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mercoledì 11 ottobre 2023

Il compromesso degasperiano si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza


Come abbiamo già visto sui temi economici, Mario Del Pero ha invece sottolineato nel suo lavoro sulla natura del rapporto DC-USA all’inizio della Guerra fredda che parlare di totale subalternità di De Gasperi e dei suoi all’alleato americano non è storicamente del tutto corretto: le venature autonomiste e nazionaliste presenti in buona parte della coalizione governativa tesero sempre ad accettare l’influenza atlantica, ma utilizzando la presenza e le pressioni americane spesso per fini dettati dalle logiche nazionali. D’accordo si dice anche Scoppola, in un paragone con il partito moderato risorgimentale che condividiamo e, dal nostro punto di vista, racchiude un significato storico molto più denso: "Non eravamo pienamente liberi ma non eravamo neppure del tutto dipendenti dalle decisioni altrui: influire sulle decisioni americane era l’unica via possibile e responsabile che un uomo politico illuminato potesse seguire. Cosa aveva fatto, negli dell’unificazione, Cavour se non utilizzare il quadro internazionale ai suoi fini, prendendo atto realisticamente dei rapporti di forza esistenti?" <554
Così sul piano economico, su quello militare e, anche, sulle misure di contenimento anticomunista che, in particolare dopo lo scoppio del conflitto coreano, assunsero sempre più caratteri anticostituzionali, De Gasperi resistette e non solo per opportunismo: "Valutando la posizione di De Gasperi sulla base delle pressioni interne ed esterne che egli ricevette affinché venisse promossa una più decisa azione anticomunista, non si può però fare a meno di notare una certa moderazione nelle scelte dello statista trentino. Da questo punto di vista sia il contenuto dei provvedimenti dell’autunno 1950 (con il rigetto dell’ipotesi di utilizzare volontari per svolgere funzioni di polizia) che la gestione dell’iter di approvazione dei medesimi testi di legge (che si arenarono in parlamento o non vennero nemmeno presentati) sembrano costituire un tipico compromesso degasperiano. Un compromesso finalizzato non solo a soddisfare le pressioni statunitensi, ma anche ad attutire posizioni più radicali presenti all’interno dell’alleanza di governo così come nel mondo cattolico organizzato". <555
'Compromesso degasperiano' che si inserisce nella tradizione del moderatismo italiano che non esclude l’utilizzo della forza e della violenza, senza tuttavia compromettere gli equilibri a suo favore, correndo il rischio di cedere quote di potere troppo elevate ai settori oltranzisti poi difficilmente controllabili: "È difficile sfuggire alla sensazione che questa scarsa disponibilità non fosse determinata anche dal timore che la pedissequa applicazione delle misure chiaramente anticostituzionali richieste da Washington avrebbe finito per travolgere la democrazia italiana, portando il paese sull’orlo della guerra civile e ponendo le premesse per una svolta autoritaria di cui potevano essere vittime anche De Gasperi e la stessa Democrazia Cristiana". <556
Sostanzialmente d’accordo si dice anche Bertucelli quando riflette sui motivi del rifiuto, da parte della classe dirigente centrista, dell’alternativa salazariana: "I comunisti vengono esclusi da ogni ruolo di governo o di direzione nella struttura dello Stato, ma continuano a partecipare alle istituzioni della democrazia rappresentativa. La realizzazione di questo delicato equilibrio […] richiede però alleanze forti e impone l’anticomunismo come fattore di coesione irrinunciabile. Un anticomunismo variegato e polimorfo, spesso connotato socialmente, che diviene un tratto distintivo della democrazia del dopoguerra, in grado di relegare in posizione subalterna le culture riformatrici dei partiti di governo e le spinte modernizzatrici nella società". <557
È l’esperienza antifascista, il coinvolgimento profondo di una parte significativa di popolazione e di paese nella guerra di Liberazione, la tendenza ancora embrionale ma manifestatasi di settori non comunisti della società a fare causa comune con PCI e PSI, a impedire tra le altre cose la svolta autoritaria: "La stessa Costituzione, esito alto del tormentato passaggio dal fascismo alla Repubblica e cifra straordinaria di discontinuità con il passato, può essere sospesa, limitata, forzata, ma non se ne possono oltrepassare le norme fondamentali, non tanto perché l’opposizione comunista ne fa una bandiera, ma perché da quella carta trae legittimità lo stesso ceto di governo del dopoguerra che si identifica con la libertà e il nuovo Stato italiano, sorto dalle ceneri dell’otto settembre, e inserito ora in un nuovo ordine internazionale". <558
Queste considerazioni che negano l’asservimento totale e l’imperialismo come categorie utili, in questo contesto, a spiegare l’equilibrio centrista tra costituzione formale (prodotto della Resistenza, fondata sul nesso democrazia-antifascismo) e costituzione materiale (prodotto della Guerra fredda, fondata sul nesso democrazia-anticomunismo), servono a problematizzare il quadro: la sociologia dei conflitti tende a suddividere le modalità di svolgimento e gestione del conflitto da parte degli attori in campo secondo categorie che distinguono chiaramente tra contesto democratico e contesto non-democratico.
Questo ci pone una domanda: è possibile considerare così nettamente separate le due dimensioni? Probabilmente è più corretto ammettere la presenza di sfumature: l’esperienza storica ha dimostrato come diversi gradi di democrazia interna si basino su eccezioni alla norma democratica ufficiale, che intaccano la struttura delle opportunità politiche anche per coloro che sono riconosciuti come cittadini a pieno titolo. Le discriminazioni de iure, soprattutto in presenza di un conflitto interno, che si manifesti sia nelle forme delle campagne dei movimenti sociali, sia del conflitto letale o armato, comportano spesso restrizioni alle libertà politiche e aumento di potere nelle mani di forze dell’ordine e apparati di sicurezza. Si tratta dunque di una potenziale causa di de-democratizzazione. Contrariamente a quanto osservato da C. Tilly e S. Tarrow <559, però, questo processo non è necessariamente innescato da governi democratici a bassa capacità, né tantomeno che hanno subìto un trauma o un indebolimento: paradossalmente sono proprio le democrazie segmentate forti <560 a disporre dei dispositivi dell’eccezione e ad applicarli. In questo, il condizionamento culturale è centrale nell’interpretazione dei fatti sociali e nella percezione del nemico.
Quella che costruisce la classe dirigente neo-popolare e centrista appare a tutti gli effetti una democrazia limitata più che protetta: la molteplicità degli apparati di sicurezza e il peso dell’esercito (che vedremo nelle prossime pagine) non rappresentano infatti un potere capace di dettare l’agenda politica e determinare l’azione di governo (non in modo complessivo quanto meno); è un complesso intreccio tra attori e soggetti, spesso in conflitto tra loro, fatto di condizionamenti e azioni di diversa natura, che però non giunge mai a sollevare il governo dalle proprie prerogative costituzionali. Il sistema di ordine pubblico e agibilità politica che costruiscono Scelba e De Gasperi dunque non tende tanto a proteggere i diritti costituzionali, quanto a limitarne l’accesso per ampi settori sociali e politici. E questa è una tendenza di lungo periodo: "le tradizioni dell’Italia unita sia al livello istituzionale sia al livello delle strategie prevalenti verso gli sfidanti sono di tipo esclusivo. Le istituzioni del regno sabaudo erano caratterizzate da un forte centralismo, un’accentuata supremazia del governo di fronte a un parlamento debole, e una forte influenza dell’esecutivo anche sul potere giudiziario. La domanda che da parte del potere politico giungeva alle forze di polizia, anch’esse tenute sotto stretto controllo, era generalmente quella di una rigida protezione dell’ordine costituito, utilizzando anche le strategie più brutali. […] Il regime fascista portò a un’ulteriore accentuazione dei tratti esclusivi delle istituzioni statali. La legislazione (il codice penale, la legge di Pubblica sicurezza) varata durante il fascismo restò a lungo in vigore anche nella repubblica democratica, con conseguenze durature in termini di un riconoscimento debole dei diritti democratici. […] La forte correzione introdotta dalla costituzione repubblicana nel campo delle istituzioni formali ebbe inizialmente effetti solo parziali a causa dell’ostruzionismo della maggioranza che ostacolò l’introduzione delle nuove istituzioni di controllo e di decentramento del potere come la corte costituzionale, il consiglio superiore della magistratura, le regioni e il referendum". <561
Limitazione che diventa conferma dell’esclusione tradizionale delle classi subalterne: "Queste limitazioni, giustificate proprio con un presunto pericolo per la democrazia, si riflessero in una continuità nella strategia di esclusione del movimento operaio, delle sue organizzazioni e dei suoi partiti, che si cercava di confinare nello spazio della subcultura rossa". <562
Su questo punto non si trova d’accordo Scoppola, che invece ha sottolineato la differenza tra il paternalismo prefascista e il neopopolarismo degasperiano, soprattutto sulla questione sociale e sul ruolo delle classi subalterne: "per De Gasperi la giustizia sociale non discende nella realtà solo in virtù della sua forza morale, non è affidata ad uno Stato attento, dall’alto, al benessere delle plebi […], ma è il frutto di una presenza nuova, attraverso la democrazia politica e il suffragio universale su cui essa si fonda, di operai e contadini nella vita politica. […] La classe lavoratrice nella sua concezione è protagonista e non oggetto di un’azione di rinnovamento sociale […]". <563
Bisogna operare qui, secondo noi, una distinzione tra quella che è la teoria politica, la consapevolezza, che lo statista trentino dimostra e quella che risulta essere la prassi seguita dai suoi governi. Per le ragioni sopra riportate e che ritroveremo nel seguito dell’esposizione, ritroviamo i medesimi motivi da cui nacque, storicamente, la particolare 'subcultura rossa' italiana, e che nel secondo dopoguerra contribuiscono al riprodursi dei suoi caratteri antagonisti e rivoluzionaristi; elementi dovuti anche alla rottura tra i poteri pubblici e le istanze del lavoro, o meglio al rifiuto dei primi nei confronti delle richieste contenute nella politica del conflitto dei ceti subalterni. Costante di lungo periodo che, unitamente al nuovo contesto geopolitico e interpretativo della Guerra fredda, produce il "paradosso - giustificato con costanti richiami all’eccezionalità della situazione italiana - di uno Stato democratico costretto ad affidare le sue sorti ai rigori di una vigilanza autoritaria". <564
[NOTE]
554 P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, 1978, p. 181
555 M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli USA e la DC negli anni del centrismo (1948-1955), Carocci, 2001, p. 106
556 Ibidem, p. 156
557 L. Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Unicopli, 2012, p. 84
558 Ibidem, p. 85
559 C. Tilly, S. Tarrow, La politica del conflitto, pp. 81-84, Mondadori 2008
560 Regimi politici democratico-parlamentari che presentano al loro interno diversi gradi di concessione della cittadinanza politica e di accesso ai diritti civili, producendo così segmenti interni di democrazia. L’esclusione o la limitazione può derivare da criteri etnici, religiosi, politici.
561 D. Della Porta, H. Reiter, op. cit., pp. 24-25
562 Ibidem, p. 25
563 P. Scoppola, op. cit., pp. 91-92
564 G.C. Marino, op. cit., p. 57
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

mercoledì 1 giugno 2022

Spesso, poi, gli arresti non avvenivano durante i disordini ma successivamente, quando guardie e carabinieri si mettevano a setacciare i quartieri popolari di Parma

Parma: un angolo di Oltretorrente - Fonte: Wikipedia

Come si è visto nei precedenti capitoli, in cinquant’anni di storia, l’Oltretorrente [a Parma] fu protagonista di numerosi episodi di conflitto che guadagnarono ai suoi abitanti una certa fama nel resto d’Italia, amplificata da eventi straordinari come le proteste contro la guerra d’Africa del 1896 o lo sciopero del 1908 e poi coronata e sublimata, nel primo dopoguerra, dalle vicende delle Barricate antifasciste del 1922.
«Popolo ribelle» o «teppa» - a seconda del punto di vista da cui, di volta in volta, si è guardato a quella realtà sociale e politica e ai protagonisti di quella lunga serie di rivolte - sono le definizioni che più si sono avvicendate sia nelle cronache giornalistiche coeve, sia in non poche ricostruzioni storiche che, negli anni, hanno contribuito a rafforzare un alone leggendario intorno a coloro che parteciparono ai tumulti e alle sommosse, dandone quasi per scontata l’uniformità sociale, come se si trattasse di tutta la popolazione del quartiere. Mai nessun tentativo è stato fatto per comprendere meglio chi realmente fossero questi rivoltosi, mai è stato composto un loro ritratto particolareggiato, né sul breve né sul lungo periodo <737.
Uno degli obiettivi di questo lavoro, dunque, è stato anche quello di ridare un volto a quel popolo, e di verificare in che modo moti e rivolte hanno aderito alle pieghe della società locale, attraverso un’analisi dei loro protagonisti, almeno di quella parte di essi che è incappata nelle reti della giustizia e ha subito arresti o processi. Un’operazione non certo semplice o priva di pericoli che, come ha ben mostrato George Rudé, porta con sé il costante rischio di cadere in facili stereotipi o avventati parallelismi <738. Tenendo presenti i rischi, dunque, si è cercato di recuperare alcuni dei segmenti sociali che composero le folle dei rivoltosi e di analizzarne le caratteristiche.
Capire se si sia trattato di uomini o di donne, di giovani o meno giovani, di abitanti dei borghi o di altre zone non è infatti ininfluente per togliere quella patina di mito che si è depositata sulla storia delle classi popolari della città e, sebbene non si possa pretendere di giungere ad una definizione dettagliata dei protagonisti delle rivolte, è pur sempre possibile individuare le componenti sociali prevalenti e, sul lungo periodo, mostrarne le continuità e le discontinuità, le analogie e le differenze.
La maggior parte dei dati che supporteranno le prossime riflessioni è stata recuperata nelle carte di polizia: nelle relazioni degli agenti al prefetto e di questo al Ministero dell’Interno, infatti, oltre al racconto dei numerosi scontri e tumulti, vennero spesso indicati i nomi e le informazioni anagrafiche degli arrestati e, talvolta, l’imputazione loro contestata. Certo non si tratta di documentazione esente da lacune o mancanze ma, ugualmente, sulla sua base si è potuto costruire un data-base con i dati anagrafici e professionali di 568 uomini e donne fermati in occasione di proteste, manifestazioni, sommosse, tumulti, risse e scontri con la forza pubblica tra il 1888 - nei disordini per l’inaugurazione del monumento a Girolamo Cantelli - e il 1915, durante le manifestazioni interventiste del “maggio radioso”. Le informazioni raccolte su queste relazioni sono poi state confrontate e integrate con altre ricavate dalle cronache dei giornali e dalle carte dei processi celebrati dal Tribunale di Parma dal 1901 al 1915.
Le ragioni - anche molto diverse le une dalle altre - per le quali vennero incarcerate le persone riunite nel data-base ricompongono uno spettro di situazioni di conflitto sociale molto ampio: dalle donne che reclamavano un “giusto prezzo” per il pane, ai giovani che, in uscita da qualche osteria, si accapigliavano con pattuglie di agenti; dalla folla furibonda per l’assassinio di Pietro Cassinelli che prese d’assalto la stazione di Pubblica sicurezza di via d’Azeglio, ai sindacalisti rivoluzionari che per 50 giorni gestirono uno dei primi grandi scioperi del movimento contadino italiano; dagli anarchici e socialisti che inscenarono i primi e rumorosi cortei notturni ai protagonisti delle diverse ribellioni alla forza pubblica di cui l’Oltretorrente fu frequentemente teatro nel corso degli anni.
È tuttavia uno spettro, una fotografia, che ci deriva da una selezione operata, prima che dalla nostra ricostruzione, dalle forze dell’ordine che eseguirono gli arresti e che furono in questo orientate da ragioni molteplici. Ragioni che ebbero a che fare con l’organizzazione e la gestione dell’ordine pubblico in città, con le direttive del governo - che, in alcuni casi, come durante lo sciopero del 1904, impartì precise indicazioni perché le forze dell’ordine si astenessero dal compiere gesti che avrebbero potuto suscitare reazioni tumultuose -, con le abitudini e l’esperienza degli agenti che pattugliavano i quartieri popolari, con la loro capacità di identificare e riconoscere gli individui più “pericolosi”.
Inoltre, solo una esigua minoranza degli uomini e delle donne che scesero in strada o si scontrarono con la forza pubblica finì nei verbali e nelle celle di sicurezza, mentre la gran parte di essi riuscì a sottrarsi alle strette della repressione. E ciò anche in occasione di quegli eventi verso i quali l’azione di polizia fu più massiccia e che si conclusero con arresti di massa, talvolta anche ingiustificati e vanificati poi dall’esito dei processi, come nel caso del giugno 1908 e degli oltre cento dirigenti e organizzati della Camera del Lavoro catturati durante l’assalto in borgo delle Grazie, tutti assolti dal Tribunale di Lucca non senza polemiche per come la polizia e la magistratura parmensi avevano condotto l’istruttoria <739.
Spesso, poi, gli arresti non avvenivano durante i disordini ma successivamente, quando guardie e carabinieri si mettevano a setacciare i quartieri popolari in cerca di coloro che avevano, o credevano di avere, riconosciuto in strada. Non era dunque raro che, in simili circostanze, in ferri ci finissero uomini già noti alle forze dell’ordine per i loro precedenti penali. Anche per questo, probabilmente, tra gli arrestati predominarono quegli uomini giovani che, meglio di donne o di uomini più anziani, corrispondevano, nell’immaginario delle forze dell’ordine, allo stereotipo del rivoltoso e dell’individuo pericoloso.
Solo una parte degli arresti, dunque, venne eseguita nel pieno delle sommosse che, quasi sempre, per lo meno per gli episodi più tumultuosi, si concludevano con un fuggi fuggi incalzato dagli spari dei soldati. I tutori dell’ordine, poi, soprattutto quando i disordini avvenivano in Oltretorrente, mostravano una certa difficoltà nel contenere e reprimere gli scontri, impotenza che va senz’altro messa in relazione con il consenso che i tumulti trovavano in quartiere. Quel dedalo di vicoli e cortili, infatti, si trasformava in un labirinto di vie di fuga per i suoi abitanti che, da una casa all’altra, tramite i tetti o le corti interne, riuscivano a dileguarsi velocemente, mentre guardie e soldati dovevano accontentarsi di acciuffare i pochi che rimanevano nelle strade o ritardavano a rifugiarsi dietro i portoni. Talvolta, dunque, i fermi avvenivano in modo piuttosto arbitrario: gli avventori di un’osteria nei pressi di uno scontro, gli abitanti di una casa da cui era piovuto un sasso, o coloro che, circondati i borghi, rimanevano casualmente impigliati nella retata della forza pubblica.
[NOTE]
737 Gli unici esempi di analisi in questa direzione, infatti, riguardano i “sovversivi” del ventennio fascista, cfr. M. Palazzino, Nel buio. L’antifascismo parmense e lo Stato di polizia, in M. Giuffredi (a cura di), Nella rete del regime…, cit., pp. 1-34; W. Gambetta, L’esercito proletario di Guido Picelli (1921-1922), «Storia e documenti», n. 7, 2002, pp. 23-46.
738 G. Rudé, La folla nella storia…, cit., pp. 19 e 231.
739 Cfr. U. Sereni, Il processo ai sindacalisti parmensi…, cit.
Margherita Becchetti, Oltretorrente. Rivolte e conflitto sociale a Parma. 1868-1915, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, 2010