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venerdì 31 marzo 2023

Sulla genesi del progetto di "2001: Odissea nello spazio"


Nel 1957, Alexander Walker intervista Kubrick nell'appartamento di New York in occasione dell'uscita di "Orizzonti di gloria". In quel momento arriva una consegna di film da visionare. Il critico nota che si tratta di un gruppo di film di fantascienza giapponesi <1. Sette anni dopo, durante un pranzo al Trader Vic's con Roger Caras della Columbia Pictures, Kubrick dichiara la sua intenzione di fare un film sugli extraterrestri. In questo momento il regista non ha ancora uno sceneggiatore ma sta leggendo tutti i principali scrittori di fantascienza. Il 1964 è l'anno di svolta nella carriera artistica e nella vita privata del regista. Anche il suo aspetto esteriore inizia a mutare: in un profilo pubblicato sul «New Yorker», il fisico e giornalista Jeremy Bernstein descrive un Kubrick dall'aspetto bohémien di un baro da crociera o di un poeta rumeno <2. Kubrick e Arthur C. Clarke si incontrano il 23 aprile <3, giorno di apertura della Fiera mondiale di New York, del 1964. Clarke propone al regista "La sentinella" <4, un racconto che aveva scritto per un concorso della Bbc durante le vacanze di Natale del 1948. Kubrick opta per un modo non convenzionale di stendere una sceneggiatura da lui concepita “la forma di scrittura meno comunicativa mai concepita”. Una stesura su carta era indispensabile dal momento che la Mgm si dimostrò interessata al progetto. Il regista propone a Clarke di scrivere insieme un romanzo da cui trarre un copione. La stesura del progetto avviene nella suite 1008 del Chelsea Hotel, al centro di Manhattan, dove lo scrittore prende residenza. Il problema della raffigurazione degli extraterrestri è imminente. Clarke suggerisce a Kubrick di parlare con il giovane scienziato Carl Sagan, astrofisico allo Smithsonian Astrophysical Observatory di Cambridge nel Massacchusetts. Sagan fu invitato da Kubrick a una cena-colloquio nel suo attico; la conversazione fu centrata su quale poteva essere l'aspetto delle creature extraterrestri. Secondo Kubrick la creatura doveva avere sembianze umane, Clarke era contrario. Sagan sconsiglia vivamente qualsiasi tentativo di raffigurare gli alieni. Martedì 23 febbraio 1965 la Mgm, dai suoi uffici al 1540 di Broadway a New York, diffonde un comunicato stampa che annuncia l'intenzione di produrre con Kubrick "Journey Beyond the Stars", un titolo di lavorazione usato per vendere l'idea. Il progetto sarebbe stato realizzato a colori e in Cinerama. Gli interni sarebbero stati girati negli studi Mgm di Londra. Nell'aprile 1965 Tony Masters si trasferisce da New York all'Inghilterra e viene assunto come scenografo. Nella primavera dello stesso anno Kubrick trasferisce la sua unità produttiva presso gli studi Mgm a Boreham Wood, ventiquattro chilometri a nord di Londra. Stanley e Christiane traslocano con tutta la famiglia in un grande appartamento al Dorchester Hotel di Londra. Come era avvenuto per "Lolita" e "Il dottor Stranamore", Kubrick sceglie l'Inghilterra. Grande attenzione è riservata al reparto dei giovani modellisti che, guidati da Wally Veevers - supervisore degli effetti speciali - si occupavano della creazione delle astronavi e dei pianeti. La produzione impiegava centotre modellisti con competenze diverse: Kubrick aveva convocato costruttori di barche, studenti di architettura, disegnatori, scultori, litografi, metallurgici e perfino alcuni intagliatori di avorio appena sbarcati da una baleniera. Ognuno era assunto con brevi contratti a termine e il ricambio era frequente. Per la documentazione Kubrick visiona film sullo spazio prodotti in tutto il mondo, programmi televisivi, cortometraggi, documentari, film realizzati per la Fiera Mondiale, film sperimentali. In questo modo viene scoperto "Universe", un cortometraggio prodotto nel 1960 dal National Film Board of Canada <5 che dimostrava al regista come una macchina da presa poteva diventare un telescopio puntato sui cieli. "Universe" era una produzione della Unit B del Canadian Film Board. Colin Low e Roman Kroitor, da sempre affascinati dalla cosmologia, creano questo progetto, nato cinque anni prima dello Sputnik, come proposta per un film scolastico <6. Kubrick non riesce ad assicurarsi l'intera squadra che aveva creato le immagini per il film - Colin Low, Sidney Goldsmith e Wally Gentleman - ma riesce ad avere quest'ultimo per parecchie settimane di lavoro preliminare salvo dare le dimissioni per motivi di salute. I collaboratori responsabili per gli effetti speciali di "2001" sono stati: Wally Veevers, Douglas Trumbull <ll7, Con Pederson e Tom Howard. È importante ricordare alcune date che segnano le tappe fondamentali per l'evoluzione iconografica del progetto. Il 28 maggio 1964 Clarke suggerisce a Kubrick l'idea che “they” - gli extraterrestri - potrebbero essere macchine che considerano la vita organica come una malattia orribile <8. Stanley accetta favorevolmente l'idea e la considera la base per ulteriori sviluppi narrativi. Il rapporto macchine/esseri organici sembra trovare proprio qui l'origine dell'interesse che Kubrick svilupperà pienamente con il progetto per "A.I.". Tre giorni dopo Clarke annota un'idea, di cui non è specificata la paternità, che poi viene scartata: diciassette alieni - piramidi nere - guidano auto cabrio lungo la Fifth Avenue circondati da poliziotti irlandesi. Questa densa iconografia rimanda a tre elementi importanti: la scorribanda in auto, New York e i poliziotti irlandesi. In "Arancia meccanica" e in "A.I." si ripresenta l'immagine di folli corse in automobile (e in motocicletta per i bikers di A.I.). La Fifth Avenue è un esplicito richiamo a New York, città amata dal regista e scelta come set per "Il bacio dell’assassino", "Eyes Wide Shut" e "A.I." l'avere specificato “poliziotti irlandesi” è un possibile riferimento alla New York degli anni 1945-1950 e al servizio fotografico scattato per la rivista «Look» del 27 settembre 1949 intitolato “Paddy Wagon”. “Paddy” è un soprannome irlandese che trae origine dal gaelico Pádraic, o Partick. Dato che la maggior parte dei poliziotti di New York aveva origini irlandesi, lo stesso nome, in modo un po' sprezzante, era stato utilizzato per etichettare il cellulare, il mezzo adibito al trasporto degli arrestati. Il 6 agosto Stanley decide che il computer sarà un femmina e porterà il nome di Athena. Il 17 ottobre Stanley ha la bizzarra idea - secondo Clarke - di “slightly fag robots” che creano un'ambiente vittoriano per mettere i protagonisti della storia a loro agio. Per il giorno di Natale del 1964 il romanzo era quasi terminato. In realtà è più opportuno parlare di una bozza che copriva i due terzi dell'intero sviluppo narrativo e che terminava proprio nel punto di massima suspense: Bowman alle soglie dello Star Gate senza sapere cosa sarebbe accaduto dopo se non in termini estremamente generali. L'8 marzo Clarke annota nel suo diario: "Fighting hard to stop Stan from bringing Dr. Poole back from the dead. I'm afraid his obsession with immortality has overcome his artistic instincts" <9. La dichiarazione di Clarke conferma che gli interessi di Kubrick circa il rapporto esseri umani/computer, mortalità e immortalità hanno origine in questi anni dedicati a letture e studi di scienza, astronomia, antropologia e fantascienza. Il 2 maggio Clarke termina il capitolo intitolato “Universe” per il quale il regista gli comunica approvazione in special modo per la sequenza “Floating Island”. Si noti come “Universe” sia un termine ricorrente nella fase di pre-produzione del progetto. L'influenza del film canadese è rintracciabile anche tra gli altri titoli pensati in alternativa a quello comunicato dalla stampa <10: "Universe", "Tunnel to the Stars" e "Planetfall" <11. Un'altra “Floating Island” molto amata dal regista compare nei disegni di Chris Baker per "A.I.", in specifico per il progetto dell'istituto di cariogenesi. Nel settembre 1965 Kubrick decide che la missione della Discovery non doveva andare su Giove ma su Saturno per sfruttare le possibilità visive degli anelli del pianeta. I tre mesi di preparazione per il progetto su Giove sembrano tempo e denaro sprecato ma presto il regista indirizza nuovamente la Discovery verso Giove insoddisfatto della resa su pellicola degli effetti speciali per la visualizzazione degli anelli. Clarke decide, il 25 agosto 1965, che il romanzo deve terminare con Bowman in piedi accanto a un'astronave aliena ma Kubrick non è soddisfatto. Solo in ottobre Stanley si concentra sul problema del finale. Il 3 ottobre Clarke, al telefono con Kubrick, gli propone Bowman che regredisce all'infanzia: “Lo vedremo come un bambino in orbita” <12. Il 15 ottobre Stanley decide di liberarsi di tutto l'equipaggio ad eccezione di Bowman <13. Il 18 novembre Clarke si reca al cinema a Londra e annota poche righe che, nella loro essenzialità, danno una spiegazione all'intero progetto: "Feeling rather stale - went into London and saw Carol Reed's film about Michelangelo,'The Agony and the Ecstasy'. One line particularly struck me - the use of the phrase: “God made Man in His own image”. This, after all, is the theme of our movie" <14.
Il 26 dicembre 1965 Kubrick dichiara di non amare il dialogo, trova il copione verboso e vuole che "2001" si basi più su immagini e suono che sulle parole. Il canadese Douglas Rain, già voce narrante di "Universe", era stato preso per la narrazione prevista dalla prima versione del copione, quella che Kubrick aveva chiesto a Clarke di scrivere per la sequenza che apriva il film, “l'alba dell'uomo”. Il testo viene poi eliminato e l'attore ha il compito di dare voce ad Hal. L'animazione dei modellini, affidata alla supervisione di Harry Lange che traduceva i suoi disegni in prototipi, e la sua visualizzazione su pellicola sono assimilabili alla metodologia artistica dell'artista americano contemporaneo Bill Viola. Per ottenere la giusta profondità di campo, in modo da creare l'illusione di un'astronave a grandezza naturale, il diaframma dell'obiettivo doveva essere aperto al massimo; affinchè le parti mobili dei modellini si muovessero in modo fluido, i motori che guidavano i meccanismi erano regolati al minimo, in modo che il movimento creato fotogramma per fotogramma fosse impercettibile. Kubrick racconta a Herb Lightman di «American Cinematographer»:
"Era come guardare la lancetta delle ore di un orologio. Abbiamo girato la maggior parte di queste scene usando esposizioni lente di quattro secondi a fotogramma, e se stavi sul set non vedevi nulla in movimento. Anche la gigantesca stazione spaziale, che sullo schermo ruotava a una discreta velocità, sembrava immobile durante le riprese delle scene. Per alcune inquadrature, come quelle in cui sulle astronavi si aprivano o chiudevano delle porte, un movimento di dieci centimetri richiedeva cinque ore di riprese. Non era possibile notare un movimento irregolare, se c'era qualche irregolarità, fino a quando non si vedeva la scena sullo schermo, e anche gli ingegneri non potevano mai essere sicuri circa il punto esatto dove l'irregolarità si fosse prodotta. Questo tipo di cosa implicava infiniti tentativi ed errori, ma i risultati finali sono un tributo alla grande precisione dell'officina meccanica della Mgm inglese" <15.
Il Natale del 1965 viene ricordato da Clarke come un periodo di intenso lavoro. L'immenso set del TMA1, contenente il monolito trovato sulla Luna, è stato allestito negli Shepperton Studios a sud-est di Londra. Stanley aveva solo pochi giorni per girare dato che la prima settimana del nuovo anno un'altra produzione avrebbe occupato lo studio. Il monolito occupa molte righe nei ricordi di Clarke per la difficoltà nella sua concezione, per la costruzione e l'adeguata illuminazione e tecnica fotografica: "My diary records that first day in some detail: December 29, 1965. The TMA 1 set is huge - the stage is the second largest in Europe, and very impressive. A 150 x 50 20-foot hole, with equipment scattered around it. ( E.g. neat little electric-powered excavators, bulldozers, etc. which could really work on the Moon!). About a hundred technicians were milling around. I spent some time with Stanley, reworking the script - in fact we continued through lunch together. I also met the actors, and felt quite the proper expert when they started asking me astronomical questions. I stayed until 4 p.m. - no actual shooting by then, but they were getting near it. The spacesuits, back packs, etc. are beautifully done, and TMA 1 is quite impressive - though someone had smeared the black finish and Stanley went on a rampage when I pointed it out to him".
[NOTE]
1 Vincent Lo Brutto, Stanley Kubrick. L’uomo dietro la leggenda, Il Castoro, Milano, 2009, p. 268.
2 Ivi, p. 270.
3 Si incontrano al Trader Vic's, popolare bar del Plaza Hotel.
4 Il racconto non vince premi. Scott Meredith lo vende alla rivista «Ten Story Fantasy» che lo pubblica nel 1951 con il titolo originale Sentinel of Eternity.
5 “È risaputo che Kubrick conosceva la produzione dell'ONF e dopo avere visto Very Nice, Very Nice, aveva chiesto a Arthur Lipsett di realizzare il cartellone pubblicitario de Il dottor Stranamore. Meno noto invece, il fatto che il regista avesse intravisto la possibilità di realizzare il suo capolavoro negli studi dell'Office a Saint-Laurent. In un'intervista rilasciata a Marc Glassman e Wyndham Wise, pubblicata la scorsa primavera sulla rivista «Take One», Colin Low, figura storica dell'ONF, racconta del suo incontro con Kubrick a New York. Aveva visto Universe, il celebre documentario sul sistema solare realizzato da Low e Roman Kroitor. Kubrick rimane impressionato dagli effetti speciali realizzati nel cortometraggio e vuole saperne di più in previsione del progetto che stava portando avanti con Clarke. Kubrick dichiara a Low: "Non ho intenzione di fare questo film a Hollywood. Potrei farlo in Inghilterra ma non è ciò che desidero davvero. Cosa ne pensate dell'idea di produrlo all'ONF?" Low risponde che l'ONF non aveva mai portato avanti progetti di quel calibro ma che si sarebbe potuto fare. Tornato a Montreal, Colin Low cerca di convincere Grant McLean, l'allora direttore di produzione, ad accettare la sfida. McLean raffredda gli entusiasmi di Low:"il lungometraggio di fiction non è di nostra competenza. Inoltre costerà un occhio della testa". Kubrick ingaggia Wally Gentleman, uno degli specialisti di effetti speciali dell'ONF e tenta di coinvolgere Sydney Goldsmith che preferisce rimanere a Montreal. Il resto è storia”, traduzione dal francese, Marcel Jean, ‘2001: A Space Odyssey’ aurait pu être un film de l’ONF, «24 images», n.100, inverno 2000, p. 43.
6 Si noti ancora una volta come Kubrick tragga ispirazione da forme artistiche che creano progetti specifici per la didattica: per il Napoleon è stata analizzata a fondo l'opera di “Job” e i suoi rapporti con i programmi educativi della scuola nella prima metà del Novecento.
7 Il membro più giovane del gruppo, Douglas Trumbull era un americano di ventitré anni. La sua formazione di architetto si arresta quando la Graphic Films Corporation di Hollywood vede il suo portfolio di illustrazioni spaziali e lo assume a capo del settore sfondi. Dopo Lifeline in Space per la Usaf e Space in Perspective per la Nasa, Kubrick scopre il suo nome nei titoli di To the Moon and Beyond, un film in Cinerama 360 prodotto per la Fiera Mondiale del 1964 e attraverso la Graphic Films gli commissiona alcuni disegni di sfondo; Kubrick gli assegna il compito di risolvere alcune delle principali difficoltà di 2001, inclusa la sequenza della Porta delle Stelle che conclude il film.
8 Arthur C. Clarke, The Lost Words of 2001, Sidgwick and Jackson Limited, London, 1972, p. 32.
9 Arthur C. Clarke, The Lost Words of 2001, op. cit., p. 36.
10 Journey Beyond the Stars.
11 Arthur C. Clarke, op. cit., p. 32.
12 Vincent Lo Brutto, op. cit., p.287. Kubrick a Jerome Agel: “Il finale fu alterato poco prima di girare. Nell'originale non c'era la trasformazione di Bowmann. Egli si limitava a girare per la stanza e alla fine vedeva l'oggetto. Ma non ci sembrava una soluzione abbastanza soddisfacente o interessante, e continuammo a cercare nuove idee, finchè ci venne in mente il finale che conoscete”.
13 Douglas Trumbull dichiara che la paternità dell'idea è sua: “[…] At an early stage, all the astronauts were to make it to the room in the penultimate scene. I told Stanley to kill all except Bowman, and he told me I was ridiculously stupid”, Stephanie Schwam (selected by), The Making of 2001: A Space Odyssey, Modern Library, 2000, p. 134.
14 Arthur C. Clarke, op. cit., p. 39.
15 Vincent Lo Brutto, op. cit., p. 292. 

Laura Matiz, Stanley Kubrick e le Arti visive. Da 2001: Odissea nello spazio a Eyes Wide Shut, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Ferrara, 2009

venerdì 3 marzo 2023

La De Giorgi, rievocando il suo rapporto con Calvino, dedica un intero capitolo al loro usuale ritrovo a Caponero

Ospedaletti (IM): il mare davanti a Capo Nero

Negli anni dal 1954 al 1956 per incarico dell’editore Einaudi Calvino si dedicò ad un importante studio filologico: raccolse e riscrisse le Fiabe italiane, servendosi del lavoro di Cocchiara e di Pitré, i due insigni studiosi di tradizioni popolari italiane. Mancava in Italia una raccolta tanto minuziosa ed esauriente del patrimonio popolare fiabesco quale esisteva in altri paesi, per esempio in Germania, già da centocinquant’anni.
Questi furono anche gli anni della relazione sentimentale con l’attrice Elsa de' Giorgi (dal 1955 al 1958), di cui si conserva un importante epistolario. Maria Corti, che conosce quelle lettere per averle ricevute in consegna dalla stessa de’ Giorgi, lo presenta:
"L’epistolario, giacente dal novembre 1994 nel Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia, consta di 297 lettere di Calvino alla De Giorgi, tutte di rilevante lunghezza, delle quali 144 (dal giugno del ’55 alla fine estate del ’58) sono state sigillate, in base alle disposizioni dei Beni Culturali sugli epistolari, per 25 anni, periodo per il quale non sono quindi consultabili né descrivibili, dato il carattere privato delle missive. Postillerei solo che si tratta forse dell’epistolario più bello, così lirico e drammatico insieme, del Novecento italiano". (CORTI, M., 1998: 301)
Annalisa Piubello, Calvino racconta Calvino: l'autobiografismo nella narrativa realistica del primo periodo, Tesi di dottorato, Universidad Complutense de Madrid, 2016
 
Nell'opera "Gli amori difficili" sono presenti anche dei racconti che implicitamente contengono dei riferimenti autobiografici alla vita dello stesso Calvino e in particolare alla sua relazione amorosa con l'attrice Elsa de' Giorgi <113, come "L'avventura di un viaggiatore" e "L'avventura di un poeta". Il primo dei due testi ha come protagonista Federico, un uomo che abitualmente compie lunghi viaggi in treno durante la notte per raggiungere Roma, dove vive la fidanzata Cinzia
[...] Paradossalmente, quando nel finale del racconto il protagonista arriva a Roma e incontra Cinzia, viene travolto da insicurezze e paure che oscurano il senso di pienezza provato durante il viaggio e che gli impediscono di spiegare all'amata perché preferisce la notte trascorsa sul treno circondato da oggetti simbolici e familiari ai giorni frenetici e caotici vissuti con la donna reale; ancora una volta l'uomo è quindi incapace di spiegare il suo appagamento e la totalità del suo desiderio poiché esso rappresenta un'esperienza ineffabile, una visione intima e personale dell'amore.
[...] Anche nel testo "L'avventura di un poeta" è presente l'elemento autobiografico, poiché il viaggio in barca del protagonista Usnelli insieme all'amata Delia richiama le ore estive trascorse da Calvino e da Elsa de' Giorgi «in her small boat swimming and exploring the Ligurian coast» <118, e la figura del poeta sembra in un certo senso rappresentare l'alter ego dell'autore. Il nucleo centrale del racconto consiste nella lotta insanabile tra l'ineffabile esperienza amorosa e la volontà di esprimerla attraverso il linguaggio <119. Il protagonista e la donna amata stanno infatti esplorando una piccola isola a bordo di una barca, ma, nonostante entrambi stiano osservando lo stesso paesaggio, le loro reazioni e le modalità di esprimere lo stupore che provano sono nettamente differenti. Mentre Delia dà voce a tutto il suo entusiasmo urlando di gioia e recitando poesie, Usnelli non riesce a pronunciare nemmeno una parola perché sente che il linguaggio sarebbe completamente inadeguato davanti allo splendore della natura e potrebbe violare il senso di meraviglia che il protagonista prova dentro di sé; lui infatti si rende conto che nella sua attività di poeta non ha mai dedicato nemmeno un verso alla felicità, allo stupore, all'amore, a quelle esperienze umane positive che vanno al di là del mondo delle parole e che risultano inesprimibili.
[...] Il legame tra l'autobiografia dello scrittore e i personaggi del romanzo è ben visibile se si osserva la protagonista femminile dell'opera e la sua connessione con Elsa De' Giorgi, la donna che ha rappresentato per lo scrittore il vero amore e che «sopravvive nella Viola del 'Barone rampante', nella Claudia della 'Nuvola di smog', nei personaggi femminili della serie di racconti 'Gli amori difficili'» <130. L'attrice italiana presenta infatti dei tratti in comune con varie figure femminili della narrativa calviniana, ma essi diventano evidenti e più espliciti nel caso di Viola, perché l'amore tra lei e Cosimo richiama fortemente la relazione tra Elsa De' Giorgi e Calvino.
[...] Le somiglianze tra Elsa e Viola sono numerose: le due donne sono bionde, voluttuose, civettuole e desiderano vivere in modo agiato e confortevole; entrambe inoltre suscitano nel compagno un sentimento di rabbia e di gelosia molto forte a causa del loro modo di fare quando sono in compagnia di altri uomini. Al di là dei singoli elementi di correlazione tra le due figure <132, ciò che più è interessante constatare è il fatto che il riferimento fortemente autobiografico nella costruzione del personaggio femminile dimostra la centralità della donna nell'opera e la sua complessità, frutto appunto di numerosi elementi combinati tra loro, tra i quali quelli ricavati dalla vita privata dell'autore e dalla sua relazione con l'amata.
[NOTE]
113 Per un approfondimento della relazione amorosa tra Elsa de' Giorgi e Italo Calvino e dei riferimenti autobiografici connessi a questo rapporto nelle opere dello scrittore si rimanda a E. DE' GIORGI, Ho visto partire il tuo treno, Milano, Leonardo, 1992, e al saggio M. CORTI, Un eccezionale epistolario d'amore di Italo Calvino, contenuto in G. BERTONE (a cura di), Italo Calvino. A writer for the next millennium, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1988.
118 B. TOMPKINS, Calvino and the Pygmalion Paradigm, cit., p. 67.
119 Per approfondire il concetto calviniano della lotta tra l'esperienza amorosa umana e la sua espressione si rimanda a I. CALVINO, Otto domande sull'erotismo, «Nuovi Argomenti», n. 51-52, luglio-ottobre 1961.
130 D. SCARPA, Italo Calvino, Milano, Mondadori, 1999, p. 20.
132 Per un maggiore approfondimento dei tratti di somiglianza tra Elsa e Viola si rinvia a E. DE' GIORGI, Ho visto partire il tuo treno, cit., e al saggio M. CORTI, Un eccezionale epistolario d'amore di Italo Calvino, cit.
Giulia Zanocco, I personaggi femminili nella narrativa di Italo Calvino: stereotipizzazione e complessità, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2019-2020

Ospedaletti (IM): pini a Capo Nero

Le vicende biografiche che legano Calvino all'America latina sono note: la nascita a Santiago de Las Vegas, il matrimonio con la traduttrice argentina Esther Singer, i viaggi a Cuba (1964), in Messico (1964 e 1976) e in Argentina (1984). Calvino rientra in Italia a tre anni, ma ricorda come nel pastiche linguistico del padre entrasse anche la lingua di paesi presso cui questi lavorò tra il 1909 e il 1925. [6]
[6] Cfr. la lettera ad Elsa de' Giorgi del 6/1/1958, allorché Calvino descrive il proprio rapporto con la lingua scientifica usata dalla madre ed il pastiche linguistico del padre; l'occasione è una riflessione sul lessico botanico, avvertito da Calvino come impoetico. "Questo principio che non potevo naturalmente giustificarmi mi si configurava - di fronte al culto di mia madre per l'esattezza della terminologia - come una colpa, in modo tanto grave da vietarmi di distinguere - cioè di avere il bisogno di dar loro un nome - le piante, di considerarle nella loro specifica diversità. Quindi per farmi imparare la botanica avrei avuto bisogno di un precisissimo raffinamento e decadentismo letterario in modo d'apprezzare il pastiche polilinguistico, e trovare ad esempio una contraddittoria coerenza nel linguaggio di mio padre, misto di termini scientifici, dialettali, spagnoli, italiani, inglesi, in cui tutto diventava riconoscimento d'una rigorosa unità stilistica; ad apprezzare il pastiche fatico molto di più. Quindi posso dire che non ho mai imparato la botanica per la stessa ragione per cui mi riesce difficile apprezzare C.E. Gadda". Qui citato da M. CORTI , Un eccezionale epistolario d'amore di Italo Calvino, in Italo Calvino, a writer for the next millennium, a cura di G. Bertone, Edizioni dell'Orso, Alessandria, 1998, p. 305
Luigi Marfè, Il sapore del Messico e altre cose. Italo Calvino e le letterature iberiche, Artifara, 5, 2005     

Ospedaletti (IM): scogli a Capo Nero

Tuttavia c'è anche il Calvino "lirico": nessuna delle trecento lettere che lui scrisse all'attrice Elsa De Giorgi durante la loro intensa relazione negli anni '50 si può trovare in questa collezione.
[...] In un periodo storico intellettualmente importantissimo come quello del secondo dopoguerra, Calvino era il Calvino de "Il Midollo del leone", il Calvino dirigente dell'Einaudi e quello che abbandonò il Pci; era il Calvino delle "Fiabe italiane" che hanno consolidato l'immagine di un Calvino "favolista"; il Calvino del "Barone rampante" e della "Speculazione edilizia"; il Calvino della "Nuvola di Smog" e del "Cavaliere inesistente". Quindi, forse, è in queste lettere che si potrà rintracciare il Calvino più autentico e vulnerabile che ad Elsa De Giorgi ha dedicato i libri più belli, liberi, liberatori che abbia scritto, quelli che ben giustificano la sua fama e il suo valore.
Calvino aveva sempre considerato l'amore come cosa secondaria ed accessoria, non certamente essenziale per la vita completa di un poeta, aveva sempre pensato che altro non fosse che un elemento esistenziale vissuto nell'ambito della nostalgia e del desiderio. Dopo l'incontro amoroso con la De Giorgi egli prende coscienza di qualcosa di nuovo: l'amore arricchisce la vita e aumenta la sete di essa. Si vedrà dunque, nei capitoli successivi, come molte osservazioni importanti per comprendere l'opera calviniana siano disseminate nelle epistole amorose, ma si constaterà anche quanto queste analisi risultino solo un assaggio di quello che in realtà è tenuto ingiustamente nascosto da leggi che impediscono la conoscenza di elementi preziosi alla comprensione di uno scrittore come Calvino e al sommuoversi del suo linguaggio. Man mano che Calvino si convince della portata di questa nuova visione, lascia spazio ad un Calvino nuovo, ottimista, il più adorabile forse, il Calvino del gioco, dell'umorismo sapiente ed innocente, quello che secondo la De Giorgi scriveva disegnando avvenimenti e stati d'animo, con una grazia di cui è un delitto non poter portare a conoscenza i lettori.
Il fatto che la sua opera sembri sortita, per molti critici, dalla naturalezza di uno scrittore sapiente, destinato ad esserlo senza l'assillo di una propria storia umana, secondo la De Giorgi a Calvino non sarebbe piaciuto per niente. Quindi, contro l'immagine più nota dello scrittore timido, sognante, appartato e capace di un grande rigore intellettuale, appare un Calvino passionale, umorale ed irrequieto.
'Quello che è avvenuto dopo la morte di Calvino, l'inconcludenza con la quale si è girato intorno alla sua opera, rispecchia una crisi intellettuale generazionale, giunta al suo culmine, non certo per rovelli stilistici ai quali, per la verità, con Garboli solo Citati pose attenzione in uno degli articoli scritti a caldo dopo la sua morte, (…) ma per la sbrigatività con la quale si liquidò Calvino monumentalizzandolo perentoriamente in quella classicità di gesso che era precisamente l'opposto di ogni sua vocazione e problematicità. Eppure è forse in quella crisi, rivelata dal disorientamento dei suoi critici postumi presi in contropiede dalla sua morte, che va indagato Calvino.' <7
Nei capitoli seguenti ho cercato quindi di studiare il carteggio attraverso quello che è stato possibile recuperare delle trecento lettere di cui è composto, di cui circa la metà è stata posta sotto sigillo. Ho cercato di raggruppare la maggior estensione possibile dei brani trovati, attraverso la collazione e l'unione degli stralci recuperati in primo luogo da "Ho visto partire il tuo treno" (il libro che scrisse la De Giorgi sulla relazione con Calvino in cui cita le lettere dello scrittore), che ha costituito la fonte primaria del reperimento. Un'altra fonte sono stati gli articoli di giornale presenti nell'archivio dei quotidiani, che a partire dal 1956 vennero scritti sul caso Calvino-De Giorgi, un'altra ancora dai saggi di Maria Corti e di Martin McLaughlin; infine è risultato un materiale fondamentale, per la buona estensione dei brani delle lettere, quello che è rimasto in rete dopo la pubblicazione delle lettere su 'Epoca', avvenuta per volere della De Giorgi e poi bloccata dalla vedova Calvino. Si tratta di un lavoro di sistemazione e assemblaggio di tutto quello che è stato detto e scritto sul caso Calvino-De Giorgi negli interventi sui periodici, nella cronaca mondana dei quotidiani e nei saggi critici, al fine di dare un'idea di come andarono le cose, sviluppando gli aspetti importanti dove è stato possibile farlo e preparando così il materiale per quando le lettere potranno essere finalmente lette e studiate.
[...] La De Giorgi, rievocando il suo rapporto con Calvino, dedica un intero capitolo al loro usuale ritrovo a Caponero, località tra Ospedaletti e Sanremo, e all'impatto esplosivo che ebbe il loro incontro. Se per lei - che era sposatissima - fu un processo più lento e solo col tempo incominciò a ricambiare l'amore, per Calvino fu un coinvolgimento immediato "Sono con te, tutto il resto mi è estraneo e indifferente" e, come un fuoco che divampa, ha invaso ogni aspetto della sua vita "(…) e soprattutto l'amore, un amore grande come tutte le ragioni dell'intelletto e della vitalità che è in noi". <80
Tutto il discorso amoroso calviniano ha ora i suoi termini specifici che prevedono un registro nuovo rispetto a quello usato solitamente dall'autore. Lo scrittore si pone sotto una nuova luce in quanto uomo: si descrive e viene descritto come un essere bicefalo che non può raggiungere la sua completezza se non accompagnato dalla figura di una donna che finisce per risultare l'unico elemento indispensabile alla felicità. La De Giorgi scrive: 'Per Calvino la convinzione di sentirsi ancora radicato quale parte intelligente a un creato dove l'amore - come lo aveva scoperto - poteva nei suoi imprevedibili impulsi respingerlo o accoglierlo nelle supreme armonie':
Il nostro amore scorre ancora accidentato e tutto rapide e anse come un torrente, e forse è in questa sua natura, nella natura accidentata e sassosa del terreno che attraversa la sua vera natura, la prova vera della sua forza: ma è di quei torrenti che si sa che diventeranno fiumi che traverseranno pianure e regioni che nutriranno mari.'
[HPT ('Ho visto partire il tuo treno) pag.33]
"Come abbiamo saputo in mezzo a tutto questo costruire la nostra felicità, a fili, a festuche, come due uccelli che si costruiscono il nido in mezzo ai fili dell'alta tensione (…) come hai saputo sempre combattere la mia tendenza a lasciarmi andare giù per il versante grigio della vita, come mi hai sempre insegnato a tenermi con la faccia al sole (…) il dato di natura della tua bellezza è solo uno strumento" <81
[posteriore al settembre 1955]
Varie sono le considerazioni di Calvino sul tempo, sul suo umore, sugli stati d'animo, sulle impressioni e sul luogo in cui si trova: a Sanremo, a Torino, a Roma, "Sono triste", "oggi sono rattristato", "ho un rimorso", "era una giornata triste ieri", "sono contento"; "sono tornato da Milano"; "sono a Sanremo". L'intento della De Giorgi, dunque, è quello di non rinviare l'annotazione dei ricordi prima che le immagini custodite in essi di un Italo Calvino singolare, spariscano. Urge impellente la necessità di recuperare un tempo non perduto, ma vissuto in una storia che non è esclusivamente d'amore. La De Giorgi cerca di compendiare fatti e cose che sembrano avvilupparsi al sembrano avvilupparsi al
racconto quasi conclusivamente, prima di averle affidate alla confidenza di una ragionevole stesura.
[...] Come si è già accennato precedentemente, la relazione segreta veniva messa a dura prova anche dai pettegolezzi e da imprevisti come il caso de 'L'Espresso'. Le "Fiabe italiane", alle quali Calvino aveva iniziato a lavorare nel 1954, escono il 12 novembre del 1956 da Einaudi (gran parte di quest'anno lo dobbiamo dunque considerare occupato da questo lavoro molto impegnativo sulle 'Fiabe') e quando lo scrittore le pubblicò, le dedicò a "Raggio di sole", che era uno dei nomignoli con cui lui chiamava Elsa e di cui solo lei era a conoscenza. Naturalmente nel bel mondo letterario si scatenò la caccia per capire chi fosse la fantomatica Raggio-di-sole, e fra le ipotesi dei pettegoli letterati di via Veneto si fece anche il nome dell'attrice. <88 'L'Espresso' raccoglieva da poco sotto la testatina "Confidenze italiane" certe cronache di mondanità culturale che venivano firmate da Mino Guerrini con lo pseudonimo di Minimo, che in quest'occasione scrisse: "Intanto dall'altra parte della città, in un caffè di via Veneto, ebbe inizio il mistero, un nuovo quiz di cui discutere della serata: a chi aveva dedicato il libro il giovane scrittore? A Pavese, naturalmente, ma anche ad un'altra persona adombrata nella dedica sotto il nome di 'Raggio di sole', personaggio che non è nel libro. Chi poteva essere questo Raggio di sole? Furono suggeriti molti nomi, ma soltanto a sera tarda, dopo molte discussioni ad un tavolo di letterati, fu trovata la risposta esatta: Elsa De Giorgi. Raggio di sole è infatti l'anagramma, quasi esatto, del suo nome, manca solo una 'e'." <89
La notizia uscì su 'L'Espresso', Calvino lo seppe in anticipo, ma non riuscì a fermare la pubblicazione e la cosa diede parecchi fastidi all'attrice, che era impegnata nella complessa causa di divorzio [n.d.r.: di separazione: il divorzio all'epoca non era ancora legge] e che così racconta <90:
'Ci fu poi l'episodio dell''Espresso', che scoperse nella prefazione delle 'Fiabe' dedicate a Raggio di Sole l'anagramma del mio nome. Calvino aveva fatto di tutto per impedire la pubblicazione dell'articolo, rivolgendosi direttamente al direttore Benedetti, ma purtroppo il pezzo era già stampato emi recò danno: fu infatti usato contro di me in tribunale.' <91
[HPT pag. 42]
L'episodio viene quindi riportato sia dalla De Giorgi sia da Calvino che le scrive una lettera e, riferendole così l'accaduto, mostra una visibile apprensione. Calvino infatti allude a "implicazioni legali" evidentemente legate alla causa di separazione (a cui si possono attribuire sia il tentativo di far intervenire direttore ed editore dell'Espresso, sia il tono di leggera e minimizzante blandizie che usava con la su corrispondente): "Mia cara, eccomi qui e appena arrivato mi sono trovato di fronte a un piccolo tentativo scandalistico da parte dell'Espresso che spero d'aver fatto in tempo ad evitare. M'hanno mandato la bozza dell'articolo per la manifestazione delle fiabe e alla fine dell'articolo, che è piuttosto lungo, tirano fuori la dedica a Raggio di sole e che a via Veneto la sera si discuteva su chi era Raggio di sole. Furono suggeriti molti nomi, ma soltanto a sera tarda, dopo molte discussioni, ad un tavolo di letterati fu trovata la risposta esatta: Elsa De Giorgi. Raggio di sole è infatti l'anagramma quasi esatto del tuo nome, manca solo la «e». Ho mandato subito un telegramma lampo a Benedetti raccomandandomi alla sua cortesia perché elimini la parte finale. E ho telefonato a Carlo (Caracciolo, ndr) perché telefonasse subito e si interessasse della cosa, magari soltanto facendo togliere il nome. Non so però se si è ancora in tempo, o se il numero è stato già stampato. Me lo sentivo che qualcosa combinavano. Spero soltanto che il mandarmi le bozze (per due giorni avevo inutilmente dato loro la caccia per riuscire a leggere l'articolo) sia stato fatto per vedere se protestavo. Sulla bozza il titolo non c'è e anche questo potrebbe essere uno scherzo di questo tipo. (Però, questa dell'anagramma è una scoperta loro, a cui noi non avevamo mai pensato, e che corrisponde alla verità! E se distogliamo il pensiero per un momento dalle implicazioni legali e giornalistiche è molto bello). <92
[*novembre 1956] <93
[...] Ad un certo punto, prima che la loro storia decollasse veramente, all'improvviso Calvino scompare senza dare più sue notizie virando così del tutto la preoccupazione della De Giorgi su di lui. Era scomparso Sandrino, ora anche Calvino, e così la contessa racconta:
"Calvino (…) Scomparve. Per alcuni giorni nessuno, né in ufficio, né la madre, ne seppe più nulla. (…) Calvino ne stava imitando i gesti proprio per richiamare la mia attenzione su di sé. Si appropriava della mia preoccupazione, obbligandomi a dividerla con quella per Sandrino. (…) Non potevo dimenticare in certe sue lettere la descrizione dei suoi patemi perché aspettava la mia telefonata sul corridoio gelido della camera mobilitata che abitava a via Carlo Alberto 9"
[HPT pag. 44]
Molti sono i racconti che Calvino fa della sue attese al telefono, in un corridoio freddo, con il terrore che le persone o la padrona di casa o l'inquilino potessero ascoltare la sua conversazione. Così, per esempio, Calvino scrive: "Per colmo di ventura qui la camera vicino al telefono è occupata da un inquilino e non posso parlare liberamente". Fu però proprio il telefono, a porre fine a quella terribile attesa e a riportare in contatto la De Giorgi con la voce irriconoscibile di Calvino. Lo scrittore si annunciò, dopo giorni, senza aggiungere alcun particolare. Lei lo implorò di rivelarle dove fosse e la paura di perdere quel contatto la spinse a dirgli: "Senti, se sei a Torino parto e ti raggiungo".
Rintracciato Calvino la De Giorgi lo raggiunge immediatamente alloggiando al Principe di Piemonte.
 
Fonte: Eugenia Petrillo, Op. cit. infra

[NOTE]

7 Da E. De Giorgi, Ho visto partire il tuo treno, Leonardo Editore, Milano 1992
80 HPT pag. 167
81 M. Corti, Un eccezionale epistolario d'amore in Vuoti del tempo, Bompiani, Milano 2003 p.142 (contenuto anche in G. Bertone, Italo Calvino: a Writer for the Next Millennium. Atti del Convegno Internazionale di Studi)
88 A.Cambria, Nove dimensioni e mezzo, Donzelli Editore Roma 2010: 'Nel 1962 ormai a Roma da due anni, avevo letto il Visconte dimezzato, il Cavaliere inesistente e le Fiabe italiane di Calvino, che incominciavo a raccontare, magari semplificandole, al mio bambino… le Fiabe italiane erano dedicate dall'autore a "Raggio di Sole"… Avrei scoperto soltanto nel 1979 che "Raggio di sole" era l'anagramma -"quasi esatto" - di Elsa de' Giorgi: come scrisse Calvino, in una delle 407 sue lettere all'amata. Ma di lei, purtroppo, continuavo a non sapere nulla…. …Una sera del 1962 nella mia casa di via del Babuino - quella dell'"astratto salotto romano" di cui Sergio Saviane m'avrebbe attribuito la colpevole titolarità - arrivò anche Italo Calvino, con un'amica che nessuno di noi conosceva: era "Chiquita" (Esther Judith Singer), la traduttrice di cittadinanza argentina che lo scrittore aveva incontrato a Parigi e che aveva sposato il 19 febbraio 1964 a L'Avana. (Calvino era nato a Santiago de Las Vegas, a pochi chilometri dall'Avana, dove suo padre era il direttore del giardino botanico tropicale). La serata con Calvino e la sua amica in via del Babuino fu, come accadeva quasi sempre, un piacevole dopocena di chiacchiere spiritose e polemiche elitarie, ed erano quelli di sempre gli altri ospiti del mio divano angolare con la fodera di parcalle a fiorellini: Moravia, Morante, Pier Paolo Pasolini, Enzo Siciliano con la fidanzata, l'elegante Flaminia Petrucci, che allora da single emancipata (responsabile della grafica de "L'Espresso") abitava nell'appartamento al piano di sotto…. Calvino parlava poco, la sua amica ancora meno, andarono via presto e qualcuno pronosticò, pagando il dovuto al tasso di misoginia naturale dell'epoca: "Dopo il ciclone Elsa de' Giorgi , questa Chiquita sarebbe una moglie del tutto inoffensiva…"'.
89 S. Bartezzaghi, Scrittori giocatori, Einaudi, Torino 2010 pag. 208
90 http://www.trivigante.it
91 Dall'articolo di Alessandra Pavan su www.libreriamo.it, 20 0ttobre 2014:"AMORE COME DIVERTISSMENT ANAGRAMMATICO" - 'L'amore inoltre è argomento di enigmi e giochi letterari a partire appunto dal Barocco e da Luigi Groto, che compone due sonetti sull'amor sacro e l'amor profano , nei quali il contrario in senso direzionale crea il contrario nel significato. Ma i giochi con i nomi dell'amata cominciano già con Beatrice, Laura (l'aura) e Eleonora di Tasso (E …le onora) fino ad arrivare ad Italo Calvino, il cui interesse per l'anagramma risale al momento in cui si firmò come Tonio Cavillo in un ‘edizione per le scuole de Il barone rampante. A fine anni ‘50 Calvino si innamorò di un amore impossibile per Elsa de Giorgi, un attrice dell'epoca sposatissima e pubblicò le Fiabe Italiane dedicandole a Raggio di Sole, un anagramma imperfetto del nome dell'amata. Fu l'Espresso nel 1957 ad interrogarsi per primo sull'identità di Raggio di Sole e ad arrivare a questa congettura, poco plausibile - un anagramma imperfetto - per un autore perfezionista quale fu Calvino. E allora? "Fu il caso che svelò la cosa e ne derivò un caos?", così Bartezzaghi sigilla la sua lectio dedicata alle lettere che si intrecciano con i cuori.'
92 Stefano Bartezzaghi, giornalista e scrittore e soprattutto esperto di enigmistica, si è occupato di questo caso in Scrittori Giocatori alle pgg. 205-210. 'La cosa buffa e meravigliosa è che né Calvino né la De Giorgi avevano mai notato la cosa, come si deduce dalla parte finale della lettera.' Si tratta di un'operazione inconsapevole. Parrà strano, ma nel 1957 il concetto di anagramma non era affatto diffuso se non tra gli enigmisti, ed è dunque molto probabile che Calvino non praticasse la difficile arte (ne risultano altri esempi di tecnica argomentativa nelle altre opere di questo scrittore).
93 Non si può risalire con precisione alla data precisa della lettera; si può chiaramente ipotizzare che sia stata scritta in prossimità della pubblicazione delle Fiabe, quindi risale circa al mese di novembre 1956. Nella schedatura di McLaughlin non viene registrata nessuna lettera risalente al 12 novembre, ma soprattutto nessuna lettera riporta l'incipit "eccomi qui e appena arrivato mi sono trovato di fronte", neanche le lettere schedate senza data. Si dovrebbe quindi pensare che questo brano non sia compreso nelle 156 missive consultabili e schedate da McLaughlin; tuttavia, data l'inesattezza con cui potrebbero essere stati riportati alcuni passi reperiti delle lettere, da coloro che hanno avuto la possibilità di leggerle, la lettera schedata da McLaughlin il cui incipit si avvicina di più è la lettera 2,31: "Eccomi qui sballottato" datata nell'arco di tempo tra il 1956/1957.
 
Fonte: Eugenia Petrillo, Op. cit. infra. Per la lettura integrale della nota di Calvino acclusa da questa autrice nella tabella vedere post scriptum

Eugenia Petrillo
, Italo Calvino ed Elsa De Giorgi: l'itinerario di un carteggio, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2014-2015
 
P.S. 
particolarmente nel suo innesto con un linguaggio che sentivo naturale, come quello dialettale e semidialettale parlato dalla gente, e questo principio che non potevo naturalmente giustificarmi mi si configurava - di fronte al culto di mia madre per l’esattezza della terminologia- come una colpa, in modo tanto grave da vietarmi di distinguere - cioè di avere bisogno di dar loro un nome- le piante, di considerarle nella loro specifica diversità. Quindi per farmi imparare la botanica avrei avuto bisogno di un precisissimo raffinamento o decadentismo letterario in modo d’apprezzare il pastiche polilinguistico, e trovare ad esempio una contraddittoria coerenza nel linguaggio di mio padre, misto di termini scientifici, dialettali, spagnoli, italiani, inglesi in cui tutto diventava naturale. Ma il [mio] modo di arrivare alla comprensione estetica è il riconoscimento d’una rigorosa unità stilistica; ad apprezzare il pastiche fatico, molto di più. Quindi posso dire che non ho mai imparato la botanica per la stessa ragione per cui mi riesce difficile apprezzare C.E Gadda.

mercoledì 19 gennaio 2022

Le trasmissioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› denotano un modo diverso di fare cultura e perfino di intenderla


Delle milletrecentonovantasette trasmissioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› trasmesse in radio <516 rimangono solo una decina di bobine, il resto andò distrutto. <517 Il GRAP, un gruppo di ricercatori dell’Università di Firenze, sotto la direzione di Anna Dolfi ha catalogato i copioni degli ultimi venti anni del programma radiofonico (mancano testimonianze relative al periodo che va dal 1945 al 1957). <518 Si tratta di un lavoro molto utile e meticoloso, che tuttavia non ci restituisce né l’integralità dei contenuti trattati, né la pienezza e il fascino del potere evocativo, intimo e profondo, tipico della radio. Quella peculiarità comunicativa che nasconde la mimica ed enfatizza la voce, inserendola in un intercedere immediato e consequenziale di una oralità semplice, che rapisce il pensiero e dove la lotta ai dialetti e o più verosimilmente all’inflessione dialettale, <519 almeno nel caso de ‹‹L’Approdo››, sembra placarsi di fronte all’‹‹altisonanza›› del letterato.
Analizzando alcune trasmissioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› <520 si è subito rapiti da una molteplicità di aspetti che, nell’insieme, denotano innanzitutto un modo diverso di fare cultura e perfino di intenderla. Per spiegarlo, scegliendo di restare nelle più solerti considerazioni di ambito umanistico, di notevole interesse risultano le interviste realizzate per ‹‹L’Approdo›› dallo scrittore franco-algerino Jean Amrouche intorno alla metà degli anni Cinquanta. Alle sue domande, in realtà sempre le stesse, risposero alcuni fra i più noti scrittori dell’epoca: Ungaretti, Moravia, Contini, Montale, Vittorini, Bacchelli, Cecchi. Con un evidente inflessione francese, Amrouche accompagnava gli ascoltatori verso una conoscenza più profonda di questi autori che con la propria voce ripercorrevano ai microfoni de ‹‹L’Approdo›› l’inizio della loro esistenza, la loro carriera, parlando dei libri scritti, delle loro amicizie con gli altri letterati, del rapporto con i loro maestri e con i colleghi apprezzati come pure con quelli non apprezzati. Dai microfoni della radio, narratori, poeti, saggisti, studiosi di arti figurative, musicologi, storici, si confrontavano per la prima volta non più con la pagina bianca, ma con un mezzo inatteso: un mezzo tecnico con proprie regole e con i propri tempi. E poi con un pubblico diverso e con aspettative differenti: un pubblico da sorprendere e coinvolgere, da incrementare e trattenere. Di particolare interesse sono risultate le conversazioni ai microfoni de ‹‹L’Approdo›› con i poeti Mario Luzi, Andrea Zanzotto, con gli storici della letteratura Giancarlo Ferretti, Folco Portinari, con i saggisti Manlio Cancogni e Giuseppe Pontiggia, con lo storico Franco Cardini, con gli scrittori Vincenzo Cerami, Giorgio Van Straten, Lidia Ravera, Maurizio Maggiani, Marco Ferrari. Significativi risultano anche l’intervista a Leone Piccioni sulla storia de ‹‹L’Approdo››, o gli interventi di Gian Battista Angioletti e di Carlo Betocchi. <521
‹‹Io non sono esattamente un intellettuale, sono uno che sa che esiste una mente e una memoria, una mente razionale e una memoria che non è precisamente razionale. Nella memoria abita il passato, abitano le esperienze che ci sono passate davanti e che ci sfuggono, abitano i numi della vita, quelli che stanno con noi, ma che non vediamo, stanno con noi, ma rispondiamo loro di rado, stanno con noi, ma certe volte ci sfuggono e ci lasciano. Io sto invecchiando e anche i numi della vita mi stanno lasciando. Io non posso altro che insistere sul fatto che se qualche cosa che mi è stato dettato da lì dentro, sono riuscito a tradurlo in parole e ho scritto dei versi››. <522
Voci alla radio, lontane, ma solo in apparenza. Voci che sanno restituire - stavolta sì - la potenza della cultura, il valore, il rispetto e la memoria senza tempo, di allora come di oggi. Voci che raccontano ‹‹la grande cultura alla radio››, volendo prendere a prestito il titolo del libro di Andrea Mugnai, dedicato per l’appunto a ‹‹L’Approdo››. Voci sì, ma anche dibattiti alla radio. <523 E si sa, dopo ogni discussione, nessuno resta più com’era prima. Perché la radio (adesso come allora) accompagna, quasi inavvertitamente, per tutto il giorno, con le sue peculiarità di immediatezza e di facilità penetrazione.
Da queste registrazioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› e, in particolare dai contenuti affrontati, emerge - per arrivare al punto - una concezione più alta della cultura, della letteratura, degli stessi intellettuali. <524 Intellettuali a cui venivano rivolte numerose domande personali o sulla loro vita privata, <525 proprio perché considerati dei veri e propri esempi da seguire. Erano uomini che avevano viaggiato, che si erano confrontati con altri autori, che avevano letto il meglio della letteratura nazionale e internazionale e che poi erano riusciti a esprimersi, grazie anche alla loro spiccata sensibilità, in alcune fra le più belle pagine della letteratura e della poesia degli anni Cinquanta e Sessanta. Verrebbe spontaneo chiedersene la ragione: si trattava forse di scrittori come, negli anni a venire, non se ne sarebbero più trovati? Leone Piccioni viene in soccorso, rispondendo a questa domanda ai microfoni de ‹‹L’Approdo››, mentre parlava della storia della rivista e della radio: ‹‹Io, interpellato, rispondevo che il nuovo Approdo non lo potevamo fare, perché non ci sono più maestri di quel livello e di quella grandezza disposti a collaborare insieme senza pregiudizi di carattere politico e sociale››. <526
Più complessa e interessante appare l’analisi delle trasmissioni radiofoniche dal punto di vista del linguaggio. In realtà agli esordi del programma, in particolare, si riscontrava lo scarso sforzo (o sarebbe forse meglio dire la scarsa capacità di adeguamento al mezzo?) di informare il pubblico radiofonico del tempo: si davano molte cose per scontate, senza la volontà di fornire quei dettagli necessari alla comprensione del messaggio da parte di un pubblico prevalentemente impreparato. Analizzando il linguaggio de ‹‹L’Approdo››, inteso come rivista letteraria alla radio, emergeva, da parte di direttori e collaboratori, una certa reticenza a sperimentare un linguaggio più ardito, più tecnico, più specificatamente radiofonico. Questo ricadeva a volte nel mero ascolto di una bella pagina letta alla radio, fatta di andamenti lenti, noiosi, o in dibattiti densi di retorica e pedanteria, oppure pregni di parole auliche e ricercate intervallate da pause, da formule di reticenza o da silenzi, spesso più eloquenti delle parole. <527 Inoltre vi era una struttura sintattica poco adatta all’oralità, con molte secondarie. Ne risultava un linguaggio articolato e pregno di contenuti alti, che si rivolgeva sostanzialmente a un pubblico di élite. <528 Aspetti questi che dimostrano che i testi radiotrasmessi fossero testi scritti, destinati alla lettura o al più alla interpretazione.
Più tardi, negli anni Sessanta, in concomitanza con l’introduzione nelle trasmissioni del telefono, che consentivano il contatto con gli ascoltatori, si cominciò in generale a dare spazio a una maggiore spontaneità alla radio, in cui il testo ‹‹parlato-scritto››, tipico dei primi decenni, venne sostituito da uno ‹‹parlato-parlato››, cioè privo di una base di scrittura. Da questo si può evincere che ‹‹L’Approdo›› radiofonico si sia contraddistinto, nel tempo, per una lingua non artificiosa, non multiforme, non dialogica, non ritmica, proprio perché scritta e dunque controllata, prevalentemente poco spontanea. <529 A conferma di questa considerazione ci sono ancora le parole di Leone Piccioni rilasciate nella nota intervista, di cui si parlava più sopra, dedicate alla storia de ‹‹L’Approdo››: ‹‹Quando decidemmo di pubblicare i testi de ‹‹L’Approdo›› Radiofonico, rimandavamo all’autore, nel caso volesse apportare correzioni per farne, più che un documento parlato, un documento scritto. Il più delle volte non ce n’era bisogno, i testi trasmessi da ‹‹L’Approdo›› Radiofonico andavano benissimo anche per la stampa››. <530
[NOTE]
516 Cfr. Leone Piccioni, La linea editoriale de ‹‹L’Approdo››, in ‹‹L’Approdo Letterario››…, cit., p. 117.
517 Risulta difficile fare una cernita precisa riguardo alle puntate de ‹‹L’Approdo››: oltre alle dieci bobine (del biennio 1968-1969) presenti nella nastroteca centrale di Roma e rimaste ancora integre, dal Catalogo multimediale delle Rai risultano a migliaia le tracce de ‹‹L’Approdo›› radiofonico alla sezione ‹‹programmi nazionali››, ma si tratta di sequenze e stralci della trasmissione, materiale a volte difficile persino da catalogare.
518 Cfr. Anna Dolfi, Michela Baldini, Teresa Spignoli, Nota introduttiva, in L’Approdo. Copioni, lettere, indici…, cit., pp. 7-12
519 In un articolo di Bruno Migliorini si legge al riguardo: ‹‹la lingua degli annunziatori deve essere trasparente, impersonale e perciò quant’è possibile uniforme: mi sembra perciò che convenga insistere energicamente perché nella parola degli annunziatori non si avverta alcuna ombreggiatura dialettale. […] Ma tutto questo presuppone, che si sia data una risposta affermativa al punto fondamentale: che cioè la Rai si decida ad assumere anche nel campo dell’ortofonia un compito educativo››. Bruno Migliorini, La lingua e la radio, in ‹‹Annuario Rai 1952››, pp. 45-46.
520 Cfr. cd-room contenuto nel volume in Angelo Sferrazza, Fabrizio Visconti (a cura di), Memoria e Cultura per il 2000. Gli anni de L’Approdo…, cit., come pure si veda, ovviamente, l’Archivio Rai, oggi, per altro, disponibile (almeno in parte) anche nella versione telematica, consultabile in tutte le sedi centrali e regionali della Rai.
521 Cfr. Andrea Mugnai, L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit. In questo volume l’autore ci ripropone diversi testi integrali di conversazioni con autori avvenute ai microfoni dell’omonima trasmissione radiofonica.
522 Carlo Betocchi, Intervento ai microfoni de ‹‹L’Approdo›› radiofonico in Andrea Mugnai, L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit., p. 79.
523 Cfr. Silvio D’Amico, I dibattiti alla radio, in ‹‹Annuario Rai 1952››, pp. 68-74.
524 Un concetto questo che appartiene alla consapevolezza degli stessi letterari, si legga al riguardo l’articolo di Leone Piccioni, L’inflazione letteraria, in ‹‹L’Approdo Letterario››…, cit. L’articolo apre a un’osservazione sulle scelte compiute dai curatori di antologie dedicate alla narrativa e alla poesia contemporanee e sulla crisi della critica letteraria, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, in concomitanza dunque alle trasformazioni dell’editoria verso una dimensione industriale.
525 Jean Amrouche rivolge agli autori prevalentemente sempre le stesse domande. Ad esempio: ‹‹Caro Emilio Cecchi, lei sa che in ogni artista c’è una forza interiore che lo costringe ad esprimersi. In quale momento ha scelto di accettare la sua vocazione d’artista e di rispondervi?››. Oppure: ‹‹Ma lei voleva scrivere o invece voleva esprimersi in altro modo?››. Ancora: ‹‹Famiglia, insegnanti o altri hanno posto ostacoli al compimento di tale vocazione?››. E ‹‹Potrebbe parlare di scrittori stranieri che lei ha incontrato?››. Cfr. Andrea Mugnai, Conversazione con Emilio Cecchi 7 giugno 1954 in L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit., pp. 3-10. È possibile ascoltarla anche tramite cd-room contenuto all’interno dello stesso volume.
526 Andrea Mugnai, Conversazione con Leone Piccioni 1 luglio 1996, in L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit., p. 82.
527 Cfr. Remo Cesarini, Il linguaggio radiofonico, in Memoria e cultura per il 2000…, cit., pp. 92-99.
528 Ibidem.
529 Si vedano al riguardo i testi integrali delle trasmissioni riportate da Andrea Mugnai nel libro, più volte citato, L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit.
530 Ibidem, Conversazione con Leone Piccioni 1 luglio 1996, p. 83. Si veda inoltre Filippo Sacchi, Il giornale scritto e il giornale parlato, in ‹‹Annuario Rai 1952››, pp. 55-60.
Giulia Bulgini, Il progetto pedagogico della Rai: la televisione di Stato nei primi vent’anni. Il caso de "L’Approdo", Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2018

Fig. 1 - L’Approdo alla TV, “Radiocorriere”, 20-26 gennaio 1963 - qui ripresa da Raffaella Perna, art. cit. infra

Il sabato sera del 2 febbraio 1963, alle ore 22.20, la Rai trasmette sul Programma Nazionale la prima puntata de L’Approdo. Settimanale di Lettere e Arti, a cura di Leone Piccioni, con la collaborazione di Raimondo Musu e la regia di Enrico Moscatelli. La trasmissione, che andrà in onda con conduttori, curatori, registi e in fasce orarie, giorni e canali diversi sino al 28 dicembre del 1972 <1, è parte di un progetto culturale più ampio, avviato all’indomani della Seconda guerra mondiale, il 3 dicembre del 1945, con l’omonimo programma radiofonico trasmesso da Radio Firenze, curato da Adriano Seroni, giovane critico letterario allievo di Giuseppe De Robertis, e diretto dal 1949 dallo scrittore e capo dei servizi culturali della Radio Giovanni Battista Angioletti <2. Superate brillantemente le difficoltà materiali degli inizi, L’Approdo radiofonico diventa nel giro di pochi anni un appuntamento atteso da una platea di radioascoltatori sempre più vasta. Nel 1952 il prestigio culturale e la fortuna della trasmissione spingono la dirigenza Rai ad affiancare al programma radiofonico una rivista trimestrale di lettere e arti, pubblicata dalle Edizioni Radio Italiana di Torino sino al 1977 (con un’interruzione tra il 1955 e il 1958), nella quale trovano spazio i migliori contributi trasmessi alla radio, interventi scritti appositamente per l’edizione a stampa, importanti anticipazioni editoriali (Eugenio Montale, ad esempio, nel 1968 vi pubblica in anteprima i quattordici componimenti di Xenia II) e, dal 1963, la trascrizione di servizi trasmessi alla TV. Sino al 1951 la guida de L’Approdo radiofonico è affidata unicamente a Seroni e Angioletti, ma con l’avvio della rivista cartacea i due vengono affiancati da Piccioni, e nel contempo viene costituito un comitato di redazione composto da intellettuali di primo piano, di cui fanno parte Roberto Longhi, Riccardo Bacchelli, Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis, Nicola Lisi, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri. Si aggiungono poi, in momenti diversi, Gianfranco Contini, Gino Doria, Carlo Bo, Diego Fabbri, Alfonso Gatto e Goffredo Petrassi; al posto di Cecchi, venuto a mancare nel 1966, subentrerà Carlo Emilio Gadda. Nel 1958 Carlo Betocchi, già esponente del gruppo di letterati cattolici riuniti attorno alla rivista fiorentina “Il Frontespizio”, è designato come responsa-bile della sezione radiofonica e nel 1961, alla morte di Angioletti, assu-merà anche la direzione della rivista. Con la nascita de L’Approdo televisivo, nel 1963, il comitato non subisce variazioni (Fig. 1): la linea culturale perseguita dal cenacolo fiorentino, improntata a un modello di cultura alta e aperta a suggestioni provenienti dal panorama europeo, trova un nuovo canale di diffusione nella trasmissione televisiva, dove molte delle formule già sperimentate alla radio vengono riprese e adattate al piccolo schermo. Benché sin dalla composizione del comitato risulti chiaro come il ruolo prioritario sia riservato alla letteratura, le arti visive hanno un peso significativo nella storia de L’Approdo, nelle sue tre vesti. Nell’edizione televisiva il numero di servizi dedicati all’arte, in particolare a quella novecentesca, ambito su cui si concentra questo contributo, è molto ricco: in alcuni momenti della travagliata storia della trasmissione, in special modo durante la direzione di Attilio Bertolucci (1965-1966) quando il programma si scinde nelle due distinte sezioni L’Approdo Arti e L’Approdo Letteratura <3, l’arte avrà uno spazio uguale a quello della letteratura.
[NOTE]
1 Nei quasi dieci anni di vita L’Approdo televisivo andrà incontro a molti cambiamenti. Dallo spoglio del “Radiocorriere” e dalla consultazione delle puntate digitalizzate è possibile ripercorrerne gli snodi principali: il programma, curato da Leone Piccioni, viene inaugurato, dopo un rinvio di una settimana, il 2 febbraio del 1963 di sabato sera sul Programma Nazionale; dal 10 gennaio del 1965 la trasmissione viene mandata in onda di domenica. La cura del programma passa a Giuseppe Lisi, che si avvale della collaborazione di Alfonso Gatto e Silvano Giannelli e della regia di Siro Marcellini. Due mesi dopo, dal 2 marzo 1965, il programma verrà spostato al martedì sera. Dal mese di novembre la direzione passerà ad Attilio Bertolucci e la regia a Paolo Gazzarra. In questo frangente la trasmissione si dividerà in due appuntamenti, L’Approdo Arti e L’Approdo Letteratura, curati rispettivamente da Silvano Giannelli e da Giulio Cattaneo, entrambi coadiuvati da Franco Simongini. Dal 27 dicembre del 1966 L’Approdo è in onda sul Secondo Programma, sempre di martedì sera, ma nella veste originaria di Settimanale di Lettere e Arti. La cura viene affidata ad Antonio Barolini e Giannelli, con la collaborazione di Mario Cimnaghi e Simongini, per la regia di Enrico Moscatelli. La nuova presentatrice è Graziella Galvani. Dal 15 maggio 1967 il programma viene spostato al lunedì sera, mentre dal 14 febbraio 1968 al mercoledì. Anche la squadra di lavoro si rinnova: il programma viene ora curato da Barolini, Massimo Olmi e Geno Pampaloni, con la collaborazione di Cimnaghi e Walter Pedullà, ed è coordinato da Simongini e presentato da Maria Napoleone. Quest’ultima verrà poi sostituita dal più noto attore teatrale e drammaturgo Giancarlo Sbragia. Nel 1971 la cura del programma passa a Giorgio Ponti con la collaborazione di Pedullà e Giuliano Gramigna e la regia di Gabriele Palmieri. Sulla storia de L’Approdo televisivo vedi Grasso (1992); Bolla, Cardini (1994); Grasso, Trione (2014); per una visione d’insieme su L’Approdo nelle sue tre edizioni vedi Sferrazza, Visconti (2001).
2 Sulla storia de L’Approdo letterario e radiofonico vedi Mugnai (1996); Dolfi, Papini (2006); Baldini, Spignoli, (2007).
3 Ognuna delle due rubriche ha cadenza bisettimanale.
Raffaella Perna, L’Approdo televisivo e l’arte del Novecento, Piano B. Arti e Culture Visive, vol. 3 n. 2 - 2018  

L’Approdo è stata una delle rubriche di letteratura, arti, cinema, più illustri e longeve della storia della radiotelevisione italiana, nacque su impulso di Adriano Seroni come programma radiofonico settimanale o quindicinale nella sede Rai di Firenze nel dicembre 1945 e andò in onda fino al giugno 1977. Era la proposta culturale più prestigiosa del Programma Nazionale: «mezz’ora di informazione letteraria e inedito connubio fra parola scritta e suono» (Ferrari 2002, 85), vantando un comitato di redazione in cui figuravano personalità molto rilevanti della scena culturale del secondo dopoguerra, da Riccardo Bacchelli a Emilio Cecchi a Folco Portinari, Ungaretti, Longhi, Bo, tra gli altri. Si sviluppò in maniera che oggi diremmo multimediale poiché si espresse in tre forme differenziate che ebbero una vita di durata diversa: alla trasmissione radiofonica fiorentina si affiancò una rivista cartacea trimestrale, che fu stampata dal 1952 al 1954 e, con il titolo L’Approdo Letterario, dal 1958 al 1977; una trasmissione televisiva settimanale di letteratura e arte che andò in onda dal 1963 al 1972, condotta nella fascia oraria che precedeva la prima serata.
La rivista fu diretta fino al 1961 da Giovanni Battista Angioletti e poi, fino alla fine della pubblicazione, da Carlo Betocchi; entrambi coltivarono un’aspirazione, che non ne abbandonerà mai lo spirito, a uno standard piuttosto elitario della informazione letteraria. L’auspicio nasceva nel seno di possibilità che in qualche modo risentivano in maniera accentuata degli effetti di una concezione probabilmente classica della trasmissione del sapere che mal si adattò all’istanza imperante di una cultura popolare e di qualità, nel passaggio da una prima militanza accademica all’impegno politico degli anni Sessanta e Settanta.
Nei diversi gruppi di redazione che si avvicendarono fu molto forte da subito il legame con una società della cultura in un certo senso istituzionale che riusciva a rappresentare con non poche difficoltà la crescita esponenziale della quantità dei prodotti letterari che diversificarono caleidoscopicamente il mercato editoriale; tra la fine degli anni Cinquanta e i Settanta la relazione tra letteratura e bisogni sociali divenne centrale fino a rappresentare anche qualitativamente le trasformazioni e i cambiamenti più significativi dei paradigmi novecenteschi. Tali cambiamenti finirono con il rendere minoritaria la lunga esperienza dell’Approdo che, poiché nel 1977 non riuscì a convertirsi al canone di una rete generalista di volta in volta più diffusamente popolare (Dolfi 2007, 11), chiuse i battenti, o meglio, fu in certa misura assorbita, per spirito e intenti, in quel Terzo Programma che nasceva nella prospettiva specifica del canale culturale.
Il canale che nel 1975 sarebbe diventato Radio Tre e che sulla differenziazione degli ambiti di un palinsesto molto ben articolato riuscì a equilibrare un’offerta in grado di rinnovarsi pur mantenendo un notevole livello, che dura a tutt’oggi, nell’ambito dei mezzi delle telecomunicazioni nazionali.
Le letterature straniere furono come sempre uno dei campi privilegiati della vitale ricerca di informazione e rinnovamento che caratterizzò la programmazione della Rai; furono rappresentate in diverse rubriche ma prevalentemente nelle specifiche rassegne divise per area linguistica e collocate in conclusione ai numeri della rivista.
Nancy De Benedetto, Le letterature ispaniche nelle riviste della RAI in Le letterature ispaniche nelle riviste del secondo Novecento italiano, (a cura di) Nancy De Benedetto e Ines Ravasini, Biblioteca di Rassegna iberistica 19, Edizioni Ca' Foscari

lunedì 19 aprile 2021

Vi sono anche le bande di Nice, di Finale e di Alassio

Una ormai datata immagine del posto di frontiera, con annessa Dogana, di Ponte San Luigi a Ventimiglia (IM) - Fonte: Alessandra Maini

Il posto di frontiera di Ponte San Luigi visto, nel 1958, dalla parte francese. Fonte: Collezione Sansoni

Quindi tutte insieme le ragazze intonano qualche nota della simpatica vecchia canzonetta che ripete quelle parole:
No, ma cherie no,
ainsi non va
disons adieu à l'amour
si dans l'amour
il n'y à pas... de felicité...

Più tardi, piano piano, Fofò ed il Brigadiere ritornano in Dogana e Gianni dice loro che il Direttore li desidera.
Con un ragionamento molto equilibrato, il Direttore commenta il fatto di poco innanzi e li incita a far meglio nel futuro.
Fofò cerca di scusarsi e fa presente che è stato il Vicedirettore a far partire la macchina senza permettere che lui parlasse.
Il Direttore li assicura di aver telefonato alla Volante di Ventimiglia di fermare la macchina, farsi dare i documenti e portarli in Dogana con una delle loro veloci motociclette per provvedere alla mancata registrazione ed ai dovuti  visti.

Fuori c'è il signor Di Pietra che li attende, ma Fofò, senza dargli tempo di aprir bocca, gli dice che per star bene e far le cose giuste, bisogna essere sempre tranquilli [...]

p. 141

Il Trofeo di Augusto a La Turbie - Fonte: Wikipedia

Davanti a quel monumento [ndr: il Trofeo di Augusto a La Turbie, Costa Azzurra], tutti restano attratti in muta ammirazione. La ciclopica opera d'arte è fatta interamente con enormi massi di pietra, lavorati e squadrati con una perfezione sorprendente, tanto più che in quell'epoca non avevano alcuna macchina di moderna invenzione. Quei pesantisimi massi furono sollevati e messi a posto con grande precisione ad altezze considerevoli.
Un'ampia base quadrata alta una decina di metri; poi un colonnato snello ed alto riunito tutto insieme da un unico gigantesco capitello.
Ena fa notare che un altro monumento dello stesso stile, ma più piccolo, si trova a Pompei, il monumento degli Istacidii.
Fanno delle fotografie e prendono un caffè, una tazza di caffè stile francese, come un decotto diluito ed abbondante.
Ripartono; adesso la macchina discende: si va verso Nizza. In tutta la zona attraversata vi sono ricche e splendide ville che sono dei veri gioielli d'arte incastonati in angoli naturali di incomparabile bellezza.
A Nizza l'autobus sosta per tre ore circa. Ne approfittano per passeggiare un po', pranzano, si fermano negli ampi giardini ove i passerotti rubano ai colombi i pezzetti di pane, che lanciano i bambini.

p. 197

Uno scorcio della Battaglia di Fiori di Ventimiglia (IM), anno 1956 - Fonte: Giuseppe Silingardi

Vi sono anche le bande di Nice, di Finale e di Alassio; quest'ultima è preceduta da un piccolo stuolo di belle ragazze che spargono profumi con appositi spruzzatori.
Sembra di vivere in un mondo irreale.
Il bel sole, caldo e chiaro, avvolge tutto con la sua luce più bella, sembra che anche lui intervenga alla festa ed i suoi raggi danno maggior vita a tutto lo scenario. Ognuno si sente come dominato ed esaltato.
Dopo alcuni giri fatti dai carri, sempre accompagnati da ben meritati applausi, gli altoparlanti danno l'ordine di sostare un po' e di prepararsi per la battaglia; per chi non lo sa, gli altoparlanti precisano che, appena si rimettono in moto i carri, incomincia la Battaglia dei fiori. Una vera battaglia, ove i proiettili sono graziosamente rappresentati da fiori, fiori e fiori.
È assolutamente proibito raccogliere fiori in terra o strapparli dai carri. La maggior parte dei fiori sono applicati ai carri con speciali chiodi sottili e lunghi, il cui lancio è pericoloso.
Per le tribune circolano delle ragazze con i classici e simpatici costumi antichi di Ventimiglia, portano cestini e panieri di fiori, piccoli fasci che offrono gratuitamente agli spettatori, affìnché possano rispondere ai tiri  provenienti dai carri.
La lotta si presenta accanita.  

p. 244

Luigi Nicodemi, Fofò in Dogana, Edizioni Europa, 1957