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domenica 3 ottobre 2021

L’80% dei partenti verso destinazioni americane negli anni venti preferì l’Argentina


L’inizio della prima guerra mondiale provocò una drastica diminuzione dell’immigrazione in Argentina. Se nel 1913 arrivarono 215.871 persone, nel 1914 gli ingressi furono solamente 76.217. Il calo riguardò gli immigrati di tutte le nazionalità, compresi gli italiani, che scesero negli stessi anni da 114.252 a 36.122. Anche se il conflitto scoppiò nel settembre e l’Italia vi entrò solo nel maggio del 1915, quando le forze neutraliste, il clima era già tale da scoraggiare le partenze.
[...] D’altro canto, prima ancora che scoppiasse il conflitto, l’Italia come misura precauzionale aveva sospeso provvisoriamente il rilascio dei nulla osta per l’espatrio ai riservisti (peraltro erano previste delle deroghe su sollecitazione degli interessati). Così, già nel 1914, il saldo migratorio degli italiani in Argentina diventò negativo e i rientri per la prima volta dal 1891 superarono gli arrivi (- 24.480). L’anno seguente, nel 1915, con l’Italia ormai in guerra contro l’Austria-Ungheria, il saldo negativo aumentò e sbarcarono appena 11.309 italiani a fronte di 55.775 ritorni. Fino al 1919 i saldi rimarranno negativi.
Tuttavia, se confrontiamo il flusso dall’Italia al Plata con quello diretto negli Stati Uniti notiamo alcune interessanti differenze. Verso gli Usa ancora nel 1914 furono registrati saldi ampiamente positivi (quasi 300.000 arrivi con 85.000 partenze) e solo a partire dal 1915 il movimento si invertì, mantenendo il segno meno anche negli anni successivi, con l’eccezione del 1917 <64.
Tutto ciò suggerisce che, oltre che con gli effetti della guerra, la brusca caduta dell’immigrazione in Argentina vada messa in relazione con l’evoluzione economica del Paese sudamericano. Le prime difficoltà si fecero sentire già nel 1914, quando ancora il conflitto, che poi avrebbe aggravato la situazione, non era scoppiato. Se la guerra creò alcune possibilità di sviluppo per l’industria argentina, che era chiamata a sostituire quei prodotti importati che non si potevano più comprare in Europa, per altri versi ne rese drammaticamente evidenti i ritardi sul piano tecnologico in molti settori, che non erano in grado di produrre localmente i beni alternativi. Soffrirono anche le esportazioni argentine, che videro cambiare la loro composizione, dato che aumentarono quelle della carne e calarono quelle dei cereali, di cui gli italiani erano tra i principali produttori <65.
Qui incideva la caduta dei prezzi dovuta agli abbondanti raccolti nordamericani e all’aumento dei costi di trasporto, per il rialzo delle tariffe dei noli sulle tratte dell’Atlantico meridionale rispetto a quelle praticate sulle rotte settentrionali.
La guerra da molteplici punti di vista colpiva l’immigrazione e favoriva i ritorni.
Per i contadini in particolare, che costituivano la stragrande maggioranza degli emigranti, il conflitto era certamente una sciagura in più. Obbligati a servire al fronte, dovevano lasciare la famiglia e abbandonare le coltivazioni in mano agli anziani, alle donne e ai bambini.
Terminato il conflitto, l’emigrazione italiana riprese molto lentamente e l’economia argentina pure.
Uno degli effetti della guerra era stata la brusca caduta del Pbi (il prodotto interno lordo), che si combinò con il drastico aumento della disoccupazione. Solo nel 1920 il Pbi argentino, in crescita per il secondo anno consecutivo, superò i livelli del 1913. Da lì in avanti ci fu un nuovo periodo di espansione fino al crack del 1930 <66. Parallelamente il flusso migratorio tornò a essere leggermente positivo nel 1920 e confermò la tendenza nel 1921. Il processo conobbe una significativa accelerazione l’anno dopo, per il concorso di due fattori: il forte recupero dell’economia argentina per un verso e la nuova legislazione statunitense per l’altro.
Introducendo il sistema delle quote nel 1921, il governo nordamericano penalizzò fortemente gli italiani e gli altri gruppi della cosiddetta «new emigration».
[...] L’immigrazione italiana in Argentina continuò a crescere fino a toccare nel 1923 i 91.992 ingressi, il picco del decennio. Nei tre anni successivi si mantenne su livelli elevati, anche se in diminuzione, raggiungendo il secondo valore più alto della decade nel 1927 (75.000), per poi cominciare a calare, stabilizzandosi intorno ai 35.000 nel 1931. Si potrebbe collegare questo declino alle nuove disposizioni restrittive. Misure e controlli furono tra l’altro intensificati a partire dal 1923, sia sul piano normativo che della prassi.
Le fluttuazioni del movimento verso l’Argentina seguirono il ritmo dell’emigrazione italiana nel suo complesso verso tutte le destinazioni: sebbene esse fossero condizionate dalle restrizioni applicate negli Stati Uniti, il calo che si verificò al Plata fu parallelo a quello registrato in Europa <67.
Invece è possibile che la diminuzione del flusso italiano in generale sia da collegare più strettamente, dal 1927 in poi per quanto concerne l’Argentina, alle disposizioni che l’Italia fascista, al pari di altri paesi di emigrazione, introdusse per limitare il numero delle partenze. Tra queste c’era l’obbligo di essere in possesso di un contratto di lavoro per ottenere l’autorizzazione a lasciare la penisola. Le norme per scoraggiare gli espatri rispondevano alla logica fascista, che considerava il numero degli abitanti di un Paese sinonimo di potenza.
In ogni caso, l’emigrazione al Plata nel complesso continuava a riguardare in larga misura il Mezzogiorno, con una partecipazione non indifferente di altre zone da cui tradizionalmente si partiva per l’Argentina, come il Piemonte e le Marche <68.
Una componente nuova (che anticipava in qualche modo la distribuzione regionale del flusso del secondo dopoguerra) era costituita dall’’immigrazione proveniente dalla neonata regione del Friuli Venezia Giulia: l’80% dei partenti verso destinazioni americane negli anni venti preferì l’Argentina.
In questi anni meridionali e friulani si orientarono infatti prevalentemente verso le città, mentre i piemontesi continuarono a dividersi: in buona parte optarono ancora per la pampa gringa, una percentuale minore scelse le aree urbane. Per altri versi, ci fu una penetrazione in zone nuove, in particolare la valle del Rio Negro e altri luoghi della Patagonia.
La crisi mondiale del 1930 causò una brusca interruzione delle migrazioni internazionali in generale e di quelle italiane in particolare. Nel caso argentino alla diminuzione degli arrivi si sommò l’aumento dei rientri, così che il saldo risultò negativo nel 1932 e nel 1933, gli anni di maggior impatto della depressione mondiale. Anche se per l’economia argentina le cose migliorarono già a partire dal 1933, il flusso italiano non recuperò, attestandosi intorno ai 15.000 ingressi annuali, con saldi positivi che oscillarono tra i 3.000 e i 5.000 immigrati a seconda degli anni. Con l’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale immigrazione ed emigrazione da e verso l’Argentina cessarono quasi completamente, con un saldo in pratica pari a zero negli anni compresi tra il 1940 e il 1945. Dunque si verificò un’interruzione di quasi quindici anni, tra 1932 e 1946, durante i quali gli italiani smisero di alimentare la società e l’economia argentina e però anche le loro stesse comunità nel Paese, con conseguenze di grande portata.
Le ragioni di questo nuovo calo migratorio possono nuovamente essere collegate all’introduzione di ulteriori misure restrittive in Argentina: nel 1930 (aumento sostanziale del costo del visto consolare per i certificati imposti dal regolamento del 1923), nel 1932 (obbligo per l’immigrato di avere un contratto di lavoro per entrare nel Paese) e nel 1938, quando diventò necessario anche un permesso di «libero sbarco», che oltre a complicare ulteriormente la trafila burocratica, lasciava ampia discrezionalità ai funzionari consolari e di immigrazione argentini, rimettendo a loro la decisione su chi poteva sbarcare <69.
Tuttavia le nuove disposizioni non puntavano a bloccare gli italiani (con l’eccezione non secondaria degli ebrei italiani e degli altri esuli che scelsero l’Argentina come destinazione dopo l’introduzione da parte di Mussolini delle leggi razziali, nel 1938). Al contrario gli italiani erano tra i gruppi chiaramente preferiti, in base al principio della maggiore loro compatibilità con la società argentina, e per effetto anche delle teorie razziste sempre più in voga in quegli anni.
[NOTE]
64 Ferenezi I.- Willcox W., International Migration, NBER, New York. 1929, vol I pp.465 e 496
65 Incisa di Camerana L., L’Argentina, gli italiani, l’Italia , SPAI, Milano, 1998, pp. 387-9.
66 Bertello U., Argentina, il sogno… e la realtà, L’Artistica Editrice, Cuneo, 2003, p.86.
67 Rosoli G., Un secolo…, p. 346.
68 Ivi, p. 351.
69 Devoto Fernando, Historia…, p. 382.
Andrea Ferrari, Aspetti socio-culturali dell’emigrazione italiana in Argentina: il caso di Santa Fe, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2007/2008

sabato 6 luglio 2013

Curiosando tra cartoline e francobolli d'epoca

Mi sembra quasi d'obbligo iniziare con una Vienna ancora Belle Époque una mia personale rivisitazione di vecchie cartoline.
A quel tempo anche Tersatto, frazione di Fiume, era nell'Impero Austro-Ungarico.
Introduco a questo punto un aspetto, cui non avevo sinora prestato attenzione: in partenza da questa località e, penso, per la Croazia di allora, i francobolli, se leggo bene, erano della Posta Magiara.
Sono andato a ritroso su quanto avevo già pubblicato in rapporto a immagini d'epoca, per cui, circa Parenzo, Istria,  trovo un annullo più ricorrente.
Granada, Alhambra.

Per illustrare questo francobollo spagnolo, vidimato nel 1927.



















Francobolli argentini di oltre un secolo fa'. Sul retro di una cartolina di Buenos Aires - o una similare -, già pubblicata qui da me.
Singolarità per singolarità, metto in evidenza anche un timbro statunitense del 1908.
Somalia. Uebi Scebeli. Tralascio, nell'occasione, ogni riferimento alla storia di questo tormentato paese.


Ma sul retro di questa cartolina compare questo francobollo del 1938, che attesta che l'Italia fascista riservava a questa sua colonia il presunto onore dell'autonomia postale.















Dalla medesima mi é venuta l'idea di curiosare tra documenti di questo genere per compiere questo breve excursus, cui non avevo ancora pensato, perché forse mi erano rimasti troppo impressi nella mente i francobolli apposti a fianco o sulle immagini stesse di tante cartoline d'epoca.




mercoledì 13 ottobre 2010

Simboli e conti della Storia

Moconà, Argentina   via Sergio Panigo
Ieri sera, 12 ottobre, data troppo nota per essere sottolineata, passando su Facebook per un veloce, per così dire, saluto all'amico argentino Sergio Panigo, mi sono accorto che dall'altra parte dell'emisfero nella ricorrenza sussisteva un consistente numero di articoli impostati sulla richiesta (credo di avere ben inteso in tale caso lo spagnolo) di scuse ufficiali della Spagna per i genocidi compiuti secoli fa a danno dei nativi.

La storia, il progresso, la cultura stessa dell'umanità si sono alimentati da sempre di simboli più o meno evidenti, poiché tale formulazione sembra congeniale all'animo umano in genere. In ordine, allora, all'esemplarità di taluni gesti, un'istanza come quella che proviene dal Rio de la Plata e dintorni, anche se quella storia, come la Storia in genere, é stata ormai riscritta in chiave più umanitaria, credo sia del tutto condivisibile.

Qualche illustre precedente é già iscritto agli atti, anche se, in genere, ripensandoci, sembrano dei mezzi passi in avanti. Così mi appaiono, per lo meno, le revisioni operate negli Stati Uniti nei confronti degli indiani.

Pensando all'epoca delle cosiddette scoperte geografiche, ci sarebbe, pertanto, qualcosa da guardare in casa di diverse nazioni, mentre con la Francia per prima verrebbe logico spostare l'analisi al colonialismo del 1800, se é vero, come é vero, che solo pochi anni fa quel Parlamento negò il riconoscimento dei pregressi misfatti compiuti oltremare. E tentare di capire quali pentimenti istituzionali, a parte qualche tardiva ammissione sulla tratta di esseri umani dall'Africa, siano accaduti in quelle che erano le potenze di due secoli fa.

In questi giorni in Germania, che compie invero da anni ogni giorno, dopo le distrazioni del primo dopoguerra, poderosi conti con il proprio nefando passato nazista e che ha decisamente pagato cospicue rate del proprio debito verso l'Olocausto, a Berlino viene inaugurata o é già in corso una mostra sull'epoca di Hitler, da cui per autocensura sono stati espunti tutti gli eventuali elementi agiografici per sempre purtroppo probabili nostalgici. Prima o poi c'é da augurarsi venga fatto da quelle parti anche qualche ragionamento sulla passata presenza nel Continente Nero: per ironia tragica ne potrebbe assurgere a triste simbolo la figura di Emin Pascià, teutonico avventuriero individualista, già in verità al servizio degli inglesi per la prima penetrazione nel Sudan, da molti studiosi identificato nel personaggio chiave di "Cuore di tenebra" di Conrad, a sua volta modello del capitano Kurtz di "Apocalypse Now" di Coppola.

Ci sono le nuove e progressive rivisitazioni della Storia, ma c'é ancora impellente necessità di alcuni fatti simbolici, dunque.

Va in controtendenza, allungando lo sguardo ad oriente, l'esaltazione di sanguinari imperatori cinesi. Ed anche di Gengis Khan. Inutilmente il poeta inglese cantò del di lui nipote, Kubilai, che udiva "voci ancestrali profetizzanti guerra".

Indubbiamente il discorso porterebbe lontano: qualche conto con la Storia, tuttavia, va pur fatto. E gli argomenti non mancherebbero.

Prescindendo dagli anni recenti, perché sono ancora cronaca, e portando, però, la riflessione su temi abbastanza di continuo ripresi da mass-media e da varia pubblicistica, occorre sottolineare che non é stata ancora elevata sufficiente sdegnata memoria per le vittime civili di tanti inutili bombardamenti aerei alleati della seconda guerra mondiale.

Da ultimo, merita due parole il nostro Paese, che i conti con il proprio sanguinario passato coloniale odiernamente li fa soprattutto affidando ad un truce colonnello libico l'incarico di massacrare tanti disperati del XXI secolo.