Mentre per la resistenza slovena e croata, la notizia dell'armistizio italiano, rappresentò una sorta di miracolo: perché da una parte i soldati italiani abbandonarono le caserme, lasciando l'Istria e la provincia di Lubiana sguarnite senza dare una presenza militare seria, permettendo così l'inizio della vendetta degli slavi contro i responsabili fascisti, che si macchiarono del tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia, durante il ventennio fascista, e delle violenze perpetuate dall'esercito italiano nei Balcani durante la guerra, ad esempio la circolare 3C del generale Mario Roatta <15: questa vendetta, verrà ricordata come i massacri delle foibe. In più da quella data le forze partigiane ampliarono il loro raggio delle operazioni militari, considerando che vennero abbandonate migliaia di armi, veicoli blindati e pezzi d'artiglieria italiani, riutilizzate dalle forze partigiane (secondo quanto detto dal generale cetnico Draza Mihajlović). Oltre al materiale bellico abbandonato, diversi reparti italiani si unirono ai partigiani jugoslavi, che subito diedero un contributo significativo nella battaglia di Turjak, contro i nazionalisti sloveni. Questi reparti si unirono alla resistenza, a seguito delle voci, fatte circolare dai titini, di uno sbarco alleato in Istria, che in realtà non ci sarebbe stato, e chiesero agli italiani in zona di unirsi alle forze partigiane e di affrontare il nemico comune, i tedeschi. <16
L'OF, “Osvobodilna fronta”, in sloveno fronte di liberazione, a seguito dell'ampliamento delle loro operazioni, divulgarono, tramite una commissione composta da diversi geografi, militari, politici e storici, teorie nazionalistiche tra la popolazione slava dell'Istria, dichiarando che i territori italiani, dall'Istria fino al fiume Tagliamento, erano territori storicamente appartenuti ai croati e agli sloveni, strappati dagli italiani dopo la Prima guerra mondiale. Queste rivendicazioni non avevano solo motivi ideologici, ma anche strategici, nel senso che, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, in previsione di un nuovo conflitto in Europa, la regione avrebbe svolto un ruolo cruciale per la difesa dello stato Jugoslavo. <17
Il Foreign Office aveva scoperto che se gli alleati avessero continuato a supportare militarmente sia le forze cetniche del governo jugoslavo in esilio a Londra, che le forze comuniste guidate da Tito, avrebbero creato due stati jugoslavi separati tra loro, provocando così una guerra civile, come avverrà nel caso della Grecia nel 1946. Pertanto, gli alleati da una parte avevano dei dubbi sulle forze cetniche guidate da Mihajlović, sospettando che collaborasse con le forze dell'Asse, ipotesi all'epoca falsa, ma che si rivelerà esatta in futuro a causa dell'abbandono del supporto degli inglesi a partire nel 1944. Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill usando la propaganda internazionale, dichiarando che il movimento comunista era l'unico che poteva fronteggiare i tedeschi e che godeva del pieno appoggio del popolo jugoslavo, anche se in realtà in quel momento, i titini non controllavano il Montenegro e la Serbia (roccaforte dei cetnici). <18
Il 28 novembre 1943, si tenne la conferenza di Teheran, per decidere sulle prossime operazioni alleate in Francia, sul fronte occidentale e sulla questione balcanica. Churchill e Stalin volevano che le forze jugoslave unissero le forze sotto un unico comando, per combattere contro i tedeschi. Secondo Churchill per cercare di trovare una tregua tra le forze partigiane, i cetnici dovevano unirsi sotto il comando di Tito e il re Pietro II doveva abdicare in favore delle forze comuniste. Stalin invece, dopo la conferenza, sollecitò i comunisti jugoslavi a prendere contatto con il governo in esilio di Šubasic, poiché l'AVNOJ (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije - Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) aveva stabilito che il re Pietro II non poteva più ritornare in patria, poiché ritenuto un traditore <19. Inoltre raccomandò ai comunisti jugoslavi di muoversi con discrezione per evitare di suscitare sospetti tra gli alleati sul nascere di un nuovo stato comunista nei Balcani. <20
Il 12 settembre 1944 re Pietro II, sotto la pressione di Churchill, esortò i serbi, croati e sloveni a riconoscere il nuovo governo sotto la guida di Tito. Il primo ministro inglese, dopo gli accordi, temeva che, non appena fosse arrivata l'Armata Rossa ai confini della Serbia, i sovietici avrebbero instaurato un regime comunista sotto la guida di Tito, per cui sospese i rifornimenti ai cetnici, nonostante la promessa di Mihajlović di continuare a combattere i tedeschi, e li indirizzò ai titini. Per questo motivo, chiese a Tito di incontrare il re per formare un nuovo governo in Jugoslavia per decidere quale sarebbe stato il nuovo sistema politico in Jugoslavia, ma Tito evitò l'incontro con il re, assicurando a Churchill che il suo sistema politico non sarebbe stato di stampo comunista. <21
Per cui, con le dimissioni del re, e con l'avanzata dell'Armata Rossa in Bulgaria e in Romania (che avevano firmato un armistizio con le forze sovietiche), Tito viaggiò segretamente in aereo, all'insaputa degli inglesi, per arrivare a Mosca per chiedere aiuti militari a Stalin e addestrare le sue truppe in modo da poter combattere efficacemente i tedeschi e cacciarli dalla Jugoslavia. Stalin approvò la richiesta <22, e il 20 ottobre 1944 l'Armata Rossa lanciò la sua terza offensiva verso l'Ungheria. In seguito divisioni sovietiche si riversarono su Belgrado e insieme alle forze titine la liberarono. Questa offensiva, l'offensiva di Belgrado, permise a Tito di stabilire il suo quartier generale nella capitale, diventando così il nuovo capo della Serbia, che insieme agli accordi diplomatici, già descritti, furono il suo primo grande successo in campo internazionale. <23 Tuttavia rimaneva la questione irrisolta della Venezia Giulia occupata.
[NOTE]
14 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
15 Rossi-Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, 2011, pp. 59-60
16 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
17 Pupo. Trieste '45. p. 42
18 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
19 Diego de Castro. Vol 1. p. 156
20 Novak, p. 96
21 Novak, pp. 97-99, ma non lo menzionò nei suoi discorsi politici al pubblico.
22 Consultare B. B. Dimitrijević and D. Savić (2011) Oklopne jedinice na Jugoslovenskom ratištu 1941-1945, Institut za savremenu istoriju, Beograd 23 Novak, p. 99
Matteo Boggian, La questione triestina 1945-1954, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2020-2021
La crescente iniziativa dei partigiani dell'esercito di liberazione nazionale guidato da Tito e la sanguinosa guerra nazionale e civile delle diverse fazioni politiche attive in Jugoslavia, impegnate in una lotta senza quartiere al fianco o contro le forze di occupazione al fine di garantirsi una posizione di forza favorevole alla fine del conflitto, costrinsero Mussolini a dichiarare la Dalmazia, assieme al Montenegro, alla Slovenia e ai territori croati e bosniaci occupati, “zona di operazioniˮ. <187
In Dalmazia queste misure determinarono in primo luogo una selvaggia competizione per il potere tra il governatore Giuseppe Bastianini ed il generale Quirino Armellini, comandante del XVIII Corpo d'armata che si concluse a favore del primo. L'occupazione della Slovenia ebbe implicazioni cariche di conseguenze sulle sorti dei territori di confine: nella provincia di Lubiana il fascismo perseguì in un primo tempo una politica di moderazione nei confronti della popolazione civile.
Questa politica si differenziava notevolmente dalla prassi di germanizzazione violenta messa in atto dai tedeschi nella Slovenia settentrionale, in seguito alla quale circa 21.000 sloveni provenienti dalla zona di occupazione germanica si erano rifugiati nella zona italiana. Questi fatti suscitarono notevoli malumori da parte degli occupanti tedeschi della parte settentrionale della Slovenia, che dal canto loro andavano attuando un programma complessivo di germanizzazione delle aree adiacenti al confine austriaco attraverso deportazioni di massa della popolazione slovena. L'Italia venne accusata in tale frangente di aver favorito il formarsi a Lubiana del centro dell'irredentismo sloveno <188.
Lo stesso Mussolini in un primo tempo non intendeva procedere all'italianizzazione forzata della provincia: «Inizialmente le cose parvero procedere nel modo migliore. La popolazione considera il minore dei mali il fatto di essere sotto la bandiera italiana. Fu dato alla provincia uno statuto, poiché non consideriamo territorio nazionale quanto è oltre il crinale delle Alpi, salvo casi di carattere eccezionale» <189.
[...] Rispetto alla condizione in cui versava il paese, la situazione che venne a crearsi nell'area di confine fu ben diversa: qui andò dissolvendosi ogni simulacro di presenza statuale italiana; l'8 settembre non significò solo, nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell'esercito, ma anche la scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano, cosicché il carattere di cesura vi si presentò in forme assai più accentuate che nel resto d'Italia <231 .
La firma dell'armistizio provocò un'accelerazione dei processi che erano andati delineandosi già a partire dal 1942, quando l'attività partigiana aveva trasformato la parte orientale del territorio in zona di guerra: i numerosi episodi di aggressione e disarmo di gruppi di soldati da parte di unità partigiane e le preoccupate reazioni degli alti comandi rappresentano infatti un indicatore dello stato di demoralizzazione delle truppe e delle conseguenze che avrebbero potuto sortirne. In seguito alla diffusione della notizia della firma dell'armistizio, varie unità si lasciarono sopraffare da contadini croati disarmati. Ad Albona, 1200 soldati si arresero a 30 croati, tra le quali diverse donne, mentre a Pisino circa 1000 effettivi si sbandavano, dopo aver abbandonato un armamentario composto da pezzi di artiglieria, mitragliatrici e mortai <232. Altri soldati si arresero nel villaggio dell'Istria interna di Pinguente, nella provincia di Lubiana, a Trieste, a Fiume e a Pola. A Gorizia si verificò invece un tentativo di resistenza e di cooperazione con le unità partigiane che circondavano la città: gli operai dei cantieri di Monfalcone, rifornitisi di armi raccogliticce, organizzarono la divisione Proletaria, che si oppose assieme ai partigiani sloveni all'avanzata tedesca; la maggioranza dei soldati che si arrendevano vennero internati in Germania, contro le precedenti assicurazioni dei comandi tedeschi. In Istria le cose andarono diversamente: qui ebbero luogo diverse sollevazioni, sia nei centri italiani sia in quelli croati; Giovanni Paladin, nel suo La lotta clandestina di Trieste, ricostruisce nei termini seguenti il passaggio dei poteri in Istria: «I partiti politici italiani non esistevano, la vecchia classe dirigente era scomparsa da lungo tempo, gli italiani dell'Istria, pur essendo in maggioranza, non disponevano più alcuna istituzione autonoma intorno alla quale raccogliersi e resistere. La disgregazione morale e politica aveva dissociato tutti i gangli vitali della comunità italiana dell'Istria. […] Nel vuoto lasciato libero, prima dal fascismo e poi dalle autorità civili e militari, si precipitarono dopo l'8 settembre i nuclei partigiani slavi, instaurando l'ordine nuovo per mezzo dei cosiddetti «poteri popolari» senza incontrare resistenza alcuna da parte degli italiani dell' Istria. La Venezia Giulia era diventata terra di nessuno…[…]. Quel giorno finiva di fatto la sovranità italiana sull'Istria e incominciava la dominazione balcanica che sovvertiva da cima a fondo l'ordine costituito <233».
Il 13 settembre 1943 si riunì a Pisino un'assemblea del neoistituito Comitato popolare di liberazione, composto da una trentina di quadri: il Comitato proclamava l'unione dell'Istria alla «madrepatria croata»; in seguito una più ampia assemblea, a cui parteciparono anche numerosi italiani, ratificò queste decisioni. Il 20 settembre, il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia (Zavnoh), emise un decreto che dichiarava decaduti tutti i trattati e le convenzioni stipulate con l'Italia. L'Istria, la Dalmazia e le isole erano annesse ipso facto alla Croazia <234. Il proclama di Pisino era stato preceduto da numerose sommosse locali, in cui una prima rudimentale ossatura di contropotere partigiano, integrata poi da quadri comunisti provenienti dalla Croazia, aveva provveduto a disarmare le guarnigioni e le forze di polizia italiana, insediando i nuovi poteri e rafforzando le fila partigiane.
[NOTE]
187 M. Cantaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 216.
231 M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 241.
232 Ivi, p. 241 ss.
233 G. Paladin, La lotta clandestina di Trieste. Nelle drammatiche vicende del CLN della Venezia Giulia, Del Bianco, Udine 1960, p.74.
234 M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, cit., p. 211.
Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2013