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sabato 13 agosto 2022

Storie di antifascisti italiani nella Parigi dei quartieri rossi


Il secondo e terzo capitolo di questa ricerca hanno come oggetto la partecipazione di emigrati e emigrate italiani alla resistenza contro l'occupante tedesco a Parigi. In particolare l'analisi ha riguardato alcuni franc-tireurs et partisans legati alla Main d'oeuvre immigrée quindi al partito comunista e attivi contro i nazisti fin dalla fine del 1940 inizi 1941 e alcuni aderenti alle Formazioni Garibaldine dell'XI e XII arr. formatesi a partire dal 1941 e che presero parte successivamente, inquadrati nelle Milices patriotiques - Front National, alla Liberazione di Parigi. Dall'analisi delle biografie di questi aderenti, circa 40 persone, emergono quelle che erano le caratteristiche dell'emigrazione politica-economica italiana negli anni trenta e che risiedeva in quei quartieri rossi della Parigi nord-Est.
Come ricorda William Valsesia, che era nato a Parigi nel 1924 in una famiglia di militanti comunisti fuggiti dall'Italia, in questa zona: “C'era un modo di pensare gli spazi urbani conforme a chi abitava nell'XI, XII, XVIII, XIX e XX arr. preferivamo stare alla destra della Seine con uno spirito da Rive Droite. Se si passava sulla sinistra si attraversava un ponte per raggiungere il quartiere latino. Noi, vivendo a Belleville o a Menilmontant, eravamo più di casa a Montmartre che a Montparnasse, al Bois de Vincennes che al Bois de Boulogne. La nostra era la parte più antica, in cui si erano sviluppati il commercio, gli affari, la haute culture, della capitale. La Rive Gauche era soprattutto intellettuale, ministeriale, sede delle ambasciate straniere. Preferivamo l'atmosfera vivace della Rive Droite alla serenità della Rive Gauche.” <120
Gli aderenti alle Formazioni garibaldine e ai FTP-MOI di cui ho potuto leggere il fascicolo redatto a loro nome dalla polizia fascista per il Casellario politico centrale, sono per la maggior parte schedati come comunisti. <121
Alcuni di questi sono dei veri militanti del PCd'I costretti a scappare da una paese all'altro perchè braccati dalla polizia dei vari paesi e oggetto più volte di mandati di espulsione. Come ad esempio, Vilhar Stanislao, originario di Gorizia, tra 'i più accesi esponenti del partito giovanile comunista' emigrato clandestinamente nel 1929 per sfuggire ad un processo dove era stato chiamato a testimoniare riguardo ad un omicidio a sfondo politico. Si rifugiò prima in Jugoslavia, dove a causa della propaganda sovversiva, venne arrestato insieme a suo fratello Felice Vilhar, per propaganda comunista. Scontò 4 mesi di carcere a Lubiana, poi venne espulso e accompagnato alla frontiera con l'Austria, dove rimase per qualche mese a spese del Soccorso Rosso. In seguito passò in Belgio dove svolse attiva propaganda per il partito comunista italiano. A Bruxelles venne arrestato insieme ad altri comunisti, quali Dino Scapini, Marco Sfiligoi, Augusto Felician, Nunzio Marinangeli, durante una riunione della cellula di Bruxelles 'indetta per preparare una manifestazione di protesta contro la celebrazione dell'XI anniversario della marcia su Roma'. Durante la perquisizione nella stanza d'albergo dove alloggiava il Vilhar a Bruxelles, venne rinvenuto 'importante materiale comunista' <122 che gli valse l'accusa di essere 'il capo dei comunisti in Belgio, o per lo meno, l’individuo che aveva in consegna tutti i documenti riferentisi al movimento comunista italiano nel Belgio'. Da qui arrivò a Parigi dove visse clandestinamente per circa 6 anni. Nel 1937 gli venne ratificato un divieto di soggiorno per mancanza di documenti in regola, mentre alloggiava nella rue Compans nel XIX arr., ma venne meno a tale divieto e alla fine dell'anno si recò come volontario a combattere in Spagna nelle Brigate Internazionali, assegnato alla Brigata Garibaldi combatté con questa in Estremadura, a Caspe e sull'Ebro. <123 Al momento della sconfitta della Repubblica spagnola rientrando in Francia venne internato ad Argelès, poi a Gurs, dove gli venne ratificato il mandato di espulsione dalla Francia. Tuttavia liberato nel 1941, riuscì a tornare clandestinamente a Parigi in zona occupata dai tedeschi. <124
Mentre per Nunzio Marinangeli, militante socialista e poi comunista, arrestato insieme al Vilhar in Belgio nel 1933, emigrato clandestinamente nel 1927 <125 è più difficile indicare l'appartenenza politica, schedato come comunista al CPC, in Italia prima di emigrare aveva aderito al partito socialista rivoluzionario. In Belgio nel 1933, secondo una nota informativa, pare avesse chiesto di passare dal partito socialista al partito comunista, in quell'anno la sua attività politica è basata sulla frequentazione delle riunioni dei comunisti e di quelle del Fronte Unico a cui aderisce. Inoltre è uno dei 27 iscritti al Soccorso Rosso Internazionale, della sezione italiana in Belgio, e al Comitato dei patronati. Successivamente raggiunta Parigi nel 1934, le notizie sul Marinangeli si fanno più sporadiche: nel '34 si fa indirizzare la posta nel comune di Saint-Denis nella regione parigina dove abita anche suo fratello Felice, nel 1937 si sposa con una cittadina rumena naturalizzata francese con la quale risiede nel X arr., e che, pur non essendo iscritto al partito riformista provvede al piazzamento del Nuovo Avanti e alla raccolta di abbonamenti al giornale del sindacalista Rugginenti Pallante. Il Marinangeli si recò anche come volontario in Spagna dove si arruolò nella Compagnia Carlo Marx, dell'Artiglieria Internazionale, <126 tornato poi a Parigi, continuò a risiedere con la moglie al n. 13 della rue Alibert, nel X arr.
Se Stanislao Vilhar come Ardito Pellizzari, (la cui biografia è descritta nel III capitolo) si possono fare rientrare nella categoria del 'rivoluzionario di professione', altri come Domenico Zaccheroli o Giuseppe Rolando o Fausto Sverzut (la cui biografia è descritta nel III capitolo) sono più dei simpatizzanti del partito comunista che non esplicano una vera attività o che l'hanno praticata prima di espatriare. Lo Zaccheroli, operaio ceramista, già noto in Italia quale comunista, emigrò in Francia per motivi di lavoro essendo stato assunto nelle miniere dell'Est nel 1930. Abitò per un periodo nella città di Parigi, dove vendeva giornali, e prendeva parte ad alcune riunioni del 'gruppo comunista con Silimbeni Mario, fratello del noto Silimbeni Sante e Remondini Giovanni'. Rientrato in Italia nel 1932 è arrestato poiché trovato in possesso di un volantino di contenuto antifascista. Liberato, diffidato, è posto sotto vigilanza nella sua città natale, Imola. Tornò poi a vivere a Parigi nel 1936 e nell'ottobre raggiunse la Spagna, dove si arruolò nel Battaglione Garibaldi. Rimase ferito a Casa de Campo nel novembre del 1937 e rientrò in Francia nel gennaio 1937. Nel gennaio del '38 è di nuovo in Spagna dove andò a combattere sul fronte di Albacete. Al termine della guerra civile spagnola tornò definitivamente a vivere nella capitale francese. <127
Giuseppe Rolando, è anche lui un comunista, emigrato nel 1924 a Parigi, dalla provincia di Novara, in patria aveva già professato principi comunisti e durante la conferenza interalleata del 1922 a Genova, fece parte della guardia rossa del diplomatico sovietico Cicerin. A Parigi, Rolando lavora alle dipendenze del Consolato e dell'Ambasciata russa quale portinaio nei locali della rue de Grenelle 79, ed abita nella rue des Abbesses (XVIII arr.). Dall'aprile del 1932 lavora alla rappresentanza commerciale dei Soviets nella rue de la Ville l'Evêque dove anche risiede. Secondo un'informativa della polizia italiana del 1933, è membro del partito comunista a Parigi, e, una volta trasferitosi ad Annemasse nel 1934, prese parte alle organizzazioni comuniste locali dove svolse un'attiva propaganda contro il regime. Poi non si hanno più notizie a suo riguardo e la polizia non riuscì più a rintracciarlo.
Altra persona schedata al CPC come comunista è Gottardo Rinaldi. Era nato in provincia di Bologna nel 1898. Prese parte alla I guerra mondiale; nel dopoguerra fu più volte aggredito dalle squadre fasciste. Espatriò nel 1924 in Francia con regolare passaporto rilasciato per motivi di lavoro. Si recò in Belgio, dove rimase qualche anno nella cittadina di Charleroi, nel 1928 il Regio Consolato lo segnala quale muratore, tra i più accesi antifascisti e frequentatore di tutti i cenacoli sovversivi. Nel 1931 è espulso dal Belgio, per cattiva condotta morale e politica. Si recò quindi a Bordeaux e nel 1935 è segnalato per la prima volta a Parigi, dove risiedeva al n. 84 del Boulevard Diderot nell'XI arr. <128 Nel 1936 andò in Spagna dove divenne comandante della Centuria Gastone Sozzi. Gravemente ferito nel dicembre del 1936, ritornò a Parigi. Alla dichiarazione di guerra Italia-Francia si trova a lavorare nel Loiret, la polizia francese lo prelevò da casa e l'accompagnò alla Caserma di Orleans, dove gli furono presentate due alternative: o firmare il lealismo verso la Francia, o essere inviati immediatamente in campo di concentramento. In seguito sarebbe diventato capitano dei FTP della regione parigina. <129
Oltre ai citati comunisti, in questa lista di resistenti presente nel Fonds Maffini, aderenti alle Formazioni Garibaldine di Parigi, vi sono anche alcune persone, schedate dal CPC come socialiste.
E' il caso di Luigi Bottai, nato a Cascina nel 1898, che una volta espatriato con la moglie nel 1929 con regolare passaporto andò ad abitare a Parigi al n. 11 della rue de Boulets, traversa del Faubourg Saint-Antoine, e in seguito nella regione parigina della Seine-Oise. Nel suo fascicolo non si fa mai accenno alla sua presenza alle riunioni dei socialisti o nei locali da loro frequentati. Secondo una nota per la Direzione Generale di Polizia Politica, del 14 settembre 1938, il Bottai è un membro del partito repubblicano per il quale svolge anche attività organizzativa. <130 Tuttavia non essendo ritenuto elemento pericoloso, dal 1939, è richiesta la revoca dell'iscrizione del 'sovversivo' Bottai dalla
rubrica di frontiera.
Altro schedato come socialista nel CPC, è Renato Balestri, figlio di un sindaco socialista della provincia di Pisa. Il suo fascicolo è ben nutrito: iscritto all'associazione giovanile del partito socialista prima del fascismo, una volta emigrato in un primo momento non si mise in evidenza pur professando apertamente idee sovversive, successivamente 'prese a esplicare notevole attività antifascista'. Risiede prima nel comune di Pavillons sous Bois e poi in quello di Montreuil sous Bois. Nel 1935, partecipa al congresso antifascista di Bruxelles, al momento della guerra di Spagna si impegnò nel reclutamento di volontari per la Spagna rossa, nel 'Comitato per l'aiuto al popolo spagnolo,' Cité du Paradis n. 1 a Parigi diretto da Romano Cocchi. Si recò a combattere in Spagna nell'ottobre 1937, dove diventa commissario politico del II Battaglione della Brigata Garibaldi, XII Brigata Internazionale. Ferito in varie parti del corpo sulla Sierra Cabals, fece ritorno in Francia nel dicembre 1938. <131 Fu poi molto attivo nell'Unione popolare italiana, tanto da rivestire la carica di sottosegretario nazionale. Fece diverse missioni in varie regioni della Francia per fare propaganda in favore dell'associazione. La sua appartenenza al partito socialista non è indicata nelle numerose note informative italiane a suo riguardo, vi è solo un accenno in una nota del dicembre 1939, dove il Ministero degli Interni riporta quanto riferito da una fonte fiduciaria: il Balestri avrebbe chiesto di passare dal partito comunista a quello socialista. Nelle memorie del comunista Antonio Tonussi, è riportato che il Balestri all'inizio degli anni '30 era un membro della direzione del Comitato regionale dei gruppi di lingua della zona di Parigi. <132 Nel fascicolo a suo nome redatto dalla Polizia francese si apprende che il Balestri, con lo pseudonimo di Esule, era iscritto al PCd'I da dove, dopo la firma del Patto Molotov-Ribbentrop, era stato espulso perché non aveva approvato il patto, così come aveva fatto lo stesso presidente dell'UPI, Romano Cocchi. Nel settembre del 1939 sottoscrisse l'arruolamento volontario nella Legione Garibaldina, fu mobilitato il 10.06.1940 fino al 24.08.1940. In seguito, sapendosi ricercato, si trasferì nel sud della Francia, ad Agen dove fu attivo in un réseau prima di essere catturato dalla Gestapo e deportato a Buchenwald. <133
Altre persone presenti nell'elenco dei resistenti garibaldini nel Fonds Maffini, di cui ho trovato un fascicolo al CPC, sono schedate con la parola generica di antifascisti, e sono in totale quattro persone.
Romeo Amadori, emigrato nel 1923 in Argentina, raggiunse in seguito la città di Parigi, il suo fascicolo al CPC è aperto nel 1935 a causa di una lettera che egli invia alla cognata e nella quale si schiera apertamente contro la guerra fascista in Abissinia. Egli che di mestiere fa l'ebanista, risiede nell'XI arr. nella rue Planchat, successivamente il suo recapito cambia, ma la polizia fascista scopre solo il luogo dove si fa indirizzare la posta, il 'noto ritrovo di sovversivi', il Bar dei 'Trois Mosquetiers' con ingresso sia nella rue de Montreuil che nel Boulevard de Charonne. Ma l'Amadori non è un militante, non fa politica, non aderisce ad alcun partito antifascista, né fa parte di un'associazione, in due informative presenti nel suo fascicolo si legge che “(...) pur dimostrandosi di sentimenti contrari al Regime non esplica attività politica né frequenterebbe riunioni sovversive.” in un'altra che “(...) pur dimostrandosi di sentimenti contrari al Regime non esplica attività politica né frequenterebbe riunioni sovversive”. <134
L'antifascista Leonello Mattioli, espatriato clandestinamente nel 1930, dopo che si era visto rifiutare il rilascio del passaporto nello stesso anno “per mancanza di motivate giustificazioni”, tentò di raggiungere la Francia passando per l'Austria, ma alla frontiera svizzera venne respinto dalle autorità elvetiche per mancanza di documenti. Interrogato dalla polizia locale, affermò di nutrire “sentimenti avversi al regime ma di non appartenere ad alcun partito politico” e che si era deciso all'espatrio perché annoiato dalle vessazioni cui era sottoposto con frequenti visite domiciliari da parte dei carabinieri e della milizia. Raggiunta la città di Parigi nel 1932 dove risiedeva già suo fratello Aldo, non esplicò 'attività degna di nota', abitò nell'XI arr. da irregolare presso l'Hotel 50 rue de Popinecourt (XI) e in seguito, nel XX arr. nella rue des Pyrénées. Nel 1938 si sposò con una cittadina francese con la quale andò ab abitare nella zona della Tour Eiffel. <135
Altro antifascista è Franz Vai, anche il suo fascicolo presso il CPC contiene poche informazioni, egli che di mestiere faceva il falegname, espatriò con regolare passaporto nel gennaio 1930 essendo stato arruolato per conto della ditta Renard Pierre di Parigi. Il suo recapito è ancora una volta un ristorante, il noto ristorante Bouboule, gestito dai fratelli Schiavina, al n. 84 del Boulevard Diderot, “ritrovo dei peggiori sovversivi del quartiere della Gare de Lyon”. A Parigi, secondo un informatore dell'OVRA, “professava idee antifasciste senza dare luogo a rilievi particolari, e senza mettersi in particolare evidenza con la sua condotta politica.” <136
Dalle liste Garibaldine del Fondo Maffini, l'unico che possiede un fascicolo al CPC come anarchico è Carlo Sannazzaro, originario della città di Torino, nato nel 1879. Ha un fascicolo al CPC per gli anni 1936-1944, emigrato in Francia nel 1922 e residente precedentemente in America Latina, viene notato più volte alle riunioni di Giustizia e Libertà e anche alle riunioni del partito repubblicano, sezione di Parigi, come quella tenuta al Caffè de la Chope nel giugno 1938. <137 Il Sannazzaro, che faceva di mestiere il decoratore, risiedeva con una donna francese al numero 117 della rue Saint Maur nell'XI arr. fino al 1938; in seguito, la polizia non riesce più a sapere dove abita. L'ultima notizia che si ha su di lui è del maggio 1939, quando compare tra un elenco di nomi di italiani residenti a Parigi abbonati al giornale L'Avanti. <138
Altro antifascista è Pietro Paolo Senna, fece parte della Formazione Garibaldina nella Milice du XI arr. Su di lui il fascicolo del CPC, che copre gli anni 1938-1942, contiene pochissime informazioni le quali riguardano per la maggior
parte il suo internamento nel campo del Vernet di ritorno dalla Spagna. Emigrò a Parigi nel 1933, aderì ai gruppi di lingua del PCF e andò a combattere per la repubblica spagnola nell'agosto del 1936. Fece parte della Centuria Gastone Sozzi e poi del Battaglione 'Commune de Paris', successivamente fu internato al Vernet nel settembre del 1938. La data di rilascio non è certa, per le carte della polizia italiana chiese il rimpatrio nel giugno del 1942, lo ottenne successivamente ma non giunse mai in Italia, nelle carte francesi risulta a Parigi già nel 1941. <139
[NOTE]
120 W. Valsesia, P. Manca (a cura di), Un antifascista europeo: dai fuoriusciti di Parigi ai partigiani del Biellese, Recco: Le mani; Alessandria: ISRAL, 2011, p. 53.
121 ACS, CPC, fascicolo Marinageli Nunzio, b. 3063.
ACS, CPC, f. Pirazzoli Giacomo, b. 3998.
ACS, CPC, f. Rinaldi Gottardo, b. 4334.
ACS, CPC, f. Rubini Roberto, b. 4480.
ACS, CPC, f. Dardi Luigi, b. 1620.
ACS, CPC, f. Frausin Rizziero, b. 2175.
ACS, CPC, f. Sverzut Fausto, b. 4991.
ACS, CPC f. Rolando Giuseppe,b. 4375.
ACS, CPC, f. Cuccagna Giovanni, b. 1550.
ACS, CPC, f. Zaccheroli Domenico, b. 5488.
ACS, CPC, f. Cantarelli Renato, b.1012.
ACS, CPC, f. Pellizzari Ardito, b. 3831.
ACS, CPC, f. Gavardi Aldo, b. 2317.
ACS, CPC, f. Stabellini Alfredo, b. 4928.
ACS, CPC, f. Alzetta Muran, b. 83.
ACS, CPC, f. Pirazzoli Giacomo, b. 3998.
ACS, CPC, f. Proci Giuseppe, b. 4135.
ACS, CPC, f. Stroppolo Giordano, b. 4976.
ACS, CPC, f. Vilhar Stanislao, b. 5418.
ACS. CPC, f. Sfiligoi Marco, b. 4784.
122 Circolari, schede di sottoscrizione, a favore di organismi comunisti, lettere di comunisti, indirizzi di compagni, corrispondenze per l’ex 'Riscatto', situazione finanziaria dell’ex 'Riscatto', del S.R.I. e dei patronati, tessere, in ACS, CPC, fascicolo Stanislao Vilhar, b. 5418.
123 Biografia di Vilhar Stanislao, in AICVAS ( a cura di), La Spagna nel nostro cuore, op. cit., p. 491.
124 APP, dossier Vilhar Stanislao, n. 403137/77W2134.
125 In Italia nel 1925 arringò un centinaio di militari del 17 Regg.to Fanteria nel quale era incorporato come caporalmaggiore, inneggiando alla Russia e al bolscevismo (con grida di Viva Lenin e Viva la repubblica). Il 24 giugno 1923 fu tratto in arresto a Pietrasanta perché trovato in possesso di commendatizie degli ex deputati socialisti Mingrino e Volpi, per la Sezione di Marsiglia. Il 17 maggio 1927 fu arrestato a Nizza e denunziato per minacce contro fascisti. ACS, CPC, f. Marinangeli Nunzio, b. 3063.
126 AICVAS, pratiche personali, Nunzio Marinangeli, busta 5, fasc. 32 e busta 10, fasc. 69. In quest'ultimo sono contenuti dei ritagli di giornali e alcune lettere dove si evidenzia l'amicizia di Marinangeli, già dall'esilio in Francia, con l'ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Nel testo curato dall'AICVAS, nella stringatissima biografia sul Marinangeli, egli è indicato come socialista. AICVAS (a cura di), La Spagna nel nostro cuore, op. cit., p. 291.
127 ACS, CPC, fascicolo Domenico Zaccheroli, b. 5488; Cfr la voce Zaccheroli Domenico in A. Albertazzi, L. Arbizzani, N.S. Onofri, Dizionario Biografico Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese, (1919-1945), consultabile al seguente indirizzo: http://www.comune.bologna.it/iperbole/isrebo/strumenti/Z.pdf Domenico Zaccheroli, in AICVAS, La Spagna nel nostro cuore, op. cit., p. 499.
128 ACS, CPC, fascicolo Gottardo Rinaldi, b. 4334
129 Rinaldi Gottardo in AICVAS, La Spagna nel nostro cuore, op. cit., p. 394. A. Lopez, Dalla Spagna alla Resistenza in Europa in Italia ai campi di sterminio, Quaderno Aicvas n. 3, Roma, 1983, p. 14. Sugli anni durante la seconda guerra mondiale non ho trovato altre informazioni, né all'Archivio della prefettura di Parigi vi è un dossier a suo nome.
130 ACS, CPC, fascicolo Luigi Bottai, b. 791.
131 AICVAS, La Spagna nel nostro cuore, 1936-1939, op. cit., p. 60; A. Lopez, Dalla Spagna alla Resistenza in Europa in Italia ai campi di sterminio, op. cit., p. 30. Cfr., ISGREC (a cura di), Volontari antifascisti toscani, tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze. consultabile in rete al seguente indirizzo: http://www.isgrec.it/sito_spagna/ita/all_ita_details.asp?id=2382
132 A. Tonussi, Ivo: una vita di parte, Treviso: Matteo, 1991, p. 72.
133 ACS, CPC, fascicolo Renato Balestri, b. 287. APP, dossier Renato Balestri, n. 51621/1W181.
134 Due informative datate in ACS, CPC, f. Romeo Amadori fascicolo, b. n. 222.
135 ACS, CPC, f. Leonello Mattioli, b. 3162.
136 ACS, CPC, f. Vai Franz, b. 5283.
137 In una informativa per la Divisione Affari Generali e Riservati, scritta da Parigi e datata 9 giugno 1938 si legge che: “Ieri sera ha avuto luogo la riunione della Sezione Repubblicana di Parigi al Caffè 'Chope de Strasbourg'. I presenti erano pochi; questo dipeso soprattutto perchè l'amico Abbati non aveva fatto in tempo di inviare le regolari convocazioni e d'altra parte per la scelta del giorno non troppo indicata. Erano presenti: Randolfo Pacciardi, Ottavio Abbati, Alvaro Savi, Mario Galli, Perentin, Giannoni, Pietro Fantini, Pasquale Candelli, Scarselli, Sannazzaro (il solo residente in Francia, è annotato a lato), Attilio Orioli ed un altro amico romagnolo di cui mi sfugge il nome.”.
ACS, CPC, f. Carlo Sannazzaro, b. 4575.
138 Ivi
139 APP, dossier Pietro Paolo Senna, n. 22282/1W619. ACS, CPC Pietro Senna, b. 4746. AICVAS (a cura di), La Spagna nel nostro cuore, 1936-1939, op. cit., p. 428; Qui si afferma che fu consegnato alle autorità italiane il 18 luglio 1943. Dopo la Liberazione visse a Milano.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013

giovedì 16 giugno 2022

Il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia Rame


Nel presentare il suo libro-intervista a Franca Rame "Non è tempo di nostalgia", Joseph Farrell parte dalle peculiarità - già evidenziate nel precedente capitolo della tradizione del teatro italiano, affermando che esso "ha dato relativamente pochi scrittori al canone convenzionale del teatro europeo. Penso che questo sia dovuto al fatto che il teatro italiano nel contesto di quello europeo sia anomalo, nel senso che è essenzialmente un teatro attoriale e non autoriale. Secondo il mio parere nella tradizione del teatro italiano il personaggio dominante è sempre stato l’attore, l’attore di un tipo molto particolare". <278
Entrando, però, nello specifico del caso di Franca Rame, aggiunge: "Franca è figlia d’arte, come Eleonora Duse, come Adelaide Ristori e molte altre. È importante sottolineare che l’attrice era nata in una famiglia di attori girovaghi, la Compagnia Rame si ritiene che affondi le sue radici nel Settecento. Fino alla fondazione dei teatri stabili erano famiglie di quel tipo che erano il cuore del teatro italiano, attori che improvvisavano. La Rame è nata praticamente sulla scena, ha fatto la sua prima comparsa quando aveva solamente otto giorni. Nel corso dell’intervista Franca ha spiegato come la Compagnia Rame producesse i propri testi, suo padre era il capocomico, radunava la famiglia e distribuiva i vari ruoli. Questa è la tradizione del teatro italiano, è una tradizione essenzialmente ed esclusivamente italiana e Franca Rame è stata l’ultima grande rappresentante di quella tradizione, perché adesso non esiste più". <279
Ora, che tipo di compagnia era, quella dei Rame? <280 Franca la definisce, prima di tutto come “una famiglia di attori, con una tradizione che possiamo far risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento.” <281 Il concetto di “famiglia”, però, è da precisare. Altrove, infatti, Franca spiega che, almeno nel periodo in cui lei vi ha lavorato: “Per «famiglia», in verità, si intendeva l’insieme di due diversi nuclei familiari, più attori e attrici scritturati, nonché un numero cospicuo di dilettanti.” <282 I due nuclei familiari, per quanto diversi, erano comunque imparentati, “due famiglie associate dei Rame, quella di mio zio Tommaso e l’altra, di mio padre Domenico” <283 e, ai membri della famiglia, si aggiungevano, inoltre, altri attori e altre attrici, sia di professione, sia dilettanti, che facevano nella compagnia il loro apprendistato, in cerca di una formazione diversa da quella tradizionale. <284
Sull’origine storica della compagnia, le notizie divergono: come abbiamo visto, Farrell la colloca “nel Settecento”; Franca, nel 2009, dichiara: “I capostipiti della mia famiglia risalgono a una cosa come cinque secoli fa” <285, ma, nel 2013, sostiene che la sua tradizione possa “risalire alla Commedia dell’Arte del Seicento”. Quest’ultima ipotesi è riportata anche da altre fonti: Silvia Varale, infatti, afferma che Franca “proviene da una famiglia di attori girovaghi, le cui antiche tradizioni risalgono al ’600” <286 e anche il critico letterario svedese (membro dell’Accademia di Svezia, dal 1997 al 2009) Horace Engdahl afferma: "The Rame family’s ties to the theatre are very old. Since the late 17th century, they have been actors, and puppet masters, as the occasion required". <287
Nella sua monografia su Enrico Maria Salerno, invece, Valentina Esposito <288 afferma che "La Compagnia della Famiglia Rame, compagnia di marionettisti ambulanti, era stata fondata da Domenico Rame, nonno di Tommaso, agli inizi dell’Ottocento. Nell’intestazione delle lettere a Salerno, sono indicati data e luogo del primo spettacolo: Torino 1821". <289
A corroborare quest’ultima ipotesi concorrono le parole dello stesso Tommaso Rame (lo zio di Franca), il quale, in una lettera a Enrico Maria Salerno, definisce la compagnia “antica perché il mio povero nonno Domenico in Torino diede vita al teatro nel 1821 (con spettacoli di marionette)”. <290 Certo, questo non impedisce di ipotizzare che il “povero nonno Domenico” Rame (bisnonno di Franca) potesse discendere anch’egli da teatranti ed essere, quindi a sua volta, “figlio d’arte”. Non lo si può escludere, poiché il mestiere s’imparava “a bottega” e molto spesso la bottega era la famiglia. Figli d’arte, infatti, erano coloro che vantavano un’antica e continua tradizione familiare: ad esserlo in senso assoluto, non bastava essere nato da attori. Per averne il sacro crisma, la prima condizione era l’anzianità della discendenza. Era una vera e propria nobiltà sui generis quella dei figli d’arte e tanto maggiore era la gloria di appartenervi e tanto più legittimi i diritti di appartenenza quanto a più remoti lombi risalisse la primogenitura. <291
Ad ogni modo, il solo dato certo sull’esatta collocazione storica dell’origine della compagnia è la sua fondazione ufficiale, nel 1821, il che significa comunque che essa -per dirla con le parole dello zio Tommaso- è “antica” (alla nascita di Franca, nel 1929, stando a quanto afferma Tommaso, il gruppo ha già più d’un secolo), il che ci conduce a supporre che la tradizione della Commedia dell’Arte non si sia mai del tutto interrotta, come invece riteneva Copeau e ritengono tuttora Claudia Contin e Ferruccio Merisi.
La direzione della compagnia -ponendo come sua data di nascita il 1821-, dopo Domenico (il fondatore, bisnonno di Franca), passa a suo figlio, il marionettista Pio (1849-1921), il quale, a sua volta, ha tre “figli d’arte”: Domenico (il padre di Franca) <292, Stella e Tommaso. La compagnia, però, non comincia già nella forma che ha quando Franca nasce. Per quasi cento anni, il carro dei Rame girovaga per i paesi e le cittadine del Piemonte e della Lombardia unicamente con spettacoli di marionette e burattini. I primi cambiamenti risalgono agli inizi del Novecento, quando Domenico Rame (futuro padre di Franca) “dal 1908 introdusse spettacoli in cui attori ‘veri’ affiancavano le marionette” <293. Dal 1921, poi, lo stesso repertorio destinato alle marionette viene adattato esclusivamente ad attori veri e tramandato di generazione in generazione.
Col passaggio al teatro di persona, la stessa compagnia cambia nome, per assumere quello di “Gruppo Artistico Famiglia Rame”. Dunque, abbandonato definitivamente il teatro di figura, “l’attività teatrale della compagnia drammatica ambulante continuerà fino al 1940” <294, proseguendo, così, col teatro di persona fino allo scioglimento. Così Franca spiega le ragioni del passaggio al teatro di persona: "Con l’avvento del cinema sonoro (1920), mio padre, mio zio e tutta la compagnia intuiscono che «il teatro delle marionette» sarà presto messo in crisi, schiacciato da questo nuovo straordinario e anche un po’ magico mezzo di spettacolo. Con grande dolore del nonno Pio, decidono un cambiamento radicale del loro programma e della loro condizione: «Reciteremo noi i nostri spettacoli, entreremo in scena noi, al posto delle marionette»". Così le due famiglie dei Rame si sostituiscono ai pupazzi di legno (vere e proprie sculture snodate, tre delle quali sono ancora oggi esposte al Museo della Scala di Milano). <295
Ma il passaggio al teatro di persona non rappresenta una battuta d’arresto nella vita della compagnia, anzi: mette il gruppo di fronte alla necessità di sondare nuove possibilità nella loro arte attoriale, non senza far comunque tesoro dell’esperienza passata, che si rivela fondamentale prima di tutto sul piano scenografico: "I miei hanno cominciato con il teatro delle marionette e con quello dei burattini. Padroneggiavano ambedue i mestieri. <296 Arrivato il cinema, questo tipo di teatro andò via via perdendosi. I miei capirono che dovevano cambiare genere e si misero a fare, appunto, teatro di persona, utilizzando tutti i trucchi del teatro delle marionette che conoscevano molto bene. In questo modo riuscivano a creare degli effetti da film americani di adesso, ovviamente con le dovute proporzioni. Per quei tempi era qualcosa di impensabile". <297
Quest’utilizzo di “tutti i trucchi del teatro delle marionette” e la loro applicazione al teatro di persona rappresenta il vantaggio della compagnia dei Rame, rispetto alle altre compagnie di giro dell’epoca: "montagne che si spaccano in quattro a vista, palazzi che crollano, un treno che appare piccolissimo lassù nella montagna e che, man mano che avanza nei turniché entrando o uscendo dalle gallerie, s’ingrandisce fino a entrare in proscenio con il muso della locomotiva a grandezza quasi naturale. E poi mari in tempesta, nubi che solcano minacciose il cielo tra lampi e tuoni, gente che vola, scene in tulle in primo piano, che illuminate a dovere ti facevano immaginare come fosse il paradiso". <298
I Rame sanno bene di dovere alla tradizione la conoscenza di questi mezzi, perché sono “tutti gli espedienti tecnici delle macchine di spettacolo del Seicento perfezionate dal Bibbiena dentro la scenotecnica delle marionette.” <299 Il fatto interessante non è solo il loro utilizzo nel teatro di figura, né tanto il loro successivo trasporto nel teatro di persona, quanto soprattutto la scelta consapevole di costituire, in questo modo, una forma di spettacolo realmente alternativa alla settima arte, creando sulla scena “effetti da film americani” (fatte, ovviamente, le debite proporzioni).
In qualche modo, i Rame riaffermano la peculiarità del teatro (e la sua dignità professionale: si pensi all’attività di Domenico come Presidente dell’A.I.E.S.V.) rispetto al cinema, proprio nel momento in cui, da un lato, i Futuristi decretano l’imminente morte del primo sotto i colpi del secondo e, dall’altro -di lì a poco-, il Fascismo tenterà di trasportare il modello di produzione industriale cinematografica nell’arte teatrale. Cioè, in mezzo a questi due poli, i Rame sono -di fatto- un notevole esempio di resistenza attuata dalla grande arte degli attoriautori. E in questo, ben consapevolmente, essi si riallacciano alla tradizione del teatro all’italiana, ovvero alla Commedia dell’Arte.
Pochi anni prima di questo momento di svolta, a Bobbio -dove, nel 1912, la compagnia è appena arrivata per presentare uno spettacolo di marionette-, la futura madre di Franca (Emilia Baldini) conosce Domenico. Non proviene dall’ambiente del teatro -è una maestra-, ma entra nella compagnia l’anno successivo, nel momento in cui i due si sposano. Inizialmente si occupa dei costumi delle marionette e dei burattini; col passaggio al teatro di persona diverrà la prim’attrice del gruppo. Con tenerezza Franca rievoca il loro incontro: "La loro è una storia bellissima. Lei passava la settimana a insegnare in un villaggio su in montagna, scendeva in paese solo il fine settimana. Un giorno di vacanza e di festa, arriva il teatro delle marionette per fare spettacolo. Mamma è fra il pubblico, ad applaudire incantata. Con le altre ragazze va a fare i complimenti ai teatranti e conosce mio padre. Poi arriva il carnevale. Le sette sorelle vanno al ballo con eleganti abiti cuciti da loro stesse. Nel grande salone c’è mio padre, che indossa un abito azzurro da re. I due si guardano e ballano fino a tarda notte, fulminati. [...] Si sono scritti per un anno, poi si sono sposati". <300
Lo scioglimento della compagnia risale -come già detto- al 1940, cioè corrisponde all’entrata dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Nel corso degli anni di guerra, il teatro viaggiante della famiglia, infatti, viene destinato dal regime ad altro uso. Questo non implica l’interruzione dell’attività teatrale di tutti i membri della famiglia: Domenico continuerà a occuparsi di teatro fino alla morte, nel 1948; Franca, rimasta al seguito del padre nella sua attività d’attrice (dopo una breve parentesi in cui tenta di diventare infermiera), lascerà la famiglia nel 1950, assieme alla sorella Pia, per prodursi nella rivista: nella stagione 1950-’51 verrà, infatti, scritturata nella compagnia primaria di prosa di Tino Scotti <301 per lo spettacolo "Ghe pensi mi" <302 di Marcello Marchesi <303, in scena al Teatro Olimpia di Milano.
Tornando al suo teatro viaggiante, la compagnia teatrale girovaga dei Rame "si esibiva in un suo teatro in legno, smontabile, che conteneva oltre 800 posti a sedere e girava per i paesi e le cittadine della Lombardia, Veneto e Piemonte, recitando drammoni e operette. (Durante la guerra venne requisito dal governo e fu usato come ospedale da campo)". <304
Franca racconta dettagliatamente come fosse fatto questo teatro, a cominciare dai nomi dei macchinari, che le dovevano sembrare strani, dal momento che lo zio Tommaso, alla domanda, postale da lei, sulla loro origine "rispose: «Ce li siamo presi dalla marineria, a partire dalle corde, che noi chiamiamo appunto ‘cime’ come i marinai, e poi la fune lunga e la media; le vele, la randa di quinta, le fiancate e gli stangoni; dai marinai abbiamo appreso anche lo stesso modo di far nodi, di issare le scene e i fondali». «Ma che vuol dire questo? Che i primi attori erano marinai?» «No, non propriamente, ma di certo conoscevano bene come si costruisce una nave.»" <305
Perché questi primi attori conoscessero “bene come si costruisce una nave” non ci viene chiarito, ma è abbastanza per comprendere la ragione per cui Domenico chiamasse questo teatro viaggiante “Arca di Noè” <306. In realtà, dietro questo appellativo si rivela anche un riferimento religioso, rivisitato in chiave architettonica. Prosegue, infatti, Franca, sempre in merito: "Di qui, per analogia, mi appare l’immagine del nostro teatro smontabile. Mio fratello, che aveva qualche nozione d’architettura, diceva che era stato progettato secondo i canoni tipici di una primordiale chiesa metodista. [...] «Che significa?» gli chiesi. Enrico mi rispose: «Quando i Quaccheri arrivarono in America cercarono di mettere in piedi strutture che permettessero di raccogliere qualche centinaio di persone e tenerle al coperto. Usavano il legno, e la pianta di quelle piccole chiese era a croce.» [...] A nostra volta abbiamo scelto quell’impianto. Ogni asse o tavola era stata preparata «a terra» e issata solo dopo che tutti i pezzi erano approntati. Si sceglieva un prato o un terreno solido su cui si disegnava la pianta, e via!" <307
La stessa costruzione del teatro doveva affascinare Franca, che ne ha ricordi risalenti all’infanzia, ma riporta anche particolari interessanti sulla sua struttura: "Mi ricordo la prima volta che montarono il teatro, avevo poco più di sei anni: vidi gli operai issare quei pali tenendoli ritti per mezzo di funi. Lassù, in cima a lunghe scale, stavano i carpentieri, che incastravano i traversoni delle trabeazioni e poi li bloccavano coi bulloni. Era il vanto di mio padre, quando, ammirandolo, esclamava pieno d’orgoglio: «È come l’Arca di Noè, questo nostro vascello, tutto a incastro senza manco un chiodo. Si può montare o smontare in una giornata sola!» Dopo un paio d’ore ecco la gabbia dell’intero edificio già leggibile e pronta perché vi venissero sistemate le pareti. <308 [...] «Fate attenzione» disse a ‘sto punto mio padre, «vi voglio far notare un particolare straordinario di questa nostra struttura mobile: in primavera, d’estate e in autunno noi potremo dar spettacolo al fresco, senza pareti!» Così dicendo diede l’ordine e gli operai spinsero le pareti che si spostavano sulle loro guide. Mio padre contava ad alta voce: «Uno, due, tre...» Arrivò al dieci e tutte le pareti erano sparite, nascoste dietro il fondale. Un «ooh!» di meraviglia esplose sotto le trabeazioni del nostro tempio magico". <309
Franca racconta anche la ragione che spinge la famiglia a dotarsi di un teatro di questo tipo: essa risiede, sostanzialmente, nell’esigenza di disporre di uno spazio in qualche modo libero, non soggetto a condizionamenti esterni e a censure. A questo proposito, narra un aneddoto che sarà opportuno riportare per intero: "Pia, la seconda delle mie sorelle, [...] si lamentava a tormentone di questo andare in giro per piazze, costretti a subire le angherie, spesso ricattatorie, dei gestori delle sale private, parrocchiali o comunali, senza nessun rispetto della parola data o di un contratto stipulato e depositato. L’insulto che fece esplodere la rabbia nella nostra compagnia fu determinato dal parroco di un orrendo borgo del Lecchese che, dopo la rappresentazione del 'Giordano Bruno', dal fondo della platea arrivò come un giudice dell’Inquisizione in palcoscenico e ci ordinò brutalmente di far fagotto. Il prete gestore del locale salì in palcoscenico e urlò: «Tirate su i vostri stracci e, fra un’ora, voi e la vostra gente: sloggiate!» Mio padre diventò pallido, quasi più bianco dei suoi capelli bianchi, poi chiese: «Cosa vi ha tanto indignato, dello spettacolo?». «Il fatto del supplizio prima del rogo», rispose don Giussani (così si chiamava il prete), «quel far ingoiare uno straccio al condannato e poi tappargli la bocca con quella museruola perché non potesse proferir parola: questa è proprio una insopportabile menzogna gratuita da socialisti». Sempre per inciso devo ricordarvi che il fatto avveniva nel 1935, cioè in pieno fascismo, e fra Mussolini e il Vaticano si era appena firmato il famoso Concordato. «Macché gratuita!» risponde mio padre. «È nel testo accettato dal Ministero e già rappresentato centinaia di volte in Italia!». «Non me ne importa un fico dei timbri e dei permessi. Qui nel mio teatro non accetto i rossi, e basta così.»
Facemmo fagotto, come si dice, tutti zitti, nessuno proferì parola, ma era un silenzio più rumoroso di un uragano. Mi ricordo che quella notte io dormivo nella stessa camera di mio padre e mia madre. Loro continuavano, seppur sottovoce, a parlare. Ogni tanto sbottavano in grida. A un certo punto mi alzai avvolta nella coperta e protestai: «Io domani devo andare a scuola e voi non mi fate dormire. Non voglio addormentarmi come al solito con la testa sul banco!». «No, non preoccuparti, non dovrai andarci a scuola. Domani si parte per Novara.». «Recitiamo lì? In che teatro si va?». «Nel nostro. Lì c’è una cooperativa di carpentieri che ce lo costruirà.»" <310
L’episodio è molto esplicativo sia della formazione politica di Franca, sia delle scelte che, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, lei farà con Dario. Da questo aneddoto, infatti, s’intuisce quanto la percezione del mondo come luogo che non permette una reale libertà espressiva sia radicata, nell’interiorità di Franca, fin dall’infanzia, tanto che potremmo dire che essa costituisca il proprio DNA politico, la propria eredità genetico-ideologica. È l’esperienza della propria famiglia a far crescere in Franca la consapevolezza che gli spazi di libertà vanno conquistati e che nessuno li concede (o, quanto meno, non senza secondi fini). Ma quell’esperienza infonde in lei, fin dalla giovinezza, anche il senso della definizione di “spazio libero”: si tratta di costruire luoghi di fronte ai quali lo Stato (o tutto ciò che, in qualche modo, rappresenta i poteri forti del mondo - sia pure un banale parroco di paese) faccia un passo indietro, per permettere ai singoli spiriti liberi di poter fare un passo avanti. È quello spazio che -facendo un calembour col suo nome di battesimo- chiamiamo qui “Zona Franca” [...]
[NOTE]
278 STOPPINI, Alessandra, “Intervista allo scrittore Joseph Farrell e all’editrice Silvia Della Porta”, 10 luglio 2013, in: http://www.sololibri.net/Intervista-allo-scrittore-Joseph.html, consultata il 9 luglio 2016.
279 Ibidem.
280 In ricordo della compagnia (che meriterebbe uno studio a sé stante), Franca ha scritto e recitato un incontro-spettacolo intitolato Ricordi di famiglia, andato in scena per la prima volta a Bobbio il 29 aprile 2000, nel quale propone una carrellata di inedite situazioni vissute in famiglia tra il comico e il grottesco. Cfr. [AUTORE NON INDICATO], “A Bobbio con Franca Rame mostra e ricordi di famiglia”, in: «Libertà», 23 aprile 2000.
281 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
282 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., p. 11.
283 Ivi, p. 12.
284 È il caso, per esempio di Enrico Maria Salerno. Nato a Milano nel 1926, entra nell’autunno del 1945 (a diciannove anni) nella Compagnia Rame - sotto la direzione di Tommaso -, come contrasto (così, nel gergo dei girovaghi, vengono chiamati gli estranei alla famiglia), cercando, allo stesso tempo, di conciliare la nascente vocazione d’attore con la frequenza regolare dei corsi all’Università. Franca racconta che, per spiegare la sua scelta, egli “disse: «Io sono venuto qui per imparare. Sono già stato allievo di un’Accademia d’Arte, ma dopo un mese mi sono reso conto che stavo perdendo il mio tempo. Qui invece sento che mi posso arricchire di qualcosa. Per favore, insegnatemi a recitare alla vostra maniera.»” (Ivi, p. 18) Rimarrà nella compagnia fino all’aprile del 1946.
285 Ivi, p. 21.
286 VARALE, Silvia, “Nel laboratorio di Dario Fo e Franca Rame. 1 - A colloquio con Franca, un’operosa ape regina”, in: D’ANGELI, Concetta e SORIANI, Simone (a cura di), Op. cit., p. 11.
287 ENGDAHL, Horace (a cura di), Nobel Lectures. Literature 1996-2000, New Jersey, London, Singapore, Hong Kong, World Scientific, 2002, p. 21.
288 Regista e drammaturga, Valentina Esposito (Roma, 1975), dal 1995 lavora presso il Centro Studi “Enrico Maria Salerno”, svolgendo attività di promozione culturale e produzione teatrale a livello nazionale ed europeo, con particolare attenzione ai problemi sociali. Dal 2003, collabora con Fabio Cavalli nella direzione del Laboratorio Teatrale del Carcere di Rebibbia, a Roma (testimoniato dal film "Cesare deve morire" dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, di cui, tra il 2011 e il 2012, è stata responsabile organizzativa della parte teatrale). Nel 2013 ha fondato, con Fabio Cavalli, l’Accademia di Teatro Sociale con i detenuti in misura alternativa e gli ex detenuti del Carcere di Rebibbia - laboratorio di formazione teatrale permanente esterno al carcere. Attualmente Insegna Teatro nel Sociale presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha esordito nel cinema con la regìa di "Ombre della sera", docu-film interpretato dai membri dell’Accademia di Teatro Sociale e Pippo Delbono (Italia, colore 2016).
289 ESPOSITO, Valentina, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994 (Tesi di Laurea in Scienze Umanistiche - Corso di Laurea in Lettere - Università “La Sapienza” di Roma), 2004, p. 8, scaricabile alla pagina web: http://enricomariasalerno.it/biografia_artistica.htm, consultata il 10 luglio 2016.
290 RAME, Tommaso, “Lettera a Enrico Maria Salerno”, Varese, 30 maggio 1959, in «Archivio E.M.S. - Epistolario». L’«Archivio Enrico Maria Salerno» si trova a Castelnuovo di Porto (Roma), all’interno dell’abitazione dell’attore.
291 TOFANO, Sergio, Il teatro all’antica italiana, Roma, Bulzoni Editore, 1985, pp. 71-72.
292 Domenico Rame (1885-1948) ha ideali socialisti. Nel 1913 sposa Emilia Baldini ed è sotto la sua direzione che la compagnia passa dal teatro di figura a quello di persona. Il fratello Tommaso (1888-1968) è suo stretto collaboratore. Nominato Cavaliere nel 1936, Domenico, dal 1940, sarà Direttore del Teatro Odeon di Milano (dove proprio Dario Fo muove i suoi primi passi) e, di lì a poco, Presidente dell’Associazione Italiana Esercenti Spettacoli Viaggianti (A.I.E.S.V.).
293 [AUTORE NON INDICATO], “Lo Scheletro di Pio Rame”, in: Catalogo del Museo dei Burattini di Budrio. Collezione Zanella-Pasqualini, Comune di Budrio (Bologna), 2000, p. 46.
294 Ibidem.
295 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 39 e 41.
296 Sarà bene, qui, precisare che la marionetta è un pupazzo di legno, stoffa o altro materiale, che compare in scena a corpo intero ed è mosso a distanza o con accorgimenti non visibili (i fili, il più delle volte, che la muovono dall’alto); mentre il burattino è un pupazzo con il corpo di pezza e la testa di legno o di altro materiale, che compare in scena a mezzo busto ed è mosso dal basso, dalla mano del burattinaio, che lo infila come un guanto. Nell’Ottocento, tuttavia, quest’ultimo termine diviene talmente popolare da indicare entrambi i tipi di pupazzo (il che spiega perché Pinocchio -che tecnicamente è una marionetta- sia definito dal Collodi “burattino senza fili”).
297 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., p. 20.
298 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 41-42.
299 Ivi, p. 42.
300 RAME, Franca, Non è tempo di nostalgia, cit., pp. 25-26.
301 Dopo essere stato calciatore professionista tra il 1924 e il 1933, Tino Scotti (1905-1984) inizia la carriera come attore di teatro, calcando le assi di palcoscenici sui quali vengono prodotti spettacoli di varietà e di teatro di rivista. Dotato di una memoria eccezionale e di una straordinaria capacità oratoria, si contraddistingue per la velocità e la precisione delle sue parlate, sempre convulse e frenetiche, ma mai incomprensibili. Per questo motivo, viene benevolmente soprannominato Tino “Scatti”. Da buon caratterista, inventa due personaggi destinati a segnarne il successo: il cavaliere con il famoso motto “Ghe pensi mi” e il bauscia, emblemi di una milanesità agli antipodi.
302 Interpretato, insieme a Tino Scotti, da Franca e Pia Rame, Sandra Mondaini e Annì Celli.
303 Intellettuale poliedrico, Marcello Marchesi (1912-1978) è giornalista, scrittore di varietà radiofonici e televisivi, sceneggiatore, regista cinematografico e teatrale, paroliere, attore e talent scout. Ha scritto e diretto una conquantina di testi per il teatro di rivista, interpretati dai più importanti attori e dalle più importanti attrici in Italia.
304 [AUTORE NON INDICATO], “Biografia - Franca Rame”, consultabile alla pagina web: http://www.archivio.francarame.it/bioFranca.aspx, consultata l’11 luglio 2016.
305 RAME, Franca, FO, Dario, Una vita all'improvvisa, cit., pp. 22-23.
306 Ivi, p. 20.
307 Ivi, pp. 23-24.
308 Ivi, p. 24.
309 Ivi, p. 26.
310 Ivi, pp. 24-25.
Fabio Contu, Zona Franca (Rame), Tesi di dottorato, Università di Siviglia, Anno accademico 2016-2017

Enrico Maria Salerno inizia il suo apprendistato d’attore sul palcoscenico ambulante della famiglia Rame. E’ l’autunno del 1945, la compagnia percorre le province del Piemonte e della Lombardia ridotte in macerie dai lunghi anni di guerra.
A bordo del carro “La balorda”, Tommaso Rame allestisce nelle piazze dei paesi l’antico repertorio un tempo destinato al teatro di marionette. Nel suo “registro delle recite”, annota le partecipazioni dei giovani allievi-attori. Il nome di Enrico Salerno compare accanto a tre ruoli: Giuliano Dè Medici nel Cardinale di Louis Napoléon Parker, il Tenente Ruggero ne Le due orfanelle di Adolphe Dennery e Paride nel Romeo e Giulietta di Shakespeare.
La tradizione che la famiglia porta con sé è quella della commedia dell’arte, una tradizione antica che si tramanda di padre in figlio direttamente sul palcoscenico. Accanto ai “figli d’arte”, Salerno impara le regole del “recitare all’improvviso”, gli schemi fissi dei canovacci, le convenzioni che reggono il teatro delle parti e dei ruoli.
Ha un grande amore per la scrittura. A Milano riesce a lavorare come cronista e reporter per la Cineteatro-Lancio, frequentando contemporaneamente i corsi di regia: ha appena vent’anni quando intervista Vittorio De Sica.
Valentina Esposito, Il teatro di Enrico Maria Salerno: 1945-1994, Tesi di laurea, Università “La Sapienza” di Roma, 2004

domenica 3 ottobre 2021

L’80% dei partenti verso destinazioni americane negli anni venti preferì l’Argentina


L’inizio della prima guerra mondiale provocò una drastica diminuzione dell’immigrazione in Argentina. Se nel 1913 arrivarono 215.871 persone, nel 1914 gli ingressi furono solamente 76.217. Il calo riguardò gli immigrati di tutte le nazionalità, compresi gli italiani, che scesero negli stessi anni da 114.252 a 36.122. Anche se il conflitto scoppiò nel settembre e l’Italia vi entrò solo nel maggio del 1915, quando le forze neutraliste, il clima era già tale da scoraggiare le partenze.
[...] D’altro canto, prima ancora che scoppiasse il conflitto, l’Italia come misura precauzionale aveva sospeso provvisoriamente il rilascio dei nulla osta per l’espatrio ai riservisti (peraltro erano previste delle deroghe su sollecitazione degli interessati). Così, già nel 1914, il saldo migratorio degli italiani in Argentina diventò negativo e i rientri per la prima volta dal 1891 superarono gli arrivi (- 24.480). L’anno seguente, nel 1915, con l’Italia ormai in guerra contro l’Austria-Ungheria, il saldo negativo aumentò e sbarcarono appena 11.309 italiani a fronte di 55.775 ritorni. Fino al 1919 i saldi rimarranno negativi.
Tuttavia, se confrontiamo il flusso dall’Italia al Plata con quello diretto negli Stati Uniti notiamo alcune interessanti differenze. Verso gli Usa ancora nel 1914 furono registrati saldi ampiamente positivi (quasi 300.000 arrivi con 85.000 partenze) e solo a partire dal 1915 il movimento si invertì, mantenendo il segno meno anche negli anni successivi, con l’eccezione del 1917 <64.
Tutto ciò suggerisce che, oltre che con gli effetti della guerra, la brusca caduta dell’immigrazione in Argentina vada messa in relazione con l’evoluzione economica del Paese sudamericano. Le prime difficoltà si fecero sentire già nel 1914, quando ancora il conflitto, che poi avrebbe aggravato la situazione, non era scoppiato. Se la guerra creò alcune possibilità di sviluppo per l’industria argentina, che era chiamata a sostituire quei prodotti importati che non si potevano più comprare in Europa, per altri versi ne rese drammaticamente evidenti i ritardi sul piano tecnologico in molti settori, che non erano in grado di produrre localmente i beni alternativi. Soffrirono anche le esportazioni argentine, che videro cambiare la loro composizione, dato che aumentarono quelle della carne e calarono quelle dei cereali, di cui gli italiani erano tra i principali produttori <65.
Qui incideva la caduta dei prezzi dovuta agli abbondanti raccolti nordamericani e all’aumento dei costi di trasporto, per il rialzo delle tariffe dei noli sulle tratte dell’Atlantico meridionale rispetto a quelle praticate sulle rotte settentrionali.
La guerra da molteplici punti di vista colpiva l’immigrazione e favoriva i ritorni.
Per i contadini in particolare, che costituivano la stragrande maggioranza degli emigranti, il conflitto era certamente una sciagura in più. Obbligati a servire al fronte, dovevano lasciare la famiglia e abbandonare le coltivazioni in mano agli anziani, alle donne e ai bambini.
Terminato il conflitto, l’emigrazione italiana riprese molto lentamente e l’economia argentina pure.
Uno degli effetti della guerra era stata la brusca caduta del Pbi (il prodotto interno lordo), che si combinò con il drastico aumento della disoccupazione. Solo nel 1920 il Pbi argentino, in crescita per il secondo anno consecutivo, superò i livelli del 1913. Da lì in avanti ci fu un nuovo periodo di espansione fino al crack del 1930 <66. Parallelamente il flusso migratorio tornò a essere leggermente positivo nel 1920 e confermò la tendenza nel 1921. Il processo conobbe una significativa accelerazione l’anno dopo, per il concorso di due fattori: il forte recupero dell’economia argentina per un verso e la nuova legislazione statunitense per l’altro.
Introducendo il sistema delle quote nel 1921, il governo nordamericano penalizzò fortemente gli italiani e gli altri gruppi della cosiddetta «new emigration».
[...] L’immigrazione italiana in Argentina continuò a crescere fino a toccare nel 1923 i 91.992 ingressi, il picco del decennio. Nei tre anni successivi si mantenne su livelli elevati, anche se in diminuzione, raggiungendo il secondo valore più alto della decade nel 1927 (75.000), per poi cominciare a calare, stabilizzandosi intorno ai 35.000 nel 1931. Si potrebbe collegare questo declino alle nuove disposizioni restrittive. Misure e controlli furono tra l’altro intensificati a partire dal 1923, sia sul piano normativo che della prassi.
Le fluttuazioni del movimento verso l’Argentina seguirono il ritmo dell’emigrazione italiana nel suo complesso verso tutte le destinazioni: sebbene esse fossero condizionate dalle restrizioni applicate negli Stati Uniti, il calo che si verificò al Plata fu parallelo a quello registrato in Europa <67.
Invece è possibile che la diminuzione del flusso italiano in generale sia da collegare più strettamente, dal 1927 in poi per quanto concerne l’Argentina, alle disposizioni che l’Italia fascista, al pari di altri paesi di emigrazione, introdusse per limitare il numero delle partenze. Tra queste c’era l’obbligo di essere in possesso di un contratto di lavoro per ottenere l’autorizzazione a lasciare la penisola. Le norme per scoraggiare gli espatri rispondevano alla logica fascista, che considerava il numero degli abitanti di un Paese sinonimo di potenza.
In ogni caso, l’emigrazione al Plata nel complesso continuava a riguardare in larga misura il Mezzogiorno, con una partecipazione non indifferente di altre zone da cui tradizionalmente si partiva per l’Argentina, come il Piemonte e le Marche <68.
Una componente nuova (che anticipava in qualche modo la distribuzione regionale del flusso del secondo dopoguerra) era costituita dall’’immigrazione proveniente dalla neonata regione del Friuli Venezia Giulia: l’80% dei partenti verso destinazioni americane negli anni venti preferì l’Argentina.
In questi anni meridionali e friulani si orientarono infatti prevalentemente verso le città, mentre i piemontesi continuarono a dividersi: in buona parte optarono ancora per la pampa gringa, una percentuale minore scelse le aree urbane. Per altri versi, ci fu una penetrazione in zone nuove, in particolare la valle del Rio Negro e altri luoghi della Patagonia.
La crisi mondiale del 1930 causò una brusca interruzione delle migrazioni internazionali in generale e di quelle italiane in particolare. Nel caso argentino alla diminuzione degli arrivi si sommò l’aumento dei rientri, così che il saldo risultò negativo nel 1932 e nel 1933, gli anni di maggior impatto della depressione mondiale. Anche se per l’economia argentina le cose migliorarono già a partire dal 1933, il flusso italiano non recuperò, attestandosi intorno ai 15.000 ingressi annuali, con saldi positivi che oscillarono tra i 3.000 e i 5.000 immigrati a seconda degli anni. Con l’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale immigrazione ed emigrazione da e verso l’Argentina cessarono quasi completamente, con un saldo in pratica pari a zero negli anni compresi tra il 1940 e il 1945. Dunque si verificò un’interruzione di quasi quindici anni, tra 1932 e 1946, durante i quali gli italiani smisero di alimentare la società e l’economia argentina e però anche le loro stesse comunità nel Paese, con conseguenze di grande portata.
Le ragioni di questo nuovo calo migratorio possono nuovamente essere collegate all’introduzione di ulteriori misure restrittive in Argentina: nel 1930 (aumento sostanziale del costo del visto consolare per i certificati imposti dal regolamento del 1923), nel 1932 (obbligo per l’immigrato di avere un contratto di lavoro per entrare nel Paese) e nel 1938, quando diventò necessario anche un permesso di «libero sbarco», che oltre a complicare ulteriormente la trafila burocratica, lasciava ampia discrezionalità ai funzionari consolari e di immigrazione argentini, rimettendo a loro la decisione su chi poteva sbarcare <69.
Tuttavia le nuove disposizioni non puntavano a bloccare gli italiani (con l’eccezione non secondaria degli ebrei italiani e degli altri esuli che scelsero l’Argentina come destinazione dopo l’introduzione da parte di Mussolini delle leggi razziali, nel 1938). Al contrario gli italiani erano tra i gruppi chiaramente preferiti, in base al principio della maggiore loro compatibilità con la società argentina, e per effetto anche delle teorie razziste sempre più in voga in quegli anni.
[NOTE]
64 Ferenezi I.- Willcox W., International Migration, NBER, New York. 1929, vol I pp.465 e 496
65 Incisa di Camerana L., L’Argentina, gli italiani, l’Italia , SPAI, Milano, 1998, pp. 387-9.
66 Bertello U., Argentina, il sogno… e la realtà, L’Artistica Editrice, Cuneo, 2003, p.86.
67 Rosoli G., Un secolo…, p. 346.
68 Ivi, p. 351.
69 Devoto Fernando, Historia…, p. 382.
Andrea Ferrari, Aspetti socio-culturali dell’emigrazione italiana in Argentina: il caso di Santa Fe, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007/2008