Adriano Maini
martedì 26 dicembre 2023
Venne a Bordighera un ufficiale della Milizia Confinaria a prelevarmi con un'autovettura per trasportarmi a Ventimiglia
domenica 29 ottobre 2023
Le indagini di Paolo Borsellino e il suo assassinio
A ricostruire gli eventi di quel pomeriggio sono due testimonianze particolarmente rilevanti. Una è quella di Rita Borsellino, sorella del magistrato, che racconta come «A un tratto, durante l'interrogatorio, Paolo riceve una telefonata, chiude il verbale, si precipita al Viminale, poi ritorna da Mutolo. Il pentito ha detto successivamente che di ritorno dal Viminale Paolo era talmente nervoso che fumava due sigarette contemporaneamente e decise di non continuare l'interrogatorio» <70. Ancora più dettagliata è la ricostruzione di Mutolo, illustrata il 21 febbraio 1996 nell’aula del processo per la strage di via D’Amelio. «Il giudice Borsellino mi viene a trovare io ci faccio un discorso molto chiaro e ci ripeto quello che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti. Allora mi ricordo probabilmente che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga riceve una telefonata, quindi manca qualche ora e mi ricordo che quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato. Io insomma non sapendo gli ho chiesto “dottore ma che cos’ha?” e lui molto preoccupato e serio mi fa che si è incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada, mi dice di scrivere che il dottor Contrada era colluso con la mafia e che il giudice Signorino era amico dei mafiosi» <71.
A quel punto, dunque, Borsellino sa: è stato informato dei contatti che gli uomini dello Stato hanno con Cosa Nostra e, come logica conseguenza, il suo primo pensiero va alla morte dell’amico Falcone. Ci mette poco, il giudice, a immaginarsi quale sarà il prossimo obiettivo dei mafiosi: la sera stessa infatti, in una telefonata alla moglie, confessa sconsolato «oggi ho respirato aria di morte» <72.
Nel frattempo, però, la malavita siciliana mette in pausa la sua strategia del terrore. È ben consapevole che in Parlamento sia ancora in discussione il decreto-legge che introduce il 41 bis, da convertire entro un massimo di due mesi di tempo. L’idea è, dunque, quella di attendere l’inizio di agosto e lasciare che il provvedimento decada, per poi ricominciare da dove il progetto stesso era stato lasciato, ma a questa strategia attendista, Borsellino risponde con un’ulteriore intensificazione delle indagini.
Il 15 luglio, una scoperta lo lascia senza parole. Tornando a casa la sera dopo una faticosa giornata di lavoro, il giudice è in preda a ripetuti conati di vomito. La moglie Agnese, vedendolo, corre in suo soccorso e Borsellino le dice «sto vedendo la mafia in diretta. Ho saputo che il generale Subranni è punciutu» <73. “Punciutu”, un termine prettamente siciliano che corrisponde a “punto” e che indica un rito di affiliazione alla mafia dove alla persona in esame viene punto l’indice della mano con cui, da quel momento in poi, dovrà sparare. Per completare la cerimonia, al nuovo membro della cosca viene fatto pronunciare un impegno solenne: «giuro di essere fedele a Cosa Nostra. Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento» <74. Borsellino capisce così che anche gli altissimi esponenti dell’Arma sono coinvolti e si sente circondato da traditori, sapendo che il tempo stia ormai per finire.
Il 19 luglio è una domenica di sole e il giudice si trova al mare con la famiglia, a Villagrazia di Carini. Come ogni fine settimana, nel pomeriggio torna in città, a Palermo, e si reca dalla madre che abita in Via d’Amelio 21, considerata pericolosa già da tempo perché molto stretta e senza vie di fuga. Insomma, per un uomo posto sotto costante protezione della scorta, può essere considerata una pericolosa “trappola per topi” ed è infatti stato richiesto dalle autorità della città che in quella zona venga applicato il divieto di sosta per tutte le vetture, in modo da fugare ogni possibile timore di attentato <75. Eppure, in via D’Amelio, quel 19 luglio le macchine parcheggiate sono ancora molte.
L’orologio segna quasi le 17 quando il giudice, come da programma, suona al campanello della madre. Non fa in tempo a staccare il dito dal citofono che una Fiat 126, rubata qualche giorno prima e imbottita con circa 90 chili di esplosivo, viene fatta detonare. La strada salta in aria e così decine di macchine, oltre ai corpi di Borsellino e degli uomini della scorta. Uno di loro, Antonino Vullo, rimane in vita e per descrivere quegli attimi usa parole forti. «Il giudice e i miei colleghi» - racconta - «erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l'auto che era alla testa del corteo. Improvvisamente è stato l'inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L'onda d'urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c'erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto» <76.
Subito dopo l’esplosione, un uomo delle istituzioni, il capitano Arcangioli, viene ripreso dalle telecamere mentre cammina in via D'Amelio con una borsa di pelle marrone nella mano sinistra, una pettorina azzurra su cui si staglia uno stemma dorato dell'Arma e un marsupio nero attorno alla vita <77. Non si hanno prove sufficienti per stabilire con esattezza cosa abbia fatto il capitano dopo essersi allontanato, ma dalla scena del crimine sparisce l’agenda rossa di Borsellino, quella su cui era solito scrivere minuziosamente tutti i risultati delle sue indagini. L’agenda grigia, dove erano segnati gli appuntamenti, viene invece lasciata. Poche ore dopo, con due telefonate alle redazioni Ansa di Torino e Roma, una persona che si annuncia come portavoce della Falange Armata rivendica la strage.
Nelle vicinanze arrivano il figlio di Borsellino, Manfredi, e il suocero, il magistrato in pensione Angelo Pirano Leto, ex Presidente della Corte d’Appello di Palermo. Entrambi camminano attorno al cratere provocato dall’esplosione cercando notizie sul giudice. Anche la moglie vuole sapere qualcosa e telefona a chiunque per chiedere informazioni. A nessuno di loro, in quel momento, viene detta la verità <78. Intanto, al Palazzo di Giustizia di Palermo, vengono apposti i sigilli alla stanza del magistrato e così alla sua cassaforte, dove, secondo i familiari, teneva le carte di lavoro riservate. Nei giorni successivi, la cassaforte verrà aperta, ma stranamente, al suo interno, non si troverà nulla di importante <79.
[NOTE]
68 G. Lo Bianco e S. Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano, 2007, p. 137.
69 Ibidem, p. 140.
70 Ibidem
71 Ibidem, p. 141.
72 https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/15/intervista-inedita-a-borsellino-dimenticata-negli-archivi-rai/294265/
73 https://mafie.blogautore.repubblica.it/2019/08/24/senza-titolo-2/
74 P. Grasso, A. La Volpe, Per non morire di mafia, Pickwick, Milano, 2009, p. 132.
75 http://files24.rainews.it/strage-di-via-d-amelio/la-rai-racconta-borsellino/
76 https://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2013/07/18/news/via-d-amelio-ancora-troppi-misteri-1.56776
77 https://www.archivioantimafia.org/libri/borsellino_e_l_agenda_rossa.pdf
78 G. Lo Bianco e S. Rizza, L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano, 2007, p. 194.
79 Ibidem, p. 196.
Nicola Corradi, La trattativa Stato-mafia: Il biennio 1992-1993 da cui è nata la "Seconda Repubblica", Tesi di laurea, Università Luiss, Anno Accademico 2020-2021
domenica 6 agosto 2023
Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani
Verso le sette del mattino del 2 luglio si sentì un colpo di fucile seguito da una raffica di mitra. Era il segnale di allarme convenuto della 17a brigata Garibaldi. Arrivò concitato e trafelato dalla Frassa, Sauro Faleschini, cremonese diciottenne buon camminatore che "Deo" aveva voluto con sé come staffetta: "stanno venendo su, numerosi e armatissimi, tedeschi e camicie nere" <271. La "Felice Cima" stava per essere attaccata dai nazifascisti. La notizia del rastrellamento giunse presumibilmente prima ai distaccamenti stanziati all'imbocco della Valle di Rubiana, interamente occupata dalla brigata. Tra quelli c'era il distaccamento comandato da Mauro Ambrosio "Bil" di cui faceva parte Federico Del Boca. Del Boca nel suo diario, scrivendo del rastrellamento del 2 luglio, non cita il luogo dove era alloggiato il distaccamento, ma dice che era "un posto pericoloso, vicino alla strada, eravamo come l'avanguardia di tutti (…) c'erano poche casupole in parte disabitate; però aveva un belvedere magnifico, si vedeva la strada che andava al Col del Lys e, sottostante il paese di Rubiana, si dominava tutta la valle" <272.
All'alba le pattuglie del distaccamento di "Bil" portarono la notizia che ad Almese vi erano una ventina di carri armati e autoblinde che stavano per proseguire verso Rubiana. I tedeschi e i fascisti stavano risalendo la valle per effettuare il rastrellamento. Secondo la testimonianza di Del Boca giunse al loro distaccamento un partigiano appartenente ad un distaccamento stanziato sull'altro versante della valle, alle pendici della Rocca della Sella, in località Rubiana, che riferì ai partigiani di "Bil" come i nazifascisti avessero raggiunto già quella zona della valle e avessero catturato molti partigiani <273.
Quindi le truppe tedesche e quelle italiane stavano risalendo la valle da entrambi i versanti e, superiori in mezzi e armi, superarono facilmente i tentativi di contrastare la loro avanzata messi in atto dai primi distaccamenti della brigata messi a presidio della valle. Il comandante "Bil" dispose subito il distaccamento in posizione difensiva. Le armi erano poche, il distaccamento faceva affidamento su due mitragliatrici una da 7 mm e l'altra da 20 mm, sprovviste di piedistallo e di munizioni. Gli uomini di "Bil" attendevano che i fascisti e i tedeschi si avvicinassero per aprire il fuoco, "i loro elmi cominciarono a brillare sotto il sole; avanzavano lentamente a scacchiera avvicinandosi sempre più, perché prevedevano un attacco di sorpresa; intanto a noi faceva paura il modo in cui, avanzando, si allargavano; si finiva col rimanere circondati" <274.
"Bil" ordinò allora, per scongiurare l'accerchiamento dei propri uomini, come mossa difensiva, la disposizione a ferro di cavallo, tenendo così il più a lungo possibile la posizione che avrebbe permesso ai compagni delle retrovie di portare in salvo i feriti e i pochi rifornimenti di cui i partigiani disponevano. Gli uomini di "Bil" riuscirono a mantenere le posizioni per poco tempo, i nazifascisti numerosi e meglio armati avanzano inesorabilmente. A quel punto ai partigiani non rimaneva che disperdersi. Qualcuno cercò di nascondere la roba più ingombrante che si aveva dentro a delle buche scavate nei pressi del magazzino del distaccamento, gli oggetti più facilmente trasportabili i partigiani li portarono con sé. Il gruppo di "Bil" ripiegò verso il castello di Mompellano, la sede del comando della 17a brigata Garibaldi, inseguiti dai nazifascisti che, superato l'ostacolo dei primi distaccamenti, procedevano verso il Col del Lys. Durante il ripiegamento verso il colle "vedemmo su una altura un gruppo di uomini che agitavano le braccia in segno di saluto. "Sono dei nostri compagni". (…) ci avvicinammo con gran fatica, eravamo carichi, chi aveva le armi pesanti, chi le cassette di munizioni, chi i viveri; ogni tanto i nuovi compagni ci salutavano: "venite siamo della squadra di Carlo". Io l'avevo conosciuto, il nome era di battaglia; sentendolo mi sentii subito meglio, mi ricordo che lo dissi a Bil; intanto si vedevano le divise da partigiani, erano ben armati, c'erano delle mitraglie che sembravano rivolte verso di noi, altri uomini erano stesi a terra come pronti a far fuoco; ogni tanto un richiamo e persino qualche parola in torinese; arrivati ad una cinquantina di metri tutti raggruppati, all'improvviso aprirono il fuoco in massa; io che ero tra i primi fortunatamente mi trovai dietro ad una piccola sporgenza e vidi quei maledetti che si toglievano le divise da partigiani ridendo a squarciagola e sparando" <275.
Decimati dall'agguato fascista i superstiti del gruppo di "Bil" riuscirono a raggiungere Mompellato, unendosi ai gruppi di partigiani comandati da "Deo" che cercavano di difendere il comando di brigata che era posto in una buona posizione strategica, tutto intorno non vi erano alberi o rocce dietro cui proteggersi (il nome Mompellato deriva proprio da questa caratteristica morfologica), chi voleva attaccare doveva compiere l'azzardo di avanzare allo scoperto. La squadra comandata da "Bil" si pose sul fianco destro della squadra comandata da "Deo". I partigiani resistettero fino a quando i militi della Repubblica sociale utilizzarono l'artiglieria. A quel punto il primo distaccamento a ripiegare fu quello di "Deo", seguito poi dal gruppo di "Bil" entrambi diretti verso il monte Civrari, montagna rocciosa e ben riparata dall'artiglieria che continuava a sparare. La nebbia, provvidenzialmente scesa in quel momento, aiutò i partigiani nel ripiegamento, ma non tutti riuscirono a mettersi in salvo.
Quando tre giorni dopo il rastrellamento il distaccamento di "Deo" riuscì a ricomporsi mancavano all'appello i partigiani del gruppo dei fratelli Scala. Notizie confuse giungevano dai contadini circa la situazione lasciata dal rastrellamento. Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani. I garibaldini della 17a brigata Garibaldi giunti sul posto si trovarono davanti a 26 giovani compagni massacrati in modo indescrivibile. Il parroco don Stefano Mellano di Bertesseno, località nei pressi del Col del Lys, che con il parroco don Evasio Lavagno di Mompellato era giunto sul posto per dare i sacramenti alle vittime, ha scritto: "Al due luglio vi fu una strage al Col del Lys. Arrivarono vestiti da partigiani, cantando le canzoni dei partigiani, ed i partigiani nel Castello non se ne accorsero. Quando ebbero sentore del pericolo erano chiusi da tre parti: essi, quelli che fuggirono verso Bertesseno andarono nelle loro mani. Furono presi in numero di 23 dal mio versante e massacrati con le baionette e bastonate; infine li portarono sulla strada di Niquidetto e lì li fucilarono. Via i tedeschi andai con alcuni uomini e ne trovammo tre gruppi di morti giù della scarpata della strada. Gli uomini li portarono sulla strada ed il giorno cinque luglio vennero molti partigiani dai dintorni e tutti i compagni per il riconoscimento; cinque, purtroppo furono irriconoscibili. Con il parroco di Mompellato benedicemmo un pezzo di terreno secondo il rituale. Intanto giunsero le casse e ad ognuno fu posto un'ampolla con il nome oppure con i connotati, che si poterono prendere. Molti mi diedero l'indirizzo e scrissi io ai loro parroci, che avvisassero le famiglie dell'accaduto" <276.
[...] Dei ventisei partigiani trucidati sul Col del Lys solo di diciannove è stato possibile ricostruirne la carriera partigiana nella 17a brigata Garibaldi perché i loro nominativi sono presenti nel database del partigianato piemontese. Fatta eccezione per Guerrotto di cui è nota solo la data e il luogo di nascita, per i sei sovietici, dei quali si conosce solo l'onomastica, sappiamo invece che appartenevano tutti allo stesso distaccamento formatosi il 1° maggio 1944, quando una quarantina di prigionieri sovietici adibiti alla riparazione del tronco ferroviario Rivoli-Avigliana, dopo aver preso contatto con Maria Lazzaretto, suo fratello Franza e con il comandante "Alessio", decisero di passare nella 17a brigata Garibaldi. Costituirono un loro distaccamento comandato da Andrei Gretčko, ufficiale dell'esercito sovietico, e si stanziarono oltre il villaggio di Courmayan, un punto strategico di estrema importanza che conduceva al valico per la Francia, dove operavano altre formazioni partigiane. Molti erano ucraini e georgiani, alcuni di Mosca e di Leningrado. Quasi tutti erano stati fatti prigionieri sul fronte del Don. Secondo la testimonianza di Osvaldo Negarville "se ne stavano appartati, difficilmente erano loro a cercare il contatto con i distaccamenti italiani, e la cosa sulle prime ci stupì. Ma in seguito ne capimmo il motivo: non volevano forzare i tempi, non volevano pretendere la nostra fiducia senza averci dato valide prove; attendevano l'occasione per dimostrare coi fatti che erano veramente nostri fratelli di lotta" <277. I sovietici, impiegati in Val di Susa dai tedeschi prevalentemente a presidio della linea ferroviaria Torino-Modane, erano ben organizzati e soprattutto ben armati. "Alessio" parlando dei partigiani che entravano nella sua brigata ha detto che "i russi e i cecoslovacchi erano armati, i cremonesi no" <278. Circostanza confermata dalla Gobetti che passando in rivista i partigiani della brigata Gl "Stellina" ne aveva avuto una grande impressione: "i cechi se ne son venuti su senza colpo ferire, portandosi l'equipaggiamento completo, divise, armi, coperte, tende, pentolini. Qui han montato le loro tende e tengon tutto in ordine perfetto: pentolini lucidissimi, divise ben pulite, armi perfettamente forbite. Formano un gruppo a sé con un proprio capo e sono organizzati e disciplinatissimi (- Si lavano i piedi tutti i giorni, - m'ha sussurrato un nostro partigiano valsusino con accento non ho ben capito se di compianto o di ammirazione). Vedemmo anche le postazioni delle mitragliatrici, molto ben occultate" <279.
L'occasione per dimostrare tutto il loro valore militare ai partigiani sovietici della "Felice Cima" non tardò a presentarsi.
[NOTE]
270 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, cit., p. 43
271 Ibidem
272 Del Boca, Il freddo, la paura e la fame, cit., p. 76
273 Ivi, p. 108
274 Ivi, p. 109
275 Ivi, cit., p. 112
276 Giuseppe Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940 – 1945). Nelle relazioni dei parroci del 1945, Edizioni Piemme, Torino 1996, cit., p. 269
277 Galleni, I partigiani sovietici nella Resistenza italiana, cit., p. 135
278 Testimonianza di Alessio Maffiodo in, Armando Ceste e Chiara Sasso (a cura di), Mai tardi. La Resistenza in Val di Susa, Index Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Torino 1996.
279 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 167
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi "Felice Cima". Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007
sabato 16 luglio 2022
Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti
Il 10 giugno [1943] si avvicinava, senza che potesse prendere corpo il vago disegno di utilizzare l'anniversario della entrata in guerra dell'Italia e della uccisione dli Giacomo Matteotti, per scatenare uno sciopero generale politico con manifestazioni di strada e pronunciamenti anche di reparti dell'esercito. Un manifesto, firmato PCI e PSI, chiamava i lavoratori ad azioni dimostrative: due minuti di silenzio al fischio della sirena delle ore 10 del mattino, non comprare i giornali, non uscire la sera dopo le 20,30. Ma non mi risulta quale diffusione tale manifesto abbia effettivamente avuto. In Emilia non credo che sia arrivato. Comunque l'invito non fu raccolto. In realtà mancavano le premesse politiche e organizzative di una tale iniziativa. I socialisti e gli azionisti opponevano la pregiudiziale repubblicana a una intesa unitaria con le forze liberali e cattoliche. Questi, attraverso i loro esponenti più autorevoli, erano sempre fermi su posizioni attesiste. La liquidazione della guerra spettava alla monarchia che l'aveva dichiarata. Il prezzo della sconfitta sarebbe stato durissimo, essi affermavano, e non conveniva che i partiti antifascisti dovessero assumersi questa responsabilità. Quindi, secondo la destra, bisognava limitarsi a promuovere l'intervento del re. Si sapeva che tentativi in questo senso, per ottenere questo intervento, erano già stati compiuti a Roma, da parte del gruppo di Bonomi e di certi ambienti militari, ma il re non si era impegnato o compromesso con affermazioni precise. Così era impossibile preparare, come avremmo voluto, un manifesto unitario di tutte le opposizioni per il 10 giugno. E del resto, anche se ci fosse stato l'accordo politico, mancavano le basi organizzative per tradurlo in azione. Dove stampare l'appello e in quanti esemplari diffonderlo? Ancora una volta si faceva sentire la sproporzione tra le necessità e le possibilità del momento e il grave ritardo organizzativo.
La venuta di Marchesi a Milano ci obbligò come centro interno a esaminare la situazione e a prendere delle decisioni. Negarville ed io fummo incaricati di avere con Marchesi un incontro, che si svolse nella sede della casa editrice Principato in corso Sempione. Convincemmo Marchesi a partire per Roma, dove avrebbe dovuto prendere contatto con i senatori Casati e Bergamini. Egli aveva già visto Casati a Milano, nella stessa sede della casa Principato. A Roma egli doveva insistere perché le pressioni sul re aumentassero in modo da ottenere al più presto un intervento per liquidare il governo fascista, con l'arresto di Mussolini e degli altri gerarchi, e promuovere la formazione di un governo di coalizione antifascista presieduto da Bonomi. I comunisti avrebbero dato il loro appoggio a tale iniziativa ed erano pronti anche a partecipare ad un governo di unità nazionale. Marchesi andò a Roma, prese contatto con i senatori Casati e Bergamini e assunse in questi colloqui le posizioni convenute con noi. Questo viaggio deve avere avuto luogo, secondo i miei ricordi, ai primi di giugno. Al ritorno a Milano ci riferì che la sua missione aveva suscitato una grande impressione. A Roma si parlava anche di un intervento dell'esercito e si facevano i nomi di Badoglio, Caviglia, Ambrosio.
Il mese di giugno passò in affannosi preparativi. Contemporaneamente, su tre piani diversi, si muovevano le iniziative per tentare di uscire dalla guerra.
In seno al partito fascista si andava raccogliendo quella che sarebbe stata la maggioranza del 24 luglio al Gran Consiglio. Era ancora presente l'illusione che, accantonando Mussolini, magari col suo consenso, sarebbe stato possibile agli stessi gerarchi fascisti trattare con gli inglesi e con gli americani il rovesciamento della alleanza. Il compromesso raggiunto da Churchill e Roosevelt con Darlan, nell'Africa del nord, costituiva un esempio, al quale gruppi di dirigenti fascisti si richiamavano. In verità, questa soluzione appariva sempre più irrealizzabile di fronte agli sviluppi de!le operazioni militari, e alle stesse reazioni politiche provocate dal compromesso fatto con Darlan. Comunque i gerarchi marciavano su questa linea, pensando di poter godere dell'appoggio del re e di certi collegamenti politici e finanziari mantenuti su scala internazionale.
Il re, muovendosi con estrema prudenza e senza mai compromettersi, teneva i contatti con tutti. Manifestava sempre a Mussolini la sua fiducia. Lasciava credere a Grandi di poter raccogliere la successione di Mussolini. Aveva ricevuto esponenti liberali, Bonomi e Orlando, ma soprattutto si orientava per la formazione di un governo di militari e di tecnici, contando sull'intervento all'ultima ora dell'esercito e della polizia.
Per evitare una successione fascista (Grandi), o una soluzione militare, bisognava che le forze antifasciste sapessero e potessero prendere in tempo una loro iniziativa politica e promuovere un intervento delle masse popolari.
Dopo il viaggio di Marchesi a Roma si arrivò, non senza ulteriori difficoltà, alla convocazione a Milano di una riunione con i rappresentanti dei partiti antifascisti. Questa si tenne il 24 giugno in corso Sempione presso l'editore Principato. Facemmo un ultimo pressante tentativo perché alla riunione andasse uno di noi due, o Negarville o io. Ma non ci fu modo di vincere la forza delle obiezioni di carattere cospirativo. Così, alla mattina del 24 noi due ci incontrammo con Marchesi, con il quale concordammo la scaletta del suo intervento e il programma di azione che doveva esporre ai rappresentanti degli altri partiti antifascisti. Alla riunione parteciparono: Casati per il PLI (allora Ricostruzione Liberale), Gronchi per la DC, Lombardi per il Partito d'azione, Basso per il MUP, Veratti per il PSI e Marchesi per il PCI. Marchesi espose, a nome del partito, il seguente piano di azione:
a) costituire un fronte nazionale, con un comitato direttivo a cui fosse affidata la direzione di tutto il movimento popolare;
b) lanciare un manifesto al paese per sollecitare l'azione insurrezionale;
c) organizzare un grande sciopero generale con manifestazioni di strada;
d) fare intervenire l'esercito a sostegno del popolo contro il governo fascista;
e) determinare, sulla base di questo movimento insurrezionale di popolo e di esercito, un intervento della monarchia, l'arresto di Mussolini e la formazione di un governo democratico che rompesse immediatamente il patto di alleanza con la Germania, concludesse un armistizio con gli alleati e ristabilisse le libertà democratiche. Questo governo doveva essere composto dai rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, compresi i comunisti.
Ho preso l'elenco delle proposte comuniste, per non essere tratto in inganno dai ricordi, dal testo della relazione presentata al V Congresso del partito, del gennaio 1946. Il secondo capitolo, che riporta questo testo, «Dal 25 luglio all'occupazione tedesca», fu redatto personalmente da me; e allora, a poco più di due anni, i ricordi erano ancora freschi. Nessuno, del resto, ha mai smentito questa parte della relazione.
Le proposte di Marchesi suscitarono una viva discussione. I due elementi che caratterizzavano il piano politico presentato dai comunisti erano, contemporaneamente, l'appello al popolo, per una sua azione diretta, e la preparazione concreta di questa azione, e, d'altro lato, l'appoggio a un intervento del re che, premuto dall'iniziativa popolare, incalzato dal precipitare degli eventi militari, sarebbe stato obbligato a prendere un'iniziativa per formare un governo di unità nazionale, incaricato di fare l'armistizio, e di preparare la resistenza alle prevedibili reazioni tedesche.
Una seconda riunione si svolse il 4 luglio in via Poerio. Vi erano gli stessi partecipanti, con l'eccezione della DC, che mandò Mentasti al posto di Gronchi, e del PLI, che mandò Leone Cattani al posto di Casati. Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti. Marchesi si urtò sempre contro le stesse obiezioni. Socialisti e azionisti non vollero rinunziare alla pregiudiziale repubblicana (anche se si doveva fare una distinzione tra la posizione rigidamente attesista assunta da Basso del MUP, e quella più duttile presa da Veratti del PSI), e democratici cristiani e liberali al loro proclamato attesismo.
Invano si cercò, con colloqui separati, di persuadere le sinistre socialista e azionista che da soli non ce la facevamo a intervenire dal basso nelle prossime settimane, in tempo utile per condizionare lo sviluppo degli avvenimenti. E invano si cercò di convincere le destre, democratici cristiani e liberali, che rinunciare a premere apertamente sul re, anche con manifestazioni dal basso, significava lasciargli le mani libere per organizzare il colpo di Stato come avrebbe voluto, giungere a un governo di militari e di tecnici, ed essere tagliati via dalla partecipazione alle trattative per la conclusione dell'armistizio. Meglio così, rispondevano i liberali e i democratici cristiani, così non ci assumeremo delle responsabilità molto gravi che non ci spettano. Ma noi siamo interessati, incalzavamo, perché le trattative per l'armistizio procedano in un certo modo e giungano a determinati risultati, in modo da permettere all'Italia di partecipare alla guerra contro la Germania, guerra che non sarà evitabile perché i tedeschi cercheranno in ogni modo di mantenere il controllo del paese.
Le discussioni erano rese più difficili dall'orientamento personale di Marchesi, che tracciava una netta delimitazione tra le proposte che egli faceva a nome del partito e che riguardavano l'attualità, e le considerazioni che a titolo individuale faceva sugli sviluppi dell'azione comunista, da lui presentata come tutta orientata alla presa del potere con la violenza. Quando, dopo la prima riunione, Marchesi ci fece la relazione sull'andamento della discussione, fu candidamente sorpreso dalla nostra reazione critica. Perché non dovevo dire queste cose? Non riuscimmo a persuaderlo che non si trattava di non dire «queste cose», di nasconderle diplomaticamente, ma di non pensarle, perché esse erano fuori della prospettiva strategica del PCI, che era quella di avanzare al socialismo per una via di democrazia progressiva.
La «doppiezza», di cui tanto si è poi parlato nelle discussioni suscitate dal XX Congresso, non è stata una invenzione tattica di Togliatti, ma il risultato della sovrapposizione, non criticamente meditata, della linea di unità nazionale elaborata dall'Internazionale comunista a partire dal VII Congresso sulla vecchia visione di un'azione diretta per l'instaurazione della dittatura del proletariato. Il fatto che il PCI si andasse ricostituendo e riorganizzando con militanti restati per anni tagliati via dalle esperienze di elaborazione del centro del partito e dell'Internazionale comunista faceva sì che in questi compagni le due linee, la vecchia e la nuova, coesistessero, si intrecciassero, si confondessero in un rapporto variabile da compagno a compagno, secondo la diversa formazione culturale e le diverse esperienze (emigrazione, carcere, attività illegale all'interno o, addirittura, prolungata forzata inattività). La lotta per affermare coerentemente la linea politica della direzione assumeva una crescente importanza. Ma l'urgenza dei tempi ci diceva che questa lotta doveva essere condotca essenzialmente nella pratica esperienza della battaglia politica, ponendo concretamente i militanti e le organizzazioni di fronte alla necessità di attuare i compiti indicati dalla direzione e corrispondenti alla gravità della situazione in cui si trovava il paese.
La discussione con gli altri partiti era resa anche più difficile dalla necessità di osservare le norme cospirative. Gli arresti di compagni e degli altri militanti antifascisti continuavano, e ciò ci ricordava la esigenza della cautela, anche se l'urgenza dei tempi esigeva una maggiore scioltezza di movimenti. In fondo, malgrado le nostre impazienze, dovevamo riconoscere che Francesco aveva ragione di essere severo e puntiglioso nell'esigere il rispetto di certe elementari norme cospirative.
Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, 1973, pagg. 105-109
lunedì 9 maggio 2022
I partigiani imperiesi se ne andarono, ma “Tigre” restò prendendo il comando del Rebagliati
Si imponeva una riflessione. Il servizio informazioni non si era mostrato pronto di fronte alla minaccia nemica, che solo per una fortunata circostanza fortunata non si era tradotta in un disastro irreparabile tipo Benedicta o Val Casotto: una di quelle disfatte totali che il movimento partigiano impiegava mesi per assorbire. Molti partigiani, specie le reclute appena salite in montagna dai centri rivieraschi, si erano mostrate pavide: a questo avrebbero dovuto provvedere i commissari politici con un’appropriata opera di sostegno psicologico e di motivazione al combattimento.
Prudentemente il distaccamento “Calcagno” si trasferì a Pian dei Corsi, riorganizzando i servizi di guardia e i turni delle pattuglie in perlustrazione. Il Comando Brigata ritenne invece opportuno stabilirsi ad Osiglia, paese che il distaccamento “Astengo” aveva lasciato la sera dell’11 luglio per dirigersi su Monte Carmo, sopra Loano. Passando per la cascina Catalana, non lontana da Bardineto e abitata dalla famiglia Goso che da tempo aiutava i partigiani, gli uomini dell’”Astengo” raggiunsero la meta il giorno seguente perdendo tuttavia per strada il carro con i viveri, inopinatamente abbandonato dalla guida. Trovandosi in una zona apparentemente tranquilla ma a stomaco vuoto, i partigiani inviarono cinque volontari a procurarsi cibarie e pentolame presso i contadini della zona, che dai tempi della “Brigata Tom” collaboravano attivamente con la Resistenza. Ne tornò solo uno, “Sambuco”, perché, stracarica di viveri, la pattuglia era incappata presso Bric Aguzzo in un’imboscata in piena regola compiuta da tedeschi e fascisti della “Muti” che stavano rastrellando i dintorni. Il capo pattuglia Pierino Secchi, il cassiere Luigi Moroni e i volontari Agide Maccari e Dante Bonaguro erano rimasti uccisi <73. Il distaccamento, per evitare di essere individuato e massacrato sul terreno brullo e aperto di Monte Carmo, batté in ritirata verso il Bric dell’Agnellino, più a nord, passando per la cascina Catalana <74.
Un ulteriore elemento negativo fu il fallimento del tentativo, peraltro velleitario e abortito ancora in fase di progetto, di costituire una XXIa Brigata che fungesse da cuscinetto fra la XXa e le robuste formazioni che dominavano le montagne intorno al passo del Turchino, quelle, per intenderci, che avrebbero dato vita alla Divisione unificata Ligure - Alessandrina e in seguito alla “Mingo” <75.
[...] Il fascismo repubblicano, con la creazione delle Brigate Nere, aveva ormai perso l’afflato “ecumenico” dei primi tempi e si era reso conto di essere in netta minoranza. La paura e il senso di impotenza spingevano i brigatisti neri a reazioni sempre meno ponderate. Un esempio tipico. Unità della Brigata Nera “Briatore” erano state sconfitte in combattimento a Colle San Bernardo, presso Garessio, dai partigiani imperiesi, lasciando sul terreno il tenente Libero Aicardi: la loro rappresaglia si sfogò a decine di chilometri di distanza, a Voze, frazioncina a monte di Noli posta nella zona operativa del distaccamento “Calcagno”. A tarda sera tre brigatisti neri, fingendosi partigiani, si presentarono dal parroco don Carretta chiedendogli da mangiare. Uno scrisse una lettera pregandolo di farla avere ai suoi familiari. Quindi, usciti dalla canonica, i tre infiltrati ebbero modo di incontrare ed identificare molti giovani del posto, alcuni dei quali armati, anche se qualcuno già sospettava dei nuovi venuti; quindi operarono alcuni arresti. Tornati in forze a notte fonda, i fascisti arrestarono anche il parroco, poi portarono tutti a Savona, alla Federazione del PFR. Il parroco si offrì al posto dei giovani che i fascisti volevano fucilare, ma il federale lo invitò bruscamente a non fare il martire. Così il 14 luglio vennero fucilati i cinque renitenti alla leva Guglielmo Avena, Alfonso Mellogno, Carlo Ardissone, Eugenio Manlio e Giuseppe Calcagno. Un sesto giovane, Domenico Caviglione “Mingo”, partigiano del “Calcagno” catturato giorni prima presso Voze e rimasto ferito in un tentativo di fuga, avrebbe dovuto essere fucilato quel giorno. Ma alcuni suoi colleghi della Scarpa & Magnano, con l’aiuto di una suora, riuscirono a liberarlo dall’Ospedale San Paolo dove era piantonato dal brigadiere di Pubblica Sicurezza Cardurani con due agenti <80.
[NOTE]
70 M. Calvo, op. cit., p. 51.
71 M. Savoini “Benzolo”, op. cit., pp. 82-84.
72 Ibidem, p. 86.
73 M. Calvo, op. cit., p. 52. Luigi Moroni era uno dei garibaldini del gruppo di Gottasecca catturati a San Giacomo di Roburent e consegnati ai tedeschi; arruolato a forza nell’esercito della RSI, era stato spedito in Germania per l’addestramento, ma in giugno, appena tornato a Savona, aveva subito disertato per tornare con i compagni: vedi F. Sasso, Folgore...cit., p. 27. Il fatto che uno come lui fosse stato cooptato nei corpi armati della RSI nonostante la comprovata militanza tra i ribelli comunisti è sintomatico del quadro disastroso del reclutamento per l’Esercito fascista repubblicano.
74 R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 110. A questo proposito, gli autori sostengono che la famiglia Goso, che risiedeva nella cascina, sarebbe stata arrestata e deportata in Germania in tale occasione; ma ciò contrasta con quanto lo stesso De Vincenzi narra in E. De Vincenzi, O bella ciao...cit., pp. 93-96, e cioè che i Goso sarebbero stati catturati ai primi di dicembre del 1944.
75 M. Calvo, op.cit., pp. 47-49.
80 G. Gimelli, vol. II, pp. 223-224 e R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., pp. 103-104.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000
martedì 1 dicembre 2020
Due lettere da Zanzibar a Camporosso (IM) nell'estate del 1888
Archivio: Silvana Maccario di Camporosso (IM) |
ZANZIBAR, 26 luglio 1888
Amatissimi Genitori,
Eccoci Carissimi Genitori ora che siamo noi giunti al luogo destinato;
noi giungemmo il 21 Luglio alle 2 pomeridiane tutti sani e salvi;
non posso dire di aver fatto un cattivo viaggio, ma nemmeno buono; ma
basta; finché ci campiamo la vitta va sempre bene; ora per tanto
Voglio narrarvi qualche cosa che ho vedutto durante il mio viaggio.
Già voi sapete Caris. Genit. Che partimmo da Spezia il 10 giugno
E giungemmo a Porto Saïd, Egitto il 16 dello stesso mese.
Questa città e piantata sulla sabbia e vi è tutta pianura; la gente
nativa di questa, sono nere; perché il calore comincia ad alterarsi.
In questa città vi e qualche Italiano, e parechi francesi, in questa città
Per quanto abbia veduto non ha nessun prodotto perché vi e tutta
sabbia. Poi partimmo da Porto Saïd il 19 , ed entrammo subito nel
canale di Suez, e vi abbiamo impiegato 22 ore, perché bisogna andare
adaggio,
oltre di questo bisogna fermarsi alle stazioni
per lasciar passare altri bastimenti che anch’essi sono in canale,
perche fuori delle stazioni, più di un bastimento non può
passare atteso che il canale è stretto, e ogni distanza vi sono
le machine che lavoravano ad ingrandirlo.
Poi finito il canale giungemmo subito a Suez, e colá non
si siamo nemmeno affermati, perché il console ne ha fatto
preparare la carne, e quando passammo vi era già il battello pronto
che l’ abbiamo imbarcato senza fermarci. Di li abbiamo avutto
ancora 5 giorni di traversata, che giungemmo poi a Aden il 26 di giugno
e lá cosa posso dirvi che vi faceva un caldo che non si poteva resistere.
Di questa città non posso dirvi niente perché resta dietro a una montagna
alla riva del mare vi e un mucchio di case come Camporosso;
la gente son neri e portano uno straccio davanti, il rimanente
son nudi; qui a Aden facciamo carbone e partimmo il
1 luglio imbarcando il Signor ( ?) Console Generale di
Aden. Di la partiti che noi siamo, colpi di mare a più non
posso ; e dopo 2 giorni siamo andati appoggiare in un isola
chiamata…….( Raz Filuch ? ) per riparare la macchina, e ci restammo 24
ore. Dopo siamo partiti e al vedere galleggiare la povera Archimede; in
fini partiti che noi siamo da
Raz Filuch alla sera, all’ indomani a mezzogiorno abbiamo dovuto dare
fondo in un’altra isola chiamata Tamrida, non potendo andare
avanti dai colpi di mare che si prendeva da prora per temanza che
non sfasciassero il bastimento. Dunque dopo altre 24 ore siamo partiti
e di lí ; vi lascio che dire in coperta non si poteva abitare, dai colpi di mare
che s’imbarcava, giù sotto si è privi dell’aria si patisce; infine che alla
meglio giungemmo all’isola di ….?secce? Il giorno 12 luglio.
Giunti li che noi siamo, facciamo carbone e qualche provista e ci rinfrancammo
4 giorni; e a dirvi la verità questa città e piccolissima ma è bella, e la
sua bellezza dipende dalla grande e bella veggetazione che essa contiene,
le colline son tutte adornate d’alberi di frutta buona a mangiare,
e varie quantità di fiori, poi colà il calore comincia già a diminuire
perché in queste parti ora siamo di marzo, dunque partiti di lì
Il 16, e giungemmo a Zanzibar il 21.
Di questa città non posso dirvi altro che d’intorno ha essa pure una
bella veggettazione ma poi d’entro e brutta, per le contrade vi è un odore
che vi leva il respiro, la gente son Neri quello si sa e vanno
vestiti ancora a uso Cristiano, non come a Aden che metteva schifo a
guardarli e qui vi e rischio a prendere le febbri. Il Comandante il
giorno 22 ha letto l’ordine del giorno e disse di prendere ogni mattina
il chinino, di guardarsi di non mangiare frutta guasta o acerba, e di
andare a terra prima o dopo il tramonto del sole, di non bere acqua
della città e di guardarsi dal mangiare a terra, perché sono vivande
che possono attribuire le malattie non essendoci noi
abituati.
Ora in qualità agli affari del Console per alzar la bandiera
di questo non si è ancora deciso niente, e nemmeno si sa qiuando si
décidera, e quando sarà il nostro ritorno.
La salutte al presente é ottima sia di me, che del mio padrone
A. B. come spero che ringraziando Iddio sarà lo stesso di voi
tutti; mi saluterette i fratelli del mio padrone specialmente il
S. Domenico, B. e tutta la sua famiglia, e i miei parenti ed
amici e i miei compagni, mio cognato sorella e un baccio alle
nipoti e un baccio a a tutta la famiglia passo a dichiararmi
il vostro
Amatissimo figlio Gio:Batta
È già la terza lettera che vi scrivo da che son partito da
Spezia e non ho ancora ricevutto nessuna risposta.
Dattemi nuova di tutto ciò che avviene in Camporosso.
La mia direzione eccola qui
Al Ministero della Reggia Marina
A Roma
Per il Signor Raimondo Gio:Batta
Imbarcato sull’Archimede
Adio Adio
Archivio: Silvana Maccario di Camporosso (IM)
ZANZIBAR, 28 agosto 1888
Amatissimi Genitori
Già stavo pensando che cosa ne sarà della mia famiglia;
ma finalmente ricevetti notizzie che mi sollevarono il cuore.
Non sapete miei cari genitori la gioia e contentezza ch’io nutro, quando
ricevo notizzie da voi, e del paese sebenché siano pocche ; pare che
si ripresentino d’avanti quell’anime ch’io lasciai alla casa
paterna; e anche lontano lontano io sia da voi; il mio cuore e il
pensiero è sempre da viccino, mi duole assai non poterci essere fra noi
un più continuo scambio di notizzie motivo di cui è la lontananza che ci divide
e perciò v’invio una presente credo che possa in certo modo darvi una
prossima idea del paese di Zanzibar e suoi contorni.
Zanzibar stato ancora indipendente è governato da un
Pasciá comunemente chiamato Sultano; è compreso nella
Zona Torrida ed in numero di latitudine Sud entrando in
porto di notte e specialmente esse quando sono direste
in un piccolo Parigi tanto che echeggia la luce in vari punti
del paese, e sopratutto nel palazzo del Sultano; ma questa
beltà vi rende ben tosto illusi allo spuntar dell’ Aurora
in cui l’occhio in lungo d’aspetarvi quello che figuravi, gli si
présenta din’anzi le tracce di un paese selvaggio ove la civiltà sta
ancora sepolta.
A pochi passi dal mare sorge nel mezzo di una piccola
Piazza il palazzo Reale a 3 piani sporgenti .........
e terrazze e sorrette da colonne sovraposte l’una
dall’altra. Dinanzi al medesimo si eleva un ‘altra torre
la quale compie gli uffici di orologgi publici e di semaforo.
Semaforo s’intende un punto in cui rende avviso anticipato
di provenienze di bastimenti.
A destra e a sinistra è circondato da case che man
mano che si allontanano dal palazzo del Sultano, si fanno
sempre più rozze, finché terminano di ampie Capanne
ricoperte di foglie di palme. Le strade strettissime
e piene d’ogni mondizia e salano un puzzo talmente
nauseante da subito rendervi nausea la discesa a terra.
Nessun negozio è alquanto Cristiano se nonché due o tre
piccole betole apartenenti ai Turchi sono i mezzi di passatem-
po di alcune ore. Alla sinistra del palazzo del Sultano
sono messe in comunicazione per mezzo di anditi altre case
più piccole di proprietà del medesimo in cui trovarsi rinchiuse
una gran quantità di giovanette a disposizione del Sultano
e queste case sono chiamate Serraglio. Nessun può avere
comunicazione colle donne del Serraglio, ad eccezione della
servitù ivi destinata; ritenuto che esso è considerato come
un tempio di schiave, o un vero monastero di Monache.
Davanti a queste case per un lungo spazzio di terreno
è costruito un giardino fiancheggiato dalla parte del mare
da un vapore materiale, e dalle cui parti laterali sorgono moltissime
fontane. Molte gabbie di ferro contenute da varie razze
D’animaliers ferroci fanno seguito al giardino, ed in vicinanza al
mare. Queste sono le uniche bellezze di Zanzibar, il resto
vastissime pianure e verdeggianti abitate d’infinità di
bestie ferroci. Di ogni speccie di frutta è abbondantissima fra
i quali è da notarsi, gli Ananas, Dateri, Banane,
Cacchi, Aranci ecc ed altri infiniti squisiti son il loro
sapore. Zanzibar è atraversato in lontananza da un fiume
il nome non lo so; pieno di Cocodrilli e frequentato da Leoni, Tigri,
Pantere Leopardi, Scimie ecc
Il Venerdì giorno riconoscente dai Turchi, più che la
Domenica dagli Europei, e si rapresenta d’inanzi una giornata
di Carnavale. Al colpo di un cannone alle ore 4
Antemeridiane, è il segnale dell’alzata della loro Bandiera;
a quell’ora in poi gran parte di gente nere, incomincia a
percorere i vicoli seguiti da rintocchi di tamburi e da pifferi,
finché cerca di riunirsi sulla piazza de Sultano.
Poi l’esercito del Sultano schierato sul d’avanti del palazzo
composti di circa un migliaio, senza l’aggiunta del popolo che
attende con impazienza l’arrivo del loro Sovrano.
É inutile descrivere le loro armi da fuoco, perché da voi
medesimi potrete bene immaginarvi, notando però essere la
grande abilità e divertimenti il maneggio di bastoni e delle
frecce. Allo spuntar del Sultano è subito
intonato da alcuni indigeni composti in una specie di
fanfara, Le marce che dai medesimi vengono suonate
sono molto lontane dalle nostre, ma che quantunque
diaboliche, si sente un’agradevole piacere nelle varie specie
di strumenti che noi altri non conosciamo.
Quindi il Sultano seguito da alcuni Individui suoi Sudditi,
Prende a passare in visita la trupa ; compiuta in pochi
minuti la visita tra le acclamazioni e gli aplausi
Rientrando in casa, pago della sua funzione per la
sua riconoscenza della festa si fa entrare nel
Serraglio. Scopo della visita al così detto monastero, è di
togliervi dal medesimo una fra le quali più simpatiche;
la quale viene condotta dalle madamigelle nelle sale
del palazzo e resta a disposizione di lui finché
giunga il venerdì seguente: viene ricondotta
la scambiata come una simile e così di seguito.
Le donne esistenti nel Serraglio ammontano
per quando ho potuto sapere ad una Cinquantina.
Durante il giorno continuano le feste con accompagnamenti
di musica e pifferi nella piazza del Sultano e vanno consecutivamente
perdendosi all’inoltrarsi della notte. Il clima
considerato la posizione Geografica e la stagione in cui
siamo, è da notarsi una gran parte depresione di
temperatura nel percorso della notte, però il Caldo
s’avvicina sensibilmente.
Continuando a descrivervi non voglio trala-
sciare di dirvi due parole intorno agli usi e
Costumi degli abitanti. I ricchi distinguon-
si dai poveri , perché questi ricoprono solo in parte
le loro Carni nere con lunghe Camice
e di tutti i colori. Mentre i ricchi alla grande
diferenza della finezza degli Abiti, aggiungono ;
non solo avere completamente la persona ricoperta,
ma anche calzano una qualità di stivallini
chiamati sandalie.
Nessuna bellezza distinguesi sia negli uomini che
nelle donne essi son tutti di colore nero, ed hanno i capeli
nerissimi e ricciuti. Non tutte ma in gran parte le donne
hanno il naso atraversato da un perno di metallo lucente
terminante ad una estremità di anello e dall’altro in una
piccola palla. Quantunque mi sia affaticato a
domandarne spiegazzione non rimasi contento; ma
però non ho ancora finito la mia descrizione, per ora
mi arresto e vi spiegherò meglio il rimanente al ritorno
Se iddio ........
Ricevetti il giorno 8 di agosto notizie di voi inviatemi
il 27 giugno , ma già io aveva una mia lettera in
cammino dandovi notizie del mio viaggio.
Non credette miei cari genitori che la lontananza che
passa tra le mie notizie sia per mia trascuratezza,
ma è soltanto perché la posta non parte che una volta
al mese, perché tutti i postali che partono da Zanzibar
spedisco le mie notizie benché si paghino 75 cent.mi
ogni lettera.
Ora per quanto posso dirvi che la salutte sia di me
del S. comandante non dico che sia perfettamente buona
ma c’è la passiamo ancora discretamente. Il nostro ritorno
non sappiamo quando sarà, può essere fin da domani ma
non si sa. Tanti salutti alla famiglia dell’amico Cavaré
a tutti i miei parenti ed Amici ed un bacio ed un
abbraccio a tutta la famiglia e passo a dichiararmi il
Vostro Amatissimo ed Obbed. mo Figlio GIO:BATTA
UN bacio al nonno
Archivio di Silvana Maccario di Camporosso (IM)
[ Nella riproduzione delle due lettere, di cui qui sopra vengono pubblicate le prime pagine, non sono state apportate, a parte errori di comprensione, modifiche ai testi. L’estensore fu Sebastiano Raimondo, vulgo Gio.Batta (di Agostino e Celestina Piombo), nato a Camporosso (IM) … e morto a Genova il 25 luglio 1959. I suoi fratelli furono: Rosa (nata nel 1855), Teresa (nata nel 1857), Paolina (nata nel 1858), Giovanna (nata nel 1862), Costanza (nata nel 1871), Carlo (1867-1940). Per la nave Archimede si veda a questo link. Il Console Generale d’Italia a Zanzibar alla data richiamata era Antonio Cecchi, di cui a questo collegamento é tracciato un breve profilo ]