhn, aderì al PCI nel 1929 militando nell’antifascismo e quindi nella Resistenza, entrando nel comando generale delle Brigate Garibaldi assieme a Luigi Longo, Pietro Secchia, Gian Carlo Pajetta e Antonio Carini. Fu deputato per il PCI dal 1948 fino alla morte. Fu cognato di Maria Antonietta Macciocchi, che sposò il fratello Pietro Amendola.
62 Giovanni Amendola (Salerno, 1882 - Cannes, 1926) è stato un politico italiano. Docente di filosofia teoretica all’Università di Pisa, parlamentare liberale, fu ispiratore del Manifesto degli intellettuali antifascisti e uno dei principali artefici della secessione aventiniana. Inviso al regime, fu una delle prime vittime del fascismo. Morì a Cannes, in Francia, in seguito ad una lunga agonia, per le percosse ricevute a Serravalle Pistoiese (PT) il 20 luglio 1925 da un gruppo di squadristi.
63 Maciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 70.
64 G. Galli, op. cit, p. 239.
65 L’Unità era il quotidiano della sinistra italiana, quindi organo ufficiale del PCI, fondato il 12 febbraio 1924 da Antonio Gramsci. Messo fuori legge nel 1925 dal Prefetto di Milano, uscirà clandestinamente, tra Francia e Italia, sino alla seconda guerra mondiale; solo con l’arrivo degli alleati, dal 1944 riprese a Roma la pubblicazione ufficiale del giornale. Il nuovo direttore era Celeste Negarville.
66 M. Mafai, Addio alla Macciocchi, comunista eretica, ‘La Repubblica’, 16/04/07. In realtà Mafai sembra ricalcare il suo ricordo della Resistenza con Macciocchi dalle pagine di Duemila anni di felicità, cit., p. 77
67 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 85
68 Ivi, p. 88
69 Sulle donne e la guerra alcune considerazioni interessanti si trovano in F. Thébaud, La Grande Guerra, in Storia delle donne. Il Novecento, a cura di F. Thébaud. Bari, Laterza, 1997 “Gli anni della guerra hanno costituito per le donne un‟esperienza positiva, e persino - interrogativo provocatorio quant‟altri mai - un happy time?”, si chiedeva la storica francese analizzando L’impatto della Grande Guerra sulla condizione femminile. Ivi, p. 42. La studiosa rileva come numerose fonti femminili ci rimandino quest‟immagine. L’espressione “good time” è stata usata dalla femminista inglese C. Gasquoine Hartley in Women’s Wild Oats, mentre di “fine time” ha parlato L. Pruette. La propagandista inglese Jessie Pope e la romanziera americana Willa Cather hanno esaltato il rovesciamento dei ruoli sessuali. L’Inghilterra di Harriot Stanton Blatch nel 1918 era un mondo di sole donne, che apparivano sicure nel loro spazio, capaci, felici, gli occhi brillanti.
70 Ivi, p. 46
71 Ivi, p. 49
72 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit., p. 87
73 Ivi, p. 89
 


Eleonora Selvi, Maria Antonietta Macciocchi: profilo di un'intellettuale nomade nel secolo delle ideologie, Tesi di Dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2009

venerdì 3 giugno 2022

Dopo i ripetuti bombardamenti alleati al ponte di ferro sul fiume Po, i tedeschi organizzarono attracchi per traghetti

Valenza (IM): Palazzo Pelizzari, sede del Municipio - Fonte: Wikipedia

Le montagne dell'Ossola, le colline del Monferrato, le Langhe, la Val Borbera, l'Oltrepo pavese sono tutti luoghi che hanno vissuto una propria e caratterizzante storia resistenziale, oggi di facile ricostruzione e lettura.
Per le città, ciò difficilmente avviene.
Valenza ne è prova. Una città, organizzata e viva, porta con sé un patrimonio di relazioni fra istituzioni, fra poteri pubblici, centri di riferimento economico e sociale.
Negli anni 30'- 40' Valenza, pur in presenza dell'autarchia di Regime, era legata a filo doppio con Alessandria e Casale Monferrato; sviluppava relazioni con la Lomellina, con Pavia e Milano, con Genova e Torino.
Le vie di comunicazione stradale e ferroviaria erano adeguate, poste a raggiera, con frequenti intersezioni verso Milano, Torino e Genova; il Po fungeva da confine fisico fra Piemonte e Lombardia, ma anche da via di traffico e comunicazione naturale.
Le aziende orafe e calzaturiere alimentavano traffici a dimensione più ampia, oltre i confini italiani; i gerarchi fascisti erano correlati al capoluogo provinciale e da qui verso Torino e Roma; le scuole servivano parecchi paesi limitrofi, con scambi di culture fra contadini, operai, artigiani, imprenditori; il Regime aveva da decenni promosso ed organizzato il consenso, con tutte le varie iniziative di proselitismo e indottrinamento.
Era una città articolata, fatta di vissuto diverso, una città aperta e geograficamente polarizzante.
Furono proprio questi fattori a far decidere gli occupanti tedeschi a scegliere Valenza come centro per collocarvi comandi di polizia, squadre di milizie SS, sezione SD Sicherheit Dienst, militari della Wehrmacht, l'organizzazione Todt, la Zugleitung, postazioni di contraerea della Flak, gruppi di genio pontieri.
La presenza tedesca si rafforzò, dopo che Alessandria divenne sempre più frequente bersaglio dei bombardamenti alleati.
A Valenza venne trasferito il comando provinciale delle truppe tedesche. Non solo, vennero intensificati tutti i controlli sulle vie di comunicazione, sulla rete ferroviaria, sul fiume Po, ad ogni attracco di barche e sui vari ponti di attraversamento fra Trino, Casale e Valenza.
In questo contesto va collocata la storia resistenziale di Valenza, una città occupata dai tedeschi perchè ritenuta strategica, una città cerniera fra due regioni, una città sotto il dominio capillare della K 1014 Kommandantur e l'ausilio delle rinate presenze repubblichine, con comandi della G.N.R. e Brigate Nere.
Pur in questo difficile contesto, sorsero le formazioni GAP (gruppi di azione patriottica) di Enzo Luigi Guidi, detto Batista; poi alcune esperienze di SAP (squadre di azione patriottica); la componente comunista, come in passato era stata fattore determinante dell'antifascismo locale unitamente alla matrice socialista, costituì una significativa ispirazione per le formazioni partigiane; venne ricostituita la sezione del PCI, mix di militanza politica ed ideologica.
I distaccamenti Rasinone e Paradiso, il gruppo di Ticineto-Valmacca della Garibaldi, vissero fasi diverse di organizzazione, in crescendo per adesioni ed efficacia. Si affermarono, inoltre, le formazioni GL Paolo Braccini con la brigata Pasino, al comando di Carlo Garbarino fra San Salvatore e Castelletto Monferrato; con la brigata Lenti al comando di Filippo Callori nell'area di Vignale.
Operarono, inoltre, la Divisione Matteotti-Marengo Borgo Po, tra Valle San Bartolomeo-Filippona-Lobbi; la Divisione Patria fra Occimiano-Mirabello-Giarole; la brigata 108 Paolo Rossi della Garibaldi, con il distaccamento nell'area di Bassignana-Fiondi-Pecetto-Grava-Mugarone <1
Attorno a Valenza, mese dopo mese, venne creata una rete capillare ed efficace di dissenso operativo. Le formazioni partigiane si impegnarono in consistenti azioni di sabotaggio e danneggiamento verso i posti di blocco e controllo dei nazifascisti; ospitarono e nascosero per mesi i prigionieri alleati inglesi, americani, australiani, neozelandesi liberati dai campi di concentramento-prigionia del Piemonte e Lombardia e dal Forte di Gavi.
La stazione e la galleria ferroviaria fra Valenza e Valmadonna costituirono per mesi l'obiettivo di furti, saccheggi da parte delle formazioni partigiane.
Sull'arteria ferroviaria, infatti, i tedeschi fecero transitare armi e viveri verso altre località lombarde e piemontesi, per evitare i frequenti bombardamenti alleati su Alessandria.
In alcune circostanze, i partigiani nascosero le armi e munizioni saccheggiate ai tedeschi proprio all'interno della galleria di Valmadonna.
Le formazioni GAP attaccarono a più riprese le postazioni tedesche; le azioni di sabotaggio sono ampiamente documentate e citate in numerosi dispacci e fonogrammi che i tedeschi inviavano giornalmente ai comandi superiori, fonogrammi rinvenuti recentemente, tradotti e pubblicati nel volume "Resistenza e nuova coscienza civile" a cura dell'autore.
I comandi tedeschi giunsero a comminare multe salatissime ai comuni del Valenzano per disincentivare le attività di sabotaggio. Le multe dovevano essere pagate al comando tedesco di Valenza. I tedeschi non solo occuparono il territorio, ma inflissero sanzioni per punire le azioni di dissenso delle popolazioni.
Gli esordi, il CLN, una città controllata dai tedeschi.
La caduta di Mussolini del 25 luglio e l’armistizio dell' 8 settembre 1943 rialimentarono le convinzioni e le speranze per la libertà, anche a Valenza. Durante il ventennio fascista, il dissenso esplicito venne rappresentato, in modo efficace, dal socialista Francesco Boris, già capostazione. Non aderì al Fascio, dovette cercarsi un altro lavoro. Le organizzazioni comuniste, pur nell'omologazione dissuasiva del Fascio, tennero vivo il pensiero antifascista attraverso cellule di militanti. A Valenza era operativa una sezione comunista a tutti gli effetti, con riferimenti organici con Alessandria e Torino.
Anche nelle file cattoliche, si costituì nel ’42 la prima sezione della DC, d’ispirazione degasperiana. Nel laboratorio della farmacia Manfredi, alla presenza dell’ex popolare avv. Giuseppe Brusasca, venne fondata la sezione. Contribuirono Carlo Barberis, Gigi Venanzio Vaggi, Luigi e Vittorio Manfredi, Pietro Staurino, Luigi Deambroggi, Luigi Stanchi, Giuseppe Bonelli e Felice Cavalli. La sezione sviluppò immediatamente temi ed iniziative di dissenso clandestino al regime.
Alla notizia dell’arresto di Mussolini, nell’abitazione di Francesco Boris, si tenne un primo incontro per costituire il CLN valenzano. Accanto a Boris per il partito socialista, vi aderirono Luigi Vaggi per la DC, Ercole Morando per il PCI, Vittorio Carones per il Partito d’Azione e Poggio per il PLI, poi sostituito da Barberis detto Cuttica.
Il CLN di Valenza tenne varie riunioni, cambiando sede di volta in volta, per non destare sospetti. Si svolsero a casa Boris, a casa di Costantino Scalcabarozzi, in casa Mazza alle Terme di Monte Valenza, a casa dei fratelli Marchese, nella biblioteca Silvio Pellico dell’oratorio del Duomo di Valenza. <2
Francesco Boris e Paolo De Michelis (già parlamentare socialista negli anni ’20) furono arrestati a marzo 1944 e condotti nella sezione tedesca delle Carceri Nuove a Torino, per poi essere inviati nei campi in Germania. Vennero poi liberati, grazie ad uno scambio di prigionieri.
Il 16 gennaio 1944, il ventenne Sandro Pino venne colpito a morte in occasione di una perquisizione e retata della G.N.R. nel bar Achille, nel pieno centro, alla caccia di antifascisti e ribelli. Il fatto destò grande sconcerto ed intimorì i giovani. Giulio Doria, antifascista ed aderente a metà ’44 al movimento partigiano, ricorda dettagliatamente quei difficili momenti nell’intervista rilasciata a Maria Grazia Molina e pubblicata nel n. 23 di “Valenza d’na vota” edito a dicembre 2008. Il fratello di Giulio, Mario, aderì subito alla formazione autonoma Patria, guidata da Edoardo Martino e Giovanni Sisto. Il secondo fratello, Pietro, visse anni di prigionia in Germania, come militare catturato dai tedeschi. Giulio disertò la chiamata alla Capitaneria di Savona e si diede alla macchia, nella campagna valenzana. Giulio ricorda d’aver curato e nascosto cinque militari australiani, sfuggiti alla cattura dei tedeschi; di averli poi avviati in Lombardia. Anche Giulio entrò nella brigata autonoma Patria, si collegò con Vaggi e tesse una fitta rete di relazioni fra la città ed i comuni del Monferrato.
La presenza strutturata dei tedeschi occupanti cambiò il volto alla città. I liberi movimenti erano impossibili; le truppe tedesche, coadiuvate ed indirizzate dai fascisti repubblichini, erano pervasive. Vennero organizzati frequenti posti di blocco sulle vie di accesso, sulle arterie di comunicazione verso Pavia, Alessandria, Casale Monferrato, Tortona. La ferrovia era super controllata, perchè utilizzata spesso dai tedeschi per il trasferimento di esplosivi ed armi. Dopo i ripetuti bombardamenti alleati al ponte di ferro sul fiume Po, i tedeschi organizzarono attracchi per traghetti, sui quali transitavano truppe, armi e munizioni verso Milano.
Il 17 febbraio 1944, il 10 dicembre 1944 ed il 2 marzo 1945 si ebbero a Valenza rastrellamenti intensi e radicali, con minuziose perquisizioni ad intere vie ed isolati, arresti di giovani.
L' attività della missione americana Youngstown. Inediti dall'archivio di Gian Carlo Ratti
Una precisa conferma dell'organizzazione militare e logistica tedesca, delle forze partigiane operanti nel Monferrato e nel Valenzano, ci viene dall'inedito e significativo materiale documentale presente nell'archivio Gian Carlo Ratti, ora in consegna all'autore, di prossimo commento e pubblicazione. <3 L'archivio è costituito da un dettagliato memoriale, da ampia documentazione in originale, da mappe, appunti, manoscritti, rapporti, note di guerra, attestati, fonogrammi [...]
 

Un'immagine del bombardamento sul ponte e sulla strada di Torre Beretti (PV), effettuato il 27 Luglio 1944 dai bombardieri statunitensi del 320° Bomb Group, tratta dal sito www.320thbg.org, qui ripresa da Sergio Favretto, Op. cit. infra

[NOTE]
1 Si vedano i saggi: "Valenza antifascista e partigiana" di Enzo Luigi Guidi, edito nel 1981 dall'ANPI di Valenza; "Resistenza e nuova coscienza civile" di Sergio Favretto, edito da Falsopiano nel 2009; "La Provincia di Alessandria nella Resistenza" di William Valsesia, edito nel 1980; "Una brigata di pianura, cronaca della 108° brigata Garibaldi Paolo Rossi" di O. Mussio, edito dall'ANPI di Castelnuovo Scrivia, nel 1976.
2 Questi avvenimenti sono descritti nel volume "Resistenza e nuova coscienza civile" di Sergio Favretto, edito da Falsopiano nel 2009
3 L'archivio Ratti è stato solo recentemente consegnato in esame e custodia all'autore. Si presenta, già a primo acchito, come una fonte significativa di documentazione inedita. Per il 2013 si presume possa costituire la fonte di nuove analisi storiche e possa essere ospitato in alcune pubblicazioni sui temi resistenziali del Piemonte.
Sergio Favretto, La Resistenza nel Valenzano. L'eccidio della Banda Lenti, Comune di Valenza (AL), 2012

[ n.d.r.: nella bibliografia di Sergio Favretto: Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese, Seb27, Torino, 2022; Il papiro di Artemidoro: verità e trasparenza nel mercato dei beni culturali e delle opere d’arte, LineLab, Alessandria, 2020; Con la Resistenza. Intelligence e missioni alleate sulla costa ligure, Seb27, Torino, 2019; Un carabiniere, testimone di storia. Mussolini a Ponza e a la Maddalena narrato in un diario, Arti grafiche, 2017; Una trama sottile. Fiat, fabbrica, missioni alleate e Resistenza, Seb27, 2017; Coraggio e passione. Riccardo Coppo, il sindaco, le sfide, Falsopiano, 2017; Fenoglio verso il 25 aprile, Falsopiano, 2015; Resistenza e nuova coscienza civile. Fatti e protagonisti nel Monferrato casalese, Falsopiano, 2009; Il diritto a braccetto con l'arte, Falsopiano, 2007; Giuseppe Brusasca: radicale antifascismo e servizio alle istituzioni, Atti convegno di studi a Casale Monferrato, maggio 2006; I nuovi Centri per l’Impiego fra sviluppo locale e occupazione (con Daniele Ciravegna e Mario Matto), Franco Angeli, 2000; Casale Partigiana: fatti e personaggi della resistenza nel Casalese, Libertas Club, 1977 ]

lunedì 23 maggio 2022

La Resistenza è iniziata proprio a Roma, subito dopo l'8 settembre


Il processo di liberazione dall’occupante nella Capitale presenta svariate caratteristiche che lo rendono anomalo rispetto a quello registrato su scala nazionale; in particolare in confronto alla lotta partigiana nei centri urbani del centro-nord, dove i partiti e le loro rispettive formazioni militari (le bande partigiane, tra cui è bene menzionare le più attive, ovvero le Brigate Garibaldi legate al PCI, le Brigate Giustizia e Libertà legate al Pd’A, le brigate azzurre, formalmente indipendenti ma politicamente di sentimenti monarchici e badogliani, le “Brigate del popolo” e le “Brigate Fiamme Verdi” legate alla Democrazia Cristiana) riuscirono a coinvolgere attivamente e con successo la popolazione, la lotta armata partigiana a Roma vide una scarsa partecipazione popolare e fu sostanzialmente lasciata nelle mani dei partiti ciellenisti di sinistra, il cui attivismo sorprese e mise in grande difficoltà i nazisti.
Un’altra peculiarità della Resistenza romana sta nell’estrazione socio-culturale dei suoi protagonisti; se nel nord-Italia le promesse di radicale mutamento politico e sociale portate avanti dagli intellettuali dei partiti antifascisti di sinistra raccolsero consensi e adesioni in quel proletariato operaio, storicamente legato alle organizzazioni sindacali socialiste e desideroso di vendicare le vessazioni subite dalle squadre fasciste vent’anni prima, lo stesso non si poteva dire per le masse delle borgate romane che, composte perlopiù da contadini inurbati provenienti dal Meridione o dalle campagne adiacenti alla città (lo sterminato Agro romano), erano totalmente prive - date debite eccezioni - di quella coscienza politica necessaria per impegnarsi in una guerra di liberazione così cruenta. Perciò la lotta partigiana fu condotta dagli esponenti della medio-alta borghesia romana che, animati da un forte senso della patria e desiderosi di riscattare l’immagine del paese travolta da vent’anni di dittatura, nel secondo dopoguerra saranno i protagonisti di quell’Assemblea costituente che regolò (e regola tuttora, a distanza di settant’anni) la vita politica del paese; era ad esempio questo il caso del nucleo più attivo dei Gap centrali, composto da uomini come Antonello Trombadori, Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei, Maria Teresa Regard, i quali erano stati educati culturalmente nei migliori licei della Capitale e avevano sin da giovanissimi sviluppato una profonda coscienza antifascista. Non mancarono comunque i casi di piccole formazioni partigiane operanti nelle periferie, soprattutto in quelle della parte meridionale della città, come le bande partigiane di Bandiera Rossa.
Un elemento che non si può non considerare quando si parla dell’anomalia della situazione di Roma negli anni della Liberazione è la forte presenza nella città della Chiesa cattolica. Il radicamento nella città di un’autorità morale e spirituale millenaria come il Papa ha esercitato senz’altro una funzione di dissuasore per i nazisti i quali, sotto l’impulso principalmente dei loro diplomatici, non intendevano scatenare nella città del “Vicario di Cristo” una guerra senza quartiere e nei fatti non spiegarono appieno tutta la loro forza repressiva contro il movimento partigiano. Al centro di un ampio dibattito storiografico, lo stesso ruolo della Chiesa fu in quegli anni molto ambivalente; se da un lato molti sottolinearono la mancata condanna ufficiale da parte di papa Pio XII degli abomini nazisti commessi nella città (come il rastrellamento del ghettoebraico il 16 ottobre 1943 o l’eccidio delle FosseArdeatine), è imprescindibile ricordare il fondamentale aiuto che gli uomini della Chiesa (vescovi, prelati, parroci ecc.) prestarono ai perseguitati, nascondendo nelle parrocchie e nei conventi ebrei, antifascisti di ogni schieramento, militari che erano sfuggiti al reclutamento nell’esercito della RSI ecc. Alcuni di essi pagarono con la vita il prezzo del loro coraggio e del loro impegno politico; è bene menzionare don Giuseppe Morosini, arrestato dalle SS a causa della delazione di un infiltrato e poi fucilato a Forte Bravetta il 3 aprile 1944, oppure don Pietro Pappagallo, il quale per aver nascosto molti perseguitati fu arrestato dalle SS (anche lui in seguito a delazione) e fu l’unico prete cattolico ad essere fucilato alle Ardeatine. Il loro sacrificio non risultò vano in quanto moltissimi ebrei e antifascisti (il più importante era probabilmente Alcide De Gasperi, leader indiscusso della Dc nel primissimo dopoguerra) riuscirono a sfuggire alle retate nazifasciste protetti negli edifici vaticani che godevano dello status di extraterritorialità, un particolare status giuridico riconosciuto dallo stato italiano alla Chiesa in base al quale essa esercitava (ed esercita tuttora) la propria esclusiva giurisdizione su alcune sue proprietà sul suolo romano. Tuttavia questo status giuridico di diritto internazionale non bastò a frenare la furia antipartigiana di alcuni solerti aguzzini, di cui il più emblematico e famoso è sicuramente Pietro Koch; questo ex-tenente dell’esercito italiano formò nei primi giorni del gennaio 1944 una banda - la cd. Banda Pietro Koch - il cui operato è famoso per due irruzioni commesse in edifici vaticani che avevano l’attributo giuridico dell’extraterritorialità (una serie di istituti religiosi collegati dal medesimo ingresso in piazza Santa Maria Maggiore nel primo caso, la basilica di San Paolo nel secondo) al fine di stanare gli oppositori politici che vi si nascondevano.
Si può quindi concludere che sia stata proprio l’importanza di una città come Roma - capitale d’Italia, storica sede della Chiesa cattolica, culla della società occidentale e ricca come nessun’altra città al mondo di monumenti di incommensurabile valore storico ed artistico - a conferire unicità allo sforzo per mantenere il suo controllo (da parte dei nazifascisti) e alla lotta per la sua liberazione dall’occupante (da parte del movimento partigiano). A tal proposito rinnovo anche qui quella che è stata la mia tesi introduttiva, e cioè che a Roma si è giocata la partita decisiva all’interno del più ampio contesto storico della lotta per la liberazione nazionale; di ciò ne erano consapevoli tutte le forze in campo (nazisti, fascisti, partiti antifascisti, Alleati ecc.) che a tal proposito impiegarono tutte le loro energie per poterla controllare.
Guglielmo Salimei, Roma negli anni della liberazione: occupazione nazista e lotta partigiana, Tesi di laurea, Università Luiss "Guido Carli", Anno accademico 2020-2021
 
[n.d.r.: anche Giorgio Amendola, dirigente di spicco del PCI clandestino nella capitale e, pertanto, responsabile dei GAP romani, sosteneva la tesi di una non congrua partecipazione popolare agli eventi della Resistenza nella capitale, mentre il suo collaboratore nei Gruppi di Azione Patriottica, Rosario Bentivegna, sembra nei suoi scritti - vedere infra - di parere nettamente diverso]

Un "revisionismo" mistificatore e falso ha colpito soprattutto la Resistenza romana e la sua guerra di liberazione, e in particolare uno dei suoi episodi più drammatici, la strage delle Fosse Ardeatine, che i nazisti perpetrarono nella massima segretezza e con la massima fretta per paura delle reazioni preventive della cittadinanza, dei parenti dei prigionieri in mano nazista e della Resistenza. Qui la fantasia dei falsari e dei mistificatori ha raggiunto cime eccelse, e ne abbiamo colto significative manifestazioni perfino su "L’Unità" di Furio Colombo, dove il 24 marzo scorso, in memoria di quella strage, si riproponeva una tesi cara a tutti gli attendisti, e cioè che l’attacco partigiano di via Rasella, in cui fu annientata la 11° compagnia del terzo battaglione dell’SS Polizei Regiment Bozen "fu un atto di guerra, dettato da emotività più che da un preciso ragionamento, discutibile sul piano dell’opportunità e sbagliato se messo in relazione con le finalità che si volevano raggiungere" (a parte lo spazio dato nei mesi precedenti ad alcuni scritti del Vivarelli ove si ricordavano le benemerenze patriottiche della X Mas e del suo eroico comandante, il principe golpista Valerio Borghese, o le amene considerazioni sullo stato di "città aperta" di Roma, con un titolo, il 15 agosto 2001, addirittura esilarante).
La nostra gente, pur affamata e terrorizzata, e ben sapendo di correre rischi mortali, ci aiutava, checché ne dicano il De Felice, o il Montanelli, o il Lepre, ecc. ecc., che sopravvennero dopo i primi exploit dei giornalisti repubblichini Spampanato e Guglielmotti, o dello "storico" Giorgio Pisanò, cantore dell’epopea repubblichina, o, nel 1948, in piena "guerra fredda", dei Comitati Civici dell’Azione Cattolica di Pacelli e di Gedda.
Quella nostra gente ci nascondeva, ci sfamava quando poteva e ci curava se ammalati o feriti, rifiutava di denunciarci, così come del resto aiutava e non denunciava i giovani renitenti di leva, gli uomini che si sottraevano al lavoro forzato imposto dai nazisti, i soldati e gli ufficiali sbandati, gli ebrei, i carabinieri, i prigionieri alleati evasi, i ricercati politici antifascisti e i politici fascisti che non avevano aderito al P.F.R. (bisogna pur ricordarlo: dei quadri del fascismo, solo il 10% di quelli periferici e il 15% di quelli nazionali aderirono al governo collaborazionista della Repubblica Sociale; degli oltre quattro milioni di italiani iscritti al P.N.F., costretti ad avere quella "tessera del pane", solo 200.000 - il 5% - si iscrissero al P.F.R.).
I romani e la rete di solidarietà
I romani poi, dietro il loro menefreghismo ironico e apparentemente opportunista, seppero costruire spontaneamente una rete straordinaria di solidarietà attiva nei confronti delle centinaia di migliaia di ricercati e perseguitati che affollavano la loro città. Essi, pur temendo per la loro vita e imprecando a parole contro chi poteva turbare la loro sacrosanta voglia di quiete, non esitarono a schierarsi nei fatti dalla parte della libertà e contro la crudele presenza dei tedeschi e dei fascisti, isolati e "schizzati".
Da questa Resistenza, fatta di fame e di sofferenze, ha preso le mosse la Guerra di liberazione nazionale, che è iniziata proprio a Roma, subito dopo l'8 settembre, oltre che con una intensa attività diplomatica, politica, di agitazione, di "intelligence", anche con iniziative militari che hanno fatto della nostra città la capitale dell’Europa occupata che ha dato più filo da torcere agli eserciti tedeschi (Dollman), che ha fatto dire a Kappler che dei romani non ci si poteva fidare, che ha fatto raccontare a Mhulhausen la paura che lo stesso Kappler aveva dei partigiani e della gente di Roma.
Dice Renzo De Felice: ("Il Rosso e il Nero", pag. 60): "Roma fu la città col maggior numero di renitenti: un po’ per la sua configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica città in cui si era tentata la resistenza armata contro i tedeschi dopo l’armistizio, un po’ per la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi ed edifici dove i renitenti potevano nascondersi. Al primo posto ci fù la "difesa di se stessi", sia da parte di chi rispose al bando, sia per chi riuscì a nascondersi, come per chi fu costretto a salire in montagna. Molti di questi divennero valorosi partigiani. Per molti altri pesò sempre il vizio di origine di una scelta opportunistica", che, aggiungo, ha aperto lo spazio a tutte le fantasie e le menzogne della vulgata antipartigiana.
In quei terribili nove mesi Roma - anche per ragioni geografiche (eravamo a poche diecine di chilometri dal fronte) - è stata all'avanguardia (politica e militare) di tutte le città italiane occupate: la sua gente, i partigiani che da essa provenivano, hanno reso impossibile il disegno strategico del nemico, che voleva fare di Roma, dei suoi nodi stradali e ferroviari, dei suoi servizi, un comodo transito e un rifugio per i mezzi e le truppe da e per il fronte di Cassino e di Anzio, una tranquilla base per i suoi alti comandi, il luogo dove permettere un piacevole ristoro ai suoi soldati impegnati sul fronte.
I romani, con i loro figli partigiani che colpivano e sabotavano il nemico ogni giorno e ogni notte in città, nelle campagne intorno Roma e nel Lazio, con la loro capacità di aiutarli, nasconderli, proteggerli, fecero di Roma "una città esplosiva", come dovette ammettere Kappler, il boia delle Ardeatine, nel processo che subì alla fine della guerra.
Questa era la strategia della Resistenza romana, che perfino il collaboratore de L’Unità mostra di non aver compreso.
Il Maresciallo Clark, comandante della V Armata americana, ebbe a dire personalmente a Boldrini che soltanto quando le truppe anglo-americane entrarono in Roma i Comandi Alleati capirono senza più alcun dubbio che l’Italia era con loro.
Il costo della lotta partigiana
Abbiamo pagato cara questa nostra Resistenza: 650 Caduti, tra il il 9 e il 10 settembee 1943, nella battaglia per Roma. Di essi 400 erano ufficiali o soldati, e dei civili ben 17 furono le donne.
Oltre 50 furono i bombardamenti Alleati, dovuti alla presenza in città di comandi, mezzi e truppe tedesche (altro che "città aperta"!); fame e miseria; deportazioni; rastrellamenti in tutti i quartieri, centrali e periferici; il coprifuoco alle 4 del pomeriggio; unica città in Italia, fu proibito a Roma l'uso delle biciclette (altri mezzi, oltre quelli pubblici, non erano consentiti ai civili); feroci esecuzioni e rappresaglie, le Ardeatine, Bravetta, La Storta, il Ghetto, il Quadraro, le razzie, gli arresti, le torture (via Tasso, Palazzo Braschi, la pensione Oltremare, la pensione Jaccarino, Regina Coeli, ecc.: operavano in Roma ben 18 "polizie", tedesche e italiane, pubbliche e "private"!), gli assassinii compiuti a freddo nel centro della città e nelle borgate.(10 fucilati a Pietralata, 6 renitenti fucilati a Ladispoli, 10 donne fucilate a Portuense, dieci donne fucilate a Tiburtino 3°, circa 80 fucilati a Bravetta, 14 fucilati alla Storta.....più la strage del Quadraro: su 700 cittadini deportati ne sono tornati solo 300!... più la strage degli ebrei , circa duemilacinquecento deportati, ne sono tornati circa 120...
I partigiani romani uccisi in combattimento, morti sotto la tortura o fucilati, nei nove mesi che vanno dal 9 settembre 1943 al 5 giugno del 1944 sono 1.735, oltre ad alcune migliaia di cittadini romani, ebrei e non, deportati nei campi di sterminio in Germania e che non sono tornati; ma in questi stessi nove mesi in Roma furono condotte azioni militari e di sabotaggio che in numero e in qualità non hanno pari, nei limiti di quel periodo, in nessun’altra città d'Italia.
Fu così che il nemico pagò cara la sua permanenza in città, e si vendicò manifestando la sua brutale ferocia.
Ma quando gli eserciti alleati incalzarono, i tedeschi e i fascisti abbandonarono Roma precipitosamente, contro gli ordini di Hittler e Mussolini, che volevano impegnare battaglia in città casa per casa e deportare tutti gli uomini validi per il lavoro coatto, secondo i piani già approntati dal generale delle SS Wolff.
Roma era una "città esplosiva", e la non lontana esperienza di Napoli convinse anche i più feroci tra i nostri nemici a non correre rischi già sperimentati.
La Resistenza romana ebbe caratteristiche di spontaneità e di diffusione capillare che è difficile trovare altrove. Sono diecine le formazioni impegnate, grandi come come quelle dei partiti del CLN, in particolare i tre partiti di sinistra, PCI, Pd’A e PSIUP, come Bandiera Rossa, o i Cattolici Comunisti, o come il Centro Militare Clandestino dei "badogliani", ma anche piccole o piccolissime, che, per non aver potuto o voluto trovare il collegamento con i partiti del CLN, operavano autonomamente contro i tedeschi e i collaborazionisti fascisti.
Sono noti episodi di iniziative solidaristiche, ma anche di sabotaggio e di guerriglia, condotti addirittura da famiglie o da singoli, fino all’ultimo giorno dell’occupazione tedesca.
Tutto ciò, e per molte ragioni, che ha esaminato di recente anche Alessandro Portelli nel suo splendido libro "L’Ordine è stato eseguito" ed. Donzelli, che ha ottenuto nel 1999, con il Premio Viareggio per la saggistica il più ambito riconoscimento letterario italiano, si è attenuato nella memoria storica della città perché ha prevalso la disinformazione attraverso l’uso ripetuto di falsi e mistificazioni, malgrado le smentite documentate e l’uniformità delle delibere di tutti i livelli della magistratura, fino alle Cassazioni civili, penali e militari [...]
Rosario Bentivegna, Sulla Resistenza romana e sulle vicende di via Rasella si sono dette troppe sciocchezze. Anche a sinistra, "la RINASCITA della sinistra", 18 ottobre 2002, pagg 28-29, art. qui ripreso da resistenzaitaliana.it

La parola segreta era "Elefante". Questa volta, a differenza dai tempi dell’invasione cartaginese, l’elefante non arrivava come nemico. Significava che gli alleati stavano per liberare Roma. L’elefante amico. La radio alleata trasmise la parola "elefante" alle 23,15 del 3 giugno 1944. Le retroguardie tedesche lasciarono Roma la mattina del 4 giugno, mentre gli ultimi prigionieri di via Tasso erano liberati dalla popolazione e la palazzina del boia Kappler veniva saccheggiata. L’esercito di Clark inondò Roma nelle prime ore del pomeriggio incontrando le prime folle festanti nelle periferie della via Prenestina, della via Casilina, della via Appia, e nelle borgate di Tor Pignattara e Centocelle, dove i fascisti e i tedeschi nelle ultime settimane non avevano osato più passare né di giorno né di notte per paura dei partigiani.
I sentimenti di un popolo che aveva vissuto una terribile notte durata nove mesi non erano molto diversi da quelli dei soldati che dall’inverno avevano sostenuto durissime battaglie sui fronti di Cassino e di Anzio. Solo negli ultimi 23 giorni, la quinta e la settima armata erano riuscite a scardinare la linea Gustav, si erano aperte, attraverso i monti Aurunci, la strada per i Castelli Romani, e unendosi alle truppe sbarcate quattro mesi prima ad Anzio, avevano dato l’ultima spallata al generale Kesserling, che, annidato nelle caverne del monte Soratte, inviava al macello i suoi battaglioni. Roma, la prima capitale europea liberata, era un simbolo per i soldati alleati come lo era per tutti gli italiani.
Redazione, La Liberazione di Roma (4 giugno 1944) in resistenzaitaliana.it

mercoledì 4 maggio 2022

Buranello acconsente di fare il gappista «per disciplina»


Il Partito comunista era l’unico [a Genova], seguito in ciò dal Partito d’azione, ad essere riuscito a conservare una seppur embrionale struttura organizzativa; il tutto all’interno del mondo operaio che, agli occhi dei giovani e imprudenti cospiratori, appariva invece inerme e sfiduciato. Gli studenti non potevano credere che i pericolosissimi comunisti descritti dalla propaganda del regime fossero quegli stessi lavoratori spossati dalla fatica e obbedienti alla disciplina di fabbrica; non riuscivano del tutto a capacitarsi di questi militanti, che non conservavano nemmeno un elenco degli iscritti e che sembravano limitare ogni attività alla raccolta delle quote del soccorso rosso.
Così come per gli altri dissidenti, anche per i comunisti era ormai impossibile uscire dal chiuso delle cellule e delle amicizie fidate: a ogni tentativo, seppur minimo, di portare la lotta dal gruppetto clandestino all’azione di massa, rispondeva immediatamente la reazione poliziesca. Ogni movimento più esteso era stroncato sul nascere, colpendo quadri difficili da sostituire. Con un’organizzazione quasi interamente smantellata dalla polizia e con i dirigenti all’estero, in galera o al confino, i comunisti erano del tutto assenti dalla vita pubblica, con l’ovvia esclusione delle scritte sovversive, che mani anonime facevano in genere comparire negli ambienti frequentati da operai. Solo con il crollo del fascismo il partito avrebbe ripreso vitalità, sebbene in forme affatto clandestine.
Anima del gruppo degli studenti nonché loro principale ispiratore era Giacomo Buranello, all’epoca poco più che ventenne. Universitario iscritto al biennio di Ingegneria, in lui si incontravano un’intelligenza decisamente al di sopra della norma e una solida e vasta cultura. Gli erano peculiari uno spirito di sacrificio e una forza di volontà non comuni, senza alcun dubbio determinati dal contesto di provenienza, ossia dall’essere cresciuto in una famiglia operaia del ponente cittadino di disagiate condizioni economiche. Dopo una prima infatuazione per gli ideali del Risorgimento italiano, Buranello aveva aderito al Partito comunista <58.
Non bisogna inoltre dimenticare che il gruppo di ventenni in cui Buranello si sarebbe presto affermato come leader era andato formandosi al di fuori di qualsiasi contatto con la dirigenza del Partito, mentre solo in un secondo momento questi ragazzi avrebbero cercato tra i lavoratori dell’industria vecchi militanti e nuovi adepti. Il piccolo movimento capeggiato da Buranello, benché assolutamente degno di nota, era tuttavia solo uno tra le decine di raggruppamenti giovanili antifascisti che erano andati costituendosi nella prima metà del 1942 e che tendevano a ricreare dal basso un tipo di dissidenza che si richiamava direttamente al comunismo, al socialismo, al rivoluzionarismo socialista o liberale <59.
[NOTE]
58 Numerose e interessanti le notizie desumibili sulla breve vita di Giacomo Buranello che, dopo l’arresto dell’11 ottobre 1942 e la liberazione del 29 agosto 1943, sarebbe divenuto a Genova il comandante del primo nucleo dei Gruppi di azione patriottica (Gap). Catturato il 2 marzo 1944, venne fucilato il giorno seguente; gli venne conferita la Medaglia d’oro al Valor militare (N. Simonelli, Giacomo Buranello: primo comandante dei Gap di Genova, Ghiron, Genova, 1977; e inoltre Calegari, Comunisti e partigiani, op. cit., pp. 7-60; F. Gimelli, La Resistenza armata, in Tonizzi, Battifora, Genova 1943-1945, op. cit., pp. 111-142).
59 Per citare due tra gli esempi più significativi, tra il gennaio e il giugno 1942 venne fondato a Perugia il Movimento universitario rivoluzionario italiano (Muri), da parte di alcuni studenti universitari e medi; quasi contemporaneamente a Cesena una ventina di diciottenni diede vita alla Giovane internazionale. Cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. IV, La fine del fascismo dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino, 1976, pp. 84-91.
Paola Pesci, La famiglia Lazagna tra antifascismo e Resistenza, Storia e Memoria, n. 5, 2015, Ilsrec, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea


Fonte: Patria Indipendente

Fonte: Patria Indipendente

L’esempio più efficace per descrivere questi primi gappisti è sicuramente Giacomo Buranello, studente in Ingegneria all’università di Genova, che, nonostante la giovane età, aveva già conosciuto le galere fasciste per la sua attività sovversiva durante il regime. Buranello venne scelto dai vertici del Pci proprio per la sua spregiudicatezza che si spingeva fino ai limiti dell’incoscienza. Per il suo atteggiamento audace generò tensioni tra i vecchi militanti genovesi che lo consideravano un “avventurista”, ma Buranello si dimostrò la persona adatta per dare il via alle azioni gappiste in un contesto dove mancava l’apporto logistico necessario: non si disponeva di armi - che andavano assolutamente strappate ai nemici -, di bombe e di uomini, ma al contempo era necessario che qualcuno si sacrificasse e desse il via alla lotta uccidendo fascisti, indipendentemente dal ruolo ricoperto, generando in loro la paura di un nemico invisibile. La prima azione militare di rilievo, organizzata dal primo gruppo di Gap comandato da Buranello, venne compiuta a Sampierdarena alle ore 18 del 28 ottobre 1943, quando fu colpito a morte il capo manipolo della Milizia fascista <29.
Quella che possiamo definire “prima generazione gappista” pagò un prezzo altissimo per la propria partecipazione alla guerra di Resistenza: i pochi che riuscirono a sfuggire alle torture e alle fucilazioni dovettero riparare in montagna da ricercati, con taglie pesanti sulle loro teste. Sulla testa di Buranello pendeva, già nel gennaio del 1944, una taglia da un milione di lire e, per questo, venne fatto allontanare da Genova, tornò poi in città alla fine di febbraio per partecipare allo sciopero generale ma fu catturato il 2 marzo: venne fucilato dopo aver subito pesanti torture all’alba del giorno successivo.
29 Cfr. N. Simonelli, Giacomo Buranello, primo comandante dei Gap di Genova, De Ferrari, Genova 2002.
Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca in Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea. II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici - Rivista di storia contemporanea, 3 (2015)


A Genova, dopo il dissolvimento del primo nucleo di Giacomo Buranello, l’organizzazione gappista, agli ordini di Germano Jori <137, tra il maggio e il giugno 1944, realizza un numero consistente di azioni, tra cui la bomba esplosa al cinema Odeon con la quale, il 15 maggio, vengono eliminati 5 soldati tedeschi <138. Le catture e le cadute subite nel luglio 1944, che coinvolgono lo stesso Jori, conducono, però, al tracollo dell’intera struttura. In un rapporto del 14 agosto 1944, Remo Scappini afferma che l’organizzazione gappista genovese:
"È quasi inesistente come tale. A Genova dopo gli arresti l’organizzazione ha subito così duri colpi che ci ha indotto ad allontanare tutti i vecchi membri […] Siamo molto deboli in questo campo" <139.
La condizione dei GAP resta deficitaria anche nei mesi seguenti, dato che Scappini, in un’informativa del 19 marzo 1945, in riferimento alle operazioni compiute dalle varie strutture armate del PCI, non fa alcun accenno al gappismo:
"A questo elevamento morale e rinvigorimento dello spirito di lotta specialmente degli operai e impiegati industriali […] hanno molto contribuito le azioni partigiane, specialmente quelle effettuate nelle province di Genova e di Savona, le azioni delle Sap e l’intensa agitazione e propaganda delle organizzazioni del Partito" <140.
[...] Giacomo Buranello nasce nel comune veneziano di Meolo il 17 marzo 1921. La madre, Domenica Bondi, proviene da una famiglia toscana di condizione agiata, la qual cosa le permette di portare avanti gli studi fino alle scuole superiori. Una volta caduto in disgrazia, il nucleo familiare Bondi si sposta a Genova con la speranza di trovare una migliore sistemazione economica. È qui che Domenica conosce Giuseppe Buranello, un contadino di origine veneta che ha lasciato i luoghi natii al fine di cercare lavoro in una grande città industriale. I due si sposano e Domenica, rimasta incinta, in attesa che Giuseppe trovi un’occupazione a Genova, decide di affrontare la gravidanza dai parenti del marito a Meolo. Quando Giuseppe viene assunto alle fonderie dello stabilimento Ansaldo, la moglie e il neonato si trasferiscono con lui in un’abitazione sita in via Leone Pancaldo, nel quartiere di Sampierdarena. È in questo «piccolo mondo abitato esclusivamente da famiglie operaie e da poverissima gente» <290 che Giacomo trascorre la sua infanzia.
Egli, fin da piccolo, si dimostra dotato di intelligenza e predisposizione allo studio. Alle scuole elementari risulta sempre il migliore della classe, pur dovendo lasciare il primo posto al figlio del podestà <291 o della famiglia benestante di turno. Decisivo per la sua formazione è l’incontro, in quarta e quinta elementare, con l’insegnante Antonio Rossi, antifascista, il quale «fu soprattutto un maestro di vita» <292. Tra i due nasce un rapporto di stima reciproca, «proseguito durante l’adolescenza e la giovinezza di Buranello e sfociato in un sodalizio intellettuale e politico» <293. Giacomo assorbe con precocità e vivo interesse gli insegnamenti del maestro. Rossi propone a Buranello, divenuto suo ex scolaro, consigli di lettura e discussioni su varie tematiche. A testimonianza dell’impatto avuto negli anni da Rossi sul suo sviluppo culturale e umano, queste sono le parole scritte nell’agosto 1939 da Giacomo al vecchio docente:
"Lei è per me il Maestro per eccellenza: dai Suoi due anni di insegnamento, vorrei dire di apostolato, ho attinto quelle prime idee, soprattutto quei sentimenti fondamentali che non si mutano e che creano l’uomo e il cittadino. Dalle sue lezioni ardenti su Mazzini, che io ricordo come se fossero di ieri, ho appreso l’amore della libertà e il culto della dignità umana, quei sentimenti che danno uno scopo alla vita e moltiplicano le energie degli individui intenti a realizzarle. Non abbandonerò questi sentimenti, qualunque sia la strada che io seguirò in futuro" <294.
Terminate le scuole elementari nel 1931, Buranello viene iscritto all’istituto tecnico Vittorio Emanuele III. Anche qui Giacomo, malgrado la sua preparazione e gli ottimi risultati conseguiti, si vede scavalcato, per quel che concerne il merito scolastico, da compagni provenienti da famiglie abbienti. È l’inizio di un processo che lo porta ad acquisire una progressiva consapevolezza della sua condizione sociale di figlio di operaio e a sviluppare una «spiccata avversità nei confronti di chi aveva condizioni agiate e di conseguenza di privilegio» e un «forte senso critico nei confronti delle autorità» <295.
Buranello inizia a frequentare nell’autunno 1935 il liceo scientifico Gian Domenico Cassini. Malgrado questo genere di studi, propedeutico alle facoltà universitarie di medicina e ingegneria, sia solitamente precluso a ragazzi di bassa estrazione sociale, la madre Domenica, dotata di grande personalità e di una notevole influenza su Giacomo, «avendo perfettamente compreso le attitudini del figlio, non ebbe dubbi ad indirizzarlo verso uno studio che gli permettesse, accedendo poi all’Università, di far valere tutta la propria intelligenza» <296.
A partire dal terzo anno di liceo, la cucina di casa Buranello, con il favore di Domenica, diventa luogo di ritrovo di un gruppetto di giovani di Sampierdarena. Si tratta di amici di Giacomo di vecchia data, tra cui Walter Fillak, Giambattista Vignolo, Ottavio Galeazzo e Orfeo Lazzaretti, i quali sono mossi da un «comune interesse per la lettura, lo studio e per la conversazione» <297:
"Dalle iniziali discussioni letterarie e filosofiche, passeranno ben presto ad esprimersi con molta chiarezza e senso critico sugli avvenimenti politici. […] Da questi giovani studiosi verrà intentato, sul piano intellettuale, con un enorme sforzo, un lungo processo alle strutture del fascismo" <298.
Dal confronto tra i membri del gruppo emerge una «estraneità alle sollecitazioni e alla cultura del fascismo» <299:
"Non accettavamo i rituali. Ci si ribellava. Non andavamo alle riunioni. Trovavamo giustificazioni per non far parte di quello che allora era considerato l’atteggiamento giusto, confacente. Forse tutto ciò dipende dalla predisposizione di ciascuno di noi verso l’accettazione o meno. Per noi l’accettazione era il fascismo. Ribellarsi era rifiutare il fascismo <300. Tutto è stato quando sono cominciate le nostre letture; i libri che ci piacevano. Lì abbiamo capito che il fascismo era tutto il contrario. C’era anche una certa predisposizione all’indisciplina, a non accettare le adunate e una scuola che ti trattava come un bambino dell’asilo. C’era un rifiuto… Il rifiuto ci accomunava e nello stesso tempo ci apriva a cose diverse da quelle che ci proponeva il fascismo" <301.
Giacomo ritiene il fascismo «un’enorme macchina fondata sulla paura di “perdere il posto”», che «si frantumerà inevitabilmente» <302 una volta dato l’esempio. Dal suo diario, steso tra 1937 e 1939, per quanto condizionato dal «pensiero posteritatis» che induce chi scrive ad una «falsa sincerità caratteristica anche delle autobiografie ritenute più schiette» <303, emerge in lui una disposizione al sacrificio, di sapore risorgimentale e mazziniano:
"[…] ho concluso che occorre sacrificarsi; che il sangue dei martiri segna la strada più sicura alle Idee, che il nostro Risorgimento era fatto meritorio già dopo i primi tentativi falliti e soffocati nel sangue. Dissi che occorre mantenersi liberi da nuova famiglia perché la nostra eventuale morte debba lasciare il minor lutto possibile: niente moglie niente figli. Che occorre trasformare il pensiero e i sentimenti in azione: questo si fa sacrificandosi. Ma prima di giungere al sacrificio supremo bisogna prepararsi perché tale sacrificio possa effettuarsi ed abbia la maggior efficacia" <304.
Si tratta di «una visione eroica dell’impegno personale, che gli anni matureranno, attenuandone gli aspetti più letterari e i toni retorici, e che resterà sino alla fine un aspetto peculiare della sua milizia» <305.
Conseguita la maturità scientifica nell’estate del 1939, Giacomo inizia l’università. Insieme a Fillak e a Lazzaretti, frequenta il primo anno del biennio di ingegneria, comune al ramo di chimica industriale, scelto dagli amici, e a quello di elettrotecnica, selezionato da lui. Le nuove conoscenze strette in ambito universitario portano all’entrata nel gruppo, facente capo a Buranello, di nuovi studenti, quali Luciano Codignola, Arnaldo Minnicelli, Tommaso Catanzaro e Goffredo Villa <306.
In tutti gli appartenenti del raggruppamento vi è la necessità di dare una svolta organizzativa agli incontri, di «trasformare il proprio antifascismo teorico in attività pratica» <307. Giacomo sceglie di iniziare da semplici azioni di propaganda volte a «recuperare la classe operaia dal suo lungo sonno» <308. Nella classe operaia, infatti, egli vede il potenziale rivoluzionario in grado di abbattere il fascismo:
"Senza la lotta attiva delle masse lavoratrici, senza l’esperienza combattiva operaia, il fascismo non sarebbe mai caduto. Ma dovrà essere lo studioso […] a mettersi al servizio degli oppressi. L’intellettuale dovrà muoversi per primo. È il suo privilegio culturale che lo obbliga ad essere avanguardia. Egli, l’intellettuale, conoscendo meglio d’ogni altro l’efficacia contenuta nel movimento e nell’azione, dovrà agire pensando di compiere un atto pedagogico, educativo nei confronti delle masse" <309.
Sulla base di questa logica, l’attività viene avviata in direzione della classe operaia genovese nelle zone di Sampierdarena, Cornigliano, Sestri Ponente e Rivarolo. Attraverso queste iniziative propagandistiche, Buranello si propone «conseguenze politiche precise per una prossima organizzazione comunista» <310. Per il gruppo di studenti, il comunismo:
"[…] rappresentava il coronamento di storie familiari, locali. Gli studenti erano approdati al comunismo per una inquietudine frutto di una somma di fattori dove carattere, sensibilità, condizione familiare, un maestro elementare e un eccesso di letture avevano avuto, sia pure in dosi diverse per ognuno, il loro peso" <311.
Il primo contatto comunista per Buranello avviene all’inizio del 1940, attraverso un colloquio, preparatogli dal maestro Antonio Rossi, con Emilio Guerra <312, ferroviere di Sampierdarena. Ciò rappresenta per Giacomo l’inizio di una serie di incontri e collegamenti con militanti operai di varie fabbriche e del porto di Genova.
Il 1° marzo 1941 Buranello viene chiamato a prestare servizio militare. Destinato a Bologna, vi trascorre 5 mesi, ossia la durata del corso per specialisti marconisti. Conseguita la specializzazione, viene trasferito momentaneamente a Chiavari, in attesa di essere inviato a Pavia per partecipare ad un corso preparatorio per allievi ufficiali di completamento. Classificatosi tra i primi del corso, ha la possibilità di scegliere una sede che lo avvicini maggiormente a casa. Così, nel febbraio 1942, è nuovamente a Chiavari, sottotenente di completamento presso il 15° Reggimento Genio. Favorito dalla vicinanza con Genova, Giacomo riprende la sua attività politica alla testa della neonata organizzazione clandestina comunista, che continua ad espandersi a macchia d’olio, sviluppandosi, oltre che in Liguria, anche in direzione di Alessandria e Torino.
Nel maggio 1942 viene costituito un Comitato centrale di cui entrano a far parte Buranello, Walter Fillak, Giambattista Vignolo e Ottavio Galeazzo per il gruppo degli studenti, mentre tra gli operai vengono scelti Emilio Guerra, l’ex ferroviere Edgardo Pinetti per i suoi contatti con il centro della città e la val Bisagno, il falegname Cesare Bussoli per quelli con la Riviera di Levante e Raffaello Paoletti <313, in quanto responsabile del gruppo operante in val Polcevera. Scopo del Comitato è «formare un’organizzazione centralizzata che dia unità e forza al Partito nella Provincia di Genova e nelle zone contigue» <314.
[...] Questo organismo, che rappresenta a Genova «l’ultimo progetto cospirativo comunista vissuto in città prima della caduta del fascismo» <317, viene smembrato dagli arresti dell’11 ottobre 1942.
Nel giorno fissato da Buranello con l’architetto Giuseppe Bianchini <318, rappresentante di un altro gruppo comunista operante nel centro della città di Genova, per concludere le modalità di fusione dei due raggruppamenti, l’organizzazione di Giacomo, sotto indagine da diversi mesi, cade vittima di una vasta operazione di polizia che porta alla cattura della quasi totalità dei suoi membri dirigenti.
Buranello, essendo ancora in servizio militare, viene incarcerato nelle prigioni del 15° Reggimento di Chiavari, salvo poi essere trasferito nel carcere genovese di Marassi e, in seguito, in quello di Apuania. Trovatosi a Roma, nel carcere di Regina Coeli, in attesa di essere giudicato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, al momento della destituzione di Mussolini, Giacomo viene rimesso in libertà il 29 agosto 1943.
Tornato a casa, egli viene inserito ufficialmente nell’organico del PCI genovese, di cui uomo forte è ora Raffaele Pieragostini <319. Quest’ultimo, «consapevole della singolarità delle loro posizioni e della difficoltà di controllarne politicamente l’azione» <320, decide di utilizzare Giacomo Buranello e Walter Fillak in ruoli operativi e non in «un impiego che valorizzasse le caratteristiche intellettuali o la loro collocazione universitaria» <321:
"[…] non ci si fermò ad interrogarsi sulla migliore collocazione di un quadro né sul ruolo che potevano assumere militanti della caratura di un Buranello o di un Fillak. […] si decise che Fillak e Buranello sarebbero andati a lanciare bombe. Specialmente non avrebbero assunto ruoli di direzione politica che restavano riservati al partito di Ventotene" <322.
Quando gli viene comunicata la scelta di impiegarlo, in virtù dei suoi trascorsi nell’esercito, come comandante dei futuri GAP, Giacomo non vuole accettare. Infine, acconsente di fare il gappista «per disciplina» <323, pur non riuscendo a tenere nascosta, nel corso dei mesi, «una ribellione intima (che rigettava in continuazione) al ruolo che si trovava a svolgere e che certo non identificava con l’indole del proprio essere» <324:
"Buranello avrebbe preferito fare, data l’attività svolta precedentemente, un lavoro di coordinamento politico specialmente in settori come l’Università, con gruppi di studiosi e studenti, mantenere contatti in ambienti in cui avrebbe potuto esprimere la sua personalità ed esplicare una funzione dirigente" <325.
Ciononostante, verso la metà di ottobre si forma a Genova il primo nucleo dei GAP, composto da Buranello, Fillak, Andrea Scano <326, Angelo Scala <327, Balilla Grillotti <328 e Germano Jori. La loro prima azione militare di rilievo viene compiuta il 28 ottobre 1943 a Sampierdarena, con l’uccisione del capo manipolo della MVSN Manlio Oddone.
A seguito della già accennata retata fascista del 31 dicembre 1943, che, anche nei giorni successivi, è causa di arresti e trasferimenti in montagna, gli unici gappisti rimasti attivi a Genova nel mese di gennaio sono Buranello e Scano, i quali portano a termine due iniziative: la prima, realizzata il 13, in via XX Settembre, riguarda l’abbattimento, tramite colpi di pistola da distanza ravvicinata, di due ufficiali tedeschi; la seconda consiste nel lancio di alcune bombe a mano contro la casa del fascio di Sampierdarena in data 15 gennaio.
Dopodiché, anche loro ricevono l’ordine di Remo Scappini, divenuto responsabile del PCI a Genova e in Liguria, di allontanarsi dalla città e di portarsi in montagna.
A Buranello viene assegnato il comando del 1° distaccamento della 3ª brigata Liguria, operante nella zona del monte Tobbio. Si tratta di un ruolo che ricopre per breve tempo, per il fatto che, in vista dello sciopero generale programmato per l’inizio di marzo 1944, egli viene richiamato a Genova, insieme a Walter Fillak, allo scopo di sostenere, attraverso azioni di sabotaggio, i manifestanti in lotta nelle fabbriche.
Così, Giacomo torna a Sampierdarena la sera del 28 febbraio. L’ampia mobilitazione di forze tedesche e fasciste in conseguenza del proclamato sciopero, unitamente al riscontro di un’assoluta mancanza di partecipazione della classe operaia ad esso, però, porta ad un immediato contrordine: Buranello viene intimato a non eseguire interventi armati in città e a fare ritorno al più presto alla sua formazione partigiana. Egli, tuttavia, malgrado la precarietà della situazione, decide di non tornare in montagna, bensì di «organizzare alcune azioni che avessero ridato fiducia agli operai per la lotta» <329:
"Quando mi dissero che Buranello, nella situazione in cui si trovava Genova, non voleva ritornare in montagna, pensai che egli rimaneva coerente con se stesso fino all’ultimo. Buranello aveva fretta di bruciare le tappe. Il suo entusiasmo nel perseguire una giusta causa gli fece perdere di vista anche le elementari norme di condotta dell’attività clandestina. Nel suo fervido pensiero […] forse ripudiava le lentezze, i compromessi in attesa che maturassero gli altri. Ed ancora, le raccomandazioni di compagni anziani alla prudenza. Per tutto questo penso fu spinto, in quel clima drammatico, ad agire" <330.
La mattina del 2 marzo, durante un appuntamento al bar Delucchi mirato ad ottenere documenti di identità falsi per la sua permanenza a Genova, Giacomo viene catturato e portato in questura, dove subisce interrogatori e torture. Su ordine del questore Arturo Bigoni, viene convocata per la sera stessa una riunione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI <331, i cui componenti decretano la pena di morte a Buranello mediante fucilazione alla schiena.
La sentenza viene eseguita, all’alba del 3 marzo 1944, sull’altura del Forte San Giuliano.
[NOTE]
137 Germano Jori (1904-1944). In carcere dal 1933 al 1937, fu comandante dei GAP genovesi dopo la morte di Giacomo Buranello. Il 13 luglio 1944, identificato in un bar di Sampierdarena, fu ucciso mentre tentava di sottrarsi alla
cattura, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 27-06-2019.
138 L’attentato fu seguito, il 19 maggio, dalla rappresaglia del passo del Turchino, con la fucilazione di 59 detenuti, prelevati dal carcere di Marassi.
139 Remo Scappini (Giovanni), Rapporto dalla Liguria del 14-08-1944, in Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945, cit., p. 481.
140 Remo Scappini (Giovanni), Informazioni dalla Liguria del 19-03-1945, in Ibid., p. 975.
290 Nicola Simonelli, Giacomo Buranello. Primo comandante dei GAP di Genova, De Ferrari, Genova 2002, p. 15.
291 Il podestà, nel corso del regime fascista, fu, con la soppressione della carica di sindaco, l’organo monocratico a capo del governo di un comune.
292 Testimonianza di Domenica Bondi, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 18.
293 Pietro Rossi, Giacomo Buranello, i Gap, la violenza e la moralità nella Resistenza: analisi e riflessioni, in «Storia e memoria», 2005, 2, pp. 212-213.
294 Lettera di Buranello ad Antonio Rossi del 12-08-1939, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., pp. 42-43.
295 Testimonianza di Orfeo Lazzaretti, in Ibid., p. 20.
296 Ibid., p. 26.
297 Ibid., p. 34.
298 Ivi.
299 Manlio Calegari, Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945, Selene, Milano 2001, p. 22.
300 Testimonianza di Ottavio Galeazzo, in Ibid., p. 38.
301 Testimonianza di Orfeo Lazzaretti, in Ivi.
302 Mariella Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in «Storia e memoria», 1994, 2, p. 86.
303 Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in Ibid., p. 81.
304 Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in Ibid., p. 86.
305 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 33.
306 Goffredo Villa (1922-1944). Comunista, entrò a far parte del gruppo di studenti di Buranello e Fillak. Arrestato, riacquistò la libertà in seguito alla caduta del fascismo. Fu membro dei GAP genovesi e, in seguito, partigiano. Venne fucilato al Forte San Giuliano il 29 luglio 1944, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
307 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 49.
308 Ibid., p. 50.
309 Ivi.
310 Ibid., p. 52.
311 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 31.
312 Emilio Guerra (1906-1944). Ferroviere comunista, fatto prigioniero nel corso della Resistenza, fu tra coloro che persero la vita, mediante fucilazione, nella strage del Turchino del 19 maggio 1944, in Simonelli, Giacomo Buranello,
cit., p. 58.
313 Raffaello Paoletti, nato nel 1910, comunista. Dichiaratosi contrario all’organizzazione centralizzata pensata da Buranello, il 27 settembre 1942 fu espulso dal Comitato centrale di cui faceva parte. Malgrado l’allontanamento,
anch’egli finì nell’elenco degli arrestati di ottobre, in Calegari, Comunisti e partigiani, cit., pp. 61-62.
314 Atto costitutivo dell’organizzazione, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 109.
317 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 67.
318 Giuseppe Bianchini (1894-1951). Aderì al PCd’I dal 1921, fu tra i primi dirigenti della sezione genovese del partito. Nel corso della Resistenza divenne segretario del Triumvirato insurrezionale della Liguria, in Donne e Uomini della
Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
319 Raffaele Pieragostini (1899-1945). Aderì al PCd’I nel 1922. Fu arrestato nel 1927 e condannato a 5 anni. Scarcerato, lasciò l’Italia, in accordo con il partito, continuando a svolgere attività politica in Francia, Unione Sovietica e
Spagna. Fu arrestato in Francia nel 1942 e condotto in Italia, riottenendo la libertà dal carcere di San Gimignano nell’agosto 1943. Venne chiamato a dirigere il PCI a Genova. Fu vice comandante militare del CLN della Liguria, in
AA. VV., Ear, vol. IV, cit., p.587.
320 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 74.
321 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 139.
322 Ivi. Con partito di Ventotene si intende il gruppo di dirigenti e quadri di partito che, a seguito della liberazione dall’isola omonima, assunse la guida dell’organizzazione comunista in Italia.
323 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 74.
324 Ibid., p. 78.
325 Ibid., p. 74.
326 Andrea Scano (1911-1980). Accorso volontario in Spagna per combattere nelle Brigate internazionali, nel 1939 finì nei campi di internamento francesi. Consegnato nel 1941 alle autorità fasciste italiane, fu confinato a Ventotene. Nel
corso della Resistenza, fu gappista a Genova e partigiano nell’alessandrino, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
327 Angelo Scala (1908-1974). Comunista, fece parte dei GAP genovesi. Con il nome di battaglia «Battista» nel novembre 1944 divenne comandante della Brigata Volante Balilla, squadra di punta dotata di grande mobilità, operante tra
Bolzaneto, la val Polcevera e Genova, in Wikipedia, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
328 Balilla Grillotti (1902-1944). Operaio comunista, operò nei GAP di Genova. Catturato il 19 luglio 1944 e processato dieci giorni dopo, fu condannato a morte e fucilato, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
329 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 94.
330 Testimonianza di Remo Scappini, in Ibid., p. 95.
331 Fu un tribunale straordinario della Repubblica Sociale Italiana, istituito nel dicembre 1943 ed erede del disciolto Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019


Era uno studente bravissimo, Giacomo Buranello. Il capo dei Gap genovesi, fucilato il 3 marzo 1944 quando ancora non aveva compiuto 23 anni, ai ragazzi più giovani che avevano scelto di seguirlo dopo l’8 settembre, ripeteva sempre l’insegnamento mazziniano: “studiate, studiate sempre”, come ricorda Giordano Bruschi, il partigiano “Giotto” che, diciottenne, fu tra loro.
E a cent’anni dalla nascita - era nato il 27 marzo 1921 - decine di docenti della Scuola Politecnica dell’Università di Genova, insieme al centro di Documentazione Logos hanno infatti promosso una richiesta per il conferimento della Laurea alla Memoria a Buranello - a cui già negli anni 70 era stata intitolata l’Aula Magna della Facoltà di Ingegneria - e il Consiglio della Scuola Politecnica ha approvato all’unanimità la proposta, trasmettendola ora ai vertici dell’Ateneo a cui spetta la decisione di attribuire il titolo [...]
Donatella Alfonso, Giacomo Buranello, una laurea alla memoria, Patria Indipendente, 27 marzo 2021