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mercoledì 19 gennaio 2022

Le trasmissioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› denotano un modo diverso di fare cultura e perfino di intenderla


Delle milletrecentonovantasette trasmissioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› trasmesse in radio <516 rimangono solo una decina di bobine, il resto andò distrutto. <517 Il GRAP, un gruppo di ricercatori dell’Università di Firenze, sotto la direzione di Anna Dolfi ha catalogato i copioni degli ultimi venti anni del programma radiofonico (mancano testimonianze relative al periodo che va dal 1945 al 1957). <518 Si tratta di un lavoro molto utile e meticoloso, che tuttavia non ci restituisce né l’integralità dei contenuti trattati, né la pienezza e il fascino del potere evocativo, intimo e profondo, tipico della radio. Quella peculiarità comunicativa che nasconde la mimica ed enfatizza la voce, inserendola in un intercedere immediato e consequenziale di una oralità semplice, che rapisce il pensiero e dove la lotta ai dialetti e o più verosimilmente all’inflessione dialettale, <519 almeno nel caso de ‹‹L’Approdo››, sembra placarsi di fronte all’‹‹altisonanza›› del letterato.
Analizzando alcune trasmissioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› <520 si è subito rapiti da una molteplicità di aspetti che, nell’insieme, denotano innanzitutto un modo diverso di fare cultura e perfino di intenderla. Per spiegarlo, scegliendo di restare nelle più solerti considerazioni di ambito umanistico, di notevole interesse risultano le interviste realizzate per ‹‹L’Approdo›› dallo scrittore franco-algerino Jean Amrouche intorno alla metà degli anni Cinquanta. Alle sue domande, in realtà sempre le stesse, risposero alcuni fra i più noti scrittori dell’epoca: Ungaretti, Moravia, Contini, Montale, Vittorini, Bacchelli, Cecchi. Con un evidente inflessione francese, Amrouche accompagnava gli ascoltatori verso una conoscenza più profonda di questi autori che con la propria voce ripercorrevano ai microfoni de ‹‹L’Approdo›› l’inizio della loro esistenza, la loro carriera, parlando dei libri scritti, delle loro amicizie con gli altri letterati, del rapporto con i loro maestri e con i colleghi apprezzati come pure con quelli non apprezzati. Dai microfoni della radio, narratori, poeti, saggisti, studiosi di arti figurative, musicologi, storici, si confrontavano per la prima volta non più con la pagina bianca, ma con un mezzo inatteso: un mezzo tecnico con proprie regole e con i propri tempi. E poi con un pubblico diverso e con aspettative differenti: un pubblico da sorprendere e coinvolgere, da incrementare e trattenere. Di particolare interesse sono risultate le conversazioni ai microfoni de ‹‹L’Approdo›› con i poeti Mario Luzi, Andrea Zanzotto, con gli storici della letteratura Giancarlo Ferretti, Folco Portinari, con i saggisti Manlio Cancogni e Giuseppe Pontiggia, con lo storico Franco Cardini, con gli scrittori Vincenzo Cerami, Giorgio Van Straten, Lidia Ravera, Maurizio Maggiani, Marco Ferrari. Significativi risultano anche l’intervista a Leone Piccioni sulla storia de ‹‹L’Approdo››, o gli interventi di Gian Battista Angioletti e di Carlo Betocchi. <521
‹‹Io non sono esattamente un intellettuale, sono uno che sa che esiste una mente e una memoria, una mente razionale e una memoria che non è precisamente razionale. Nella memoria abita il passato, abitano le esperienze che ci sono passate davanti e che ci sfuggono, abitano i numi della vita, quelli che stanno con noi, ma che non vediamo, stanno con noi, ma rispondiamo loro di rado, stanno con noi, ma certe volte ci sfuggono e ci lasciano. Io sto invecchiando e anche i numi della vita mi stanno lasciando. Io non posso altro che insistere sul fatto che se qualche cosa che mi è stato dettato da lì dentro, sono riuscito a tradurlo in parole e ho scritto dei versi››. <522
Voci alla radio, lontane, ma solo in apparenza. Voci che sanno restituire - stavolta sì - la potenza della cultura, il valore, il rispetto e la memoria senza tempo, di allora come di oggi. Voci che raccontano ‹‹la grande cultura alla radio››, volendo prendere a prestito il titolo del libro di Andrea Mugnai, dedicato per l’appunto a ‹‹L’Approdo››. Voci sì, ma anche dibattiti alla radio. <523 E si sa, dopo ogni discussione, nessuno resta più com’era prima. Perché la radio (adesso come allora) accompagna, quasi inavvertitamente, per tutto il giorno, con le sue peculiarità di immediatezza e di facilità penetrazione.
Da queste registrazioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› e, in particolare dai contenuti affrontati, emerge - per arrivare al punto - una concezione più alta della cultura, della letteratura, degli stessi intellettuali. <524 Intellettuali a cui venivano rivolte numerose domande personali o sulla loro vita privata, <525 proprio perché considerati dei veri e propri esempi da seguire. Erano uomini che avevano viaggiato, che si erano confrontati con altri autori, che avevano letto il meglio della letteratura nazionale e internazionale e che poi erano riusciti a esprimersi, grazie anche alla loro spiccata sensibilità, in alcune fra le più belle pagine della letteratura e della poesia degli anni Cinquanta e Sessanta. Verrebbe spontaneo chiedersene la ragione: si trattava forse di scrittori come, negli anni a venire, non se ne sarebbero più trovati? Leone Piccioni viene in soccorso, rispondendo a questa domanda ai microfoni de ‹‹L’Approdo››, mentre parlava della storia della rivista e della radio: ‹‹Io, interpellato, rispondevo che il nuovo Approdo non lo potevamo fare, perché non ci sono più maestri di quel livello e di quella grandezza disposti a collaborare insieme senza pregiudizi di carattere politico e sociale››. <526
Più complessa e interessante appare l’analisi delle trasmissioni radiofoniche dal punto di vista del linguaggio. In realtà agli esordi del programma, in particolare, si riscontrava lo scarso sforzo (o sarebbe forse meglio dire la scarsa capacità di adeguamento al mezzo?) di informare il pubblico radiofonico del tempo: si davano molte cose per scontate, senza la volontà di fornire quei dettagli necessari alla comprensione del messaggio da parte di un pubblico prevalentemente impreparato. Analizzando il linguaggio de ‹‹L’Approdo››, inteso come rivista letteraria alla radio, emergeva, da parte di direttori e collaboratori, una certa reticenza a sperimentare un linguaggio più ardito, più tecnico, più specificatamente radiofonico. Questo ricadeva a volte nel mero ascolto di una bella pagina letta alla radio, fatta di andamenti lenti, noiosi, o in dibattiti densi di retorica e pedanteria, oppure pregni di parole auliche e ricercate intervallate da pause, da formule di reticenza o da silenzi, spesso più eloquenti delle parole. <527 Inoltre vi era una struttura sintattica poco adatta all’oralità, con molte secondarie. Ne risultava un linguaggio articolato e pregno di contenuti alti, che si rivolgeva sostanzialmente a un pubblico di élite. <528 Aspetti questi che dimostrano che i testi radiotrasmessi fossero testi scritti, destinati alla lettura o al più alla interpretazione.
Più tardi, negli anni Sessanta, in concomitanza con l’introduzione nelle trasmissioni del telefono, che consentivano il contatto con gli ascoltatori, si cominciò in generale a dare spazio a una maggiore spontaneità alla radio, in cui il testo ‹‹parlato-scritto››, tipico dei primi decenni, venne sostituito da uno ‹‹parlato-parlato››, cioè privo di una base di scrittura. Da questo si può evincere che ‹‹L’Approdo›› radiofonico si sia contraddistinto, nel tempo, per una lingua non artificiosa, non multiforme, non dialogica, non ritmica, proprio perché scritta e dunque controllata, prevalentemente poco spontanea. <529 A conferma di questa considerazione ci sono ancora le parole di Leone Piccioni rilasciate nella nota intervista, di cui si parlava più sopra, dedicate alla storia de ‹‹L’Approdo››: ‹‹Quando decidemmo di pubblicare i testi de ‹‹L’Approdo›› Radiofonico, rimandavamo all’autore, nel caso volesse apportare correzioni per farne, più che un documento parlato, un documento scritto. Il più delle volte non ce n’era bisogno, i testi trasmessi da ‹‹L’Approdo›› Radiofonico andavano benissimo anche per la stampa››. <530
[NOTE]
516 Cfr. Leone Piccioni, La linea editoriale de ‹‹L’Approdo››, in ‹‹L’Approdo Letterario››…, cit., p. 117.
517 Risulta difficile fare una cernita precisa riguardo alle puntate de ‹‹L’Approdo››: oltre alle dieci bobine (del biennio 1968-1969) presenti nella nastroteca centrale di Roma e rimaste ancora integre, dal Catalogo multimediale delle Rai risultano a migliaia le tracce de ‹‹L’Approdo›› radiofonico alla sezione ‹‹programmi nazionali››, ma si tratta di sequenze e stralci della trasmissione, materiale a volte difficile persino da catalogare.
518 Cfr. Anna Dolfi, Michela Baldini, Teresa Spignoli, Nota introduttiva, in L’Approdo. Copioni, lettere, indici…, cit., pp. 7-12
519 In un articolo di Bruno Migliorini si legge al riguardo: ‹‹la lingua degli annunziatori deve essere trasparente, impersonale e perciò quant’è possibile uniforme: mi sembra perciò che convenga insistere energicamente perché nella parola degli annunziatori non si avverta alcuna ombreggiatura dialettale. […] Ma tutto questo presuppone, che si sia data una risposta affermativa al punto fondamentale: che cioè la Rai si decida ad assumere anche nel campo dell’ortofonia un compito educativo››. Bruno Migliorini, La lingua e la radio, in ‹‹Annuario Rai 1952››, pp. 45-46.
520 Cfr. cd-room contenuto nel volume in Angelo Sferrazza, Fabrizio Visconti (a cura di), Memoria e Cultura per il 2000. Gli anni de L’Approdo…, cit., come pure si veda, ovviamente, l’Archivio Rai, oggi, per altro, disponibile (almeno in parte) anche nella versione telematica, consultabile in tutte le sedi centrali e regionali della Rai.
521 Cfr. Andrea Mugnai, L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit. In questo volume l’autore ci ripropone diversi testi integrali di conversazioni con autori avvenute ai microfoni dell’omonima trasmissione radiofonica.
522 Carlo Betocchi, Intervento ai microfoni de ‹‹L’Approdo›› radiofonico in Andrea Mugnai, L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit., p. 79.
523 Cfr. Silvio D’Amico, I dibattiti alla radio, in ‹‹Annuario Rai 1952››, pp. 68-74.
524 Un concetto questo che appartiene alla consapevolezza degli stessi letterari, si legga al riguardo l’articolo di Leone Piccioni, L’inflazione letteraria, in ‹‹L’Approdo Letterario››…, cit. L’articolo apre a un’osservazione sulle scelte compiute dai curatori di antologie dedicate alla narrativa e alla poesia contemporanee e sulla crisi della critica letteraria, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, in concomitanza dunque alle trasformazioni dell’editoria verso una dimensione industriale.
525 Jean Amrouche rivolge agli autori prevalentemente sempre le stesse domande. Ad esempio: ‹‹Caro Emilio Cecchi, lei sa che in ogni artista c’è una forza interiore che lo costringe ad esprimersi. In quale momento ha scelto di accettare la sua vocazione d’artista e di rispondervi?››. Oppure: ‹‹Ma lei voleva scrivere o invece voleva esprimersi in altro modo?››. Ancora: ‹‹Famiglia, insegnanti o altri hanno posto ostacoli al compimento di tale vocazione?››. E ‹‹Potrebbe parlare di scrittori stranieri che lei ha incontrato?››. Cfr. Andrea Mugnai, Conversazione con Emilio Cecchi 7 giugno 1954 in L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit., pp. 3-10. È possibile ascoltarla anche tramite cd-room contenuto all’interno dello stesso volume.
526 Andrea Mugnai, Conversazione con Leone Piccioni 1 luglio 1996, in L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit., p. 82.
527 Cfr. Remo Cesarini, Il linguaggio radiofonico, in Memoria e cultura per il 2000…, cit., pp. 92-99.
528 Ibidem.
529 Si vedano al riguardo i testi integrali delle trasmissioni riportate da Andrea Mugnai nel libro, più volte citato, L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit.
530 Ibidem, Conversazione con Leone Piccioni 1 luglio 1996, p. 83. Si veda inoltre Filippo Sacchi, Il giornale scritto e il giornale parlato, in ‹‹Annuario Rai 1952››, pp. 55-60.
Giulia Bulgini, Il progetto pedagogico della Rai: la televisione di Stato nei primi vent’anni. Il caso de "L’Approdo", Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2018

Fig. 1 - L’Approdo alla TV, “Radiocorriere”, 20-26 gennaio 1963 - qui ripresa da Raffaella Perna, art. cit. infra

Il sabato sera del 2 febbraio 1963, alle ore 22.20, la Rai trasmette sul Programma Nazionale la prima puntata de L’Approdo. Settimanale di Lettere e Arti, a cura di Leone Piccioni, con la collaborazione di Raimondo Musu e la regia di Enrico Moscatelli. La trasmissione, che andrà in onda con conduttori, curatori, registi e in fasce orarie, giorni e canali diversi sino al 28 dicembre del 1972 <1, è parte di un progetto culturale più ampio, avviato all’indomani della Seconda guerra mondiale, il 3 dicembre del 1945, con l’omonimo programma radiofonico trasmesso da Radio Firenze, curato da Adriano Seroni, giovane critico letterario allievo di Giuseppe De Robertis, e diretto dal 1949 dallo scrittore e capo dei servizi culturali della Radio Giovanni Battista Angioletti <2. Superate brillantemente le difficoltà materiali degli inizi, L’Approdo radiofonico diventa nel giro di pochi anni un appuntamento atteso da una platea di radioascoltatori sempre più vasta. Nel 1952 il prestigio culturale e la fortuna della trasmissione spingono la dirigenza Rai ad affiancare al programma radiofonico una rivista trimestrale di lettere e arti, pubblicata dalle Edizioni Radio Italiana di Torino sino al 1977 (con un’interruzione tra il 1955 e il 1958), nella quale trovano spazio i migliori contributi trasmessi alla radio, interventi scritti appositamente per l’edizione a stampa, importanti anticipazioni editoriali (Eugenio Montale, ad esempio, nel 1968 vi pubblica in anteprima i quattordici componimenti di Xenia II) e, dal 1963, la trascrizione di servizi trasmessi alla TV. Sino al 1951 la guida de L’Approdo radiofonico è affidata unicamente a Seroni e Angioletti, ma con l’avvio della rivista cartacea i due vengono affiancati da Piccioni, e nel contempo viene costituito un comitato di redazione composto da intellettuali di primo piano, di cui fanno parte Roberto Longhi, Riccardo Bacchelli, Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis, Nicola Lisi, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri. Si aggiungono poi, in momenti diversi, Gianfranco Contini, Gino Doria, Carlo Bo, Diego Fabbri, Alfonso Gatto e Goffredo Petrassi; al posto di Cecchi, venuto a mancare nel 1966, subentrerà Carlo Emilio Gadda. Nel 1958 Carlo Betocchi, già esponente del gruppo di letterati cattolici riuniti attorno alla rivista fiorentina “Il Frontespizio”, è designato come responsa-bile della sezione radiofonica e nel 1961, alla morte di Angioletti, assu-merà anche la direzione della rivista. Con la nascita de L’Approdo televisivo, nel 1963, il comitato non subisce variazioni (Fig. 1): la linea culturale perseguita dal cenacolo fiorentino, improntata a un modello di cultura alta e aperta a suggestioni provenienti dal panorama europeo, trova un nuovo canale di diffusione nella trasmissione televisiva, dove molte delle formule già sperimentate alla radio vengono riprese e adattate al piccolo schermo. Benché sin dalla composizione del comitato risulti chiaro come il ruolo prioritario sia riservato alla letteratura, le arti visive hanno un peso significativo nella storia de L’Approdo, nelle sue tre vesti. Nell’edizione televisiva il numero di servizi dedicati all’arte, in particolare a quella novecentesca, ambito su cui si concentra questo contributo, è molto ricco: in alcuni momenti della travagliata storia della trasmissione, in special modo durante la direzione di Attilio Bertolucci (1965-1966) quando il programma si scinde nelle due distinte sezioni L’Approdo Arti e L’Approdo Letteratura <3, l’arte avrà uno spazio uguale a quello della letteratura.
[NOTE]
1 Nei quasi dieci anni di vita L’Approdo televisivo andrà incontro a molti cambiamenti. Dallo spoglio del “Radiocorriere” e dalla consultazione delle puntate digitalizzate è possibile ripercorrerne gli snodi principali: il programma, curato da Leone Piccioni, viene inaugurato, dopo un rinvio di una settimana, il 2 febbraio del 1963 di sabato sera sul Programma Nazionale; dal 10 gennaio del 1965 la trasmissione viene mandata in onda di domenica. La cura del programma passa a Giuseppe Lisi, che si avvale della collaborazione di Alfonso Gatto e Silvano Giannelli e della regia di Siro Marcellini. Due mesi dopo, dal 2 marzo 1965, il programma verrà spostato al martedì sera. Dal mese di novembre la direzione passerà ad Attilio Bertolucci e la regia a Paolo Gazzarra. In questo frangente la trasmissione si dividerà in due appuntamenti, L’Approdo Arti e L’Approdo Letteratura, curati rispettivamente da Silvano Giannelli e da Giulio Cattaneo, entrambi coadiuvati da Franco Simongini. Dal 27 dicembre del 1966 L’Approdo è in onda sul Secondo Programma, sempre di martedì sera, ma nella veste originaria di Settimanale di Lettere e Arti. La cura viene affidata ad Antonio Barolini e Giannelli, con la collaborazione di Mario Cimnaghi e Simongini, per la regia di Enrico Moscatelli. La nuova presentatrice è Graziella Galvani. Dal 15 maggio 1967 il programma viene spostato al lunedì sera, mentre dal 14 febbraio 1968 al mercoledì. Anche la squadra di lavoro si rinnova: il programma viene ora curato da Barolini, Massimo Olmi e Geno Pampaloni, con la collaborazione di Cimnaghi e Walter Pedullà, ed è coordinato da Simongini e presentato da Maria Napoleone. Quest’ultima verrà poi sostituita dal più noto attore teatrale e drammaturgo Giancarlo Sbragia. Nel 1971 la cura del programma passa a Giorgio Ponti con la collaborazione di Pedullà e Giuliano Gramigna e la regia di Gabriele Palmieri. Sulla storia de L’Approdo televisivo vedi Grasso (1992); Bolla, Cardini (1994); Grasso, Trione (2014); per una visione d’insieme su L’Approdo nelle sue tre edizioni vedi Sferrazza, Visconti (2001).
2 Sulla storia de L’Approdo letterario e radiofonico vedi Mugnai (1996); Dolfi, Papini (2006); Baldini, Spignoli, (2007).
3 Ognuna delle due rubriche ha cadenza bisettimanale.
Raffaella Perna, L’Approdo televisivo e l’arte del Novecento, Piano B. Arti e Culture Visive, vol. 3 n. 2 - 2018  

L’Approdo è stata una delle rubriche di letteratura, arti, cinema, più illustri e longeve della storia della radiotelevisione italiana, nacque su impulso di Adriano Seroni come programma radiofonico settimanale o quindicinale nella sede Rai di Firenze nel dicembre 1945 e andò in onda fino al giugno 1977. Era la proposta culturale più prestigiosa del Programma Nazionale: «mezz’ora di informazione letteraria e inedito connubio fra parola scritta e suono» (Ferrari 2002, 85), vantando un comitato di redazione in cui figuravano personalità molto rilevanti della scena culturale del secondo dopoguerra, da Riccardo Bacchelli a Emilio Cecchi a Folco Portinari, Ungaretti, Longhi, Bo, tra gli altri. Si sviluppò in maniera che oggi diremmo multimediale poiché si espresse in tre forme differenziate che ebbero una vita di durata diversa: alla trasmissione radiofonica fiorentina si affiancò una rivista cartacea trimestrale, che fu stampata dal 1952 al 1954 e, con il titolo L’Approdo Letterario, dal 1958 al 1977; una trasmissione televisiva settimanale di letteratura e arte che andò in onda dal 1963 al 1972, condotta nella fascia oraria che precedeva la prima serata.
La rivista fu diretta fino al 1961 da Giovanni Battista Angioletti e poi, fino alla fine della pubblicazione, da Carlo Betocchi; entrambi coltivarono un’aspirazione, che non ne abbandonerà mai lo spirito, a uno standard piuttosto elitario della informazione letteraria. L’auspicio nasceva nel seno di possibilità che in qualche modo risentivano in maniera accentuata degli effetti di una concezione probabilmente classica della trasmissione del sapere che mal si adattò all’istanza imperante di una cultura popolare e di qualità, nel passaggio da una prima militanza accademica all’impegno politico degli anni Sessanta e Settanta.
Nei diversi gruppi di redazione che si avvicendarono fu molto forte da subito il legame con una società della cultura in un certo senso istituzionale che riusciva a rappresentare con non poche difficoltà la crescita esponenziale della quantità dei prodotti letterari che diversificarono caleidoscopicamente il mercato editoriale; tra la fine degli anni Cinquanta e i Settanta la relazione tra letteratura e bisogni sociali divenne centrale fino a rappresentare anche qualitativamente le trasformazioni e i cambiamenti più significativi dei paradigmi novecenteschi. Tali cambiamenti finirono con il rendere minoritaria la lunga esperienza dell’Approdo che, poiché nel 1977 non riuscì a convertirsi al canone di una rete generalista di volta in volta più diffusamente popolare (Dolfi 2007, 11), chiuse i battenti, o meglio, fu in certa misura assorbita, per spirito e intenti, in quel Terzo Programma che nasceva nella prospettiva specifica del canale culturale.
Il canale che nel 1975 sarebbe diventato Radio Tre e che sulla differenziazione degli ambiti di un palinsesto molto ben articolato riuscì a equilibrare un’offerta in grado di rinnovarsi pur mantenendo un notevole livello, che dura a tutt’oggi, nell’ambito dei mezzi delle telecomunicazioni nazionali.
Le letterature straniere furono come sempre uno dei campi privilegiati della vitale ricerca di informazione e rinnovamento che caratterizzò la programmazione della Rai; furono rappresentate in diverse rubriche ma prevalentemente nelle specifiche rassegne divise per area linguistica e collocate in conclusione ai numeri della rivista.
Nancy De Benedetto, Le letterature ispaniche nelle riviste della RAI in Le letterature ispaniche nelle riviste del secondo Novecento italiano, (a cura di) Nancy De Benedetto e Ines Ravasini, Biblioteca di Rassegna iberistica 19, Edizioni Ca' Foscari

mercoledì 14 luglio 2021

Caro Sereni / Mi compiaccio con Lei per la sua buona volontà

Ottone Rosai, Carlo Betocchi, 1954-’55 - Firenze, Museo Novecento - Fonte: il Manifesto  

Tullio Pericoli, Vittorio Sereni, 1993 - Fonte: Tullio Pericoli

A volte le lettere trasmettono la ‘voce’ mentale di un poeta più chiaramente delle sue opere. Accade, in particolare, per Vittorio Sereni: si ha l’impressione, o l’illusione, che le situazioni e i dialoghi delle poesie entrino in risonanza con il suo epistolario, ne proseguano il discorso. Non è una questione di autenticità o di utilità: i carteggi di Sereni sono preziosi per commentare i suoi libri, certo, ma non più di quanto accada per altri autori novecenteschi. Il punto è che Sereni scrive le poesie come scrive le lettere, con la stessa postura e il medesimo pathos della ferialità. Per fortuna, abbiamo molte occasioni per ascoltare quella ‘voce’: dal centenario della nascita (2013) a oggi sono stati pubblicati i carteggi con Anceschi, Bodini, Gallo, Luzi, Ungaretti, che si sommano tra gli altri a quelli con Bertolucci, Parronchi, Saba usciti in precedenza. Un nuovo volume si aggiunge ora alla serie: Vittorio Sereni-Carlo Betocchi. Un uomo fratello. Carteggio (1937-1982),  Mimesis, pp. 248, euro 24,00. Clelia Martignoni firma il saggio introduttivo, mentre l’edizione e il commento, ampio e preciso, sono curati da Bianca Bianchi, già redattrice dell’Almanacco «La Rotonda», diretto dallo stesso Sereni con Piero Chiara. I materiali, conservati a Luino nell’Archivio Sereni, comprendono 172 documenti, tra i quali 150 lettere, per lo più manoscritte, la maggior parte delle quali ha per mittente Betocchi. Anche per questo, Un uomo fratello è un libro che parla di Betocchi almeno quanto parla di Sereni, sebbene il primo, per attitudine all’umiltà, finisca per assumere un ruolo tra il maieutico e l’ausiliario nei confronti del secondo. Tra le qualità di Betocchi c’è infatti la capacità di intuire gli esiti della poesia di Sereni e di trovare i giusti toni per incoraggiarlo o interpellarlo; a volte perfino per rimproverarlo, come in una lettera della fine del 1955: «Non mi dare dispiaceri. Fai l’uomo, smetti di ricoverarti dietro tante timidezze».
Milano-Firenze, crescente distanza
L’estensione cronologica del carteggio permette di seguire la vita e l’opera dei due autori nell’arco di un mezzo secolo denso di cambiamenti. Nell’esistenza di Sereni s’inanellano la prigionia, la famiglia, gli onori e gli oneri del lavoro editoriale (cui spesso queste lettere alludono); in quella di Betocchi, le trasferte e la fede perduta dopo la malattia e la morte della moglie. Per entrambi conta e resiste la scrittura, mentre le trasformazioni della società italiana lasciano segni profondi su uomini e libri. Di anno in anno, attraverso le parole e le idee condivise dai due amici, si percepisce ad esempio la crescente distanza tra la Firenze di Betocchi, capitale di una cultura primonovecentesca in esaurimento, e la Milano industriale di Sereni, necessaria alla maturazione dei suoi grandi libri, anche se non sempre amata. «E del resto se mi guardo attorno, che cosa dà più Milano?», scrive Sereni in una lettera del luglio ’54; e prosegue: «Sì, qualche amicizia davvero cara e di cui ho bisogno; ma per il resto pagliacciata e commercio anche di quelle poche ragioni che una volta ci facevano vivi».
All’anagrafe, poco meno di una generazione separava Betocchi (nato nel 1899) da Sereni (nato nel 1913): «In fondo io sono ancora uno, quanto a spirito e conoscenza del mondo, uno del primo ventennio del secolo», scrive Betocchi nell’ottobre del 1980. In effetti, le prime lettere, risalenti all’estate del ’37, tradiscono ancora una certa asimmetria dei ruoli: Betocchi è un poeta già noto (Realtà vince il sogno era uscito nel 1932), Sereni un esordiente. Il carteggio prende spunto proprio dalla pubblicazione dei primi versi sereniani sul «Frontespizio», la rivista fiorentina fondata da Bargellini, per la quale Betocchi curava la rassegna poetica. Fin dall’inizio, però, il tenore delle lettere è tale da ridurre le distanze: «Caro Sereni / Mi compiaccio con Lei per la sua buona volontà; mi dolgo per quel che di meno sereno ha potuto turbarlo nella cerchia dei suoi amici, che sono anche i miei, che si amano poeti». Non è un caso se tra le parole ricorrenti nel carteggio, quasi come un suo Leitmotiv, risalta l’aggettivo ‘umano’, che qualificherà il titolo del libro più importante di Sereni, Gli strumenti umani (per il quale l’autore aveva pensato anche a un’alternativa, Teatro di parole, di ascendenza betocchiana). Del resto, è proprio in una lettera all’amico (4 luglio ’54) che si riconosce l’occasione di partenza più tardi rielaborata da Sereni nella poesia Il muro degli Strumenti: «Vorrei raccontarti d’una sera che andai a vedere un torneo notturno di calcio proprio dietro la chiesa del cimitero e si levò una specie di bufera con lampi e gran polvere».
Quanto all’‘età’ letteraria, i due poeti si consideravano coetanei. Betocchi, convinto della prossimità fra gli autori della cosiddetta terza generazione (in particolare Sereni, Caproni e Luzi), si sentiva più vicino a loro che non a Montale e Ungaretti. È su questa base che, ne primi anni cinquanta, insiste (invano) con Sereni perché gli dia una raccolta delle sue poesie da pubblicare per Vallecchi: «Da una conversazione lunga, fatta ieri sera con Luzi che si è convinto - scrive Betocchi il 3 aprile 1953 - emergevano altre ragioni, per tutti, richiedenti la raccolta in volume, la presentazione compatta in catalogo, e l’uscita poco dopo distanziata delle poesie di Luzi, Sereni, Caproni, Parronchi, Betocchi». L’opportunità di allineare questi autori, fra i quali Betocchi s’include, dipendeva tanto dalla volontà di superare la categoria di ‘ermetismo’ per un «nucleo di poeti, che ha carattere assai compatto di nascita e d’interessi»; quanto dall’esigenza di «presentare la poesia soprattutto dei primi fra i poeti nominati per quello che è realmente, l’unico punto stabile di necessario passaggio dagli Ungaretti Montale ai poeti futuri».
Il problema della linea lombarda
Irriducibile all’ermetismo, Sereni si sottrae anche ad altre forzate assimilazioni: come osserva giustamente Martignoni nell’introduzione, «l’elogio “lombardo” di Betocchi» è un’«altra cosa rispetto all’angusta chiusura nella “linea lombarda” prospettata a suo tempo nell’antologia omonima». Il riferimento è a uno scambio avvenuto tra il marzo e l’aprile del ’58. «Quando sei lombardo - aveva scritto Betocchi - sei della migliore stirpe per interpretare la modernità della storia». «Dalle tue parole - risponde Sereni - sono quasi indotto a pensare che dal poco di nuovo che ho messo fuori vada facendosi strada quel tanto, non più di lombardo, ma di milanese addirittura con cui lotto ogni giorno, non per sopprimerlo ma per ridurlo a ispirazione». È quasi una sintesi della poetica che di lì a pochi anni si compirà negli Strumenti umani. «Nella sua disperazione», quel libro rappresenta, secondo Betocchi, «la giustificazione più intensa» di tutta la storia di Sereni (23 ottobre ’65). La lettera «mette il dito nella piaga», risponde l’autore pochi giorni dopo (31 ottobre), perché lo «raggiunge più nel segreto», con tutte le «vergogne scoperte». Il nuovo libro è poco congeniale a Betocchi, che in una lettera a Caproni - lo ricordano Bianchi nel commento e Martignoni nell’introduzione - confessa di preferire le opere precedenti alla «poesia Milano-Industria».
Ha ragione Sereni allora quando, nell’articolo sugli Strumenti scritto da Betocchi per il «Giornale d’Italia», legge «un’insoddisfazione e un rammarico, non di ordine critico-estetico, ma umano e morale», una sorta di «nostalgia» per com’era o appariva «una volta» (lettera del 5 aprile ’66). È il tratto in cui il carteggio diventa più acuto, ma non polemico o recriminatorio. Tant’è vero che l’attenzione e la comprensione non vengono meno. Betocchi prevede ad esempio l’importanza che Char, tradotto da Sereni, avrà anche per la poesia dell’amico: un lavoro - gli scrive in una lettera del novembre ’74 - «che, penso, ti sarà fonte di altro tuo lavoro personale». E così sarà: quel «lavoro personale» si realizza nella sezione quarta (Traducevo Char) dell’ultima raccolta sereniana, Stella variabile. La lettera finale del carteggio, datata 6 febbraio 1982, si chiude proprio sui «rinnovati rallegramenti» per l’uscita di quella raccolta. Tempo un anno e Sereni, l’«uomo fratello» (così ‘battezzato’ in una lettera del maggio ’48), muore nella sua casa di Milano. Betocchi gli sopravvive fino al 1986, quasi cinquant’anni dopo la sua presentazione delle prime poesie sereniane nel «Frontespizio».
Niccolò Scaffai, Fra Sereni e Betocchi risalta l'aggettivo umano, il Manifesto, 6 giugno 2019
 

Sabato 5 ottobre, alle ore 17.30, nella Sala Conferenze di Palazzo Verbania di Luino si terra’ la Presentazione del volume “Vittorio Sereni - Carlo Betocchi. Un uomo fratello. Carteggio (1937-1982)” - Mimesis Editore, - a cura di Bianca Bianchi, introduzione di Clelia Martignoni.
Ne parlano Gianmarco Gaspari e Giulia Raboni con Bianca Bianchi e Clelia Martignoni. Documento di una profonda solidarietà umana e intellettuale, il carteggio fra Vittorio Sereni e Carlo Betocchi illumina di nuovi riflessi il dibattito sul fare poesia in Italia negli anni del secondo conflitto mondiale e della ricostruzione.
Lo scambio epistolare inizia alla fine degli anni Trenta, quando Betocchi favorisce l’esordio di Sereni su «Frontespizio», e si sviluppa ininterrottamente fino al tempo della sua piena maturità e della definitiva affermazione, chiudendosi solo in seguito alla prematura scomparsa del poeta luinese avvenuta nel 1983.
Bianca Bianchi, laureatasi all’Università di Milano con Marino Berengo, è stata redattrice dell’Almanacco Luinese “La Rotonda” (1979-1984), diretto da Vittorio Sereni e da Piero Chiara. Ha pubblicato alcuni saggi sul carteggio con Carlo Betocchi (2010, 2012), e ha curato il volume Poeti francesi letti da Vittorio Sereni (2002).
Redazione, Sereni, Betocchi: grande letteratura a confronto, VareseNews, 4 ottobre 2019

Nuovo appuntamento con la cultura presso Palazzo Verbania a Luino, con la presentazione del volume “Vittorio Sereni - Carlo Betocchi. Un uomo fratello. Carteggio (1937-1982)”, in programma per il pomeriggio di oggi, sabato 5 ottobre.
Il libro, edito da Mimesis, verrà presentato da Gianmarco Gaspari e Giulia Raboni, che divideranno il microfono con l’autrice Bianca Bianchi e con Clelia Martignoni che ha curato l’introduzione del progetto.
Il carteggio tra Sereni e il poeta torinese Betocchi è un documento di profonda solidarietà umana e intellettuale. Illumina di nuovi riflessi il dibattito sul fare poesia in Italia negli anni del secondo conflitto mondiale e della ricostruzione.
Lo scambio epistolare, come spiegheranno i relatori, parte dalla fine degli anni Trenta, quando Betocchi favorisce l’esordio di Sereni su “Frontespizio”, e si sviluppa interrottamente fino al tempo della sua piena maturità e della definitiva affermazione, chiudendosi solo in seguito alla prematura scomparsa del poeta luinese, avvenuta nel 1983.
Bianca Bianchi, laureatasi all’università di Milano con Marino Berengo, è stata redattrice dell’almanacco luinese “La Rotonda” (1979-1984), diretto da Vittorio Sereni e da Piero Chiara. Ha pubblicato alcuni saggi sul carteggio con Carlo Betocchi (2010, 2012), e ha curato il volume “Poeti francesi letti da Vittorio Sereni (2002).
Redazione, Luino, i carteggi di Vittorio Sereni e Carlo Betocchi a Palazzo Verbania, Luinotizie, 5 ottobre 2019
 
[...] Il 22 ottobre 1956 Sereni dattiloscrisse a Betocchi una lettera dedicando un disponibile e al contempo cauto pensiero a De Giovanni: "A proposito di De Giovanni debbo dirti che non ho visto il numero di «Letteratura» di cui mi parli. È una rivista ormai quasi fantomatica che non ricevo e che non mi capita mai tra le mani. Si potrebbe avere una copia del numero? Forse però non ti ho spiegato che la mia collezione della Meridiana è finita. C’è in corso un’altra iniziativa in cui ho parte, senza però la responsabilità così precisamente personale che avevo prima. Bisogna almeno vedere come si avvia per prendere in considerazione il nome di De Giovanni. Per questo dovrà passare del tempo, ma se intanto riceverò il numero di «Letteratura» potrò farmene un’idea". <14
[...] Betocchi, non ignaro della situazione né incurante, volle ancora ma delicatamente ricordare a Sereni di prendere in considerazione De Giovanni in apertura di una lettera (conservata, anche questa, a Luino) del 22 dicembre 1956:
"Mio caro Vittorio,
abbi gli auguri di Natale e di capo d’Anno: riprendo una tua lettera d’un mese fa, <22 che non aveva avuto risposta. Ti ringrazio se, col tempo, potrai dare uno sguardo ai versi di quel De Giovanni: se poi non incontreranno il gusto tuo e della tua nuova collezione (il bel “Levania” di Sergio Solmi, da lui ricevuto, ma che - con la tua nota - devo ancora leggere, è forse il primo numero della tua nuova raccolta?) fammelo sapere: proverò altrove, il poeta De Giovanni, autentico stagnino, è così ingenuo e fiducioso nell’aiuto di noi che pensa contiamo qualcosa!
" [...]
14 Si rimanda al carteggio Sereni-Betocchi in corso di stampa.
Alessandro Ferraro, «Almeno il suo giudizio». L’esordio poetico di Luciano De Giovanni nello scambio epistolare con Carlo Betocchi e Vittorio Sereni, «Quaderni del '900», XVIII, 2018

Ecco dunque come Sereni ridimensiona la narratività praticata da uno «scrittore a base autobiografica», quale lui è:
"L’esistenza lascia certi segni - quelle lesioni o ustioni o ferite, quegli attriti e magari anche conflitti d'idee che appartengono al tempo, che passano nell'esistenza di un uomo. Che cosa fa lo scrittore a base autobiografica che una volta che abbia deciso di operare uno scarto rispetto ad essi e al quale non basti il documentarli o il descriverli o - sia pure - il 'cantarli'? Si affida ad una forza inventiva che non può non venirgli se non da una combinazione o connessione di fatti e di dati, dell’intuizione <3 di certi nessi... egli demanda, conferisce mandato a determinate situazioni e scorci di sviluppare la fecondità supposta dei moventi. Impropriamente pensavo dunque a una mia inclinazione essenzialmente narrativa, nonostante un certo apporto che tale può essere considerato, una certa piega frequentemente narrativa. Mi esprime meglio una frase colta a caso in un recente ‘pezzo’ di Betocchi, fondato probabilmente su presupposti affatto diversi: «E così, penso ora alla poesia quasi come a un TEATRO DI PAROLE, dove le parole sono come persona, e e penso con i miei difetti, vizi, infinite mutabilità». Strano, non avevo mai pensato al teatro (ed ero quasi tentato di rubare l’espressione a Betocchi per dare questo titolo al libro: teatro di parole. Continuerebbe a non piacere a Niccolò con la giustificazione che sto fornendo?). Il mio sforzo sempre più evidente è appunto quello del mandato ad altri (situazioni e figure evocate, evocazioni di situazioni e figure) a interposte persone, lo sviluppo dell’emozione di partenza". <4
Non ci sarebbe forse bisogno di sottolineare come la nozione, già caproniana, di «interposta persona», messa criticamente in auge una quindicina d’anni fa da Enrico Testa, <5 aiuti qui a Sereni a tematizzare il tipo di ‘alienazione’ espressiva (il fortiniano mandato) da lui posto in essere. Narrare attraverso contenuti che non appartengono direttamente al soggetto lirico, ma che lo hanno segnato e continuano a condizionarlo, significa rappresentare un accadimento in actu; secondo un’intenzionalità ben diversa da quella che mira a riferire e ordinare eventi ed esistenti in sequenze testuali dotate di una loro diegetica coerenza. (Ma su questa distinzione dovrò peraltro tornare più avanti.)
3  Sic: ma forse andrà letto «dall’intuizione».
4  Vittorio Sereni, cit. nella Nota introduttiva di Giulia Raboni a PP 30-31.
5  Enrico Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999.

Paolo Giovannetti, Se, e come racconta la poesia di Vittorio Sereni, Vittorio Sereni, un altro compleanno, a cura di Edoardo Esposito, Ledizioni, 2014

giovedì 24 giugno 2021

Lei, mio caro De Giovanni, mi scriva tutte le volte che ne ha voglia


La presente “notarella”, <1 mentre esibisce le incoraggianti impressioni di lettura che due grandi poeti del secolo scorso, Carlo Betocchi e Vittorio Sereni, affidarono a lettere scambiate fra loro su un giovane esordiente del ponente ligure o a lui, Luciano De Giovanni, indirizzate, si propone, tramite il recupero di documenti poco noti (alcuni inediti) e la ricostruzione di un piccolo episodio della società letteraria anni Cinquanta, d’illuminare la figura in ombra e l’opera in versi dello schivo “stagnino” sanremese che preferì starsene in disparte, pubblicando di rado e per raffinati editori in genere di provincia, affannandosi ancor meno per primeggiare o comunque presentarsi senza che terzi insistessero. A svantaggio di una poesia valida, già di per sé «prudentissima, e dosatissima, “a frazioni di pollice”, timorosa d’una lacrima troppo compiaciuta (troppo gonfia e cantata) come d’un possibile seme di inondazione ed allagamento», a voler citare un altro grande, Giorgio Caproni, che recensì Viaggio che non finisce. <2
Con la prima raccolta del 1957 De Giovanni avviò un percorso che riprese ben un trentennio dopo con la seconda raccolta, dal sintomatico titolo Cautamente presente, <3 e che raggiunse la “cima” solo nel 1993 con l’antologia Tentativo di cantare una nuvola, <4 uscita quando il poeta idraulico aveva superato i settantuno anni dei settantanove che l’incontrovertibile conteggio della vita gli concesse.
[...] Fra le cartelle della corrispondenza è conservata una singola lettera di Sereni a De Giovanni: un foglio bianco, oramai ingiallito, di formato A4 e senza intestazioni, riempito sul recto e per metà sul verso da una scrittura in penna stilografica che sigla il testo con la firma estesa del mittente e le coordinate «Milano, 10 marzo ’57 / via Mauro Macchi 35».
[...] Nell’estate del 1956 De Giovanni e Betocchi scrissero a Sereni, amico del secondo, in quanto poeta ammirato e, dal 1955, responsabile di un’altra esperienza editoriale milanese, quei «Quaderni di Poesia» delle Edizioni della Meridiana in cui uscirono opere di Giovanni Arpino, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Umberto Bellintani, Bartolo Cattafi, Lalla Romano e Luciano Erba. Sereni ricevette, infatti, una cartolina fotografica (ora conservata a Luino fra la sua corrispondenza) con il seguente stringato messaggio: «Al caro caro poeta di Frontiera e di Diario D’Algeria, in visita al poeta Luciano de Giovanni (vedi «Letteratura» n. 21-22), di cui ti ho parlato per la possibilità di un volumetto nella tua bella collana». Spedita all’«Illustre» Vittorio Sereni da Borello, la cartolina è datata «19 Ag. 1956» e presenta un panorama della stessa località dell’entroterra sanremese dove De Giovanni ebbe modo di accogliere, in quella «straordinaria domenica» <6 estiva, Betocchi e non solo: attorno alle firme del principale invitato e mittente (con «un abbraccio») e del proprietario di casa («con ossequi»), si riconoscono anche i nomi di Mima e Silvia, moglie e figlia di Betocchi, e di Maria Pia Pazielli, la proprietaria della Piccola Libreria di Bordighera che, amica di entrambi i poeti (fu proprio lei a farli incontrare all’inizio del 1956), <7 era fra i protagonisti della cultura del ponente ligure in una particolarmente vivace - e probabilmente irripetibile - stagione. <8
Il numero di «Letteratura» (maggio-agosto 1956), a cui si fa riferimento nella cartolina, ospita quattordici poesie di De Giovanni presentate da Betocchi, <9 assiduo frequentatore di Bordighera (dove morì). <10
L’autore di Realtà vince il sogno tornava spesso nella cittadella di mare per trascorrere lunghi soggiorni, per ritrovare l’intimità degli affetti (lì viveva il fratello Giuseppe) e concedersi, magari, nuove conoscenze e scoperte poetiche: letti, grazie a Pazielli, alcuni testi di De Giovanni decise d’impegnarsi per farlo emergere, forzandone la tenace introversione. <11
A partire dalla pubblicazione sulla rivista romana diretta da Alessandro Bonsanti (venuta dopo, per la verità, l’esordio vero e proprio su «Il Ponte» diretto da Pietro Calamandrei): <12 «Se non era per l’affettuosa violenza che altri gli ha fatto», scrisse Betocchi su «Letteratura», «De Giovanni non mi avrebbe forse mai fatto leggere le sue poesie; timido com’è, occorre strappargliele di mano. Ho qui, ora, il nitidissimo dattiloscritto, che spero troverà il suo editore. In provincia, certi incontri casuali, in occasioni che sono anch’essi casuali: siamo così sbadati, così poco accessibili a quanto, genuinamente, ci viene offerto».
Un editore avrebbe potuto essere, appunto, Sereni al quale, forse di persona o forse per lettera, Betocchi aveva già accennato di De Giovanni prima della cartolina dell’estate 1956 («di cui ti ho parlato per la possibilità di un volumetto nella tua bella collana»).
[...]
Già il giorno successivo Betocchi, da Firenze, avvertì De Giovanni:
"Caro De Giovanni,
ho qui una lettera di Sereni, al quale mandammo una cartolina da Borello (che lui mi ricorda) e al quale avevo parlato del suo libro. Sereni non dirige più la Meridiana, che è finita, ma avrà a che fare presto con un’altra collana. E a ogni modo avrebbe piacere di vedere intanto i suoi versi stampati su «Letteratura» che, come si sa, non è spedita in omaggio, ma è diffusa in gran parte tra gli istituti di cultura attraverso la Pubblica Istruzione. Se lei ha una copia, fra quelle <20, ancora disponibile per Sereni, La prego di spedirgliela al suo indirizzo, con a parte una sua lettera di spiegazione richiamandosi a questa mia cartolina. […] Come stanno i suoi? Come lei? Come Maria Pia? Cordiali saluti dal suo Carlo Betocchi
. " <15
De Giovanni seguì le istruzioni di Betocchi - la lettera di spiegazioni non si trova - e gli rispose due giorni dopo con riconoscenza: «La ringrazio di questo Suo continuo interessarsi di me, anche quando è tanto occupato. Ho subito scritto al Prof. Sereni al quale ho pure inviato una copia di “Letteratura”. Speriamo che le poesie gli piacciano, in ogni caso devo a Lei la possibilità di un nuovo importante contatto». <16
Intanto Betocchi aveva invitato De Giovanni a farsi avanti anche con altri poeti, soprattutto liguri, i più “vicini”, come Camillo Sbarbaro <17 e Angelo Barile.
«Conobbi Angelo Barile nel 1956, quando egli aveva già sessantotto anni ed io esattamente la metà», ricordò De Giovanni: «Betocchi, che stava per pubblicare alcune mie poesie sulla rivista “Letteratura” di Roma, mi aveva convinto a scrivergli e a “mandargli qualcosa”. […] Con affettuosa insistenza, mi spronava a uscire dal mio isolamento. Io, a quei tempi, facevo l’artigiano e il mio mestiere mi pareva così lontano dal mondo letterario da sentire quasi un senso di colpa ogni volta che prendevo la penna in mano». <18
Anche Barile, che divenne poi amico di De Giovanni, si convinse prontamente del valore della sua poesia e dell’opportunità di entrare in contatto con Sereni e chiedergli consiglio: «Lei ha fatto molto bene a mandare a Vittorio Sereni le Sue poesie», scrisse Barile a De Giovanni il 20 dicembre 1956, «Sereni è un poeta sensibile e attento (ho letto proprio in questi giorni un interessante suo saggio su Solmi); e vorrà sicuramente risponderLe. Mi dirà poi il giudizio e il consiglio che Le avrà dato». <19
Sereni era anche un direttore editoriale affaccendatissimo, come si è detto e come andava confidando ad alcuni corrispondenti; se aveva definito, in una lettera del 19 gennaio 1957 ad Attilio Bertolucci, quello che stava attraversando «il peggior periodo pirelliano (peggio, molto peggio di qualunque anno militare)», <20 nella già citata lettera a Parronchi, anticipandogli i progetti con Mantovani, chiosò: «parlane il meno possibile in giro. Altrimenti chi mi salva più dalle richieste, segnalazioni eccetera? Perdo già troppo tempo in corrispondenza, figurati se poi ci si mettono quelli che vogliono giudizi e poi li sollecitano». <21
[...]
Il giorno di Santo Stefano Betocchi, paziente intermediario, spedì all’idraulico di provincia e poeta in cui credeva una lettera che concluse con una rassicurazione: «E Lei, mio caro De Giovanni, mi scriva tutte le volte che ne ha voglia: qualche volta, se non risponderò, lei mi perdonerà: ma penserà che le sue parole saranno lo stesso nel mio cuore, e vi lavoreranno. E stia di buon animo (Sereni mi ha chiesto un po’ di tempo ancora per leggere i suoi versi) e mi voglia bene». <23
Sereni sul serio aveva bisogno di tempo, si pensi che era proprio la collaborazione con Raimondo Mantovani a poter costituire «una molto chimerica via d’uscita dalla sempre più ingarbugliata situazione pratica» in cui si era infilato:
«Possibile», chiese a se stesso il 12 gennaio 1957 e a Parronchi, «che non si possa trovare un lavoro che mi dia da vivere e sia al tempo stesso più adatto a me? pare che non sia possibile». <24
A quasi sei mesi di distanza dalla cartolina di Borello spedita con Betocchi, De Giovanni ricevette la risposta tanto attesa, contenuta nella lettera di Sereni del 10 marzo 1957 conservata a Genova nell’archivio d’autore in costituzione e qui di seguito trascritta integralmente:
"Caro amico,
mi sono fatto vergognosamente aspettare e me ne scuso. Betocchi forse potrà spiegarle bene - o almeno rendere credibili - le ragioni del mio ritardo.
Ho letto più volte le sue poesie su «Letteratura» e la ringrazio di avermele fatte conoscere.
Non ho alcun dubbio circa la sua “necessità” di scrivere versi e sono convinto che non è tempo sprecato. È poesia che non si apprezza al primo colpo, e con la quale bisogna vivere un po’ perché ne sia intesa la forza di fondo, la bella coerenza - sottile e salda insieme.
La collezione di cui saltuariamente mi occupo va alquanto a rilento e alterna titoli tradotti ad altri originali. Questo è un anno sperimentale e oggi non sono in grado di offrirle un qualunque affidamento per il futuro. È così dubbia la fortuna… commerciale di un libro di versi che ho il dovere di andare coi piedi di piombo con l’Amico editore, persona carissima ma non animata (giustamente, del resto) da spiriti mecenatizi.
Stiamo a vedere e, la prego, non si ritenga in alcun modo impegnato con me. Sta di fatto che vedrò in seguito altre cose sue volentieri.
Ancora mi scusi e creda alla simpatia e all’augurio di
Vittorio Sereni
"
[...] il 27 [scrisse Betocchi]:
"Caro De Giovanni,
la sua precedente lettera è del 16 marzo […]. Il mio tavolo è ingombro di posta arretrata, fra cui tengono il campo una ventina di fascicoli di poeti che vogliono saper qualcosa dei fatti loro. Non ce la faccio più, e pretendo di rispondere a tutti. Lei vede la calligrafia, angariata dalla fretta, ma la fretta è nemica del bene. E lei sa se io, invece, ho stima, e quale stima! della vita contemplativa.
Iddio non ce l’ha voluta concedere. Siamo stati dietro alle passioni, e ne paghiamo lo scotto.
Cerchiamo almeno di pagarlo onoratamente. Mi scusi lo sproloquio, ed entriamo in argomento.
[…] Sono contento che anche le altre sue cose vadano meglio; e contento della risposta di Sereni, ma non tanto di queste difficoltà a stampare. Ho due tre poeti come Lei che restano così, e ne provo un dolore!
" <28
«Dopo diverse esplorazioni non riuscite», <29 Betocchi riuscì a trovare la persona giusta per l’esordio poetico di De Giovanni: Bino Rebellato. Un «editore coraggioso sino all’assurdo, al quale piaceva rischiare sui nomi nuovi più che speculare sui già affermati», annotò Caproni, il 7 febbraio 1960, nel proprio Taccuino dello svagato; un editore di provincia che riuscì, «con squisita arte militare, a far di Cittadella (la città più murata d’Italia) la città più aperta alle aspirazioni, e diciamo pure agli assalti e alle invasioni, di centinaia di giovani, cui egli era sempre pronto a offrire un consiglio schietto, se non addirittura il suo aiuto, e il suo nome». <30
Già in una lettera del 16 aprile 1957 <31 Betocchi pianificò con De Giovanni come procedere con Rebellato che, alla fine di quell’anno, pubblicò Viaggio che non finisce (di cui la Piccola Libreria di Maria Pia Pazielli divenne la principale distributrice, come si legge nella fitta corrispondenza con l’editore veneto conservata nell’archivio personale del poeta ligure).
Mentre il libro era in corso di stampa, Betocchi s’occupò anche della sua capillare e mirata diffusione, elencando, in una lettera-schedario del 28 novembre 1957, più di sessanta personalità a cui De Giovanni avrebbe dovuto spedire la raccolta («Indico accanto se sono / poeti, con una P / critici, con una C / scrittori, con una S / Se è opportuno scrivere “illustre” sulla busta aggiungo una I») [...]

1 Ringrazio, per la generosa disponibilità, Silvia Sereni, Giorgio e Anna Maria De Giovanni, figli dei poeti di cui sono qui citati brani epistolari anche inediti; inoltre Maria Novaro e Maria Comerci della Fondazione Mario Novaro di Genova, per la continua fiducia e la complicità, e Simona Corbellini e Tiziana Zanetti dell’Archivio Vittorio Sereni di Luino, per l’aiuto appassionato (ancor di più in un periodo d’accesso sospeso per gli studiosi a causa delle operazioni d’inventariazione e di condizionatura dei documenti); e “infine” Franco Contorbia e Andrea Aveto. Sono venuto a conoscenza, in chiusura della presente “notarella”, che è in corso di stampa presso Mimesis il carteggio tra Sereni e Betocchi : ringrazio la curatrice Bianca Bianchi per aver accettato e animato un veloce ma proficuo scambio di informazioni, e rimando al volume (il sesto della collana « Testi italiani commentati » della casa editrice milanese) per le trascrizioni complete di due lettere di Sereni a Betocchi qui citate (22 ottobre e 18 novembre 1956).
2 Luciano De Giovanni, Viaggio che non finisce, Padova, Rebellato, 1957. La recensione di Giorgio Caproni a Viaggio che non finisce uscì su «La Fiera Letteraria» del 9 marzo 1958 (p. 3); altre sue righe su De Giovanni si rintracciano, invece, sulla terza pagina del «Corriere Mercantile» del 29 settembre 1959 (nell’articolo-rassegna De Micheli, De Bono, Ghiglione, Del Colle, De Orchi, Milani, Bonino).
3 Luciano De Giovanni, Cautamente presente, Bordighera, Managò, 1987. Nel 1991, per lo stesso editore, uscì Il bosco; queste due raccolte di versi e la precedente Viaggio che non finisce sono state ripubblicate in un cofanetto
quadruplo contente anche Caro Domenico… Conversazioni di Luciano De Giovanni con Domenico Astengo
(Ventimiglia, Philobiblon, 2001).
4 Luciano De Giovanni, Tentativo di cantare una nuvola. Poesie scelte 1948-1990, con uno scritto di Carlo Betocchi, una postfazione di Stefano Verdino e i disegni di Enzo Maiolino, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1993.
6 «Non dimentico i bei giorni in cui ho potuto starle un po’ vicino, la straordinaria domenica a Borello»: così la lettera del 4 ottobre 1956 di Luciano De Giovanni a Carlo Betocchi edita in Il muro che ci separa. Carteggio di poeti liguri, a cura di Paola Mallone, Genova, De Ferrari, 2000, p. 56.
7 Per approfondire il primo incontro e il duraturo rapporto fra i due poeti si vedano un paio di scritti di De Giovanni: Carlo Betocchi: un amico di Bordighera, «Provincia d’Imperia», xi, 54, settembre-ottobre 1992, pp. 12-13 («Io, un clandestino delle lettere a tutti gli effetti, non fosse stato per l’affettuosa opera di convincimento della Pazielli, non mi sarei mai azzardato di avvicinare un “poeta ufficiale”»); e Carlo Betocchi: fede nella carità (con una lettera inedita di Carlo Betocchi), «Il Lettore di Provincia», xxiv, 85, dicembre 1992, pp. 19-22 ; ma si sfoglino anche testimonianze occasionali come quelle contenute nelle conversazioni di De Giovanni con Astengo (Caro Domenico…, cit., in particolare pp. 20-21). Per approfondire, invece, il rapporto dei due poeti con la “libraia” si vedano Il sorriso di Maria Pia. Ricordo di Maria Pia Pazielli di Luciano De Giovanni («Provincia d’Imperia », ix, 42, settembre-ottobre 1990, pp. 23-24) e l’epistolario Betocchi-Pazielli Io son come l’erba (a cura di Paola Mallone, con uno scritto di Luigi Betocchi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2004).
8 A proposito dell’ultimo trasloco della Piccola Libreria (e dell’irripetibile stagione) si legga la Lettera da dovunque pubblicata il 7 settembre 1958 da Carlo Betocchi su «La Fiera Letteraria » (xiii, 35-36, pp. 1-2).
9 Nel fascicolo di «Letteratura» in questione (iv, 21-22, maggio-agosto 1956) la nota di Betocchi e i versi di De Giovanni si trovano alle pagine 108-114, fra le poesie e le presentazioni di Stefano D’Arrigo a cura di Giorgio Caproni (pp. 100-107) e di Alessandro Peregalli a cura di Sergio Solmi (pp. 115-119). Il testo di Betocchi è stato inserito in apertura dell’antologia di De Giovanni Tentativo di cantare una nuvola, cit., pp. 7-10.
10 Per approfondire il rapporto del poeta con Bordighera e con la Liguria, oltre ai saggi a lui dedicati e ampiamente noti, si vedano la raccolta delle sue Prose liguri (a cura di Paola Mallone, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2003) e Carlo Betocchi a Bordighera e dintorni (a cura di Luigi Betocchi, con una lettera di Mario Luzi, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1996), che raccoglie sostanzialmente note e commenti alla mostra documentaristica Carlo Betocchi: un amico di Bordighera, tenutasi nella cittadella ligure dal 25 maggio al 15 giugno 1996.
11 «[Betocchi] era, si può dire, il mio contrario», ebbe a ricordare De Giovanni, «effervescente, ottimista, aperto, disponibile. Il suo aspetto era quello di un uomo ancora giovanile, un po’ affaticato, forse, come chi ha dovuto affrontare molte battaglie e altre se ne aspetta, ma senza perdersi di coraggio. Capì subito ciò di cui avevo bisogno e mi prese, in maniera discreta, sotto la sua protezione, affascinandomi col suo fare deciso e la parlata fiorita del toscano» (Caro Domenico…, cit., p. 20).
12 De Giovanni aveva, infatti, già pubblicato alcuni versi su altre riviste: una dozzina di Liriche su «Il Ponte» di Firenze, prima sette (vii, 2, febbraio 1951, pp. 173-174) e poi cinque (vii, 7, luglio 1951, pp. 762-763), grazie
all’interessamento di Giovanni Ermiglia, professore di filosofia di Sanremo; una poesia (proprio quella che contiene il verso che diede il titolo a Viaggio che non finisce), con una foto del poeta e una nota a cura di Francesca Sanvitale, apparve sempre a Firenze ma sul «Giornale del Mattino» del 21 giugno 1956.
15 Il muro che ci separa, cit., p. 57.
16 Ivi, p. 58.
17 Si veda Luciano De Giovanni, Il mio incontro con Camillo Sbarbaro « Il Lettore di Provincia », xxi, 74, gennaio-aprile 1989, pp. 3-7 e, per un ulteriore approfondimento, Alessandro Ferraro, «Aprii, cauto, la porta». L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, « La Riviera Ligure », xxviii, 84, settembre-dicembre 2017, pp. 59-71.
18 Luciano De Giovanni, La poesia di Angelo Barile attraverso le sue lettere, «Bollettino della Comunità di Villaregia», i, 1, 1990, pp. 64-72 (65). 19 Il muro che ci separa, cit., p. 133.
20 Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, a cura di Gabriella Palli Baroni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1994, p. 213. Il dubbio che si tratti di una lettera del 19 gennaio 1957 e non 1956, come indicato nel carteggio - è quasi prassi, nei primi giorni di gennaio, confondersi e indicare il nuovo anno con il vecchio -, sorge per la collocazione nel carteggio della lettera fra quella del settembre 1956 e quella del 21 febbraio 1958 e per il riferimento nel testo all’imminente uscita (avvenuta nel 1957) delle Poesie scelte di Goethe tradotte da Giorgio Orelli per la «Collezione di Poesia».
21 Un tacito mistero, cit., p. 279.
22 Betocchi fece riferimento a una lettera del 18 novembre di Sereni, in cui si legge: «Ho ricevuto i versi di De Giovanni. Spero che non avrà fretta e che potrò trovare il tempo di leggerli nel modo giusto e di scrivergli»; si rimanda al carteggio Sereni-Betocchi in corso di stampa (cfr. nota 1).
23 Il muro che ci separa, cit., p. 60.
24 Un tacito mistero, cit., p. 287.
29 Sono parole di De Giovanni che, in una conversazione con Astengo, raccontò l’incontro con Betocchi e i suoi tentativi di trovare un editore per Viaggio che non finisce (cfr. Caro Domenico…, cit., p. 20).
30 Giorgio Caproni, Visita a Cittadella [rubrica Taccuino dello svagato], « La Fiera letteraria », xv, 6, 7 febbraio 1960, p. 3; ora in Id., Taccuino dello svagato, a cura di Alessandro Ferraro, Firenze, Passigli, 2018, pp. 186-189.
31 Il muro che ci separa, cit., p. 73. 32 Il muro che ci separa, cit., pp. 86-87.

Alessandro Ferraro, «Almeno il suo giudizio». L’esordio poetico di Luciano De Giovanni nello scambio epistolare con Carlo Betocchi e Vittorio Sereni, «Quaderni del '900», XVIII, 2018
 
 
[1049] Viaggio che non finisce, «La Fiera Letteraria», 9 marzo 1958, p. 3 [Recensione a Luciano De Giovanni, Viaggio che non finisce, Padova, Rebellato, 1957]
(a cura di) Michela Baldini, Giorgio Caproni. Bibliografia delle opere e della critica (1933-2020), con la collaborazione di Chiara Favati, MODERNA/COMPARATA 36, FIRENZE UNIVERSITY PRESS, 2021