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mercoledì 2 febbraio 2022

I partigiani italiani e francesi ed i patti di Saretto

Saretto in una vecchia cartolina - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Gli accordi sottoscritti a Saretto, in Val Maira, il 30 maggio 1944, furono approdo della complessa sequenza di iniziative di alcuni partigiani di rilevante preparazione  culturale e di rigoroso impegno politico per l'avvento della libertà  democratica. Va ricordato e posto in evidenza, in via preliminare, che a ideare, avviare e preparare nei dettagli l'inizio dei colloqui infine sfociati nell'intesa furono partigiani italiani, ai quali non sfuggiva la disparità di posizione dalla quale avrebbero preso le mosse qualsiasi confronto diretto italo-francese e che tuttavia non rinunziarono a priori a imboccare la via della ricerca di accordi nella lotta di liberazione, mirando a obiettivi politici in una visione di respiro europeo, che richiama l'attenzione dello storico per acume e lungimiranza, non disgiunta da solido pragmatismo.
Ben inteso i Patti furono impresa di uomini immersi da mesi in una guerra senza frontiere, nella quale non sempre si facevano prigionieri e la vita stessa era continuamente in gioco. Mentre la Repubblica sociale italiana intensificava una campagna volta a ottenere la "partecipazione", aleggiava l'illusoria speranza che la conclusione del conflitto fosse alle porte, almeno per l'ltalia o quanto meno per la costiera liguro-provenzale e il suo immediato entroterra, sicché ogni atto militare assumeva rilievo politico e qualsiasi decisione su contingenze particolari sembrava proiettarsi sul futuro, con conseguenze di portata vastissima.. Citando Mario Giovana, Frontiere, nazionalismi e realtà locali: Briga e Tenda (1945-1947), in Il Presente e la Storia, rivista dell'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in provincia di Cuneo, n° 48, 1995, si piò ancora sottolineare che "oltre ad esprimere la soddisfazione dei contraenti per il ritrovamento di una base di intenti comune, avevano dichiarato l'inesistenza di ragioni di risentimento e di scontro per il recente passato politico e militare, che - affermavano i sottoscrittori - impegnava le responsabilità dei rispettivi governi e non quelle dei popoli medesimi, entrambi vittime di regimi d'oppressione e di corruzione. Inoltre, italiani e francesi proclamavano la piena solidarietà nella lotta contro il fascismo ed il nazismo, nonché contro le forze della reazione, quale necessaria fase preliminare dell'instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una libera comunità europea".
Questa piattaforma stipulata tra i partigiani che agivano ad est e ad ovest delle Alpi Marittime venne completamente disconosciuta dal generale Charles De Gaulle, in quanto i firmatari francesi degli accordi di Saretto erano "un avvocato radical-socialista di Aix-les- Bains, Max Juvenal, capo della R.2 , un avvocato democratico di sinistra nizzardo organizzatore del maquis del Laverq, Jean Lipman (caduto da valoroso nell'insurrezione), il socialista Maurice Piautier (vice comandante della R.2, anch'egli morto sul campo). Personaggi distanti anni luce dal rapimento di grandeur cui De Gaulle rimetteva il senso medesimo della propria missione".
La missione della quale si sentiva investito il generale francese, nei confronti del confinante stato italiano, consisteva prima di tutto nel non riconoscere il suo status di cobelligerante in quanto "nessun governo francese aveva aderito all'armistizio dell'8 settembre ed il Comitato francese di liberazione nazionale, che vi aveva aderito implicitamente, non era munito di riconoscimento come governo".
Sulla base di questa considerazione si doveva "punire" severamente l'Italia. 

Francobollo commemorativo dei patti di Saretto - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

La borgata Saretto di Acceglio (CN) - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Il 31 maggio 1944, a Saretto di Acceglio (CN), si svolse un cruciale incontro tra la resistenza italiana e francese.
L’incontro tra italiani e francesi fu organizzato per firmare gli accordi che sancivano rapporti di solidarietà, intesa, collaborazione e lotta contro la dominazione nazifascista. Queste intese rivestirono un importante valore storico, rappresentando la comunanza politica tra i due movimenti in lotta, il reciproco desiderio di stabilire relazioni e ricercare collaborazioni di tipo militare.
All’appuntamento si giunse grazie alle relazioni politiche avviate da Costanzo Picco, sottotenente della IV armata rimasto in territorio francese dopo lo sbandamento dell’8 settembre 1943, che stabilì i contatti fra la resistenza francese e italiana tramite Detto Dalmastro, comandante del III settore del Comitato di Liberazione Nazionale. Un primo incontro avvenne il 12 maggio 1944 in alta montagna, al bivacco sul Colle Sautron, per iniziativa della Brigata “Giustizia e Libertà della Valle Maira”, al quale presero parte in rappresentanza dei partigiani italiani Detto Dalmastro, Costanzo Picco, Luigi Ventre - comandante della brigata Valle Maira - e Giorgio Bocca, comandante della brigata Valle Varaita.
I francesi erano rappresentati da Jacques Lecuyer, del Comité de Libération National, e da diversi comandanti delle formazioni di maquisards. Al Colle del Sautron ci si accordò per un secondo incontro da tenersi a Barcelonnette, nella valle dell’Ubaye, a una trentina di chilometri dal confine italiano. Al rendez vous del 20 maggio presenziarono Duccio Galimberti, Detto Dalmastro e Giorgio Bocca. L’occasione servì a concordare l’intensificazione dei collegamenti tra le formazioni partigiane dei due versanti del confine, scambiandosi armi, munizioni e due ufficiali che si sarebbero stabiliti presso i rispettivi comandi per concordare azioni comuni: Costanzo Picco e Jean Lippmann. Si giunse così all’incontro decisivo, fissato per il 30 e 31 maggio, per sancire gli accordi anche sul versante italiano con l’arrivo dei maquis francesi attraverso il Colle delle Munie; inizialmente l’intesa doveva essere firmata ad Acceglio, dove si erano ritrovate le due delegazioni passando la notte in paese, ma un improvviso rastrellamento tedesco nella mattinata del 31 costrinse i partigiani a riparare più a monte, nella borgata di Saretto.
Parteciparono all’incontro i partigiani Dante Livio Bianco, Ezio Aceto e Luigi Ventre, mentre i francesi vennero rappresentati dal comandante Max Juvenal (Maxence) e dal suo vice Maurice Plantier. L’importanza degli accordi si distingue per il valore dell’enunciazione di una solidarietà tra i popoli oppressi, la volontà di cooperare per la sconfitta del nazifascismo e la costruzione di una nuova Europa democratica e libera da guerre fratricide. Dal punto di vista politico si riconobbe che non vi era ragione di risentimento fra i popoli italiano e francese per le passate vicende belliche in quanto la responsabilità risaliva ai rispettivi governi e non ai popoli; dal punto di vista militare i Patti di Saretto, preso atto della fratellanza fra i combattenti dei due movimenti partigiani, evidenziò la necessità di unire le forze nella lotta contro i nazisti nella fascia alpina, stabilendo contatti continui per creare obiettivi comuni nelle azioni di guerriglia. Il testo, coinciso e denso di significati, rappresentò una delle dichiarazioni più rilevanti della Resistenza europea, di fondamentale importanza nei rapporti tra Italia e Francia dopo la fine della guerra.
[...] In quelle indimenticabili giornate passate sui monti fra l’alta Valle Maira e la Val d’Ubaye, sprofondando nella neve, combattendo contro il gelo e attraversando di nascosto le postazioni tedesche a presidio delle terre di confine, si consolidò tra quegli uomini l’ideale di un’Europa dei popoli come traguardo della lotta di Resistenza e di liberazione. Il loro pensiero si rivelò così audace che quanto scrissero nei Patti di Saretto venne criticato dai comandi italiani, poiché i concetti espressi andavano ben oltre i confini dell’idea monarchica ponendo le basi per una fase preliminare di costituzione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una comunità europea libera.
Marco Travaglini, I “patti” di Saretto. Una pagina di antifascismo europeo tra i monti della Valle Maira, Crpiemonte, 10 agosto 2020 


Un'ampia relazione al Comitato di Liberazione Nazionale, non firmata ma sicuramente di Duccio Galimberti, fornisce l'interpretazione data a quell'intesa preliminare da parte del suo più autorevole propugnatore di parte italiana.
Essa doveva ristabilire la solidarietà latina e rafforzare la lotta comune per l'affermazione delle libertà democratiche.
Anche alla delegazione di parte francese, integrata con un inviato della Commissione Interalleata di Algeri, era evidente la portata politica degli accordi, tantoché venne convenuto di diramare da radio Algeri un comunicato del seguente tenore: "Fra il Comitato di Liberazione Nazionale Italiano e le Forces Françaises de l'Intérieur si sono raggiunti concreti accordi ufficiali, sulla base del riconoscimento dell'identità della lotta per la liberazione dai tedeschi e per la instaurazione delle libertà democratiche".
Nella relazione al CLN Galimberti aggiunse: "Ho assunto l'incarico di far fare la trasmissione da radio Londra in italiano e confido che sia possibile al C.L.N. ottenerlo, anche ai fini di dimostrare la nostra efficienza organizzativa".
La trasmissione da quella emittente non avrebbe comunque bilanciato l'oggettiva disparità segnata dal fatto che la lingua ufficiale di tutta la trattativa - dai preliminari all'incontro al Sautron, dal Convegno di Barcellonette ai "patti di Saretto" - fu il francese, così come esclusivamente in inglese erano i testi originali dell'atto di resa incondizionata sottoscritto dal generale Castellano a Cassibile ("armistizio lungo" firmato da Badoglio a Malta il 29 dello stesso mese).
[...] Rimanevano infine particolarmente severe e fuori discussione le rivendicazioni di parte francese, ispirate a criteri che riesce difficile non catalogare come punitivi anziché politici. Se è vero che parevano accantonati i piani di smembramento e di occupazione permanente dell'Italia, messi a punto a Londra e in altre sedi negli anni precedenti, sul modello poi attuato ai danni della Germania, i gollisti non nascondevano di voler occupare un lungo tratto della costa ligure e di attestarsi, a est delle Alpi, almeno sulla linea Pinerolo-Cuneo, oltre ad annettersi la Valle d'Aosta: un 'bottino di guerra' che inevitabilmente avrebbe spinto altre potenze vincitrici, anche di seconda fila, come Grecia e Jugoslavia, ad accaparrarsi 'compensi' proporzionati ai vantaggi pretesi dai francesi, sì da gettare le basi di un contenzioso destinato ad avvelenare a tempo indeterminato la possibile pace, come già era accaduto all'indomani della Grande Guerra con i Trattati del 1919-20.
[...] I principi ispiratori di quanti, dal versante italiano, avevano tenacemente voluto l'incontro diretto con i francesi erano dunque gli stessi che nel 1942-43 avevano animato i primi 'manifesti' di riorganizzazione dell'Europa su basi federalistiche e di ciascuno Stato attraverso le autonomie regionali: gli stessi assunti a base della '"carta di Chivasso" <9.
Dal canto suo, Duccio Galimberti proprio nel 1942-43 aveva tracciato, con Antonino Repaci, un progetto di costituzione confederale europea ed interna la cui revisione in vista della stampa, ormai programmata, - scrisse Repaci - venne interrotta la sera dell'8 settembre 1943 dalla notizia dell'"armistizio" <10 .
Quel testo sostituiva il principio dell'indipendenza con quello dell'autonomia: una differenza notevole, sia dal punto di vista etico, sia sul piano giuridico, giacché avrebbe segnato l'abolizione della cosiddetta "sovranità esterna".
Lo Stato - spiegò Repaci stesso - "in altri termini sarebbe rimasto sovrano, e non senza certe limitazioni..., solo nei confronti dei suoi sudditi, cioè rispetto a quella che si suol chiamare politica internaa. <11.
Alla vigilia dell'estate 1944, l'imminenza dell'apertura del "secondo fronte" in Francia conferiva concretezza e valenza pratica immediata a prospettive sino a quel momento apparentemente relegate nella sfera dell'immaginazione e della  mera  letteratura  politica <12. Si trattava infatti di stabilire concretamente quale ruolo assegnare - almeno in prospettiva - alle potenze che stavano per risultare definitivamente vincitrici e ai vinti: fissandone durevolmente la disparità o ponendo tutti su basi di uguaglianza in nome della fratellanza universale tra i popoli.
Il carteggio di due tra i più rappresentativi esponenti del giellismo in Piemonte - ormai in larga parte disponibile anche a stampa - consente alcune sommarie considerazioni. Nessuno poneva in dubbio che le sorti dell'Italia sarebbero dipese dalle decisioni delle potenze occidentali (termine che invero non troviamo in uso, mentre vediamo impiegata la formula "anglo-americani", perché era ancora del tutto assente la previsione della spartizione dell'Europa in due aree, una delle quali ridotta a 'satellite' dell'URSS). In tale quadro, gli scenari postbellici risultavano variabili dipendenti della sorte dai vincitori riservata all'Europa centrale, segnatamente alla Germania.
[...] Il primato dell'amicizia italo-francese quale perno della ricostruzione europea era respinto con ostentata preoccupazione da parte di quanti v'intravvedevano il nucleo di un'aggregazione tra i Paesi 'latini' e affini (dalla penisola iberica al Belgio) nel cui ambito sarebbe risultata rilevante la funzione sociale della Chiesa cattolica: che l'esperienza insegnava essere per nulla incompatibile con la Repubblica francese, neppure quando Marianne aveva avuto una dirigenza laicistica e anticlericale (come ai tempi di Jules Ferry e Waldeck Rousseau).
Su quest'ultimo terreno il peso della Tradizione, comprensivo delle singole personalità e dei rispettivi seguiti (ed era la luce in cui taluni vedevano Duccio Galimberti, figlio di un notabile dell'età giolittiana), si riteneva fosse destinato a esercitare un ruolo frenante contro la realizzazione delle aspirazioni rivoluzionarie coltivate dalla frazione movimentistica della lotta di liberazione in costante contrasto, durante e dopo la guerra, con quanti, anche nel Partito d'Azione e oltre, ritenevano che la libertà non sia incompatibile con l'ordine.
Il testo dei patti siglati a Saretto il 30 maggio 1944 risultò, appunto, quale era atteso, espressione di tale "rivoluzione". Andò, anzi, oltre il segno. I firmatari, infatti, non si limitarono a esprimere il punto di vista delle rispettive organizzazioni. Essi sottoscrissero tre dichiarazioni di principio, una più impegnativa dell'altra:
a - la maggiore responsabilità dei rispettivi governi per il "recente passato politico e militare" (che si spingeva a equiparare il regime di Pétain al fascismo);
b - la piena solidarietà e fraternità franco-italiana nella lotta contro il nazifascismo e le forze della reazione quale fase necessaria e preliminare per l'instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale, in una libera comunità europea;
c - per l'Italia, non meno che per la Francia, la forma di governo più atta ad assicurare la saldezza delle libertà democratiche e della giustizia sociale è la repubblica.
La comitiva che - appuntò Bianco nel diario - il 29 maggio prese la corriera per Acceglio andò insomma a consumare un atto rivoluzionario: a dichiarare decaduta la monarchia e a sconfessare quel governo Badoglio che, completo di Croce, Togliatti e quant'altri, aveva il sostegno del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e Nazioni Unite. A ben vedere almeno in quel passo i Patti di Saretto mettevano a nudo il potenziale contrasto fra CLN Regionale Piemontese e CLN Centrale, tra Nord e Sud, tra le due Italie.
[...] A Saretto venne annunziata l'esistenza di un'altra Italia: quella della democrazia in armi il cui obiettivo ultimo, al di là delle liberazione dell'Italia dai nazifascisti, era la rivoluzione republicana.
Ciò che per la delegazione francese era ovvio e ordinario, per gli italiani era invece una sfida alla storia passata e futura. A infondere determinazione in Bianco, Ezio Aceto, Gigi Ventre erano i nove mesi di resistenza armata e la convinzione di essere portatori di un 'ordine nuovo', fondato sull'impiego delle armi, oltreché sull'esercizio di tutti i poteri (giustizia, amministrazione locale...), in nome del "popolo", ovvero del secondo (e spesso dimenticato) termine della formula posta a base dello Statuto Albertino, al quale i giellisti non volevan certo tornare e che anzi intendevano cancellare per sempre.
[NOTE]
(9) Il convegno di Chivasso ebbe luogo il 19 dicembre 1943 con la partecipazione di Emilio Chanoux, Osvaldo Coisson, Gustavo Malan, Mario Albeno Rollier e altri. In merito v. G. PEYRONEL, La dichiarazione dei rappresentami delle popolazioni alpine al Convegno di Chivasso il 19 dicembre 1943 in "Il Movimento di liberazione in Italia", 1949, n. 2 ; E. CHANOUX, Fédéralisme et autonomie, Aosta, 1960.
(10) Come attestò lo stesso A. Repaci nella Avvertenza all'edizione del Progetto di Costituzione confederale europea ed imerna, Torino-Cuneo, Fiorini-ICA, 1946, su cui v. anche FRANCO FRANCHI. Caro nemico. La costituzione scomoda di Duccio Galimberti eroe nazionale della resistenza, Roma, Settimo Siugillo, 1990.
(11) Op. cit.
(12) Per talune cui esemplificazioni v. LIVIO PIVANO, Risalire dal fondo, Panna, Guanda, 1947 e FELICE BERTOLINO, L'ltalia libera, Borgo S. Dalmazzo, Benello 1946
Aldo Alessandro Mola, I "patti" di Sareto del 31 maggio 1944 ed i loro riflessi militari in Cahiers de la Méditerranée, n° 52, 1, 1996 - Relations franco-italiennes - pp. 59-84
 
Un documento senza data e senza firma conservato nell’Archivio dell’Istituto Nazionale, comincia con queste parole: «Evidenti ragioni di generale interesse, non solo per l’immediatezza della lotta partigiana, ma anche per i futuri sviluppi della nostra battaglia di risorgimento patrio mi han sempre indotto a cercare di stabilire un collegamento ufficiale stabile con le forze organizzate ai medesimi fini al di là delle Alpi». Il contenuto di questi quattro fogli, che si presentano come relazione al Comitato di Liberazione Nazionale, fa supporre che l’autore sia Duccio Galimberti, comandante regionale delle formazioni GL del Piemonte, poiché soprattutto all’iniziativa di lui, uomo di fede mazziniana e combattente per la libertà nel senso europeo, si dovettero i primi tentativi di riallacciare i rapporti con l’organizzazione clandestina francese. Nel suo pensiero e in quello di coloro che gli erano vicini era giunto il momento che gli italiani liberi, che nel giugno del 1940 avevano sofferto tutta la vergogna dell’assalto proditorio alla Francia, collaborassero con quei francesi liberi che, nel silenzio, preparavano la resurrezione della loro patria, in un nuovo spirito di fraternità fra i due popoli al di sopra e al di fuori della corrotta realtà politica.
In questo documento, che evidentemente è del maggio 1944, sono narrati successivamente i due momenti più importanti di questi accordi: il primo avvenne il 12 maggio quando il Comandante del terzo settore a capo di un gruppo di ufficiali delle formazioni GL della Val Maira, si incontrò al Colle del Sautron a 2800 m., in una baracca affondata nella neve, con il Comandante francese delle Basse Alpi, rappresentante del comando del sud-est della Francia: «Il nostro ufficiale sapeva energicamente eliminare un iniziale atteggiamento di alterigia del delegato francese e mettere in degna luce l’importanza del nostro movimento, tanto che quegli dimostrando per esso particolare considerazione, stima ed interesse, palesava l’intento di addivenire al più presto e con carattere di estrema urgenza ad un colloquio conclusivo con un rappresentante del C.L.N. italiano il quale fosse munito di poteri per stringere concreti accordi generali ed operativi». <2.
Il nuovo incontro, decisivo, ebbe luogo il 20 maggio, con la partecipazione di Duccio Galimberti, che prese su di sé la responsabilità e il peso della pericolosa missione: «Tra il 19 ed il 20 maggio, con una marcia notturna e diurna durata 15 ore, abbiamo valicato un colle sui tremila metri, nonostante la presenza di mezzo metro di neve fresca, ed abbiamo percorso una trentina di chilometri nella Valle della Ubaye, controllata da numerosi e forti presidi tedeschi che fanno oggetto di particolare vigilanza la fascia prossima al confine e vi avevano, il giorno innanzi, arrestato un gruppo di contrabbandieri, fucilandone due. Al ritorno fu necessario marciare per 23 ore consecutive, evitando gli speciali controlli disposti anche nel versante italiano in vista delle operazioni di rastrellamento allora giudicate imminenti, data la scadenza del bando di franchigia (21-22 maggio). Ritengo peraltro che l’esito sia stato tale da compensare i rischi e le fatiche. Partecipavano alla riunione: da parte francese il Comandante del Sud-Est col suo Vice Comandante, un inviato (paracadutato) della Commissione Interalleata di Algeri, i Comandanti di Settore ed i rappresentanti dei Comitati di Liberazione della zona; mentre io ero assistito dal Comandante del III Settore, dal Com. Mil. della Val Varaita e dal ricordato Ten. P.C. <3. È interessante notare che, aprendo la seduta, il capo della delegazione francese dichiarava che quanto fossimo per fare e concludere sarebbe stato di grande utilità per noi italiani, onde cancellare l’eredità fascista e dimostrare il nostro diritto alla libertà. Dovevo, quindi, interromperlo per precisare che i progettati accordi avrebbero giovato non esclusivamente a noi ma per ristabilire la solidarietà latina e rafforzare la comune lotta per l’affermazione delle libertà democratiche. Su quest’ultimo punto ho particolarmente insistito sempre indicandolo come fondamentale, caratteristica finalità della nostra lotta, di cui ho fatto notare tutta la pericolosità, lo slancio audace ed i significativi risultati, ottenuti a prezzo di così gloriosi e cruenti sacrifici» <4.
Il convegno si concluse su questi punti precisi:
«1) riconoscimento di identità dei fini della lotta, non solo per la materialità della liberazione dallo straniero, ma anche per l’aspirazione politica (instaurazione delle libertà democratiche); 2) intensificazione dei contatti fra tutte le vallate confinanti. A questo proposito giova notare che noi confiniamo quasi esclusivamente colla R. 2 il cui capo conferiva con me. Con l’altra regione confinante (R. 1) il solo punto di contatto è il Piccolo S. Bernardo, ove sono avvenuti accordi locali meramente ufficiosi, mentre si studieranno collegamenti a carattere ufficiale e preciso; 3) collaborazione permanente ai fini di operazioni militari concordate. Si era pensato all’invio di un nostro ufficiale in Francia e viceversa. Ma si è concluso esser più pratica la collaborazione diretta dei due elementi. Siccome la R. 2 confina con noi da Ventimiglia al Monte Tabor, è stato necessario suddividerla in due sottozone: alpina l’una (nord) marittima l’altra (sud). Per ogni sottozona un delegato nostro ed uno francese stabiliranno una collaborazione a carattere permanente, onde studiare quali azioni militari coordinate si possano eseguire nel comune interesse.
Per quanto riguarda la zona nord il delegato francese è già stato designato ed ha raggiunto il comando del III Settore» <5.
Per dare un carattere ufficiale fu concordata la seguente comunicazione radio: «Fra il Comitato di Liberazione Nazionale Italiano e le F.F.I. si sono raggiunti concreti accordi ufficiali, sulla base del riconoscimento della identità di intenti nella lotta per la liberazione dai tedeschi e per la instaurazione delle libertà democratiche» <6.
Qui finisce la narrazione contenuta nel documento citato, e già altrimenti nota; racconta poi Livio Bianco <7 che il 30 maggio successivo, per iniziativa del cap. Lippmann, un avvocato lorenese amico dell’Italia, destinato a cadere per mano dei tedeschi, un nuovo convegno avvenne a Saretto, al fine di suggellare la collaborazione; convegno che si chiuse con un importante documento sottoscritto dal capo della II Regione francese Max Jouvenal e dallo stesso Bianco, commissario politico del II Settore; alcuni punti dell’accordo sono fondamentali per comprendere lo spirito della rinnovata intesa:
« ... entre les peuples français et italien il n’y a aucune raison de ressentiment et de heurt pour le recent passé politique et militaire, qui engage la responsabilité des respectifs gouvernements, et non pas celle de ces mêmes peuples, tous les deux victimes de régimes d’oppression et de corruption;
... Affirment la pleine solidarité et fraternité franco-italienne dans la lutte contre le fascisme et le nazisme et contre toutes Jes forces de la réaction, comme nécessaire phase préliminaire de l’instauration des libertés démocratiques et de la justice sociale, dans une libre communauté européenne;
... S’accordent pour engager les forces des respectives organisations dans la poursuite des buts comme ci-dessus definis, dans un esprit de pleine entente et sur un plan de réconstruction européenne» <8.
Una dichiarazione supplementare proposta da Livio Bianco si concludeva con queste parole:
«D’ores et déjà est prévue une étroite collaboration entre les respectives forces de la résistance dans la phase insurrectionnelle qui devra assurer la conquête des libertés démocratiques» <9.
Animato da questo spirito il piano di collaborazione divenne concreto: «Sulle montagne e nelle valli del Cuneese, era un lembo della nuova Europa che emergeva dalle torbide acque dell’oppressione nazifascista». <10
La naturale identificazione della Resistenza francese col generale De Gaulle che volle esclusivamente rappresentare l’antica tradizione nazionalista della Francia, i cui accesi spiriti egli si apprestava a restaurare, non tardò, dopo la liberazione di Parigi e l’arrivo del generale in patria nell’agosto 1944, a far sì che questi accordi, pur conservando il loro valore ideale, venissero a perdere gran parte della loro forza concreta, soprattutto perchè dopo l’agosto 1944 nei rapporti con la Francia si inserirono quelli assai più complessi e determinanti con i Comandi Anglo-americani.
Perciò il 15 novembre con una deliberazione del CVL, il cui documento porta la firma autografa di Maurizio, il dott. Eugenio Dugoni, rappresentante del Comando Militare del Piemonte, che già aveva partecipato alla fine di agosto 1944 ad una missione preliminare in Savoia allo scopo di prendere contatti col Maquis <12, riceve il mandato di mettersi in rapporto con le Organizzazioni Speciali Alleate (Special Force n. 1 e O.S.S.) e collaborare con esse; lo stesso mandato gli è affidato per quanto riguarda le autorità locali francesi, non appena possano essere stabiliti con esse rapporti normali.
[...] È noto che fra i problemi che rendevano irte di difficoltà le relazioni con la Francia, due in particolare premevano: la questione valdostana e il trattamento di tutti i partigiani italiani sconfinati in seguito a rastrellamento; sia che fossero tenuti in campo di concentramento, sia che fossero ammessi al lavoro in territorio francese.
Per facilitare i rapporti fra il Governo di Roma e la Francia e quindi affrettare la soluzione dei molti problemi contingenti, era stato nominato quale ufficiale di collegamento presso il Ministero della Guerra italiana il cap. Roger Guirche, che avrebbe dovuto fare in modo che il Governo francese riconoscesse il Dugoni quale delegato del CVL nella zona sud-est della Francia, perchè costui, che circolava coperto da un documento dell’O.S.S., fosse posto in condizioni di collaborare con le autorità militari francesi e con le speciali Missioni Militari Anglo-americane, al fine di provvedere al riarmo, all’assistenza, all’addestramento di reparti di Volontari della libertà, passati temporaneamente al di là delle Alpi.
In quel tardo autunno 1944 i problemi organizzativi della Resistenza italiana erano resi più difficili dal fatto che gli Alleati non avevano ancora concesso il riconoscimento ufficiale al C.L.N.A.I. e al suo Comando Militare, il CVL, cosa che, come è noto, si effettuò il 7 dicembre 1944 con i Protocolli di Roma firmati dal generale inglese Maitland Wilson, comandante Supremo Alleato del teatro operazioni Mediterraneo e dai componenti la Missione Sud: Ferruccio Parri, Alfredo Pizzoni, Giancarlo Pajetta ed Edgardo Sogno.
[NOTE]
1 Archivio C.L.N.A.I., documento n. 27, s.d., non firmato.
2 Vedi nota 1.
3 Costanzo Picco.
4 Vedi nota 1.
5 Vedi nota 1.
5 Vedi nota 1.
7 Livio BIANCO, Guerra partigiana, Einaudi, Torino, 1954.
8 L. Bianco, op. cit., pag. 77.
9 L. Bianco, op. cit., pag. 78.
10 L. Bianco, op. cit., pag. 79.
11 Archivio C.L.N.A.I., doc. 10 - XXI.
12 Archivio C.L.N.A.I., doc. Personale C.L.N.A.I. a firma II Delegato del C.G.A.I. in Svizzera
Bianca Ceva, Le trattative della delegazione del CLNAI con la Resistenza francese (dicembre 1944) sulla base dei documenti conservati nell'Archivio dell'Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia [Testo della comunicazione presentata al Convegno su «Forme e metodi dell’occupazione nazista in Italia» organizzato dall’Amministrazione provinciale di Roma (23-24 ottobre 1964)] in  Italia contemporanea (già Il Movimento di liberazione in Italia dal 1949 al 1973), n° 75, 1964, Rete Parri

Al termine della guerra iniziò, però, a emergere da parte francese la volontà di annettere la Valle Roja: l’Italia, responsabile del conflitto, era un paese sconfitto e quindi avrebbe dovuto soddisfare quelle modifiche territoriali considerate irrinunciabili dalla Francia per la sicurezza dei propri confini. A ciò si aggiungevano altri tre elementi: il primo riguardava il prestigio gollista teso a far pagare all’Italia «la pugnalata alla schiena» (ovvero l’aggressione) che aveva scavato un solco piuttosto profondo dai due paesi.
Il secondo affondava le proprie ragioni nel quadro della politica internazionale che vedeva la Francia - questa la posizione di De Gaulle - circondata dall’ostilità degli anglo-americani, che miravano a disfarne l’impero coloniale, e inserita in uno schieramento occidentale non sufficientemente coeso e deciso per fronteggiare la minaccia sovietica.
Il terzo verteva invece sul piano economico, con l’intenzione francese di sottrarre all’Italia rilevanti risorse industriali che nel caso della Valle Roja erano rappresentate dalle centrali idroelettriche.
L’Italia, come vedremo in seguito, aveva dal canto suo poche e flebili motivazioni per opporsi nelle sedi istituzionali a una Francia così determinata.
Enrico Miletto, «L’italianissima valle». L’annessione di Briga e Tenda alla Francia (1945-1947) in (a cura di) Francesco Panero, Le comunità alpine dell'arco occidentale: culture, insediamenti, antropologia storica, Atti del Convegno «Le comunità dell’arco alpino occidentale: culture, strutture socio-economiche, insediamenti, antropologia storica» (Torino e La Morra 27 e 28 aprile 2018 - CISIM e Università di Torino), Centro Internazionale di Studi sugli Insediamenti Medievali (CISIM), Cherasco, 2019

[n.d.r.: ma i problemi tra partigiani italiani e francesi insorsero subito, ancor prima che le alte sfere golliste avanzassero o facessero intendere le loro richieste di annessione di territori italiani: in tale senso risulta significativa la relazione di un comandante partigiano di Giustizia e Libertà che si pubblica in stralcio qui di seguito a conclusione di questo articolo; cui fa seguito la chiusura dell'articolo di Bianca Ceva, che aggiunge altri pesanti aspetti dell'atteggiamento francese verso la Resistenza italiana]

FORMAZIONI "GIUSTIZIA E LIBERTÀ"
II DIVISIONE ALPINA
COMANDO III SETTORE - BRIGATA VALLE MAIRA
"R. BLANCHI DI ROASCIO". "GIUSTIZIA E LIBERTÀ"
Sede, 14 settembre 1944
AL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE PER IL PIEMONTE - SEDE
Relazione sul trattamento riservato dai francesi agli italiani profughi in Francia.
ALLEGATO: Copia del memorandum presentato alle FFI.
II sottoscritto Aurelio, Commissario politico della Brigata "Val Maira della II Divisione Alpina "GIUSTIZIA E LIBERTÀ", inviato in Francia dal proprio Comandante di Divisione in missione speciale per prendere collegamento e accordi con i Comandi Alleati e i Comandi delle Forze Francesi dell'interno (FFI), doveva constatare, colà giunto, alcuni gravi fatti commessi a danno dei patrioti e dei civili italiani, profughi in quel paese in seguito allo sbandamento di alcune valli sotto la preponderante pressione germanica. Ecco una minuta esposizione di quanto egli potè accertare:
Non appena oltrepassato il confine nella zona del Passo San Veran, che mette in comunicazione la Valle Varaita con la Francia, egli e la sua guida furono fermati da due elementi delle FFI, muniti di bracciale di riconoscimento, i quali affermarono di aver ricevuto preciso ordine dal comandante il distretto Guillestre - Queyras - Vars di aprire il fuoco senza preavviso di sorta su qualunque individuo, partigiano o civile non importa, che tentasse di passare la frontiera in direzione della Francia, e che soltanto per il fatto che il sottoscritto era munito di bracciale tricolore, che per la lontananza non avevano distinto se italiano o francese, non avevano aperto il fuoco.
Stupefatto per quest'ordine di cui nessuno mai aveva avvertito i Comandi italiani, il sottoscritto si recava al primo comando delle FFI della zona, precisamente al villaggio di San Veran, dove gli veniva confermata non solo l'esistenza di tale ordine, ma pure di un secondo, secondo cui le FFI dovevano disarmare ogni italiano che si presentasse nella zona e internarlo in fortezza (esattamente nel castello-prigione di Mont-Dauphin situato a 5 chilometri da Guillestre). Egli si recava allora immediatamente a Guillestre, sede del comando FFI della zona Guillestre-Queyras-Vars e di alcuni comandi alleati.
Munito delle credenziali consegnategli dal proprio comandante, che gli permettevano di stringere come rompere accordi con le FFI, egli veniva accolto molto freddamente dal tenente George, comandante la zona, e fu grazie se costui si decise, dietro richiesta, di offrirgli ospitalità.
Interrogato il suddetto ten. George, chi fosse ad aver emanato gli ordini suesposti, egli, con tono violento e sprezzante, caratteristico della boriosa e megalomane mentalità del borghese francese, diceva di averli emanati egli stesso, di assumersene la responsabilità e di avere l'approvazione del proprio generale. Richiesto poi del motivo dell'emanazione di tali ordini le sue parole furono esattamente le seguenti: "Car tous ces italiens viennent à immerder le sol de nôtre Patrie!"
Superato il primo impulso di riempirgli il volto di schiaffi, volendo il sottoscritto evitare incidenti troppo clamorosi essendo egli in missione ufficiale, credette opportuno limitarsi a rifiutare l'ospitalità offerta dalle FFI a lui e alla sua guida, gettando sul viso del tenente George i suoi buoni alberghieri, a ricordare in termini molto recisi, ma pur sempre corretti, l'esistenza di accordi di mutua assistenza fra le FFI e i partigiani italiani, di rinfacciargli l'ospitalità offerta a centinai di profughi francesi nel giugno c.a. nei migliori alberghi della Valle Stura e della Valle Maira, a rendergli ufficialmente noto che dal suo ritorno in Italia, analoghi provvedimenti sarebbero stati presi contro tutti i francesi ospiti delle nostre formazioni, e alle nostre pattuglie di confine sarebbe stato dato ordine di aprire il fuoco contro tutti gli sconfinanti francesi in Italia.
A questo punto il Maggiore inglese Hamilton Cross, che assisteva alla discussione, richiese perché ancora i nostri feriti che erano attesi dalle loro ambulanze, non fossero ancora giunti dall'Italia. Il sottoscritto credette bene di rispondere (esprimendo effettivamente l'opinione generale) che noi preferivamo far morire i nostri feriti sulle rocce delle nostre montagne per una pallottola tedesca che farli vivere in Francia, vista la mentalità delle FFI.
Il Tenente George, frattanto, che evidentemente aveva compreso di aver fatto un passo falso, richiese al sottoscritto se fosse pronto ad assumersi la responsabilità di quanto affermava e se fosse pronto a sostenerlo davanti al generale comandante la zone delle Hautes Alpes.
Il sottoscritto accettô tutte le responsabilità e si fece introdurre presso il generale, cui consegnò il memorandum in calce allegato. Il generale, molto conciliante, e soprattutto più educato del suo dipendente ten. George, pretese che quest'ultimo porgesse ufficialmente le sue scuse al sottoscritto per l'espressioni usate verso l'Italia, e cercò di spiegare a suo modo il motivo degli ordini emanati dal suo dipendente.
A giustificazione produsse:
1°) Motivi di sicurezza della frontiera, in seguito alla presenza di elementi tedeschi e fascisti su taluni valichi, che un'infiltrazione insieme ai profughi italiani di spie nazifasciste, essendo la zona percorsa da importanti formazioni alleate.
Di fronte a questo stato di cose, per salvaguardare il nostro prestigio, il sottoscritto rimase così inteso col Comando FFI.
1) Per un tratto di frontiera pari a quella in precedenza stabilita dai francesi anche da parte nostra si sarebbe aperto il fuoco contro tutti gli sconfinanti, perché anche per noi sussiste il pericolo di infiltrazioni germaniche dalla zona dei paesi e non solo per i francesi.
2) II transito attraverso la zona di confine è permesso in appositi corridoi determinati sulla carta topografica e soltanto per persone autorizzate, o per gruppi di patrioti guidati dai loro ufficiali, che preavvisino del loro passaggio e abbiano modo di farsi riconoscere.
3) Un rappresentante nostro verrà inviato presso il Comando francese, onde poter prendere in esame il caso dei partigiani italiani internati, e, sotto la sua responsabilità, far rilasciare e riarmare coloro che egli riconosca come appartenenti alle nostre formazioni e che desiderino rientrare in Italia.
La richiesta di questo rappresentante verrà fatta dai magg. Hamilton Cross incaricato per gli affari riguardanti l'Italia, in modo da non dover chiedere il gradimento delle FFI.
Il generale presentò inoltre le sue scuse per non aver avvertito le nostre formazioni degli ordini impartiti di aprire il fuoco sulla linea di confine, mentre, dianzi, alla stessa domanda il tenente George aveva risposto che i francesi avevano ben altro da fare che preoccuparsi di avvertire degli italiani.
In questi termini l'incidente fu chiuso: sussiste però il fatto di una profonda ostilità dell'opinione pubblica, in particolare delle FFI nei riguardi degli italiani, su cui non si esita a gettar il discredito sino a considerare dei paurosi fuggiaschi quei patrioti che sono stati costretti a sconfinare solo dopo aver sostenuto per giorni e settimane l'urto di forze nemiche enormemente superiori e di aver esaurito sin l'ultima cartuccia.
Resta il fatto che gli internati vengono trattati come comuni prigionieri, sfilano per il paese sotto scorta armata e vengono utilizzati in lavori servili a vantaggio delle FFI [...]

Quanto sia stata aspra l'ostilità dei francesi contro i nostri rappresentanti, lo prova un episodio che avvenne nella seconda metà di dicembre 1944, durante il ritorno della missione italiana, quando all’aeroporto del Bourget Ferruccio Parri si trovò accolto da un reparto schierato della polizia francese, che lo minacciava d’arresto se fosse sceso dall’apparecchio.
Una volta di più apparve chiaro quanto grave e triste fosse per gli uomini della Resistenza il compito di dissipare quei rancori che la dichiarazione di guerra alla Francia il 10 giugno 1940 aveva addensato non solo contro il governo fascista, ma contro tutti gli italiani.
Bianca Ceva, art. cit.

lunedì 8 novembre 2021

Era la prima volta che a Napoli si levava sulle onde della radio una voce libera

Il centro trasmittente di Radio Bari a Ceglie del Campo - Fonte: Barinedita


La BBC, con Radio Londra fu un’importante voce fuori dal coro nel panorama italiano a causa della privazione della libertà di espressione; è innegabile che essa divenne un sostegno per il morale degli italiani.
Tuttavia, la grande differenza rispetto ai primi anni di guerra è che non fu più l’unica fonte alternativa di informazioni per i civili italiani, considerato che esistevano altre radio antifasciste clandestine.
Fra i primi effetti concreti dello sbarco degli alleati in Sicilia si ebbe, infatti, l’apparizione della prima voce dell’Italia liberata: Radio Palermo, che trasmise prevalentemente comunicati dei comandi alleati. Dopo di essa ebbe subito successo Radio Bari, una vera e propria fonte di controinformazione, in concorrenza con Radio Londra.
«L’Italia combatte! Questa trasmissione è dedicata ai patrioti italiani che lottano contro i tedeschi».
Un altro esempio fu quello di Radio Libertà, un canale radio italiano (Biella) gestito dai partigiani a partire dal 1944, solamente rivolto al pubblico, quindi con una funzione non direttamente militare. L’inizio delle trasmissioni era scandito dalle prime dieci note del canto popolare Fischia il vento, eseguite alla chitarra, seguito dalla voce del annunciatore:
«Radio libertà, libera voce dei volontari della libertà».
Le trasmissioni comprendevano una gamma abbastanza differenziata di testi: editoriali su argomenti vari, bollettini di guerra partigiani, lettere di familiari o partigiani, brani musicali.
Particolare fu, infine, il caso di Radio Sardegna, un’altra delle prime stazioni liberate e in assoluto la prima ad aver annunciato la fine della guerra: il 7 maggio 1945. Alle 14/14.15, uno dei marconisti della radio, Quintino Ralli, intercettò la trasmissione di una radio militare di Algeri nella quale si parlava della resa dei tedeschi.
Chiamò il direttore Amerigo Gomez, il quale, sentito anche lui l’annuncio, corse nella cabina di trasmissione assieme all’annunciatore Antonello Muroni e annunciò:
«La guerra è finita… la guerra è finita! A voi che ascoltate, la guerra è finita!».
Quell’annuncio non era stato ancora diramato da nessun’altra radio; Radio Londra ne darà testimonianza solo venti minuti più tardi.
Amanda Antonini, Il potere della comunicazione tra regime e resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università di Pisa, 2018
 
Alla prima esperienza di Radio Palermo, con un palinsesto tripartito fra americani, inglesi e italiani, in grado di coprire nove ore e mezza di trasmissioni libere - benché sottoposte al controllo alleato - era infatti seguita l’esperienza di Radio Bari, ancor più autonoma della stazione precedente. Le trasmissioni baresi erano in parte debitrici dell’innovativo apporto di Radio Palermo e del suo direttore Mikhail Kamenetzky, un ebreo russo già noto come Ugo Stille, fuggito negli Stati Uniti e rientrato in Italia come sergente del PWB, dopo aver maturato esperienze giornalistiche al di là dell’Atlantico: <15 "Alla radio - avrebbe detto il direttore - usate sempre frasi semplici e chiare. Ripetete il soggetto. Le ripetizioni sono noiose sulla carta stampata, ma agli ascoltatori radiofonici non importa che tu ti ripeta, e le ripetizioni gli impediscono di perdere il filo". <16
Ancor più indicativo del suo metodo di lavoro è però un altro singolare episodio, riportato dal figlio Alexander Stille. Informato direttamente da Salvatore Riotta, uno degli ex redattori di Radio Palermo personalmente assunti dal padre, Alexander scrive che in una fase del conflitto in cui per gli alleati ogni cosa stava andando a gonfie vele, Kamenetzky avrebbe ordinato a Riotta di trovargli qualche brutta notizia. Alle perplessità del giovane sottoposto, che disse timidamente di essere certo che stesse andando tutto bene, pare che il direttore avesse risposto così: "Per vent’anni gli italiani sono stati immersi fino al collo nella propaganda, sentendosi dire ogni giorno che tutto andava a meraviglia. Se adesso gli diciamo che stiamo vincendo su tutti i fronti, non ci crederanno. Se invece cominciamo con qualche brutta notizia, forse riusciranno a credere a qualcosa di ciò che viene dopo".
Resosi conto della profonda sensibilità giornalistica del suo superiore, a Riotta non restò che scovare un «dispaccio d’agenzia» che parlasse di un sottomarino americano affondato, chissà come, in qualche angolo remoto del Pacifico. <17
IV. IL RADIODRAMMA
Se la direzione palermitana di Kamenetzky si era dimostrata piuttosto attenta alle esigenze e alla psicologia dei radioascoltatori, facendo scuola per chi, come La Capria, avrebbe tratto ispirazione dal suo intuito giornalistico, la direzione barese del già citato Greenlees si sarebbe spinta ben oltre questo segno, dando finalmente voce al popolo italiano e valorizzandone il contributo alla lotta di liberazione nazionale, come si evince anche da alcune dichiarazioni dello stesso Greenlees: "Come direttore della radio io credetti fosse mio dovere di insistere che i programmi fossero obbiettivi ed accurati, e che i commenti politici potessero essere l’espressione libera di uomini politici antifascisti. La guerra che stavano combattendo era una guerra contro il fascismo e quindi, dopo un ventennio di censura politica spietata, era importante creare, nei limiti del possibile, una piattaforma libera alla radio […]. Avevamo incoraggiato, per esempio, la trasmissione del programma «L’Italia combatte», che fu originariamente una mia idea, e che fu preparato per la maggior parte dall’ufficio stampa e diretto da Alba De Cespedes; fu un programma eccellente al fine di incoraggiare i partigiani a combattere contro gli occupanti tedeschi". <18
Accanto al notiziario di guerra che spalleggiava la Resistenza, va citato un altro programma utile alla lotta partigiana dall’inequivocabile titolo di "Spie al muro", nel quale si smascheravano pubblicamente gli agenti assoldati dall’Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo. <19
Oltre a Piccone Stella e alla De Cespedes (nota agli ascoltatori come “Clorinda”), fra gli assistenti di Greenlees, duramente apostrofati dai colleghi dell’EIAR come i «venduti» di Radio Vergogna, spicca la figura del regista Anton Giulio Majano (nome di battaglia “Zollo”), per cui La Capria avrebbe scritto, in seguito, diversi radiodrammi e che già allora incominciava a sperimentare l’innovativa arte del fonomontaggio, destinata a ricevere, anni dopo, le attenzioni della rivista «Filodrammatica»: "Molti radioamatori scrivevano chiedendo stupiti come fosse stata possibile la realizzazione di simili trasmissioni in cui si moltiplicavano dozzine di voci, risonanze ambientali differenti, in cui prendevano parte vari complessi orchestrali, cori cantati, ritmati o parlati, in cui si destavano rumori ed effetti acustici mai uditi precedentemente. Il fatto è più semplice di quanto sembri: la sera di gala, in cui venivano effettuate queste trasmissioni, si montava il film radiofonico in cabina di regia; numerosissime incisioni originali si alternavano con precisione cronometrica e col ritmo voluto alle voci dirette degli attori presenti in auditorio". <20
Un lavoro del genere, la cui riuscita dipendeva dalla perfetta combinazione fra registrazioni e recitazione dal vivo, necessitava evidentemente di un accurato lavoro di sceneggiatura e richiedeva altresì una certa padronanza del mezzo:
"Il testo veniva innanzitutto ridotto per la radio (se non era già di per se stesso un lavoro scritto in funzione del mezzo radiofonico) e poi suddiviso in tante “inquadrature”, “scene”, “sottofondi”; ogni battuta, poi, a sua volta, veniva postillata con segni che ne specificavano il valore spaziale ed espressivo (risonanza, echi, piano fonico, ecc.)". <21
Solo le scene che presentavano maggiori difficoltà di esecuzione venivano registrate anzitempo, così che, al momento del missaggio, il regista potesse scegliere quali mandare in onda, non senza il puntiglio di catalogare i dischi di vetro a 33 giri su cui tali scene erano state riversate. Tanto dispendio di energie poteva essere sostenuto con una frequenza che oscillava dalle tre alle sei volte al mese, in occasione di appositi eventi radiofonici noti con il prestigioso nome di «serate di gala», antesignane di una formula vincente che non mancherà di essere trasmessa ai successori di Radio Bari e, in seguito, anche in Rai, dove un ascoltatore attento di nome La Capria avrebbe riproposto quelle serate speciali in chiave letteraria.
V. RADIO NAPOLI
Quando, nel febbraio del ’44, l’avanzata delle truppe angloamericane renderà necessario l’abbandono del capoluogo pugliese, il «centro di gravità» della propaganda antifascista avanzerà insieme a quei soldati, spingendo molti dei collaboratori di Radio Bari a seguirli nel loro trasferimento a Napoli. <22
In anticipo sul loro arrivo in città, dopo una breve fuga a Tramonti, sulla costiera amalfitana, per entrare tra le fila degli alleati, Ghirelli - che da questi era stato respinto - torna in città per accudire la madre, sola ed affamata, consapevole di essere diventato «amaramente estraneo all’epopea» della Storia. <23 Dopo aver lavorato come manovale al porto della Submarine Base inglese, un incontro fortuito con un ingegnere conosciuto ai tempi dell’Umberto I gli procura un posto alla Royal Navy Barracks, la caserma della Marina dove egli imparerà a fare i conti con il sistema inglese, destreggiandosi fra once, pence, libbre, galloni e pollici.
Con l’arrivo della primavera, tra il mese di febbraio e il mese di marzo, il suo nome viene segnalato ad Edoardo Antòn, uno scrittore romano di teatro che, sorpreso dall’armistizio sull’Isola di Capri, si era messo a dirigere le trasmissioni culturali di Radio Napoli insieme ad Ettore Giannini, un giovane regista affermatosi grazie a uno «scoop radiofonico» paragonabile a quello famoso di Welles «sullo sbarco dei marziani»: <24 "Parecchi di noi furono reclutati individualmente ma, lavorando gomito a gomito, finimmo per creare un ufficio di trasmissioni propagandistiche e artistiche […]". <25
Inizialmente assunto come interprete, Ghirelli sarà uno dei primi candidati ad aver risposto al persuasivo richiamo della radio, un polo culturale insolito e in cerca di voci fresche e brillanti per le sue trasmissioni, non solo fra i napoletani ma pure fra gli esuli ebrei e i confinati politici: "Antòn mi imbarcò - scriverà Ghirelli - l’8 maggio del 1944 a Radio Napoli insieme con quattro miei carissimi amici di cui in seguito si è sentito parecchio parlare: Giuseppe Patroni Griffi, Francesco Rosi, Maurizio Barendson e Achille Millo, ai quali poco dopo se ne unì qualcun altro come Raffaele La Capria, Luigi Compagnone ed Enrico Cernia". <26
Quel gruppo, con «molte lacune e molte integrazioni», avrebbe lavorato alla radio per un periodo di appena «diciotto mesi», anche se alcuni di loro - fra cui Giglio e lo stesso Ghirelli - si sarebbero allontanati già in inverno. <27
Non sarà sfuggita l’eccezionalità del «compromesso» al quale giunse il mezzo radiofonico (non solo a Napoli), che chiamava a raccolta davanti ai suoi microfoni «comunisti ed ex ragazzi del Guf», alcuni dei quali, alla caduta del Duce, si erano ritrovati a combattere insieme dallo stesso lato della barricata. <28
Quella mancanza di uniformità non riguardò, tuttavia, soltanto il lignaggio politico. Secondo la divertita ricostruzione di Arnoldo Foà, l’attore a cui venne affidata l’edizione napoletana de "L’Italia combatte", che tenne a battesimo - peraltro - anche Moravia e la Morante, le prime voci della radio furono scrupolosamente selezionate con il «metodo più empirico» che si potesse immaginare, giungendo ad esiti alquanto curiosi: "Mister Rehm, un giornalista americano, preposto alla direzione della radio sorgente, si mise a contatto con i giornalisti dei già defunti ed immobilizzati organi della stampa locale; li convocò un pomeriggio a Egiziaca a Pizzofalcone assieme ad altri elementi profughi, studenti o altro, e fece leggere un pezzo di giornale a ciascuno di loro. Non capiva quasi una parola di italiano, ma si sentì in grado di giudicare le migliori pronunce. Fu così che aleggiò sul golfo per diverso tempo la più bella raccolta di dialetti che mai antenna avesse trasmesso". <29
La varietà di accenti non fu l’unica nota fuori posto a dare un respiro amatoriale a quelle prime trasmissioni, perché accanto alla “esse” sibilante dell’ultimo venuto e all’improvvisa raucedine del consumato veterano, non poteva mancare il tragicomico inciampo linguistico che non avrebbe risparmiato - assicura Foà, nemmeno in seguito, al tempo della Rai - alcun tipo di annunciatore: "Qualche volta le papere chiamano le papere. È capitato a me, sempre a Napoli, dire: «Non fiù pù», invece di «non fu più». Correggendomi scandii: «Non fu pù». Credo che la più bella sia quella che Corrado Mantoni (da tutti conosciuto solo come Corrado) disse alla presentazione di un concerto alla Rai: «Ascolterete ora la valcacata delle Walkirie» - si corresse immediatamente con: «Pardon, la cavalcacata delle Walkirie!». <30
VI. SEZIONE PROSA
Quelle voci imperfette ma piene di entusiasmo, fra cui quella ancora silenziosa di La Capria, si troveranno quotidianamente in un caotico appartamento di corso Umberto I, all’angolo con piazza Borsa, al terzo piano del palazzo della Singer. Per quanto neppure la luce di mezzogiorno riuscisse a riabilitare «la limitatezza e la povertà degli arredi», sempre invasi da un armamentario di «telescriventi, ciclostili, registratori e dictaphones», sarà sufficiente il cestello delle notizie, in «sali-scendi» dal Centro informazioni del PWB al piano di sotto, a dare vita ai nuovi uffici di Radio Napoli, dove albergava - avrebbe scritto Longanesi nel suo diario - anche «molta agitazione e indolenza, molto apparente tecnicismo americano e arruffio napoletano». <31  Accanto alla stanzetta in cui sostavano indistintamente annunciatori, dattilografe, collaboratori e passanti incuriositi dalla luce rossa della messa in onda, si apriva un monolocale con un tavolo, due sedie e perfino un «tavolino da manicure», che chissà come era capitato da quelle parti. Sull’unica porta che dava accesso a quel luogo era affisso un «cartone bianco», della misura di una «scatola da scarpe», che diceva semplicemente “Sezione Prosa”. <32
Riguardo al nome che i curatori delle trasmissioni culturali si erano dati per distinguersi dai colleghi del Giornale radio, ormai raggiunti anche da Piccone Stella, ci resta una vecchia dichiarazione che Ghirelli consegnò alle pagine di «Qui Radio Napoli», un numero unico scritto con un linguaggio tanto «sulfureo» quanto significativo: "Sezione Prosa, veramente è un nome recente. È il nome che si è deciso di dare ai programmi artistici o come diavolo si possono chiamare i programmi in cui ci sono parole - non però di notiziario o di commento - parole in una certa armonia, cioè appunto prosa. Il lavoro, qui, si è organizzato solo col tempo. Il primo vero titolare dei programmi artistici è stato lo spirito democratico, la fiducia avventurosa e cosciente di pochi intellettuali italiani e di alcuni soldati americani e inglesi". <33
Lo stile acerbo e sfrontato di Ghirelli non nasconde la soddisfazione di essere riuscito a dare una svolta decisiva alla propria carriera, saltando dal grigiore opaco del registro contabile alle tinte cromate dell’apparecchio radiofonico, con la stupefatta rapidità che di norma accompagna solo una favolosa storia di riscatto: "Io sbucai dall’oscura tetraggine della caserma al Mandracchio, entro le stanze illuminate del palazzo Singer, al Rettifilo, dove la Radio alleata era in gran parte trasferita dal primo studio di Pizzofalcone. Ci arrivai sporco e stordito come un topo ma, dopo poche settimane, avevo riacquistato già quasi per intero la spavalda sicurezza dei miei vent’anni, la duttilità del mio ceto sociale, la fredda determinazione di un successo che mi era dovuto per tutti gli anni di pena durati prima". <34
Anche se quello a Radio Napoli fu per La Capria un periodo di mezzo, durante il quale imparare quanto più possibile dagli amici maggiormente coinvolti, per Ghirelli si trattò di una vera e propria rinascita, con la quale incominceranno - nella memoria del giornalista - «i mesi più belli» della sua vita, animati dalle «illusioni più impetuose» e soprattutto dalla «sbalorditiva coincidenza» tra sogni e realtà: "Fu un delirio, impastato di ideali soldi sesso intelligenza libertà potere, come se di colpo - al posto della vecchia macchina dello Stato, sgangherata e corrotta - ci fosse un congegno nuovo, lucente, lubrificato sul quale, finalmente, noi giovani potessimo mettere le mani, non per abusarne o per accumulare ricchezza, ma per diffondere intorno a noi - nella città, nelle strade, nel Sud, tra i poveri e i dannati - una speranza luminosa come l’aurora boreale". <35
VII. PROVE TECNICHE DI TRASMISSIONE
A irradiare speranza fra i vicoli di Napoli era stata la prima rudimentale trasmittente di Monte di Dio, una radio da campo messa a punto dal direttore George Rehm per sopperire alla perdita della stazione di Villanova, sulla collina di Posillipo, completamente distrutta dal sabotaggio dei tedeschi: "L’uccellino della radio tornò così a cinguettare il 15 ottobre del ’43 e fu quello davvero un gran giorno per i napoletani che appresero le più recenti notizie finalmente da accenti di casa propria, quasi si trattasse di amici andati a bussare alla porta della loro dimora per una familiare chiacchierata". <36
Per essere precisi, l’intervento di Rehm dovrà attendere qualche giorno prima di consentire un’adeguata ricezione delle onde di via Egiziaca, perché nonostante gli impianti fossero stati ripristinati da quel sergente venuto dal Connecticut, la nuova emittente «non fu subito captabile nella città, ancora priva di energia elettrica»: "Sapevo - scriverà una redattrice - che la relativa potenza della emittente napoletana e soprattutto l’ostacolo delle montagne non avrebbero consentito alle trasmissioni di toccare la mia città; nondimeno, […] credevo davvero nel potere della voce, nella forza delle parole. Ora me le figuravo come fili sottili capaci di raggiungere e di mitigare solitudini e sofferenze; me le auguravo così forti da infondere fiducia e coraggio ai lontani, da trasmettere loro il senso di solidarietà che poteva venire da una città ferita dalle più dure violenze della guerra". <37
L’inaugurazione delle trasmissioni di Radio Napoli, introdotte dalle prime note dell’Inno di Mameli (non ancora eletto inno nazionale), verrà così ricordata da Grazia Rattazzi Gambelli, una delle poche voci femminili all’interno di una redazione stupita che una madre di famiglia preferisse affannarsi dietro un mestiere “da uomo”, invece di abbracciare docilmente un «più normale destino di donna»: "A volte, in anticipo sull’ora della trasmissione, mi fermavo volentieri sulla soglia della Sezione Prosa, dove era possibile gratificarsi delle conversazioni puntuali e delle divagazioni eclettiche di Compagnone, Ghirelli, e compagni in quel loro tono, caustico e fervido insieme, che rigenerava i dati dell’esperienza e della cultura in fulminante antiretorica e in ipotesi costruttive per il vacuum economico che ci fronteggiava «fuori». Mi piaceva ascoltarli, ammiravo la loro preparazione, mi stupiva la loro sicurezza; e un poco li invidiavo […]. Avevo altri problemi pressanti oltre quelli della collettività! modesti, certo, ma non per questo meno urgenti e vitali". <38
Al di là dell’iniziale penuria di elettricità menzionata dalla Gambelli, anche altrove permarranno alcuni limiti di ordine tecnico. Per dimostrare che la radio non era più il mezzo di comunicazione di massa sdoganato dal fascismo, basterà fornire qualche dato: nel ’42, l’Italia disponeva di 34 trasmettitori a onda media e di 11 trasmettitori a onda corta, mentre all’atto della liberazione soltanto 13 di questi risultavano effettivamente funzionanti, con una dislocazione tale da impedire una copertura adeguata alle esigenze del Paese. <39 Simili restrizioni non riusciranno però a spegnere la «vitalità animalesca» di un apparecchio sul quale si erano riversati i desideri e le aspettative di ascoltatori sempre più partecipi e incuriositi. <40
Inoltre, la ricezione di Radio Napoli migliorerà sensibilmente non appena le sue emissioni si appoggeranno agli «impianti mastodontici» di Radio Bari, concepiti da Mussolini per diffondere la propaganda «anti-inglese» nei paesi arabi, ma impiegati dalle autorità del PWB e dai democratici italiani per portare la «voce della libertà» fino alle Alpi: <41 "Era la prima volta che - scriverà Ghirelli - a Napoli si levava sulle onde della radio una voce libera che chiamava a raccolta i giovani, i lavoratori, le donne, i sindacalisti per mobilitarli contro il nazifascismo, come dicevamo allora un po’ enfaticamente, ma soprattutto per indurli a partecipare alla vita pubblica, sociale, culturale, alla ricostruzione della città dilaniata dalla guerra, al recupero delle sue straordinarie tradizioni". <42
VIII. PALINSESTO
Al culmine della sua attività, non solo Radio Napoli informava gli italiani continuando ad offrire trasmissioni già collaudate dall’emittente barese, come il Giornale radio, "L’Italia combatte" o "Spie al muro", ma inaugurava rubriche inedite, appositamente studiate dalla nuova redazione, alle quali lavorarono anche La Capria, Ghirelli e molti dei vecchi amici del periodo pre-bellico: "Preparavamo trasmissioni che, adesso, forse ci farebbero sorridere ma che allora ci parevano, forse erano, belle come un discorso di Lincoln o una poesia di Majakowski. Alla sera aiutavamo Arnoldo Foà a leggere il giornale radio e «Italia combatte» […]; ma di giorno inventavamo cento rubriche divertenti, stimolanti, provocatorie, chiamando a raccolta tutta la gente onesta di Napoli e del Sud per proporre una revisione integrale di tutto il nostro modo di vita: matrimonio, famiglia, scuola, esercito, proprietà, codice". <43
Fra queste, restano nella memoria: il "Programma per la donna italiana", a cura della Gambelli, che sollecitava la partecipazione delle ascoltatrici per corrispondenza; "Colpevoli", in cui si processavano virtualmente tutti i profittatori dell’umanità, inclusi i responsabili della guerra fascista; "Pionieri", una specie di excursus da Socrate a De Gaulle, dedicato - stando al ricordo di Compagnone - ai grandi interpreti della libertà e della democrazia; "Stella bianca", una rivista satirica firmata da Longanesi e diretta da Soldati, che affidava all’eclettico Steno il compito di scimmiottare la voce militaresca del Duce con il tono scanzonato dell’improvvisazione; la rubrica "Frasi di scrittori", alla quale era riservato uno spazio il venerdì; gli appuntamenti con il «radio-teatro», assegnati puntualmente alla domenica sera; e infine gli speciali di "Conosciamo le Nazioni Unite", trasmissioni deputate a favorire l’avvicinamento fra italiani e alleati, a cui deve aver contribuito anche La Capria, dando «un respiro più drammatico» alle sue puntate. <44 Si noti che con l’espressione “Nazioni Unite” non si intendeva quella che poi sarebbe stata l’ONU, ma l’alleanza angloamericana. Compito della rubrica era infatti quello di far conoscere il mondo anglo-americano agli italiani, al di là delle barriere linguistiche e dell’influenza della propaganda anti-britannica e  anti-americana a lungo condotta dal fascismo. Un mondo che La Capria aveva imparato a conoscere in guerra, leggendo e traducendo testi dall’inglese, e che ora offriva con entusiasmo agli altri domandando, come già fece Vittorini: «Che ve ne sembra?». <45
Di fatto, la ricchezza delle nuove rubriche è il risultato della proficua riorganizzazione editoriale conosciuta da Radio Napoli sotto la direzione di Elvio Sadun, un biologo ebreo livornese fuggito dall’Italia nel ’38 per salvarsi dalla «minaccia delle leggi razziali», combattendo accanto agli americani fino a riscoprirsi, infine, quale energico successore alla poltrona di Rehm: <46 "È giunto dall’Algeria il nuovo direttore, un italiano, ora cittadino e soldato americano. Occhi patetici, naso aquilino, capelli ricciuti e unti. Stringe la mano con due dita, finge di aver molto da fare e parla dei problemi della radio come di questioni teologiche". <47
Sulle tavole della legge del nuovo direttore - che Longanesi si diletterà a prendere di mira nel suo diario - figurava l’impiego di un linguaggio asciutto e immediato, in grado di essere compreso, senza fraintendimenti, da qualunque ascoltatore. Una lezione che gli era stata impartita dagli anchormen del giornalismo statunitense, e alla quale i suoi redattori più zelanti proveranno ad attingere in seconda battuta: "C’era ovviamente molta retorica, molta ingenuità (ancora e sempre) in quell’atteggiamento, ma la passione civile era autentica e insieme all’impegno politico si accendeva in noi l’entusiasmo per un lavoro che non era rassegnato o burocratico, coinvolgendoci giorno per giorno e mettendo alla prova il nostro talento. La sorte ci stava offrendo la preziosa occasione di imparare il mestiere dagli americani, maestri dell’arte di comunicare notizie, idee, fantasie con la più essenziale chiarezza". <48
La redazione di Radio Napoli rappresentò quindi un eccezionale «laboratorio» dove a ciascun autore è stata offerta la possibilità di coltivare per sé un peculiare talento, che avrebbe fornito a tutti - a detta di Ghirelli - la spinta necessaria per emergere professionalmente dagli abissi dell’anonimato: <49 "I miei articoli di giornale, i romanzi di La Capria, i film di Rosi, le commedie di Patroni Griffi nacquero allora, in quegli uffici, in quelle discussioni, in quei programmi. Ci sprofondavamo dentro come l’equipaggio di un sommergibile, in un’atmosfera surriscaldata, artificiale, pazzesca, in una tensione che ci faceva perdere il sonno e ci esaltava, isolandoci anche dalla pena atroce della città". <50
La direzione di Sadun contribuì indubbiamente ad apportare «una visione ottimistica dell’America» senza i trucchi della propaganda, ma scegliendo casomai di applicare i «metodi del positive Thinking» al mezzo radiofonico, allo stesso modo con cui si percorreva, ogni giorno, la strada dissestata che portava agli uffici della Sezione Prosa: <51 "Camminavo molto in quel periodo ma ciò, se inaspriva l’appetito, mi facilitava la concentrazione […]. Era comunque una lunga strada, anche per le frequenti deviazioni dovute ai cumuli di macerie, alle demolizioni e alle minacce di crolli".
È chiaro che la Gambelli guardasse a quel percorso accidentato come all’unica via per raggiungere la felicità, a dispetto del rumore della «sfabbricatura» sotto i piedi che, al contrario, avrebbe scoraggiato anche il sognatore più ottimista, costringendolo ad allontanare dalla mente un pensiero tanto «enfatico» e propositivo. <52
IX. PARTENZA
Presto, i redattori di Radio Napoli avrebbero imboccato una deviazione che li avrebbe condotti al di là del territorio campano, perché il fronte di guerra si sarebbe spostato più a nord, dopo la liberazione della capitale da parte alleata: "Tutti gli intellettuali scappati al Sud tornavano a Roma, lasciando noi ragazzi soli con i burocrati della vecchia EIAR e con i prefetti di Bonomi. Fui assalito dal terrore di ripiombare nella Napoli perbene di prima della guerra, in piena restaurazione, con tutti i dottori, gli ingegneri, gli avvocati tornati al loro posto, i salotti di via dei Mille riaperti, le sale da concerto gremite di sordi, le pasticcerie affollate alla domenica, i generali del Re a palazzo Salerno, i principi e i baroni al Casino dell’Unione, i figli di papà al Circolo del Tennis". <53
Nella «melanconica prospettiva» di assistere al ritorno della vecchia guardia dell’EIAR, decisa a riappropriarsi dei posti occupati fino all’epurazione antifascista, Giglio e Ghirelli decidono di evadere dalla città per «respirare un po’ di aria pulita». <54
Dopo aver chiesto agli americani di essere trasferiti ad Altopascio, una zona di operazioni in Toscana, i due si uniscono all’Unità Mobile Radiofonica 15: "Mentre io e Tommaso seguivamo la Quinta Armata del generale Clark, alcuni amici come La Capria e Patroni Griffi si trasferivano a Roma liberata e altri, come Rosi e Compagna, tornavano a Napoli dalle regioni dove erano stati sorpresi dall’armistizio. I ragazzi di via Chiaia erano cresciuti e seguivano ciascuno il proprio destino, sempre accomunati tuttavia da una illimitata fiducia nella vita, un solare ottimismo che si è tradotto in una notevole capacità creativa, più forte naturalmente in alcuni di noi […]". <55
La parentesi campestre di Giglio e Ghirelli si concluderà nel mese di aprile, con lo sfondamento della linea Gotica che avrebbe permesso loro di insediarsi al Nord, come giornalisti della redazione milanese de «l’Unità». <56
Prima di raggiungere il capoluogo lombardo, in occasione di una breve permanenza a Bologna, Ghirelli avrebbe ancora documentato ai microfoni di piazza San Martino la «drammatica fucilazione» di Mussolini e la fine della seconda guerra mondiale, affiancato da un giovane e sconosciuto Enzo Biagi. <57
Due notizie di indiscutibile rilevanza storica che dovettero sembrargli relativamente importanti, se rapportate alle vicende della sua febbrile esistenza.
 

Ian Greenleess - Fonte: Barinedita


[NOTE]
15 Si veda ROSI, Io lo chiamo cinematografo, cit., pp. 34-35, dove il regista sostiene che, dopo la parentesi di Radio Palermo, Kamenetzky si sarebbe trasferito a Napoli diventando subito «amico di tutti» e, in seguito, anche di sua moglie Giancarla Mandelli, al punto che «quando era a Roma, ormai direttore del “Corriere della Sera”», egli avrebbe dormito da loro «invece che andare in albergo».
16 ALEXANDER STILLE, The Force of Things. A Marriage in War and Peace (2013); trad. di Stefania Cherchi: La forza delle cose. Un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America, Garzanti, Milano 2013, pp. 199-200. Si veda GIANNI RIOTTA, Le cose che ho imparato. Storie, incontri ed esperienze che mi hanno insegnato a vivere, Mondadori, Milano 2011, p. 129.
17 STILLE, La forza delle cose, cit., p. 200.
18 IAN GREENLEES, Radio Bari 1943-1944, in Inghilterra e Italia nel ’900. Atti del Convegno di Bagni di Lucca. Ottobre 1972, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 229-50: 242-43 e 244.
19 Per la trascrizione di alcune trasmissioni de L’Italia combatte e di Spie al muro, si veda MONTELEONE, La radio italiana nel periodo fascista, cit., pp. 382-87.
20 ALBERTO PERRINI, Questa è la voce dell’Italia: Qui Radio-Bari!, «Filodrammatica», 2:3 (1946), pp. 4-5.
21 Ivi, p. 5.
22 ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 36.
23 ANTONIO GHIRELLI, Noi del ’45, «Nord e Sud», n.s., 17:121 (1970), pp. 101-12: 104.
24 GHIRELLI, Una bella storia, cit., p. 31. Ci si riferisce qui alla trasmissione The Mercury Theatre On Air e, in particolare, all’adattamento radiofonico di The War of the Worlds di H.G. Wells andato in onda il 30 ottobre 1938.
25 GHIRELLI, Un’altra Napoli, cit. pp. 138-39.
26 GHIRELLI, Una bella storia, cit., p. 32. A questi si aggiungono, fra gli altri, anche i nomi di Giglio e dei transfughi romani Leo Longanesi, Mario Soldati e Stefano Vanzina (alias Steno).
27 GHIRELLI, Un’altra Napoli, cit. pp. 138-39; GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., p. 282.
28 ORESTE DEL BUONO, Voci dal Vesuvio, «La Stampa», 9 settembre 1993, p. 5.
29 ARNOLDO FOÀ, Una voce di uomini liberi: Radio-Napoli, «Filodrammatica», 2:7-8 (1946), p. 3. Si riproduce il testo emendato da refusi tipografici evidenti.
30 ARNOLDO FOÀ, Recitare. I miei primi sessant’anni di teatro, Gremese, Roma 1998, p. 96.
31 ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 38; LEO LONGANESI, [Napoli,] 20 dicembre [1943], in Parliamo dell’elefante. Frammenti di un diario (1947), introduzione di Pierluigi Battista, Longanesi, Milano 2005, p. 154.
32 GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., p. 292; ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 38.
33 GHIRELLI, Noi del ’45, cit., p. 106.
34 Ivi, p. 105.
35 Ibid.
36 RENATO RIBAUD, Una fantastica avventura, Arte Tipografica, Napoli 1997, p. 53.
37 GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., pp. 282 e 285.
38 Ivi, p. 294.
39 Si veda FREQUENZA, Il microfono per corrispondenza, «RC», 23:5 (1946), p. 2. Si veda anche FRANCO MONTELEONE, La ricostruzione della rete radiofonica, in Storia della RAI, cit., pp. 75-94.
40 GHIRELLI, Noi del ’45, cit., p. 105.
41 ANTONIO GHIRELLI, Radio Napoli, «Quaderno di COMUNICazione», 2011-2012, pp. 33-37: 35.
42 GHIRELLI, Un’altra Napoli, cit., p. 139.
43 GHIRELLI, Noi del ’45, cit., pp. 105-6.
44 Ivi, p. 106. Si vedano l’es. di palinsesto e la testimonianza di Compagnone in appendice a GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., pp. 298-99. Si veda anche FOÀ, Radio-Napoli, cit., pp. 3-4.
45 Il riferimento è a WILLIAM SAROYAN, Che ve ne sembra dell’America?, trad. di Elio Vittorini, Mondadori, Milano 1940, antologia che ebbe molta influenza sull’A. Si veda infra p. 147.
46 GHIRELLI, Una bella storia, cit., p. 33. In LA CAPRIA, Il boogie-woogie, cit., p. 56, l’A. attribuisce la direzione dell’emittente napoletana a Kamenetzky che, in effetti, si trovava in città in quel periodo. Anche Rosi lo fa, rispondendo alle domande di ENZO SICILIANO, Ma tu che libri hai letto?, Gremese, Roma 1991, p. 68. Altri sono concordi nel ritenere che quel ruolo spettò prima a Rehm e poi a Sadun: si veda, in proposito, ISOLA, Cari amici vicini e lontani, cit., p. 37. Secondo DIEGO LIBRANDO, Il jazz a Napoli: dal dopoguerra agli anni Sessanta, Guida, Napoli 2004, p. 34, nota 32, la direzione della «sezione spettacoli del PWB» sarebbe stata invece condivisa da Kamenetzky e Sadun.
47 LONGANESI, [Napoli,] 20 dicembre [1943], cit., p. 154.
48 GHIRELLI, Un’altra Napoli, cit., p. 139.
49 GHIRELLI, Una bella storia, cit., p. 33.
50 GHIRELLI, Noi del ’45, cit., p. 107.
51 GAMBELLI, Una donna a Radio Napoli, cit., pp. 296-97.
52 Ivi, p. 291.

Luca Federico, L'apprendistato letterario di Raffaele La Capria, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2020 

Ma ormai il destino di Radio Bari era segnato: l'avanzata angloamericana rendeva necessario abbandonare il capoluogo pugliese e spostare in avanti il centro di gravità della propaganda radiofonica verso Radio Napoli. Ma mentre Radio Bari era giunta praticamente intatta in mano agli alleati, quest'ultima stazione aveva subito forti danni dai tedeschi in ritirata, che avevano fatto saltare buona parte delle apparecchiature e il traliccio metallico dell'antenna. Fortunatamente, alcuni tecnici avevano fatto in tempo a nascondere il materiale di scorta e a disinnescare il tritolo posto sotto i gruppi generatori di corrente continua. Su questa base esigua era stato possibile già il 15 ottobre 1943 riprendere le trasmissioni come Radio Napoli Nazioni Unite dalle 19 alle 22.30, grazie agli americani del maggiore George Rehm, primo direttore della sede, che misero a disposizione una radio da campo <44; le trasmissioni, introdotte  dalle prime note dell'Inno di Mameli, non giunsero però nelle case napoletane, perché quella sera mancava in città proprio l'energia elettrica. Per migliorare la struttura tecnica, fu poi approntato un ripetitore di un solo kw di potenza a Monte di Dio, che ampliò il raggio d'ascolto. Piano piano l'orario di trasmissione venne anticipato alle 12 e quindi, definitivamente dalle 6 del mattino alle 24. Radio Napoli, che in un primo tempo aveva affiancato, rilanciando nell'etere i programmi di Radio Bari, era ormai pronta ad accogliere quel gruppo. L'ordine di trasferirsi nel capoluogo partenopeo giunse a Greenlees nel febbraio 1944: a Napoli, sotto il diretto controllo degli Americani della V armata agli ordini del generale Clark, già operava un gruppo nutrito di antifascisti fra cui spiccavano Rosellina Balbi, Maurizio Barendson, Carlo Criscio, Luigi Compagnone, Vincenzo Dattilo, Clara Falconi, Antonio Ghirelli, Ettore Giannini, Tommaso Giglio, Vezio Murialdi, Carlo Pennetti, Michele Prisco, Domenico Rea, Paolo Ricci, Ruggiero Romano, Francesco Rosi, Giuseppe Vorluni e Stefano Vanzina (Steno), da poco arrivato da Roma con Leo Longanesi e Mario Soldati <45. In tempi successivi a questi si aggiunsero Aldo Giuffré e Samy Fayad con funzioni di annunciatori, mentre nella sezione prosa, oltre ai già ricordati Steno e Longanesi, operavano il commediografo Edoardo Anton e Mino Maccari. A Napoli, si trovava anche Ugo Stille, proveniente da Palermo: ma il vero animatore di quella breve esperienza fu il successore di Rehm, il livornese Elvio H. Sadun, un ebreo fuggito nel 1938 negli Usa, dove aveva maturato solide esperienze di giornalismo radiofonico in una stazione newyorkese.
«È giunto dall'Algeria - avrebbe appuntato nel suo diario Longanesi - il nuovo direttore, un italiano, ora cittadino e soldato americano. Occhi patetici, naso aquilino, capelli ricciuti e unti. Stringe la mano con due dita, finge di aver molto da fare e parla dei problemi della radio come di questioni teologiche» <46.
Il salveminiano Sadun condivideva la responsabilità con l'ufficiale americano di origine siciliana Ravotto e con Harry Fornari, in un'atmosfera fortemente spoliticizzata rispetto a Radio Bari. La sede era stata spo stata da Pizzofalcone a Palazzo Singer in Corso Umberto, al cui terzo piano una diecina di apparecchi radio erano in continuo contatto con le stazioni radio più importanti: a queste prime apparecchiature si aggiunsero ben presto telescriventi, ciclostili, registratori e dictaphones in un clima molto particolare: «Negli uffici - è sempre Longanesi la fonte - molta agitazione e indolenza, molto apparente tecnicismo americano e arruffio napoletano» <41. Ciò permise di prolungare sino alla liberazione di Roma (4 giugno 1944) la vita di Italia combatte, a cui si aggiunsero altre trasmissioni come I pionieri, Stella bianca e I colpevoli. Quest'ultima ripeteva la denuncia di Spie al muro, allargata ai ritratti dei maggiori gerarchi fascisti, mentre I pionieri disegnavano il profilo biografico di personaggi della democrazia italiana prefascista. Il carattere educativo e didascalico di queste due trasmissioni segnalava il cambiamento verificatosi da Bari a Napoli e il diverso grado di autonomia goduto dalle due redazioni, nel quadro di un sempre più accentuato positive thinking imposto dagli Americani.
Stella bianca - secondo Monteleone dovuta principalmente alla penna di Longanesi e di Soldati <48 - era invece una rivista satirica, che divenne in breve assai popolare: vi recitavano, fra gli altri, Carlo Giuffré, Peppino Patroni Griffi, Achille Millo e lo stesso Rosi, tutti personaggi destinati ad un ruolo di primo piano nel mondo dello spettacolo. Fra scenette e couplets, si inneggiava all'american way of life e alla rinata democrazia: Steno imitava la voce di Mussolini. Era una risposta umoristica e anche un po' qualunquista alle ristrettezze del momento, ma fu il veicolo di penetrazione dei nuovi concetti in strati popolari poco propensi alla seriosità dei conversatori (Alberto Moravia   ebbe il suo battesimo radiofonico in quest'ambito) o di trasmissioni come Conosciamo le Nazioni Unite, esplicitamente destinate a favorire l'avvicinamento e la conoscenza fra italiani e alleati. Non mancava una trasmissione femminile, Programma per la donna italiana, condotta da Grazia Rattazzi Gambelli, dal dicembre 1943 annunciatrice della stazione di Pizzofalcone con lo pseudonimo Grazia di Torino. Nonostante le difficoltà del momento la magia del microfono permise
«subito» il saldarsi di forme immediate di collaborazione fra la giovane e inesperta conduttrice e il pubblico più vasto: «mi aiutarono le ascoltatrici con la loro partecipazione attraverso la corrispondenza, proponendomi argomenti, interessi, curiosità e problemi. Si instaurò così abbastanza rapidamente un rapporto corale a coinvolgere le ascoltatrici anche tra loro in iniziative concrete di carattere umano e sociale e culturale, e nel contempo arricchendo il nostro programma di riflessi e notizie di momenti associativi femminili, concretamente interessati alla vasta e complessa problematica napoletana». <49
In una realtà urbana dominata dal contraddittorio e «vorace riappropriarsi umano dei sapori elementari della vita», la radio non si sottrasse all'impegno di intervenire sui problemi più scottanti del vivere quotidiano: primo fra tutti quello dell'igiene pubblica. Nella Napoli «terra di conquista», offesa e degradata, di cui Malaparte ha disegnato un affresco drammatico e penetrante nella Pelle, il colonnello Charles Poletti, governatore alleato di Napoli, tenne, ad esempio, una serie di lezioni sul grave problema dell'igiene pubblica.
Le trasmissioni musicali accoppiavano le melodie napoletane delle orchestre Colonnese e Capese o dei complessi Calace, Michele Parise e Amedeo Pariante (un vero divo popolare, vincitore di un concorso nazionale Eiar nel 1941), allo swing dei complessi più in voga oltreoceano come Nelson Eddy, Larry Adler, Oscar Levante John Healy. Ribalta preferita fu il programma La Voce dei giovani, che aveva subito alcune interessanti trasformazioni nel clima di generale depoliticizzazione delle rubriche, giungendo appunto a proporre per la prima volta al pubblico italiano saggi di una produzione culturale nuova e strettamente legata alla moderna industria del divertimento e del consumo. <50  
Fu anche pubblicato il foglio settimanale Qui, radio Napoli per rafforzare il rapporto quotidiano con il pubblico più vasto. Tuttavia, questa eccitante esperienza fu assai breve: per Radio Napoli e per i Napoletani fu una parentesi di poco meno di sei mesi, ma assai importante, prima di ripiombare in una posizione di seconda fila all'indomani della riattivazione di Radio Roma e della trasformazione dell'Eiar in Rai, quando gli americani avrebbero riaffidato ai vecchi tecnici fascisti la direzione delle sedi liberate. Un gruppo di questi giovani rimase a Napoli e continuò a collaborare alle produzioni locali, ma in clima di sempre più sottolineata restaurazione, che giunse a chiamare alla direzione di Radio Napoli il ben noto radiocronista fascista Franco Cremascoli. È tuttavia assai difficile stabilire una forma di gerarchia fra queste prime voci nazionali e le emittenti internazionali, che la sera facevano raccogliere attorno ai più diversi apparecchi interessati e curiosi, magari con una coperta addosso per attutire i rumori udibili dall'esterno e evitare la curiosità, quella sì pericolosa, del capocaseggiato nell'Italia ancora occupata. Com'è naturale non è possibile disporre di dati statistici riguardanti l'ascolto durante la Resistenza; anche le informazioni desumibili dalla stampa circa gli arresti per ascolto clandestino non specificano mai l'emittente incriminata. <51
[NOTE]
44 Su Radio Napoli in generale le notizie sono disperse nella bibliografia  generale già citata e non è sufficiente il tentativo di sintesi di Umberto Franzese, La Radio a Napoli dalle origini alle emittenti libere, Napoli, [1984], passim.
45 Utile la memoria di Grazia Rattazzi Gambelli, Una donna a Radio Napoli, in Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla Repubblica (1943-1946), Napoli, 1986, p. 281-300.
46 Cfr. Leo Longanesi, Parliamo dell'elefante. Frammenti di un diario, Milano, 1947, p. 218.
47 Ivi, p. 219.
48 V.  Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione..., cit., p. 180.
49 Cfr. Grazia Rattazzi Gambelli, Una donna a Radio Napoli..., cit., p. 287. Una serie di testi pronunciati da uno dei collaboratori di Radio Napoli in Carlo Criscio, Un cuore alla radio 1943-44, Napoli, 1954.
50 Per un'idea della grande articolazione dei programmi presentati basta riprodurre il palinsesto di una giornata radiofonica tipo: «Notizie : ore 7-8-10-12-13-14- 16-17-20-23.30-24 Notiziario napoletano: ore 11 Notiziario Italia liberata: ore 16 Ritrasmissioni: Radio Londra ore 8.30-9.30-20.30 Voce dell'America: ore 13.15-21.30 Commenti : ore 10.10-13.15-16.10-20.15-00.15 Programmi musicale e di varietà: Ore 7.15 Musica mattutina - 7.30 Buongiorno - 7.45 Dolci melodie - 8.15 Canzoni d'Italia - 8.45 Musica operettistica - 9.00 Orchestra Esperia - 9.45 Cantante della strada - 10.15 Musiche e canti delle Nazioni Unite - 10.30 Musica sinfonica - 11.15 Racconti e novelle celebri - 11.30 L'Ora del soldato - 12.15 Musica per tutti - 12.30 Programma della donna italiana - 12.45 Personaggi del jazz - 13.30 Serenate e valzer - 14.10 Artisti celebri - 14.25 Andiamo al concerto - 16.15 Marciando - 16.30 Concerto vocale e strumentale: Ciucci-Miranda-Adami - 17.15 Musica varia - 17.30 Programma per i piccoli - 17.45 Il libro della danza - 18.15 Programma per i prigionieri da New York - 18.30 Mandolinista Maria Calace - 18.45 Notiziario in lingua francese - 19.00 Il quarto d'ora dei lavoratori - 19.15 Lezione d'inglese - 19.30 Balliamo - 20.45 Radiofollie - 21.15 Grandi autori - 21.45 Incredibile ma vero - 22.15 Musica moderna - 22.30 L'Italia combatte - 23.00 Il compositore della settimana: Mozart -  23.35 Ora romantica - 00.30 Complessi jazz  [ivi, p. 288-9].
51 A proposito di gerarchie d'ascolto, è interessante citare un documento sequestrato ad un antifascista dalla polizia, in cui non si faceva differenze, così come non la facevano gli ascoltatori: «Nell'Italia occupata dai germanici ci si lamenta spesso che le notizie sull'Italia liberata dagli angloamericani sono scarse e poco precise, perché in fondo non si può far conto che sulle trasmissioni di Radio Bari e di Radio Londra: le ultime sono troppo vaghe e portano soprattutto notizie a carattere militare, mentre le prime, che difficilmente si possono captare, sono più importanti, perché si occupano in primo luogo dei problemi italiani, ma non così numerose da accontentare tutti» [cfr. Riservato a Mussolini..., cit., p. 15].

Gianni Isola, Il microfono conteso. La guerra delle onde nella lotta di liberazione nazionale (1943-1945) in Mélanges de l'école française de Rome, Italie et Méditerranée, tome 108, n°1. 1996. pp. 83-124

lunedì 8 febbraio 2021

My God! Potevamo esplodere tutti!

Francesco Garini e Ampelio Bregliano, partigiani a Negi, Frazione di Perinaldo (IM) - Fonte: Fiorucci, Op. cit. infra

Nell'autunno del 1943 ricevetti la cartolina di arruolamento nell'esercito della RSI fascista. Proprio non mi andava di fare una guerra che si rivelava sempre più sbagliata.
Mi nascosi - io di Vallecrosia (IM) - in una casa di amici di famiglia a Rocchetta Nervina [in Val Nervia], dove incontrai il figlio del maestro Garibaldi, ufficiale dell'esercito con il quale andai a Carmo Langan ad arruolarmi nei partigiani.
Partecipai alla occupazione di Perinaldo [(IM)] dove sequestrai un... toro! La fame nel paese era tanta e di cavoli e rape ne avevo fin sopra ai capelli. Un fascista di Perinaldo possedeva un toro: glielo requisii. Fu macellato e diviso con la popolazione. Finalmente un po' di carne per tutti!
La fame è il ricordo indelebile di quel periodo.
Un giorno stavamo cuocendo qualcosa, quando si sentì urlare: "Allarme! Allarme! I tedeschi!".
Tutti scapparono e Girò [Pietro Girolamo Marcenaro] ordinò di salvare le armi: io salvai la pignatta che cuoceva sul fuoco!
 

Fonte: Fiorucci, Op. cit. infra

Un giorno mi fu ordinato di sorvegliare la strada per Pigna perché dovevano scendere dei partigiani, forse perché accompagnavano ufficiali alleati [primi di ottobre 1944]. Mi lasciarono sul ponte del Nervia al bivio per Rocchetta [Nervina (IM)] con due pecore e due  capre per fingermi pastore al pascolo. Tutto andò bene, solo che alla sera le bestie non volevano saperne di ritornare al paese.  Anche altre volte usai lo stesso stratagemma del pastore per visionare luoghi e sentieri e tracciare così percorsi alternativi per eludere i tanti posti di controllo fascisti.
Dopo quella avventura, Girò mi disse che occorreva mandare dei partigiani dagli alleati nella Francia liberata per stabilire rapporti e trasportare armi per i garibaldini. Come? Di notte, con un gozzo, remando da Vallecrosia a Monaco.
I Lilò [i Fratelli Biancheri di Bordighera (IM), Bertù Bartolomeo ed Ettore, martiri della Resistenza] avevano "agganciato" i bersaglieri che erano passati dalla nostra parte. Fregammo una barca dal deposito sottostrada vicino alla Casa Valdese [di Vallecrosia (IM)] e la portammo al mare. Con molta circospezione e furtivamente mettemmo in acqua la barca che ... affondò.
In attesa di poter fare qualcosa, la ancorammo sul fondo riempiendola di pietre per non farla portar via dalla corrente.
 

Il citato presidio dei bersaglieri e, al centro, il vecchio macello di Vallecrosia - Fonte: Fiorucci, Op. cit. infra

I due edifici prima citati, al giorno d'oggi

Intanto stava albeggiando e non potevo ritornare né in montagna né a casa, perché era in corso un vasto rastrellamento dei fascisti. Con Renzo [Gianni] Biancheri "u Longu" ci nascondemmo nel macello a fianco della ... caserma [invero, un semplice presidio] dei bersaglieri.
Passammo due giorni appollaiati e nascosti sulle travi del tetto tra le catene, le carrucole e i ganci.
Poi finalmente Girò e gli amici prepararono la barca e partimmo. Era dicembre [1944] e tra i compagni di viaggio ricordo sicuramente Luciano "Rosina" Mannini.

Ampelio "Elio" Bregliano, in Giuseppe Mac Fiorucci, Gruppo Sbarchi Vallecrosia <ed. Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia - Comune di Vallecrosia (IM) - Provincia di Imperia - Associazione Culturale "Il Ponte" di Vallecrosia (IM)>, 2007  

Rosina (Luciano Mannini) racconta: “Il servizio di informazioni militari, esplicato dalla missione «Leo» in Italia con i comandi alleati, ebbe inizio alla fine del settembre 1944, con l’arrivo nella zona della V^ Brigata [d’Assalto Garibaldi “Luigi Nuvoloni” della II^ Divisione “Felice Cascione”] di ufficiali americani ed inglesi giunti attraverso i passi montani dal Piemonte, ove erano stati paracadutati. Il capitano Leo [Stefano Carabalona], attestato allora a Pigna, comandante del distaccamento che li ospitava e che provvide in seguito a farli condurre - parte attraverso i valichi alpini e parte via mare - in Francia, stabilì col capo della missione alleata [Missione Flap] i primi accordi che dovevano condurre alla formazione di un gruppo specializzato che collegasse, per mezzo di una rete segreta, la nostra zona a quella occupata dagli alleati e fungesse da centro di raccoglimento e di smistamento di notizie militari e politiche interessanti la lotta”. La missione Leo alla quale appartenevano Rosina, Lolli [Giuseppe Longo], Giulio [Corsaro/Caronte] Pedretti, ed alcuni altri giovani che si erano temprati nelle lotte di montagna, si portò a Nizza nel [il 10] dicembre 1944, dopo due mesi di utile lavoro preparatorio, per mezzo della leggendaria imbarcazione guidata dall’infaticabile «Caronte» Giulio Pedretti e da Pascalin [Pasquale Pirata Corradi, di Ventimiglia (IM), come Pedretti]. A Nizza, Leo si incontra con i responsabili dei servizi speciali alleati e prepara il piano definitivo di lavoro, che comportava, fra l’altro, l’uso di apparecchi radio trasmittenti, per i quali la missione aveva già predisposto gli operatori. Nel gennaio 1945 la missione rientra in Italia, dove il terreno era già stato preparato in anticipo. Si organizza e comincia a funzionare in pieno… 
Mario Mascia, L’Epopea dell’Esercito Scalzo, Ed. ALIS, 1946, ristampa del 1975 a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia

In parallelo agli aviolanci alleati, ma con con maggiore assiduità, avevano luogo sbarchi di materiale bellico nella zona di Vallecrosia-Bordighera. I volontari che si occuparono di tali trasporti appartenevano al gruppo di “Leo“, che fungeva da tramite tra i garibaldini e la missione alleata in Francia. Giulio Pedretti fu il partigiano che più di ogni altro si impegnò in tali operazioni, al punto che alla fine della guerra aveva effettuato 27 traversate per recapitare armi e uomini attraverso il tratto di mare prospicente la zona di confine italo-francese.     Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell’Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945),  Tomo I, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia,  Anno Accademico 1998-1999

Remammo a turno e sbarcammo a Monaco Principato bagnati fradici, perché durante il viaggio aveva cominciato a piovere. Tre o quattro volte alla settimana ci conducevano oltre Nizza, a Gattières, per addestrarci all'uso degli esplosivi al plastico e alla esecuzione di sabotaggi. In mezzo agli ulivi avevano anche costruito un breve tratto di ferrovia per insegnarci a far saltare i binari.
Alla fine del corso ci avvisarono che alla prossima lezione avremmo dovuto presentare una sintesi, un rapporto di quello che avevamo imparato.
Avevo imparato,  ma scrivere non è mai stato il mio forte. Con un panetto di plastico modellai un bel  portacenere che colorai di bianco con della farina. La mattina dell'esame lo posi sul tavolo in bella mostra con cenere e 4 o 5 mozziconi di sigarette.
Fumando una sigaretta dietro l'altra Lamb [ufficiale alleato] cominciò a esaminare i lavori dei miei compagni, poi mi chiese dove era il mio lavoro. "L'ho già consegnato!". Il maggiore [Lamb] sfogliò i fogli alla ricerca del mio scritto. Si inalberò e mi chiese duramente dove era. Indicando il portacenere ormai colmo delle sue  cicche, risposi che ce lo aveva proprio davanti.
"Ma questo è un portacenere!"
"Si! Però è fatto con esplosivo al plastico!"
Il self-control tipico degli inglesi non lo soccorse. Scattò dalla sedia balzando all'indietro: "My God! Potevamo esplodere tutti!"
"In questo caso, signor maggiore, sarebbe stata colpa sua, perché lei ci ha insegnato che il plastico esplode solo se innescato con un detonatore e non per contatto con la semplice fiamma."
Promosso a pieni voti!
 

Bregliano a Le Petit Rocher - Fonte: Fiorucci, Op. cit.

Vicino a Le Petit Rocher [a Villefranche-sur-Mer, Alpes-Maritimes] c'era un'altra villa disabitata, Villa Iberia. Dalle finestre vedevamo il salone spoglio di ogni mobilio con solo un grande pianoforte a coda al centro.
 


Quasi tutti i giorni veniva un signore. Secondo me era il Principe Ranieri di Monaco e se non era lui era il suo sosia! Suonava per ore il pianoforte.
Il giardino era pieno di alberi di mandarino colmi di frutti. Un giorno gli chiesi se potevo prenderne un po'. Faceva finta di non capire. Glielo ripetei in dialetto: "Te cunvegne dameli, senunca ti i fregu! ("Ti conviene darmeli, se no te li frego!")". Capì e acconsentì.
Chiamai Girò e gli proposi di raccogliere qualche borsa di mandarini e andare a venderli al mercato di Nizza con la jeep che lui aveva a disposizione. Subito rifiutò in nome degli ideali, poi si convinse.
Guadagnammo dei bei soldi, che spendemmo nei bistrot di Villafranca [Villefranche-sur-Mer].
Gli ufficiali inglesi erano divertiti della cosa, però non riuscivano a capire come gli alberi fossero spogli dei mandarini e le mine disseminate nella piantagione non fossero esplose.
Insieme agli altri miei compagni disinnescavamo le mine, lasciando i contenitori senza l'esplosivo, con il quale confezionavamo qualche piccola bomba che usavamo per... pescare.
Feci parecchi viaggi avanti ed indietro portando armi, radio, medicinali e altro materiale bellico.
Il motoscafo sul quale erano imbarcati due soldati inglesi si fermava a qualche centinaio di metri dalla riva, trasbordavamo il carico su canotti o piccole bettoline di legno (queste ultime erano collegate al motoscafo con una lunga fune), raggiungevamo pagaiando la riva e scaricavamo sulla costa di Vallecrosia. Dopodiché dalla barca recuperavano le bettoline con la fune.
Imbarcammo anche soldati alleati scappati dai campi di prigionia che ci venivano affidati dai partigiani piemontesi. Ricordo un francese di colore che patì il mare in maniera incredibile. Pensai: "questo qui non l'ha ammazzato la guerra e muore dal mal di mare".
Una volta che c'era da trasportare un carico di un cospicuo numero di casse, ci imbarcammo su un motoscafo più grosso, quasi un panfilo. Era più rumoroso dei soliti usati prima di allora; gli vennero adattati ai tubi di scarico due silenziatori grandi come angurie rendendolo abbastanza silenzioso. Era però più lento e non sarebbe riuscito a sfuggire se fosse stato intercettato dalla flottiglia che pattugliava la costa italiana, come invece riuscivano a fare gli altri motoscafi che solitamente erano pilotati da Giulio "Corsaro/Caronte" Pedretti.
Per fronteggiare l'eventualità di una intercettazione, fu sistemata a poppa una mitragliera pesante piazzata sul piedestallo sostenuto da due gambe di forza fissate al battello. Evidentemente il lavoro non fu collaudato, perché, appena preso il largo con i motori adeguatamente silenziati, la mitragliera cominciò a vibrare e sbattere sulla coperta del battello. Blan-Blen!Blen-Blan! I motori erano silenziosi, ma noi sembravamo un campanile che suonava le campane a festa accompagnato da un'orchestra di tamburi!
C'era una sola cosa da fare. Esaminai la mitragliera (l'addestramento a Gattières era servito a qualcosa!) e poi con fare concitato segnalai a Girò e ai due inglesi un punto della costa indicandolo con un dito.
"Laggiù! Guarda!"
Mentre loro scrutavano attentamente nel buio staccai la mitragliera dal piedistallo e la cacciai in mare.
Il concerto cessò. Uno dei soldati inglesi si arrabbiò non poco, minacciandomi di tutto.
Girò cercò di calmarlo. Di ritorno dalla missione, i soldati inglesi fecero rapporto e fui anche processato a Nizza davanti a una specie di corte marziale, composta da ufficiali inglesi e americani.
Quando descrissi loro l'accaduto scoppiarono quasi a ridere e mi assolsero.
 



Arrivammo salvi alla costa di Vallecrosia, dove sbarcammo tutte le casse che nelle notti successive, un po' alla volta, portammo a Negi. Anche a me toccò il compito di fare la staffetta con Negi a portare e prendere, avanti e indietro.
 

La Via Aurelia di levante, poco prima del "ponte" di Vallecrosia

Una delle ultime volte che fregammo una barca dal deposito vicino al ponte di Vallecrosia me la vidi proprio brutta. Con Achille ["Andrea" Lamberti] ed altri, che adesso non ricordo, caricammo su un carretto la barca per portarla al solito posto nella villa di via S. Vincenzo. La spingemmo su per la salitella che si innesta sulla via Aurelia e svoltammo a destra. Dopo pochi metri, scorgemmo al di là del ponte tre soldati tedeschi, all'altezza del "carruggio" di via Maonaira. Chi era con me fece in tempo a dileguarsi. Io rimasi con le stanghe del carretto in mano. Non potevo scappare e lasciare il carretto perché sarebbe scivolato all'indietro e avremmo combinato un disastro. Con il cuore in gola proseguii. Avvicinandomi mi accorsi che i tedeschi stavano mangiando, meglio: si stavano abbuffando di salame e formaggio. Erano anche un po' bevuti, un po' tanto. Intuii che avevano rubato tutto quel ben di Dio dal vicino magazzino del salumiere Giraudo. Quando mi intimarono l'alt! chiedendomi spiegazioni per la barca, un po' in dialetto, un po' in italiano e tanto con le mani, con fare severo, li accusai di aver rubato salame e formaggio, mentre per i civili non c'era niente, neanche la legna per accendere una stufa, tanto è vero che per scaldarci dovevamo usare il legname della barca. I crucchi accusarono il colpo, come bambini sorpresi con le dita nella marmellata. "Kamarade! Kamarade!" e mi lasciarono proseguire.
Belin! Avevo messo paura ai tedeschi!
Ampelio "Elio" Bregliano, in Giuseppe Mac Fiorucci, Op. cit.