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mercoledì 1 giugno 2022

Spesso, poi, gli arresti non avvenivano durante i disordini ma successivamente, quando guardie e carabinieri si mettevano a setacciare i quartieri popolari di Parma

Parma: un angolo di Oltretorrente - Fonte: Wikipedia

Come si è visto nei precedenti capitoli, in cinquant’anni di storia, l’Oltretorrente [a Parma] fu protagonista di numerosi episodi di conflitto che guadagnarono ai suoi abitanti una certa fama nel resto d’Italia, amplificata da eventi straordinari come le proteste contro la guerra d’Africa del 1896 o lo sciopero del 1908 e poi coronata e sublimata, nel primo dopoguerra, dalle vicende delle Barricate antifasciste del 1922.
«Popolo ribelle» o «teppa» - a seconda del punto di vista da cui, di volta in volta, si è guardato a quella realtà sociale e politica e ai protagonisti di quella lunga serie di rivolte - sono le definizioni che più si sono avvicendate sia nelle cronache giornalistiche coeve, sia in non poche ricostruzioni storiche che, negli anni, hanno contribuito a rafforzare un alone leggendario intorno a coloro che parteciparono ai tumulti e alle sommosse, dandone quasi per scontata l’uniformità sociale, come se si trattasse di tutta la popolazione del quartiere. Mai nessun tentativo è stato fatto per comprendere meglio chi realmente fossero questi rivoltosi, mai è stato composto un loro ritratto particolareggiato, né sul breve né sul lungo periodo <737.
Uno degli obiettivi di questo lavoro, dunque, è stato anche quello di ridare un volto a quel popolo, e di verificare in che modo moti e rivolte hanno aderito alle pieghe della società locale, attraverso un’analisi dei loro protagonisti, almeno di quella parte di essi che è incappata nelle reti della giustizia e ha subito arresti o processi. Un’operazione non certo semplice o priva di pericoli che, come ha ben mostrato George Rudé, porta con sé il costante rischio di cadere in facili stereotipi o avventati parallelismi <738. Tenendo presenti i rischi, dunque, si è cercato di recuperare alcuni dei segmenti sociali che composero le folle dei rivoltosi e di analizzarne le caratteristiche.
Capire se si sia trattato di uomini o di donne, di giovani o meno giovani, di abitanti dei borghi o di altre zone non è infatti ininfluente per togliere quella patina di mito che si è depositata sulla storia delle classi popolari della città e, sebbene non si possa pretendere di giungere ad una definizione dettagliata dei protagonisti delle rivolte, è pur sempre possibile individuare le componenti sociali prevalenti e, sul lungo periodo, mostrarne le continuità e le discontinuità, le analogie e le differenze.
La maggior parte dei dati che supporteranno le prossime riflessioni è stata recuperata nelle carte di polizia: nelle relazioni degli agenti al prefetto e di questo al Ministero dell’Interno, infatti, oltre al racconto dei numerosi scontri e tumulti, vennero spesso indicati i nomi e le informazioni anagrafiche degli arrestati e, talvolta, l’imputazione loro contestata. Certo non si tratta di documentazione esente da lacune o mancanze ma, ugualmente, sulla sua base si è potuto costruire un data-base con i dati anagrafici e professionali di 568 uomini e donne fermati in occasione di proteste, manifestazioni, sommosse, tumulti, risse e scontri con la forza pubblica tra il 1888 - nei disordini per l’inaugurazione del monumento a Girolamo Cantelli - e il 1915, durante le manifestazioni interventiste del “maggio radioso”. Le informazioni raccolte su queste relazioni sono poi state confrontate e integrate con altre ricavate dalle cronache dei giornali e dalle carte dei processi celebrati dal Tribunale di Parma dal 1901 al 1915.
Le ragioni - anche molto diverse le une dalle altre - per le quali vennero incarcerate le persone riunite nel data-base ricompongono uno spettro di situazioni di conflitto sociale molto ampio: dalle donne che reclamavano un “giusto prezzo” per il pane, ai giovani che, in uscita da qualche osteria, si accapigliavano con pattuglie di agenti; dalla folla furibonda per l’assassinio di Pietro Cassinelli che prese d’assalto la stazione di Pubblica sicurezza di via d’Azeglio, ai sindacalisti rivoluzionari che per 50 giorni gestirono uno dei primi grandi scioperi del movimento contadino italiano; dagli anarchici e socialisti che inscenarono i primi e rumorosi cortei notturni ai protagonisti delle diverse ribellioni alla forza pubblica di cui l’Oltretorrente fu frequentemente teatro nel corso degli anni.
È tuttavia uno spettro, una fotografia, che ci deriva da una selezione operata, prima che dalla nostra ricostruzione, dalle forze dell’ordine che eseguirono gli arresti e che furono in questo orientate da ragioni molteplici. Ragioni che ebbero a che fare con l’organizzazione e la gestione dell’ordine pubblico in città, con le direttive del governo - che, in alcuni casi, come durante lo sciopero del 1904, impartì precise indicazioni perché le forze dell’ordine si astenessero dal compiere gesti che avrebbero potuto suscitare reazioni tumultuose -, con le abitudini e l’esperienza degli agenti che pattugliavano i quartieri popolari, con la loro capacità di identificare e riconoscere gli individui più “pericolosi”.
Inoltre, solo una esigua minoranza degli uomini e delle donne che scesero in strada o si scontrarono con la forza pubblica finì nei verbali e nelle celle di sicurezza, mentre la gran parte di essi riuscì a sottrarsi alle strette della repressione. E ciò anche in occasione di quegli eventi verso i quali l’azione di polizia fu più massiccia e che si conclusero con arresti di massa, talvolta anche ingiustificati e vanificati poi dall’esito dei processi, come nel caso del giugno 1908 e degli oltre cento dirigenti e organizzati della Camera del Lavoro catturati durante l’assalto in borgo delle Grazie, tutti assolti dal Tribunale di Lucca non senza polemiche per come la polizia e la magistratura parmensi avevano condotto l’istruttoria <739.
Spesso, poi, gli arresti non avvenivano durante i disordini ma successivamente, quando guardie e carabinieri si mettevano a setacciare i quartieri popolari in cerca di coloro che avevano, o credevano di avere, riconosciuto in strada. Non era dunque raro che, in simili circostanze, in ferri ci finissero uomini già noti alle forze dell’ordine per i loro precedenti penali. Anche per questo, probabilmente, tra gli arrestati predominarono quegli uomini giovani che, meglio di donne o di uomini più anziani, corrispondevano, nell’immaginario delle forze dell’ordine, allo stereotipo del rivoltoso e dell’individuo pericoloso.
Solo una parte degli arresti, dunque, venne eseguita nel pieno delle sommosse che, quasi sempre, per lo meno per gli episodi più tumultuosi, si concludevano con un fuggi fuggi incalzato dagli spari dei soldati. I tutori dell’ordine, poi, soprattutto quando i disordini avvenivano in Oltretorrente, mostravano una certa difficoltà nel contenere e reprimere gli scontri, impotenza che va senz’altro messa in relazione con il consenso che i tumulti trovavano in quartiere. Quel dedalo di vicoli e cortili, infatti, si trasformava in un labirinto di vie di fuga per i suoi abitanti che, da una casa all’altra, tramite i tetti o le corti interne, riuscivano a dileguarsi velocemente, mentre guardie e soldati dovevano accontentarsi di acciuffare i pochi che rimanevano nelle strade o ritardavano a rifugiarsi dietro i portoni. Talvolta, dunque, i fermi avvenivano in modo piuttosto arbitrario: gli avventori di un’osteria nei pressi di uno scontro, gli abitanti di una casa da cui era piovuto un sasso, o coloro che, circondati i borghi, rimanevano casualmente impigliati nella retata della forza pubblica.
[NOTE]
737 Gli unici esempi di analisi in questa direzione, infatti, riguardano i “sovversivi” del ventennio fascista, cfr. M. Palazzino, Nel buio. L’antifascismo parmense e lo Stato di polizia, in M. Giuffredi (a cura di), Nella rete del regime…, cit., pp. 1-34; W. Gambetta, L’esercito proletario di Guido Picelli (1921-1922), «Storia e documenti», n. 7, 2002, pp. 23-46.
738 G. Rudé, La folla nella storia…, cit., pp. 19 e 231.
739 Cfr. U. Sereni, Il processo ai sindacalisti parmensi…, cit.
Margherita Becchetti, Oltretorrente. Rivolte e conflitto sociale a Parma. 1868-1915, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Parma, 2010

venerdì 3 dicembre 2021

Il discorso critico su Nomellini ha già raggiunto una dimensione tale da permettere affondi critici di ampio respiro

Plinio Nomellini, Lo sciopero, 1889 circa - olio su tela, cm 29 ×40,5 - il Divisionismo Pinacoteca Fondazione Cassa di Risparmio Tortona - Fonte: Elia Siddharta Gaetano, Op. cit. infra

Tra il 1915 e il 1920 Plinio Nomellini (Livorno, 1866 - Firenze, 1943) fu probabilmente il pittore più celebre in Italia. Durante il «radioso maggio» il suo Garibaldi (1907), accompagnato dai versi di Gabriele D’Annunzio, era riprodotto in manifesti affissi nelle principali città e distribuito in formato di cartolina nelle scuole. L’esperienza artistica di questo pittore incontrava l’interesse sia della critica specializzata che del popolo, richiamando inoltre in più occasioni l’attenzione di alcune delle personalità più insigni del panorama culturale italiano, in ambito non solo pittorico ma anche letterario e musicale <1.
Nel 1920 in occasione della XII Biennale di Venezia si tenne una mostra personale di Nomellini che poteva contare più di quaranta opere. Anche se può sembrare paradossale, la parabola discendente di Nomellini prende avvio proprio da questo momento, anche se il declino sarebbe divenuto evidente soltanto durante il Ventennio fascista. E ciò nonostante il fatto che Nomellini avesse aderito precocemente al fascismo con una fiducia e un entusiasmo ben evidenti nei suoi dipinti di storia fascista, a esempio il rutilante Incipit Nova Aetates (1924) (conservato insieme al Garibaldi presso il Museo Civico Giovanni Fattori di Livorno). L’altisonante e dannunziana retorica di questi dipinti non trovava però rispondenze né nell’estetica futurista né in quella novecentista, isolando di fatto Nomellini dal dibattito critico-artistico più aggiornato. E tuttavia, nel quadro del «pluralismo estetico» fascista Nomellini godeva non solo dell’approvazione di Benito Mussolini, ma anche delle committenze di potenti gerarchi e dell’interesse del mercato <2. Al termine della Seconda guerra mondiale, la figura di Nomellini, troppo compromessa con il regime fascista, scomparve così dalla letteratura critica; e le sue tele furono accantonate nei depositi dei musei <3.
La storia della riscoperta di Nomellini inizia nel 1966, quando Carlo Ludovico Ragghianti, spinto da ciò che egli stesso definì un sentimento di aprioristica «ripulsa» e di «negazione totale del passato» condiviso da parte della nuova generazione di critici, organizzò una mostra su Plinio Nomellini affidandone la curatela a due suoi allievi: Giacinto Nudi e Raffaele Monti <4.
La mostra rivelava un percorso artistico fino ad allora praticamente sconosciuto, avviato nel solco degli insegnamenti fattoriani e approdato in seguito a un paesaggismo di tipo lirico e intimista, che sta a testimoniare una produzione “altra” rispetto a quella ufficiale. La ragione principale di questa mostra era certamente quella di ricollocare la personalità artistica di Nomellini dal punto di vista storico critico, ma per Ragghianti rappresentò anche l’occasione di mettere in evidenza un processo storico-culturale che nel Secondo dopoguerra sembrava in procinto di essere rimosso dall’orizzonte critico: l’evoluzione estetico-ideologica che aveva portato diversi artisti inizialmente ispirati a ideali sociali umanitaristi dapprima verso una «significazione idealista» di carattere dannunziano e poi all’adesione a un mitografismo nazionalista e «immaginifico» espresso in un primo momento dalle istanze interventiste e in seguito dalla retorica fascista.
Nel corso degli anni Sessanta e Settanta la ricostruzione della personalità artistica di Nomellini proseguì su due ulteriori fronti: il filone di studi sui postmacchiaioli aperto dalle ricerche di Jolanda Pellegatti e di Riccardo Tassi e successivamente perfezionato dagli studi di Raffaele Monti, e la ricostruzione storico-critica del Divisionismo italiano culminata nella pubblicazione degli Archivi del Divisionismo (1968) e nella mostra sul Divisionismo nel 1970 <5. Bisogna in effetti tener conto del fatto che il giudizio storico-artistico sull’esperienza di Nomellini fu a lungo condizionato, oltre che dalla damnatio memoriae che colpì il pittore per la sua compromissione con il regime fascista, da una comprensione a lungo parziale e incompleta del Divisionismo italiano.
Nel 1985 Gianfranco Bruno curò un’importante mostra dedicata a Nomellini presso il Palazzo della Permanente di Milano. Attraverso l’esposizione di più di centocinquanta opere era così ricostruito quasi per intero il lungo iter artistico del pittore livornese <6. Bisogna però notare come lo sforzo di Bruno volto a definire uno sviluppo coerente della pittura di Nomellini, abbia indirettamente distolto l’attenzione dal problema di carattere prettamente storico-culturale su cui aveva invitato a ragionare Ragghianti. Nelle successive mostre su Nomellini curate da Bruno, il discorso storico ritrovò la sua importanza grazie agli studi di Umberto Sereni e di Eleonora Barbara Nomellini, che con le sue ricerche ha contribuito in misura determinante ad arricchire il quadro di conoscenze dell’attività di suo nonno <7. Tali aggiornamenti hanno orientato la mostra I colori del Sogno e la redazione di contribuiti per cataloghi dedicati al Divisionismo e alle relazioni tra Nomellini e le arti <8.
L’ultima mostra su Plinio Nomellini risale al 2017 ed è stata curata da Nadia Marchioni. L’alta qualità dei contributi degli studiosi che hanno preso parte al progetto ha contribuito a precisare la complessità della personalità di Nomellini ponendo ulteriori interrogativi <9.
Lo stato attuale della critica nomelliniana non può non risentire di questo processo di stratificazione frammentario. Attualmente Eleonora Barbara Nomellini è impegnata nelle ultime fasi della redazione del Catalogo Ragionato dei dipinti e delle carte, che oltre a rappresentare un simbolico punto d’arrivo del processo di riscoperta iniziato nel 1966 da Carlo Ludovico Ragghianti, fornirà uno strumento essenziale per un nuovo e più analitico corso di studi sul pittore. Va comunque riconosciuto che nonostante il suo sviluppo irregolare il discorso critico su Nomellini ha già raggiunto una dimensione tale da permettere affondi critici di ampio respiro, utili tra l’altro a superare alcune categorizzazioni troppo rigide dovute alla storia della riscoperta e della riabilitazione di questo pittore <10. Basti pensare a esempio al fatto che l’iniziativa della mostra voluta da Ragghianti nel 1966 si ispirava anche a una suggestiva intuizione di Carlo Carrà, che nel 1924 aveva riconosciuto nella pittura di Nomellini (in quegli anni condannata per gli eccessi cromatici e retorici) la presenza di una vena paesaggistica di alto valore: questa separazione tra produzione ufficiale e produzione privata del pittore, se da un lato si è dimostrata fondamentale per rilanciare l’esperienza di Nomellini, risulta di fatto ancora irrisolta e sembra ostacolare una comprensione organica <11.
Alla luce delle nuove conoscenze e del mutato contesto storico culturale, sarebbe oggi auspicabile ripensare a questo artista nella sua globalità, affrontando le complessità dei suoi moventi ideologici e quindi convergendo il discorso sulle ragioni e sui motivi della sua arte.
[...] La rappresentazione del lavoro è uno dei soggetti fondamentali della pittura dell’Ottocento: l’analisi della trattazione di questo tema da parte di Nomellini può certamente fornire acquisizioni importanti per comprendere l’evoluzione della sua intera produzione pittorica. Del resto, il lavoro fu il tema predominante dei quadri di Nomellini fino al 1894 ed è al centro di alcune tra le opere più celebri e importanti di questo pittore, tra cui Il fienaiolo, esposto all’Exposition Universelle di Parigi nel 1889, e Piazza Caricamento, presentata alla Prima Triennale di Brera nel 1891. E l’iconografia del lavoro si presenta inoltre come punto di partenza privilegiato per indagare più approfonditamente di quanto sia stato fatto finora anche i moventi ideologici della pittura nomelliniana e l’importanza che vi trovano le frequentazioni del pittore con il mondo anarchico e socialista. Per queste ragioni una rilettura dell’opera di Nomellini secondo la prospettiva delle iconografie del lavoro non risulta solo inedita ma anche necessaria.
Nella seconda metà del Novecento, le iconografie del lavoro di Nomellini sono state riconosciute dalla critica non solo per il loro valore artistico ma anche per la loro evidenza storica.
Tale aspetto dell’arte di Nomellini fu valorizzato per la prima volta dagli studi di Fortunato Bellonzi e Rossana Bossaglia nell’ambito della storica esposizione Arte e Socialità in Italia. Dal realismo al simbolismo 1865-1915 (1979) <12.
Attualmente i dipinti di Nomellini risultano componenti irrinunciabili delle sempre più frequenti mostre sul tema del lavoro tra Ottocento e Novecento. Inoltre, la Pinacoteca del Divisionismo della Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona conserva tre fra le più importanti opere di questa produzione: Lo sciopero, Piazza Caricamento e Mattino in officina. La riconosciuta importanza di queste iconografie non rappresenta però una garanzia circa la validità del loro utilizzo a sostegno di un più ampio ragionamento.
 

Plinio Nomellini, Piazza Caricamento a Genova, 1889 circa - olio su tela, 20,5 x 30,5 cm - collezione privata - Fonte: Elia Siddharta Gaetano, Op. cit. infra

[NOTE]
1 Secondo Carlo Ludovico Ragghianti, «sino a dopo la prima guerra mondiale», la fama di Plinio Nomellini non era «eguagliata da nessun’altra di artisti contemporanei». Cfr. C. L. RAGGHIANTI, Plinio Nomellini in Plinio Nomellini, a cura di G. Nudi, R. Monti, cat. della mostra (Livorno, Villa Fabbricotti, 30 luglio-21 agosto 1966, Firenze, Palazzo Strozzi, 1-15 settembre 1966), Formatecnica, Firenze, 1966, p. 1.
2 L’appoggio di Mussolini nei confronti di Nomellini, e l’utilizzo propagandistico dei suoi dipinti, è anche testimoniato dalla diffusione delle sue opere in formato di cartolina. In particolare, la cartolina che riproduce Incipit Nova Aetates (dipinto esposto per la prima volta alla Biennale del 1924) reca l'iscrizione mussoliniana: «Plinio Nomellini, artista degno della “Nova Aetas” Mussolini, Roma, maggio 1924». Durante gli anni Venti uno dei maggiori collezionisti di opere di Nomellini fu il gerarca fascista Lelio Ricci. Cfr. T. PANCONI, Plinio Nomellini. Corrispondenza inedita, Mediarte, Montecatini Terme, 2001. A proposito delle esposizioni in gallerie private si veda: Pittori italiani dell'Ottocento nella raccolta di Enrico Checcucci di Firenze, Bestetti-Tumminelli, Milano-Roma, 1929. Plinio Nomellini Mostra personale, Lucca, 1935.
3 Valga come esempio il caso di Incipit Nova Aetaes: dal 1925 esposto presso il Palazzo Comunale di Livorno, e a seguito della caduta del fascismo, riposto nei depositi della caserma Lamarmora fino al 1994.
4 Cfr. Plinio Nomellini, a cura di G. Nudi, R. Monti, cat. della mostra (Livorno, Villa Fabbricotti, 30 luglio-21 agosto 1966, Firenze, Palazzo Strozzi, 1-15 settembre 1966), Formatecnica, Firenze, 1966.
5 Cfr. J. PELLEGATTI, R. TASSI, I postmacchiaioli, Centro editoriale Arte e Turismo, Firenze, 1962. R. MONTI, Le mutazioni della macchia, De Luca, Roma, 1985. R. MONTI, G. Matteucci, I postmacchiaioli, De Luca, Roma, 1991. I postmacchiaioli, a cura di R. Monti, G. Matteucci, De Luca, Roma, 1993. Per quanto riguarda gli studi sul Divisionismo: Archivi del Divisionismo, a cura di F. Bellonzi, T. Fiori, I-II, Officina Edizioni, Roma, 1968. Mostra del Divisionismo Italiano, a cura di F. Bellonzi et alii (Milano, Palazzo della Permanente, marzo-aprile 1970), Arti grafiche Gualdoni, Milano, 1970.
6 Plinio Nomellini, a cura di G. Bruno, cat. della mostra (Milano, Palazzo della Permanente, febbraio-marzo 1985) Stringa editore, Genova, 1985.
7 Si veda in proposito Plinio Nomellini. La Versilia, a cura di E.B. Nomellini, U. Sereni, G. Bruno, cat. della mostra (Serravezza, Palazzo Mediceo, 15 luglio - 24 settembre 1989) Electa, Firenze, 1989.
8 Nomellini i colori del sogno, a cura di E. B. Nomellini, cat. della mostra (Livorno, Museo Civico Fattori, 9 luglio-13 settembre 1998), Allemandi, Torino, 1998. Gli ultimi contributi di Eleonora Barbara Nomellini riguardano i contatti di Nomellini con Giacomo Puccini e Isadora Duncan: E. B. Nomellini, Il fascino di un lago, in Per sogni e per chimere. Giacomo Puccini e le arti visive, a cura di F. Benzi, P. Bolpagni, U. Sereni, cat. della mostra (Lucca, Fondazione Ragghianti, 8 maggio - 23 settembre 2018) Edizioni Fondazione Ragghianti Studi sull'Arte Lucca, Lucca, 2018, pp. 303-313.
9 Cfr. Plinio Nomellini. Dal Divisionismo al Simbolismo verso la libertà del colore, a cura di N. Marchioni, cat. della mostra (Serravezza, Palazzo Mediceo, 14 luglio-5 novembre 2017) Maschietto Editore, Firenze, 2017.
10 Per quanto riguarda gli ultimi studi sul Divisionismo si veda: Divisionismo. La rivoluzione della Luce, a cura di A. P. Quinsac, cat. della mostra (Novara, Castello Visconteo, 23 novembre 2019 - 5 aprile 2020) Mets Percorsi d'Arte, Novara, 2019. Rubaldo Merello. Tra Divisionismo e Simbolismo. Segantini Previati, Nomellini, Pellizza, a cura di M. Fochessati - G. Franzone, cat. della mostra (Genova, Palazzo Ducale, 6 ottobre 2017 - 4 febbraio 2018) Sagep Editori, Genova, 2017. I pittori della luce. Dal divisionismo al futurismo, a cura di B. Avanzi, D. Ferrari, F. Mazzocca, cat. della mostra (Rovereto, Marti, 25 febbraio-24 giugno, 2016), Mondadori Electa, Milano, 2016. Il Divisionismo. Pinacoteca Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona, a cura di F. Caroli, Electa, Milano 2015.
11 Cfr. C. CARRÀ, Tre artisti, «L’Ambrosiano», 9 dicembre 1924.
12 Arte e Socialità in Italia dal realismo al simbolismo 1865-1915, a cura di F. Bellonzi, R. Bossaglia et alii, cat. della mostra (Milano, Palazzo della Permanente, giugno-settembre 1979), Società per le Belle Arti ed Esposizione Permanente, Milano, 1978.
 

Plinio Nomellini, Il fienaiolo, 1888 - olio su tela, cm 78,5 x 150,5  - Museo Fattori, Livorno (dettaglio) - Fonte: Elia Siddharta Gaetano, Op. cit. infra

Elia Siddharta Gaetano, Plinio Nomellini (1866-1943). Iconografie del lavoro. Dal realismo sociale al simbolismo (1885-1908), Tesi di dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Anno accademico 2019/2020

domenica 8 agosto 2010

Milano, Via Santa Radegonda


In questi giorni mi viene spesso da pensare ad un certo modo con cui ho visto Milano, vuoi per la presenza dalle mie parti in questo periodo di vacanze di amici e parenti colà residenti, vuoi per una bella discussione avuta la settimana scorsa con un amico che nel capoluogo lombardo, se non vi é nato, vi ha per lo meno vissuto a lungo.

La prima volta che venni portato a Milano avevo poco più di due anni, come testimoniato da una fotografia di famiglia, scattata in Piazza Duomo con l'immancabile cornice di piccioni, uno in mano a mio padre, ma non posso certo ricordarne nulla.

Ricordo bene, invece, che, prima dell'età scolastica, dalla finestra di un piano ben alto posizionato in Via Santa Radegonda mi sembrava di toccare con una mano quel Duomo che mi affascinava tanto.

Quella casa non c'é più, sostituita già prima delle vicende cantate ne "Il ragazzo della Via Gluck" da un orrendo silo-parcheggio, quasi adiacente alla Galleria. Ed il Duomo non mi appare oggi poi così vicino.

Non voglio ora indagare sulle demolizioni dei centri storici, né sullo sradicamento dai medesimi dei ceti popolari, argomenti molto importanti che altri hanno saputo e sanno affrontare in modo più degno del sottoscritto.

E neppure sfiorare l'intreccio di rapporti familiari ed amicali di un'altra epoca, che pur hanno creato, credo, tante belle pagine nelle storie personali di tanti italiani.

Nel mio caso, non posso certo dimenticare che quella casa fu la base di partenza, ad esempio, per le prime escursioni verso il Lago Maggiore: a Stresa un trenino su cremagliera salendo verso la cima del Mottarone riempiva di meraviglia un bambino di cinque anni.

Io di Via Santa Radegonda voglio adesso ricordare una signora, vicina di appartamento agli zii di mio padre, che a me sembrava anziana, ma che, pur parlando in dialetto stretto e per me incomprensibile, mi appare ancora, a tanti anni di distanza, dotata di una formidabile carica umana.

Ho recuperato più avanti, per via di altre frequentazioni e non solo di parentela, acquisita o meno, il senso di una pregressa diffusa bonomia popolare, composta di arguzia e di solidarietà, mai disgiunta da senso civico e da tradizionale, autentica etica del lavoro.

Mi sono formato queste convinzioni, sia ascoltando storie ambientate in Via della Spiga, quando era ancora un rione popolare, che in zona Fiera-Sempione, anche questa ormai centro urbano, ma anche vivendo per tempo di persona situazioni ambientate un po' ovunque in quella metropoli, come in Via San Marco e in zona Niguarda.

Voglio arrivare all'amara constatazione che quel sano humus popolare mi risulta largamente disperso, come, per non andare tanto lontano, pur si evince dalla lettura di innumerevoli cronache quotidiane.

Se é vero che "ricordare é conoscere", come proprio da poco ha scritto un amico nel suo blog, può darsi che il mio risulti un modesto contributo al miglioramento del clima sociale e civile del Paese.