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domenica 23 luglio 2023

Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill


Mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola italiana, gli inglesi approfittando della situazione della resa italiana, stavano studiando uno sbarco in Istria, per dare la possibilità di effettuare operazioni militari attraverso la regione e la provincia di Lubiana in direzione dell'Europa centrale. Lo sbarco avrebbe avuto non solo conseguenze militari importanti, ma anche in ambito politico, e proprio per questo motivo rappresentava un problema, perché uno sbarco in quella parte della penisola dove viveva la gran parte della minoranza italiana, poteva provocare un peggioramento delle relazioni politiche, rendendo più difficili e sfavorevoli i rapporti e i problemi ancora irrisolti fra gli jugoslavi e gli italiani dell'Istria. Inoltre, lo sbarco venne respinto da Stalin e da Roosevelt alla conferenza di Teheran, perché ritenuto di poca importanza militare, giustificando la bocciatura classificando l'operazione di scarso valore militare, nascondendo le loro preoccupazioni politiche: gli americani consideravano la zona dei Balcani e il fronte italiano era considerato un fronte secondario, a differenza della Francia, mentre per i sovietici l'obiettivo, oltre a Berlino, era anche la presa di Vienna. <14
Mentre per la resistenza slovena e croata, la notizia dell'armistizio italiano, rappresentò una sorta di miracolo: perché da una parte i soldati italiani abbandonarono le caserme, lasciando l'Istria e la provincia di Lubiana sguarnite senza dare una presenza militare seria, permettendo così l'inizio della vendetta degli slavi contro i responsabili fascisti, che si macchiarono del tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia, durante il ventennio fascista, e delle violenze perpetuate dall'esercito italiano nei Balcani durante la guerra, ad esempio la circolare 3C del generale Mario Roatta <15: questa vendetta, verrà ricordata come i massacri delle foibe. In più da quella data le forze partigiane ampliarono il loro raggio delle operazioni militari, considerando che vennero abbandonate migliaia di armi, veicoli blindati e pezzi d'artiglieria italiani, riutilizzate dalle forze partigiane (secondo quanto detto dal generale cetnico Draza Mihajlović). Oltre al materiale bellico abbandonato, diversi reparti italiani si unirono ai partigiani jugoslavi, che subito diedero un contributo significativo nella battaglia di Turjak, contro i nazionalisti sloveni. Questi reparti si unirono alla resistenza, a seguito delle voci, fatte circolare dai titini, di uno sbarco alleato in Istria, che in realtà non ci sarebbe stato, e chiesero agli italiani in zona di unirsi alle forze partigiane e di affrontare il nemico comune, i tedeschi. <16
L'OF, “Osvobodilna fronta”, in sloveno fronte di liberazione, a seguito dell'ampliamento delle loro operazioni, divulgarono, tramite una commissione composta da diversi geografi, militari, politici e storici, teorie nazionalistiche tra la popolazione slava dell'Istria, dichiarando che i territori italiani, dall'Istria fino al fiume Tagliamento, erano territori storicamente appartenuti ai croati e agli sloveni, strappati dagli italiani dopo la Prima guerra mondiale. Queste rivendicazioni non  avevano solo motivi ideologici, ma anche strategici, nel senso che, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, in previsione di un nuovo conflitto in Europa, la regione avrebbe svolto un ruolo cruciale per la difesa dello stato Jugoslavo. <17
Il Foreign Office aveva scoperto che se gli alleati avessero continuato a supportare militarmente sia le forze cetniche del governo jugoslavo in esilio a Londra, che le forze comuniste guidate da Tito, avrebbero creato due stati jugoslavi separati tra loro, provocando così una guerra civile, come avverrà nel caso della Grecia nel 1946. Pertanto, gli alleati da una parte avevano dei dubbi sulle forze cetniche guidate da Mihajlović, sospettando che collaborasse con le forze dell'Asse, ipotesi all'epoca falsa, ma che si rivelerà esatta in futuro a causa dell'abbandono del supporto degli inglesi a partire nel 1944. Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill usando la propaganda internazionale, dichiarando che il movimento comunista era l'unico che poteva fronteggiare i tedeschi e che godeva del pieno appoggio del popolo jugoslavo, anche se in realtà in quel momento, i titini non controllavano il Montenegro e la Serbia (roccaforte dei cetnici). <18
Il 28 novembre 1943, si tenne la conferenza di Teheran, per decidere sulle prossime operazioni alleate in Francia, sul fronte occidentale e sulla questione balcanica. Churchill e Stalin volevano che le forze jugoslave unissero le forze sotto un unico comando, per combattere contro i tedeschi. Secondo Churchill per cercare di trovare una tregua tra le forze partigiane, i cetnici dovevano unirsi sotto il comando di Tito e il re Pietro II doveva abdicare in favore delle forze comuniste. Stalin invece, dopo la conferenza, sollecitò i comunisti jugoslavi a prendere contatto con il governo in esilio di Šubasic, poiché l'AVNOJ (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije - Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) aveva stabilito che il re Pietro II non poteva più ritornare in patria, poiché ritenuto un traditore <19. Inoltre raccomandò ai comunisti jugoslavi di muoversi con discrezione per evitare di suscitare sospetti tra gli alleati sul nascere di un nuovo stato comunista nei Balcani. <20
Il 12 settembre 1944 re Pietro II, sotto la pressione di Churchill, esortò i serbi, croati e sloveni a riconoscere il nuovo governo sotto la guida di Tito. Il primo ministro inglese, dopo gli accordi, temeva che, non appena fosse arrivata l'Armata Rossa ai confini della Serbia, i sovietici avrebbero instaurato un regime comunista sotto la guida di Tito, per cui sospese i rifornimenti ai cetnici, nonostante la promessa di Mihajlović di continuare a combattere i tedeschi, e li indirizzò ai titini. Per questo motivo, chiese a Tito di incontrare il re per formare un nuovo governo in Jugoslavia per decidere quale sarebbe stato il nuovo sistema politico in Jugoslavia, ma Tito evitò l'incontro con il re, assicurando a Churchill che il suo sistema politico non sarebbe stato di stampo comunista. <21
Per cui, con le dimissioni del re, e con l'avanzata dell'Armata Rossa in Bulgaria e in Romania (che avevano firmato un armistizio con le forze sovietiche), Tito viaggiò segretamente in aereo, all'insaputa degli inglesi, per arrivare a Mosca per chiedere aiuti militari a Stalin e addestrare le sue truppe in modo da poter combattere efficacemente i tedeschi e cacciarli dalla Jugoslavia. Stalin approvò la richiesta <22, e il 20 ottobre 1944 l'Armata Rossa lanciò la sua terza offensiva verso l'Ungheria. In seguito divisioni sovietiche si riversarono su Belgrado e insieme alle forze titine la liberarono. Questa offensiva, l'offensiva di Belgrado, permise a Tito di stabilire il suo quartier generale nella capitale, diventando così il nuovo capo della Serbia, che insieme agli accordi diplomatici, già descritti, furono il suo primo grande successo in campo internazionale. <23 Tuttavia rimaneva la questione irrisolta della Venezia Giulia occupata.
[NOTE]
14 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
15 Rossi-Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, 2011, pp. 59-60
16 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
17 Pupo. Trieste '45. p. 42
18 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
19 Diego de Castro. Vol 1. p. 156
20 Novak, p. 96
21 Novak, pp. 97-99, ma non lo menzionò nei suoi discorsi politici al pubblico.
22 Consultare B. B. Dimitrijević and D. Savić (2011) Oklopne jedinice na Jugoslovenskom ratištu 1941-1945, Institut za savremenu istoriju, Beograd 23 Novak, p. 99
Matteo Boggian, La questione triestina 1945-1954, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2020-2021 

La crescente iniziativa dei partigiani dell'esercito di liberazione nazionale guidato da Tito e la sanguinosa guerra nazionale e civile delle diverse fazioni politiche attive in Jugoslavia, impegnate in una lotta senza quartiere al fianco o contro le forze di occupazione al fine di garantirsi una posizione di forza favorevole alla fine del conflitto, costrinsero Mussolini a dichiarare la Dalmazia, assieme al Montenegro, alla Slovenia e ai territori croati e bosniaci occupati, “zona di operazioniˮ. <187
In Dalmazia queste misure determinarono in primo luogo una selvaggia competizione per il potere tra il governatore Giuseppe Bastianini ed il generale Quirino Armellini, comandante del XVIII Corpo d'armata che si concluse a favore del primo. L'occupazione della Slovenia ebbe implicazioni cariche di conseguenze sulle sorti dei territori di confine: nella provincia di Lubiana il fascismo perseguì in un primo tempo una politica di moderazione nei confronti della popolazione civile.
Questa politica si differenziava notevolmente dalla prassi di germanizzazione violenta messa in atto dai tedeschi nella Slovenia settentrionale, in seguito alla quale circa 21.000 sloveni provenienti dalla zona di occupazione germanica si erano rifugiati nella zona italiana. Questi fatti suscitarono notevoli malumori da parte degli occupanti tedeschi della parte settentrionale della Slovenia, che dal canto loro andavano attuando un programma complessivo di germanizzazione delle aree adiacenti al confine austriaco attraverso deportazioni di massa della popolazione slovena. L'Italia venne accusata in tale frangente di aver favorito il formarsi a Lubiana del centro dell'irredentismo sloveno <188.
Lo stesso Mussolini in un primo tempo non intendeva procedere all'italianizzazione forzata della provincia: «Inizialmente le cose parvero procedere nel modo migliore. La popolazione considera il minore dei mali il fatto di essere sotto la bandiera italiana. Fu dato alla provincia uno statuto, poiché non consideriamo territorio nazionale quanto è oltre il crinale delle Alpi, salvo casi di carattere eccezionale» <189.
[...] Rispetto alla condizione in cui versava il paese, la situazione che venne a crearsi nell'area di confine fu ben diversa: qui andò dissolvendosi ogni simulacro di presenza statuale italiana; l'8 settembre non significò solo, nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell'esercito, ma anche la scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano, cosicché il carattere di cesura vi si presentò in forme assai più accentuate che nel resto d'Italia <231 .
La firma dell'armistizio provocò un'accelerazione dei processi che erano andati delineandosi già a partire dal 1942, quando l'attività partigiana aveva trasformato la parte orientale del territorio in zona di guerra: i numerosi episodi di aggressione e disarmo di gruppi di soldati da parte di unità partigiane e le preoccupate reazioni degli alti comandi rappresentano infatti un indicatore dello stato di demoralizzazione delle truppe e delle conseguenze che avrebbero potuto sortirne. In seguito alla diffusione della notizia della firma dell'armistizio, varie unità si lasciarono sopraffare da contadini croati disarmati. Ad Albona, 1200 soldati si arresero a 30 croati, tra le quali diverse donne, mentre a Pisino circa 1000 effettivi si sbandavano, dopo aver abbandonato un armamentario composto da pezzi di artiglieria, mitragliatrici e mortai <232. Altri soldati si arresero nel villaggio dell'Istria interna di Pinguente, nella provincia di Lubiana, a Trieste, a Fiume e a Pola. A Gorizia si verificò invece un tentativo di resistenza e di cooperazione con le unità partigiane che circondavano la città: gli operai dei cantieri di Monfalcone, rifornitisi di armi raccogliticce, organizzarono la divisione Proletaria, che si oppose assieme ai partigiani sloveni all'avanzata tedesca; la maggioranza dei soldati che si arrendevano vennero internati in Germania, contro le precedenti assicurazioni dei comandi tedeschi. In Istria le cose andarono diversamente: qui ebbero luogo diverse sollevazioni, sia nei centri italiani sia in quelli croati; Giovanni Paladin, nel suo La lotta clandestina di Trieste, ricostruisce nei termini seguenti il passaggio dei poteri in Istria: «I partiti politici italiani non esistevano, la vecchia classe dirigente era scomparsa da lungo tempo, gli italiani dell'Istria, pur essendo in maggioranza, non disponevano più alcuna istituzione autonoma intorno alla quale raccogliersi e resistere. La disgregazione morale e politica aveva dissociato tutti i gangli vitali della comunità italiana dell'Istria. […] Nel vuoto lasciato libero, prima dal fascismo e poi dalle autorità civili e militari, si precipitarono dopo l'8 settembre i nuclei partigiani slavi, instaurando l'ordine nuovo per mezzo dei cosiddetti «poteri popolari» senza incontrare resistenza alcuna da parte degli italiani dell' Istria. La Venezia Giulia era diventata terra di nessuno…[…]. Quel giorno finiva di fatto la sovranità italiana sull'Istria e incominciava la dominazione balcanica che sovvertiva da cima a fondo l'ordine costituito <233».
Il 13 settembre 1943 si riunì a Pisino un'assemblea del neoistituito Comitato popolare di liberazione, composto da una trentina di quadri: il Comitato proclamava l'unione dell'Istria alla «madrepatria croata»; in seguito una più ampia assemblea, a cui parteciparono anche numerosi italiani, ratificò queste decisioni. Il 20 settembre, il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia (Zavnoh), emise un decreto che dichiarava decaduti tutti i trattati e le convenzioni stipulate con l'Italia. L'Istria, la Dalmazia e le isole erano annesse ipso facto alla Croazia <234. Il proclama di Pisino era stato preceduto da numerose sommosse locali, in cui una prima rudimentale ossatura di contropotere partigiano, integrata poi da quadri comunisti provenienti dalla Croazia, aveva provveduto a disarmare le guarnigioni e le forze di polizia italiana, insediando i nuovi poteri e rafforzando le fila partigiane.
[NOTE]
187 M. Cantaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 216.
231 M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 241.
232 Ivi, p. 241 ss.
233 G. Paladin, La lotta clandestina di Trieste. Nelle drammatiche vicende del CLN della Venezia Giulia, Del Bianco, Udine 1960, p.74.
234 M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, cit., p. 211.

Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2013

martedì 1 marzo 2022

La FIGC punì i giocatori “fuggiti in terra jugoslava” con una squalifica semestrale

Una formazione della Triestina seconda in Serie A nel ’48 - Fonte: unionetriestina.it - Immagine qui ripresa da SportHistoria

La formazione Amatori Ponziana che castigò l’Hajduk Spalato nel 1946/47 - Fonte: Contrasti

La stagione 1947-48 viene celebrata dagli sportivi di Trieste come il fiore all’occhiello del calcio triestino. La società alabardata - dopo le caotiche vicissitudini nel corso del campionato precedente - arrivò seconda in classifica, insediando la testa del campionato al “Grande Torino”. Alla guida della squadra fu chiamato l’ex giocatore della Triestina e della Nazionale Nereo Rocco, che formò una rosa quasi esclusivamente di triestini nutrita da un codice di appartenenza territoriale impensabile ai giorni nostri. Una squadra che doveva essere composta da triestini, per gridare in campo l’appartenenza a una città così vicina e lontana <345.
Una delle novità del campionato fu la concessione del GMA (Governo Militare Alleato) di far giocare dall’inizio della stagione tutte le gare casalinghe a Trieste (allo Stadio San Sabba) ad entrambe le squadre. Tale concessione fu subordinata all’assunzione della completa responsabilità del Presidente dell’Amatori Ponziana e dal segretario della Triestina in caso di incidenti.
Da come si legge dagli atti dell’Archivio statale di Trieste
"Io sottoscritto BOLTAR Edoardo, presidente dell’Amatori Ponziana, dopo essermi consultato con i diversi capi dei partiti politici aderenti all’U.A.I.S., garantisco con la presente e mi assumo la responsabilità per il comportamento corretto degli elementi sloveni di Trieste in occasione dell’incontro calcistico che avrà luogo nello Stadio S. Sabba […]"
"Io sottoscritto, COTTA Luciano, segretario dell’UNIONE SPORTIVA TRIESTINA, dopo essermi consultato con i diversi capi dei partiti politici italiani aderenti al C.L.N. garantisco con la presente e mi assumo la piena responsabilità per il comportamento corretto degli elementi italiani di Trieste in occasione dell’incontro calcistico che avrà luogo nello stadio S. Sabba domenica 22 dicembre 1946, tra una squadra proveniente dalla Jugoslavia ed una squadra di Trieste" <346.
Mentre l’A. Ponziana otteneva una discreta prestazione nel campionato jugoslavo, piazzandosi a metà classifica, la Triestina, dunque, disputò il suo miglior campionato della sua storia: dopo una fila di tredici partite utili consecutive, terminò seconda classificata con 49 punti, a pari merito con Juventus e Milan, e sotto solo al Torino.
L’imponente disponibilità finanziaria elargita dal governo italiano, unita alla possibilità di giocare le proprie gare casalinghe a Trieste e alla sapienza tattica di Nereo Rocco, portarono la Triestina nel punto più alto nella sua storia, a distanza di un solo anno dall’ultimo posto ottenuto nel corso del campionato precedente. Tale risultato sportivo è rimasto tuttora ineguagliato e risulta significativo che sia stato ottenuto proprio durante uno dei periodi più tesi della “questione di Trieste”. L’anno successivo la squadra alabardata non riuscì nell’impresa di riconfermarsi tra le grandi del calcio italiano e terminò il campionato del 1948/49 con un discreto ottavo posto; l’A. Ponziana, invece, concluse la stagione all’ultimo posto in classifica, e fu l’ultima apparizione nella Prva Liga.
Nel frattempo, infatti, un importante evento politico andava a sconvolgere gli equilibri internazionali, segnando profondamente tutto l’universo comunista, in maniera particolare quello triestino, ambito sportivo compreso. Stiamo parlando della “crisi del Cominform”. Tale evento politico determinò l’espulsione del partito comunista jugoslavo dall’ecumene comunista per tutta una serie di motivi: lo Stato jugoslavo veniva accusato dal PCUS di quella di aver condotto una «politica indegna nei confronti dell’URSS» <347, di aver rifiutato di rendere conto dei proprio atti politici al Cominform; di aver intrapreso un percorso di deviazionismo ideologico dai principi marxisti-leninisti; e, infine, Tito venne addirittura accusato di essere una spia imperialista.
In questa sede ci limiteremo a considerare solo una delle principali cause che determinò l’espulsione del PCJ dall’organismo del Cominform; vicenda che, oltre a innescare un vero rovesciamento dei rapporti tra potenze occidentali e lo stato Jugoslavo, avrà un effetto dirompente sugli equilibri politici (e, come vedremo, sportivi) del contesto triestino. Tito usciva dalla seconda guerra mondiale come uno dei leader più autorevoli del panorama comunista. Tra il 1941 e il 1944 divenne la guida del movimento di liberazione jugoslavo, ottenendo la liberazione del paese dalle forze nazifasciste e avviando la costruzione dello Stato socialista Jugoslavo. Sulla base di questi successi - che estesero la sua popolarità e il suo prestigio ben oltre i confini jugoslavi - <348 il leader del PCJ, cominciò, sin dall’immediato secondo dopoguerra, a condurre una politica estera in modo sostanzialmente autonomo, suscitando l’ostilità delle potenze occidentali e diventando una figura ingombrante per il regime sovietico. Come scrisse lo storico Pirjevec Stalin come Geova era un dio geloso, e non poteva permettere che accanto a lui sorgessero altri dei <349. Nel giro di pochi anni si venne a creare un clima di sospetto e diffidenza nei rapporti tra sovietici e jugoslavi che portarono alla definitiva sconfessione della Jugoslavia da parte dell’URSS nel giugno del 1948.
La questione di Trieste fu uno dei primi motivi d’attrito tra il leader jugoslavo e quello sovietico: l’occupazione della città giuliana nel Maggio del 1945 da parte delle truppe di Tito e le conseguenti richieste annessionistiche, rischiarono di trascinare la Jugoslavia, assieme all’Unione Sovietica, alle soglie di uno scontro armato con le potenze alleate <350. L’operazione militare di Tito venne interpretata dalle potenze del blocco occidentale come un gesto di sfida, come un deciso tentativo di espansione del mondo comunista all’interno dell’Europa occidentale. Tale tentativo, dunque, fu percepito dalle potenze del blocco occidentale come una manovra architettata dall’Unione Sovietica; lo stesso Churchill si convinse che Tito «fosse un tentacolo della piovra moscovita» <351. Tuttavia, per Stalin, la “questione di Trieste” - benché non fosse contrario alle pretese jugoslave - non fu mai considerata una questione prioritaria né tantomeno una causa per la quale rischiare un conflitto armato con le potenze occidentali.
[...] Tale clima di ostilità e di contrapposizione si estese anche all’ambito extrapolitico, coinvolgendo l’ambito culturale, quello editoriale e, ovviamente, la dimensione sportiva.
A Trieste ci fu lo scioglimento di tantissimi circoli culturali, compagnie teatrali e gruppi bandistici italo-sloveni; in alcune associazioni si scatenarono durissime guerre intestine tra membri di orientamento titoista e fra quelli stalinisti <365. Le principali testate della città presero due strade separate: i “cominformisti” mantennero il giornale italiano “Il Lavoratore”, mentre i titoisti, invece, conservarono la proprietà del già menzionato “Primorski Dvenik”.
A farne le spese fu altresì la dimensione sportiva. Come ha osservato Nicola Sbetti, lo scisma comunista indebolì profondamente la posizione dell’Ucef sullo sport triestino: "Da quel momento il supporto di Tito all’UCEF venne meno anche perché, con l’uscita della Jugoslavia dal Cominform, vi fu una presa di distanza anche dal PCI, partito a cui molti membri dell’UCEF erano legati" <366.
Ma soprattutto la “crisi del Cominform” pose fine del sostegno finanziario del governo Jugoslavo nei confronti dell’Amatori Ponziana. La società triestina terminò mestamente la stagione 1948/1949 all’ultimo posto in classifica e, dopo tre campionati nella Prva Liga, scomparve completamente dal panorama calcistico <367. Alcuni suoi giocatori trovarono sistemazione in altre squadre del campionato jugoslavo, la maggior parte, invece tornò in Italia. A quest’ultimi, però, fu impedito, per i primi sei mesi, di svolgere l’attività sportiva: la FIGC, infatti, punì i giocatori “fuggiti in terra jugoslava” con una squalifica semestrale <368.
Successivamente, l’epilogo della vicenda dell’A. Ponziana andò a incidere anche sul destino della Triestina, determinando un progressivo disinteresse da parte del governo italiano per le sue sorti sportive, che divenne pressoché totale dopo il 1954.
Dopo il Memorandum di Londra, che sancì il ritorno ufficiale della città all’Italia, il valore simbolico e propagandistico della Triestina subì un deciso ridimensionamento; e, anche per questo motivo, dopo la retrocessione in serie B nella stagione 1956-57, la squadra alabardata non riuscirà più a prendere parte alla massima serie italiana.
Si chiudeva quindi una vicenda fortemente rappresentativa del clima di contrapposizione e rivalità che caratterizzò la città giuliana dopo il 1945.
[...]
Appendice
Intervista con Giuliano Sadar, 19 Febbraio 2015.
Giulino Sadar è stato inviato del quotidiano “TriesteOggi” per il quale ha seguito le vicende delle squadre di vertice triestine. Giornalista professionista dal 1993, oggi lavora alla sede Friuli-Venezia Giulia della Rai. Nell’Ottobre 1997 ha pubblicato il suo primo libri “El Paron, vita di Nereo Rocco (Lint Editoriale).
1. Come nasce l’idea di questo libro?
Tutto nasce dal particolare clima politico che poi si riverberò all’interno del contesto sportivo. Sono venuto a sapere di questo episodio negli anni '80 ad Avellino, durante una partita tra Triestina e Avellino. Sono andato a casa di un certo Lo Schiavo, un triestino che viveva ad Avellino e mi riferì di questo episodio. La storia dell’Amatori Ponziana l’ho raccontata io per la prima volta, perché qua c’era proprio un tabù nel parlarne.
[...]
3. Lei ha scritto che «passare dall’Amatori Ponziana era un tradimento di maglia, affetti e ideologie», cosa intendeva con questa espressione?
Calcoli che il Ponziana, era la tradizionale squadra dei lavoratori del porto di Trieste, un ambiente molto frequentato dai socialisti; la Triestina invece era la squadra, tra virgolette dei “signori”, della borghesia italiana. Erano due mondi diversi, inconciliabili. Passare da una squadra all’altra veniva visto come un tradimento, soprattutto per quelli che dalla Triestina passarono all’Amatori Ponziana. La gente li vedeva come “dei venduti ai comunisti di Tito”. Questi 40 giorni di Tito a Trieste, sono stati vissuti malissimo dalla cittadinanza, era il periodo delle “Foibe”, un periodo di grandi violenze.
4. Quanto contava la questione ideologica nell’aderire all’Amatori Ponziana?
Intanto erano tutti giocatori italiani. A quanto mi ha detto Ettore Valcareggi (giocatore dell’Amatori Ponziana, ndr) fu prevalentemente una motivazione economica. Quando lo incontrai, mi disse “mi davano un milione all’anno”. La dirigenza era invece comunista: c’era un evidente motivazione politica. Secondo me, almeno tra i giocatori, ma è solo una mia sensazione, non c’era una particolare adesione politica.
5. Una parte di Trieste sperava nell’adesione di Trieste durante quel periodo?
Gli sloveni, e una parte dei comunisti italiani favorevoli a Tito. Al di là del socialismo, la Jugoslavia era una potenza militare, perché Tito era uscito vincitore da una guerra civile sanguinosissima, quindi aveva una grande forza di attrazione rispetto all’Italia, che era si era praticamente sfaldata dopo l’8 Settembre.
6. Quanto ha inciso la rottura fra Tito e Stalin sulle sorti sportive di entrambe le squadre?
Come ho già scritto nel libro, ha fatto calare il valore propagandistico di tenere la squadra in Jugoslavia. Lo stesso vale per la Triestina. Ha avuto finanziamenti fino agli anni ’50, fu tenuta in serie A fino al 1959, dopodiché ci fu il declino. Arrivavano soldi qua, come arrivavano soldi dalla Jugoslavia. Lo sport è sempre servito per motivi politici.
7. Era molto seguita l’Amatori Ponziana?
Si, era molto seguita durante le partite, ovviamente dalla parte comunista della città.
[NOTE]
345 Ivi, p. 64.
346 ASTs (Archivio di stato di Trieste), Oggetto n. 246, Unione Sportiva Triestina, II 27 B.
347 J. Pirjevec, Tito, Stalin e L’Occidente, Opicina, Villaggio del fanciullo, 1985, p. 173
348 P. Purini, op.cit. , p. 264.
349 J. Pirjevec, Tito, Stalin e L’Occidente, Opicina, Villaggio del fanciullo, 1985, p, 16.
350 Il pericolo che Tito trasformasse Trieste in un fronte di agitazione comunista portò le forze alleate a prendere in considerazione l’eventualità di uno scontro armato con le forze jugoslave. J. Pirjevec, op. cit., p. 36
351 J. Pirjevec, op.cit , p. 19.
365 P. Purini, op.cit. , p, 272
366 N. Sbetti, op.cit. , p, 429.
367 Ricordiamo che il C.S. Ponziana 1912 continuava a svolgere la sua attività sportiva nelle categorie inferiori del calcio italiano.
368 G. Sadar, op.cit. , p, 64.
Nicolò Falchi, Il Calcio al confine: il caso di Trieste. Dall’irredentismo alla guerra fredda, Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Anno accademico 2014-2015


Il Ponziana del 1948/49, all'ultima recita nella Prva Liga - Fonte: Stefano Affolti, art. cit. infra

[...] L'Amatori saluta e torna nei ranghi della casa madre Ponziana. L'Italia non stende certo tappeti rossi e la zelante Figc presenta un conto salato: sei mesi di squalifica per tutti coloro che hanno osato tesserarsi altrove e iscrizione della squadra solo al campionato di Promozione, la quarta serie. Molti giocatori se ne vanno, trovando posto in Jugoslavia o in categorie superiori.
Declino, blitz e campioni. Da allora il Ponziana conosce un lento ma inesorabile declino: la coraggiosa squadra del quartiere popolare naviga nei tornei minori, segnalandosi come ottimo vivaio (escono da lì Fabio Cudicini, il povero Giorgio Ferrini e Giovanni Galeone) e realizzando ogni tanto blitz da prima pagina. Come quando, il 17 luglio 1960, vince grazie alla monetina la finale nazionale dei dilettanti a Rimini con la Scafatese (finita 1-1). O quando, il 1° dicembre 1974, batte 1-0 la Triestina in un memorabile derby di serie D, giocato al Grezar davanti a ventimila spettatori. Triestina che, dopo la fine della querelle sui confini orientali, a sua volta perde la tutela politica della Dc: abbandona la serie A nel 1959 per non rivederla più.
Siccome reincarnarsi non gli dispiace, lo spirito del Ponziana è ancora vivo sotto altre spoglie: la società originaria è scomparsa nel 2014, oggi la legittima erede si chiama Chiarbola Ponziana e milita in Promozione.
Stefano Affolti, La guerra fredda del Ponziana, Gente di Calcio, 22 luglio 2020 

L’inviato speciale del «Corriere» Egisto Corradi avrebbe tenuto in sospeso gli animi dei lettori con un reportage a puntate sulle sorti di quegli «Italiani modello, intensissimi Italiani, uomini che da piccoli giuocavano con le bandiere italiane invece che con bambole e palline», costretti nella Zona B del Territorio Libero di Trieste a veder smantellato «tutto ciò che è italiano, dalle scuole alle squadre di calcio, [...] terra italiana in cui si ascolta Radio-Milano di nascosto, a porte e finestre chiuse» <461, ridotti in libertà vigilata, serrati dietro «una trincea».
"Tutti gli Italiani possono esaminare carte geografiche e rendersi conto della situazione, ma i triestini, in mezz’ora di automobile da Piazza Oberdan, possono arrivare a toccare uno qualsiasi dei sedici posti di frontiera che dividono la zona anglo-americana del Territorio libero dalla Jugoslavia. [...] Dovete sempre ricordarvene quando parlate con loro: vivono in un cerchio che ha per raggio mezz’ora di vita libera. Se ve ne dimenticate, senza dirvelo, ve lo ricordano; e se avete orecchio intenderete sempre questo fatto della mezz’ora come sottinteso implicito ed incombente in ogni loro discorso. I triestini «sentono» la cortina di ferro che corre tutt’intorno, così come un cieco «sente» le pareti che ostacolano il suo cammino" <462.
[NOTE]
461 A Capodistria si ascolta Radio-Milano di nascosto, «Il Corriere della Sera», 1 aprile 1948.
462 Sarà duro per Tito lasciare la “Piccola Istria”, «Il Corriere della Sera», 8 aprile 1948.
Vanessa Maggi, La città italianissima. Usi e immagini di Trieste nel dibattito politico del dopoguerra (1945-1954), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Anno Accademico 2018-2019

domenica 7 novembre 2010

Gli spiccioli di un provinciale

Racconti di guerra, grande ingiustizia del mondo, sentiti in famiglia. 

Il nonno Maini, che fece la Grande Guerra nel Battaglione Aosta, in divisa da alpino
La Grande Guerra.

Il gruppo di case sparse in Slovenia, dove nacque il nonno materno
Dalla viva voce della nonna materna appresi fanciullo di bambini sloveni trattenuti sulle linee del fronte dell'Isonzo al pari di donne ed anziani, feroce anticipo italiano delle persecuzioni e dei campi di concentramento loro riservati vent'anni dopo. Bambini in allora obbligati a sentire le grida di agonia dei feriti gravi abbandonati tra i reticolati delle trincee. Anziani considerati spie e trattati di conseguenza, salvati solo all'ultimo minuto dall'esecuzione. Stupri o tentativi di stupro. Su un fronte più lontano l'altro mio nonno, a combattere. Schivo di parole in merito, però, eccezione fatta per meticolosi chiarimenti tecnici resi al sottoscritto di ritorno da Gorizia. Già, ma la pandemia di spagnola della prima famiglia gli lasciò solo lo zio tragicamente destinato a perire più tardi in Russia. Particolari appresi da adulto. Pudori arcaici di famiglia. 

Le donne, meravigliose creature, sensibili e pratiche ad un tempo, come progressivamente ho appreso nella vita. Loro quindi mi hanno illuminato per prime su tante nefandezze umane. Forse il primo squarcio di luce rispetto alle letture artatamente patriottiche dei libri di testo mi arrivò proprio dai particolari di Musei e Sacrari narrati da una zia (a noi tutti carissima!) anche lei di ritorno dalla Venezia Giulia. 

Più sfumate le testimonianze dirette della seconda guerra.


La malaria (altre persone a me care ne soffrirono nella loro conseguente breve vita) del nonno materno, reduce dall'Albania, più o meno costretto ad indossare di nuovo la divisa del carabiniere.

Quali orrori avrà visto in tale veste? Un anticipo del suo espatrio clandestino in Jugoslavia per riabbracciare la madre, con particolari - i duri interrogatori dei "titini" che, date le sue origini, lo ritenevano un spia - conosciuti solo da mio padre per essere svelati tanti, troppi anni dopo? 


Ultima guerra, mio padre, da Ventimiglia (IM): i bombardamenti aerei a  Napoli, la prima battaglia navale della Sirte:



la fuga da Pola, 8 settembre 1943, della squadra della corazzata Giulio Cesare, la successiva destinazione ad altri incarichi, spesa a terra tra Taranto e Lecce. A lungo senza contatti con i genitori e, sino all'indomani dell'8 settembre 1943, con il fratello più piccolo, anch'egli in  Marina. Il fratello più grande, che era nel Genio Ferrovieri, già morto (ufficialmente disperso!), come sopra accennato, nella sciagurata campagna di Russia, a dicembre 1942.

Da queste parti, in Riviera, i civili in dura lotta per la sopravvivenza. Anche bambine di Bordighera (IM) a spingere carrette su e giù per il Col di Nava alla ricerca di farina in cambio di olio cercando di evitare i feroci controlli tedeschi. 

Potrei continuare, aggiungendo notizie apprese diversamente, alcune decisamente significative. Ho già lasciato qualche traccia scritta di questi eventi, che in gran parte costituiscono da sempre il filo conduttore di mie narrazioni orali, nella convinzione che particolari come questi aiutino a comprendere la Storia. Ho trovato, invero, anche riscontri, destando talora nei miei interlocutori la necessità di ripercorrere con attenzione le loro ascendenze. 

Ma sulla guerra, fatalmente sulla seconda, che vede ancora dei testimoni diretti, la mia curiosità partecipe va anche alla vita dei civili e dei militari in libera uscita, forse attratto da tanti passi incrociati di parenti e di conoscenti, comunque, desideroso di sapere quali molle caricassero quelle donne e quegli uomini a sopportare quei mesi difficili. Di qui il mio trepido stupore quando ho rivisto "Ossessione" di Visconti, realizzato fortunosamente in tempo di guerra, dove abbondano scene di vita reale nelle retrovie. E la grande attenzione con cui ho ammirato "Estate violenta" di Florestano Vancini.

La Resistenza, poi, affiora per ironico paradosso in presa diretta di stampo familiare con ambientazioni geograficamente lontane dalla Liguria Occidentale. 

Ci sono episodi, riconducibili a quando avevo da poco superato i vent'anni di età, che non ho mai raccontato, anche perché mi tornano, chissà perché, raramente alla memoria.


Una visita guidata ai Musei Vaticani. Afferrare e ritenere per sempre da poche parole dell'accompagnatore l'essenza dell'arte, ma ancor più la sottesa storia sociale, un po' come compie con grande respiro il professor Flavio Caroli con le sue lezioni magistrali, l'ultima sentita ieri sera a "Che tempo che fa", su Goya, stupenda! Capire, meglio, forse, perché "Tempesta" di Giorgione, "Adamo ed Eva cacciati dall'Eden" di Masaccio, "Guidoriccio da Fogliano" di Simone Martini da sempre mi affascinino in modo particolare. E dal vivo ho visto solo la Cappella Brancacci. Per le prime due opere é ampiamente riconosciuto, mi pare, un accostamento non arbitrario a "L'urlo" di Munch. Io aggiungo anche la terza. Ma lo intendo solo ora. Così come é giusto cercare di aiutare il superamento delle angosce altrui.


Colli Albani. Presenza inattesa in quella storica villa del capo delegazione, una donna, del VietNam del Nord al tavolo della pace di Parigi. Io sono il primo a vedere la piccola comitiva, che sperava di passare inosservata, e a chiamare gli altri per esprimere in modo improvvisato e goffo emozione e solidarietà a quella lotta di liberazione e a popoli atterriti da nuovi micidiali bombardamenti aerei. Senonché, ci sono le amare pagine della storia che ci rammentano tante ingiustizie. No, non era un modello quel VietNam, non lo é neanche adesso. Anche se era giusto che quella guerra cessasse. Forse non comunque, di sicuro non in quel modo, con le rappresaglie dei vincitori e i Boat People. Per non parlare dell'immane tragedia della Cambogia. Penso adesso a "Asce di guerra" dei WuMing, un libro in cui l'anima, a mio avviso, ce l'hanno messa sul serio. Ed illuminante.


Un viaggio in treno da Milano all'inizio di una ormai lontana estate. Per me si trattava di un ritorno a casa, a Ventimiglia (IM). Nello scompartimento ebbi la fortunata opportunità di sedermi vicino a Carlo Levi, che poi scese ad Alassio (SV), dove, sulle alture, aveva casa e ricordi d'infanzia. Un distinto signore molto elegante nel suo abito di lino chiaro. Io insistetti ingenuamente a dirgli che in quella cittadina era nata mia madre. Lo spessore umano di un personaggio che si lasciava tormentare dalle domande del sottoscritto. Entrambi reduci da una Conferenza dell'Emigrazione, svolta in una bella villa sul Lago di Como. Lui dirigente di quel sodalizio e grande relatore con un discorso intriso di splendide e commoventi immagini. Io semplice spettatore. In vettura, ma lo comprenderò (mi è capitato con altri personaggi importanti) una volta di più anni dopo, mi impartì una lezione di vita. E di autentica Storia. Non si lasciò andare ai ricordi di "Cristo si é fermato ad Eboli". Tutt'al più mi parlò delle sue prove artistiche di pittore. Mi fece toccare con mano con la sua narrazione di fatti apparentemente minuti il profondo significato di essere degni cittadini.


Se qui ho parafrasato, come riconosco di aver fatto, "Gli spiccioli di Montale" di Nico Orengo, compianto autore dalla grande scrittura creativa, sottolineo, come ho già documentato, che quest'ultima opera si apre in una casa storica in riva al mare che ho avuto la ventura di frequentare. Le mie odierne trame, invece, hanno preso le mosse a Bordighera in un'altra residenza più modesta, non lungi da dove abito adesso, ormai abbandonata in attesa della furia delle ruspe per il compimento dell'ennesima speculazione edilizia. Solo la nonna materna ci ha vissuto per più di sessant'anni. Lo zio più di settanta.


Il mare é vicino, ma non visibile. Si scorgevano (si scorgerebbero) dagli usci verdi colline ormai massacrate dal cemento ed una torre d'avvistamento contro i pirati turcheschi, che si é scoperto da poco insistere su rari reperti archeologici dell'Alto Medio Evo, ma destinata ad essere circondata dagli ennesimi residences. Ed ancora - basterebbe spostarsi un po'! - il Sasso, Seborga, Monte Caggio. Più o meno di fronte, non rammento ora se di colà ben visibili, Borghetto San Nicolò e Vallebona. In mezzo il torrente Borghetto che, quasi tutto tombinato e destinato ad accogliere acque furiose non più trattenute da rilievi modesti, ma ormai spelacchiati o ricoperti da manufatti agricoli e non, in otto anni ha più volte esondato, con conseguenze particolarmente pesanti a metà settembre 2006: non più luogo di giochi durante la siccità estiva per bambini che amavano l"intrepido", dunque, non più sito di raccolta di erbe odorose per i conigli ed altri animali da cortile, non più terreno di ricerca delle more più dolci mai mangiate.


D'altronde da tanti anni ormai avevano cessato di defluirvi le acque della grande antica lavanderia di Guido, omaccione generoso dalla voce tonante che non spaventava nessuno.