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sabato 6 agosto 2022

La Resistenza prese le mosse in Friuli nel marzo 1943


L’organizzazione di un movimento di opposizione armata all’occupante nazista e politicamente antagonista al regime fascista prese le mosse in Friuli sei mesi prima che nel resto d’Italia, cioè sei mesi prima dell’8 settembre 1943, col formarsi del 1° distaccamento Garibaldi nel marzo 1943. Si trattò di un piccolo reparto armato che ebbe da 12 a 25 uomini a seconda dei momenti.
Questa significativa specificità, come del resto la maggior parte dei caratteri distintivi assunti dal movimento resistenziale nella regione, deve la propria origine alla particolare posizione geografica del Friuli, terra di confine tra Italia, Jugoslavia e Austria e al fatto che fin dal 1942 comparvero sul nostro territorio i reparti partigiani sloveni. <4 Fu proprio questa presenza partigiana slovena sulle montagne del Friuli, con cui le formazioni comuniste presero contatti e accordi fin dal 1942, a determinare l’esigenza dell’insorgere di una formazione partigiana italiana prima dell’8 settembre 43. <5
Questa vicinanza territoriale e la collaborazione basata su una certa affinità ideologica riproponeva, però, anche antichi e irrisolti problemi di convivenza tra etnie diverse, rivendicazioni territoriali e rivalità nazionali che si esacerbarono verso la fine del conflitto.
In principio, in seguito ai fatti dell’8 settembre, il movimento partigiano friulano si andò allargando. L’originale distaccamento Garibaldi si trasformò in battaglione e contemporaneamente si costituì ex novo, presso Faedis, sulle Prealpi Giulie, il battaglione Friuli.
Accanto a queste formazioni, a prevalente direzione comunista, sorsero nello stesso lasso di tempo altri due gruppi di combattenti: uno di Giustizia e Libertà, creato dagli uomini del Partito d’Azione, organizzato da Fermo Solari (Somma-Sergio) e Carlo Comessatti (Spartaco) a Subìt, una frazione del comune di Attimis, e uno, a prevalenza democristiana e costituito in gran parte da ex militari, organizzato sempre nella zona di Attimis da Manlio Cencig (Mario).
Il gruppo di Giustizia e Libertà entrò subito in contatto, tramite il commissario Solari, con Mario Lizzero (Andrea), commissario della formazione Garibaldi Friuli e le due unità operative instaurarono una stretta collaborazione tattica militare, pur non riuscendo a rimuovere gli ostacoli che le separavano dalla realizzazione di un’effettiva unificazione dei comandi.
Quello del comando unico delle formazioni partigiane fu anche uno dei primi problemi ad essere affrontato, benché senza successo, dal neocostituito CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) di Udine. Esso era composto da Giovanni Cosattini per il Partito Socialista, don Aldo Moretti (Lino) per la Democrazia Cristiana, Carlo Comessatti per il Partito d’Azione ed Emilio Beltrame per il Partito Comunista. La controversia tra le varie componenti del comitato traeva origine da proposte mal conciliabili, in base alle quali si sarebbe dovuto scegliere il criterio da usare per l’indicazione del comandante. Azionisti e democristiani desideravano che la designazione del comandante unico venisse effettuata, per selezione, nella ristretta cerchia dei militari di carriera, mentre i comunisti, inclini a dare più valore alle azioni effettivamente svolte nell’ambito della lotta partigiana piuttosto che ai gradi conseguiti nell’esercito, si rifiutavano di accettare un comandante rigidamente imposto dall’alto.
In ogni caso, nonostante queste prime diatribe, gli accordi militari tra garibaldini e giellisti restarono operanti fino ai grandi rastrellamenti tedeschi dell’ottobre-novembre 1943, in occasione dei quali le due formazioni furono costrette a separarsi. Successivamente il Partito d’Azione avrebbe svolto una parte importante nella costituzione delle formazioni Osoppo, in totale antitesi rispetto a quanto avvenne nel resto dell’Italia, in cui le brigate di Giustizia e Libertà rimasero sempre al fianco delle Garibaldi. <6
I feroci rastrellamenti tedeschi dell’autunno 1943, misero a dura prova non solo le giovani formazioni italiane, ma anche le più solide formazioni slovene. I partigiani in parte scesero in pianura mantenendo l’attività, in parte si dispersero, tutti comunque furono costretti a ripiegare. Da quella terribile esperienza, le forze della Resistenza italiana uscirono estremamente provate. Rimasero in tutto, sui monti, una cinquantina di uomini delle formazioni Garibaldi Friuli, che si erano ritirati, almeno la maggior parte, in una zona sicura a occidente del Tagliamento, sul monte Ciaurlec, mentre a est, sul Collio, restò il battaglione Mazzini, con una decina di uomini in tutto.
Un’altra importante formazione italiana prese le mosse in questo tempestoso periodo: il 24 dicembre 1943 il CLN di Udine, vista l’impossibilità di giungere ad un accordo sul problema del comando unificato delle formazioni di montagna, autorizzò la costituzione di un altro gruppo partigiano, che avrebbe dovuto impegnarsi a combattere a fianco delle Garibaldi, ma in modo autonomo.
La nuova formazione, che avrebbe in seguito adottato il nome di Osoppo <7, era destinata ad assumere un ruolo particolarmente importante nella società rurale friulana. A differenza delle unità garibaldine, più unite dal punto di vista ideologico, nelle Osoppo confluirono forze varie, spesso distanti le une dalle altre per posizioni, sentimenti e propositi. Intorno al partigianesimo “politico” del PdA e della DC, si muovevano un generico sentimento socialisteggiante delle masse popolari che invocava giustizia sociale, il modernismo cattolico e del clero friulano, il patriottismo degli ex militari, soprattutto degli ufficiali, fedeli al giuramento e, in genere, l’apporto degli apolitici, civili o militari che fossero.
Un ruolo fondamentale nell’aggregazione delle spinte potenzialmente antagoniste al nuovo ordine nazifascista fu svolto dal clero friulano, che vedeva nelle nascenti formazioni osovane un argine al dilagare del comunismo. Numerose furono le parrocchie che si occuparono dall’assistenza ai partigiani sbandati, ai militari e agli ex prigionieri, dell’attività di informazione e di sostegno materiale alle bande armate, nonché della diffusione, all’interno della società contadina friulana, della quale spesso rappresentavano l’unico centro di coesione e partecipazione, di sentimenti antinazisti e patriottici che esortavano ed incoraggiavano la popolazione alla resistenza passiva. Alcune parrocchie e istituti religiosi friulani divennero, inoltre, veri e propri centri di reclutamento del personale da inviare in montagna, in particolare, ovviamente, presso le formazioni Osoppo. Numerosi anche i preti “patrioti”, schierati in prima linea nelle file dell’antifascismo militante: si trattò perfino, a volte, di veri e propri preti combattenti, come fu ad esempio don Ascanio De Luca (Aurelio).
Ma è a don Aldo Moretti, figura decisamente più moderata, che deve tributarsi il merito di aver contribuito al superamento di tutte quelle remore di carattere etico e religioso che rendevano difficoltosa per qualunque cattolico l’ammissione della necessità e del dovere, in determinati frangenti, di aderire alla lotta armata. Per il clero infatti l’adesione alla guerriglia presuppose una serie di approfondimenti e di premesse, senza le quali esso sentiva di non poter agire. <8
Le discussioni che ebbero luogo a Udine, nel “Cenacolo di Studi Sociali per sacerdoti”, tra il 10 novembre 1943 e il 29 marzo 1944, furono in tal senso decisive, in quanto finirono per riconoscere la legittimità della resistenza non solo passiva ma anche militarmente attiva.
Quest’ultima tuttavia, seppur imposta dalle tragiche circostanze del momento, doveva essere praticata il meno possibile e, salvo il caso di legittima difesa, solo quando tutti gli altri mezzi di dissuasione avessero dimostrato la loro inefficacia. La Resistenza, inoltre, si configurava come emanazione della volontà del governo nazionale, espressione di tutto il popolo e dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, proclamata dal re il 13 ottobre 1943, non poteva più configurarsi come guerriglia anarcoide o rivoluzionaria.
Tale impostazione era ben diversa da quella del partigianato comunista, e ciò suscitò non pochi attriti. I cattolici vennero accusati di "attendismo", soprattutto nella prima fase della Resistenza, mentre ai comunisti veniva spesso rimproverato di non tener conto, nelle loro azioni, dei costi umani pagati dalle popolazioni. <9
Le distanze tra le posizioni osovane e quelle garibaldine risultarono piuttosto evidenti anche su altri temi. Se i garibaldini ritenevano che la lotta contro il nemico dovesse puntare ad una partecipazione quanto mai estesa e popolare, gli osovani cercavano invece di limitare il ricorso alle armi e tendevano a privilegiare il reclutamento, soprattutto ai livelli di comando, di personale specializzato, generalmente ex ufficiali dell’esercito.
Oltre a ciò, a dividere e differenziare le due organizzazioni della Resistenza c’era la questione dei rapporti con gli sloveni. I garibaldini sostenevano e avrebbero continuato a sostenere, che nonostante le ripetute ed intransigenti prese di posizione jugoslave sulla questione territoriale, sarebbe stato impensabile combattere da rivali una stessa guerra contro lo stesso nemico e che del resto il modo migliore per lavare l’onta del fascismo, che macchiava il nome del popolo italiano, era quello di mostrare attraverso il combattimento comune il volto diverso e umano dello stesso popolo. La linea adottata dai comunisti friulani fin dalle prime trattative con gli sloveni, si fondò sul rifiuto di dibattere questioni che riguardassero la futura sistemazione del territorio, e sul rinvio a fine guerra e alle trattative dei futuri governi, del problema dei nuovi confini. Da parte osovana si registrava, invece, una maggiore diffidenza alla collaborazione con l’esercito di Tito e la netta ripulsa delle rivendicazioni territoriali slovene. <10
Dopo una stasi invernale, con la primavera del 1944 le formazioni di montagna ripresero ad aumentare in numero e dimensioni.
[NOTE]
4 In Jugoslavia, infatti, la Resistenza iniziò già nel 1941, dopo che il 6 aprile fu invasa da Germania e Italia (con l’appoggio di Bulgaria e Ungheria) e occupata nel giro di soli 11 giorni.
5 M. Lizzero, Considerazione sui reparti partigiani e sui gruppi di resistenza passiva nel ‘43 in Friuli, in “Storia Contemporanea in Friuli” n°10, anno IX, 1979, pp.255-256. Per una panoramica generale sulla Resistenza in Friuli vedi G.C. Bertuzzi, La Resistenza in Friuli e Venezia Giulia, in “Storia del ‘900”, IRSML-LEG, Gorizia 1997, pp.371-382, cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia.
6 M. Lizzero, Origini e peculiarità della Resistenza in Friuli, in “Storia Contemporanea in Friuli”, n°2/3, anno II, 1972, pp.221-223
7 Il nome fu tratto dall’omonima località friulana dove nel 1848 i patrioti resistettero all’assedio austriaco.
8 R. Mascialino, La Resistenza dei cattolici in Friuli (1943-1945), Udine 1978, pp.70-71
9 M. Lizzero, Considerazione sui reparti partigiani e sui gruppi di resistenza passiva nel ‘43 in Friuli, in “Storia Contemporanea in Friuli” n°10, anno IX, 1979, pp.249-250
10 D. Franceschini, Porzûs. La Resistenza lacerata, IRSML, Trieste, pp.1-12
Eleonora Buzziolo, Partigiane in Friuli: storia e memoria, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2003/2004

venerdì 8 luglio 2022

I primi rastrellamenti in grande stile evidenziarono la debolezza del movimento partigiano piemontese


Un capitolo particolarmente significativo dell'esperienza umana e politica di Edoardo Martino è rappresentato dalla partecipazione alla guerra di liberazione come comandante di una divisione partigiana, la divisione autonoma Patria, formazione militare associata dalla storiografia alla Democrazia Cristiana e alla resistenza “bianca” piemontese. <81 Si tratta a tutti gli effetti dell'esperienza che segnò il punto di svolta, la trasformazione da comandante “Malerba” a parte viva della nascente Democrazia Cristiana alessandrina (anche se non mancano testimonianze della proverbiale ritrosia di Martino nei confronti della politica, come emerge da alcune corrispondenze private). <82
I documenti conservati presso l'abitazione privata di Edoardo Martino e descritti in appendice permettono di ricostruire le caratteristiche e le modalità con cui questo gruppo partecipò alla guerra di liberazione nella provincia di Alessandria, delineando la storia di un gruppo partigiano la cui azione non può essere circoscritta alle azioni militari messe in atto durante la guerra di liberazione.
Mi propongo quindi di tratteggiare un profilo ideologico della divisione Patria che integra, rendendo ragione dell'avvicinamento di Martino alla Democrazia Cristiana e la definizione del suo profilo politico, concentrandomi sulle tre caratteristiche indicative che definiscono l’ideologia che animò l’azione della divisione Patria e del suo comandante. Non prima, però, di aver individuato le caratteristiche salienti del movimento resistenziale in Piemonte e in provincia di Alessandria, per meglio contestualizzare l'azione della formazione partigiana guidata da Martino.
1. La Resistenza in Piemonte
La continuità tra la dissoluzione del Regio Esercito e l’inizio del movimento partigiano è sicuramente un tratto peculiare della resistenza piemontese. Roberto Battaglia coglie tale peculiarità nella pronta risposta dei militari in un processo di maturazione culminato nel momento in cui «aggiungendo alla “guerra” e alla “patria” quell’aggettivo di “fascista”, lo stesso regime aveva contribuito a vanificarne il significato, distruggendo l’idea di una collettività nazionale con obiettivi ed esigenze superiori anteposte a quelli di una singola fazione politica, sicché la guerra si era ridotta a un fatto individuale, in cui l’elemento determinante dell’impegno era l’adesione personale e convinta al fascismo». <83 A ciò va aggiunto un fattore contingente: la IV armata che si stava ritirando dalla Francia rimase sorpresa dall’armistizio ai piedi delle Alpi, ragione per cui quando venne sciolta dal generale Vercellino i suoi componenti che compresero la situazione che si stava delineando si disseminarono nei paesi di fondovalle per poi risalire verso i passi alpini. Rispetto all’attesismo degli ufficiali più alti in grado è doverosa una sottolineatura sulla condotta coraggiosa di molti altri soldati, ufficiali effettivi e di complemento che imbracciarono le armi contro l’occupante tedesco nonostante le reazioni scomposte e incomprensibili dei loro comandanti. <84
L’esperienza della guerra fascista ha accomunato una intera generazione, ragione per cui è legittimo interrogarsi rispetto ai militari e alla «misura» della loro adesione, potremmo dire la «quantità» del loro fascismo, per determinare la qualità del loro successivo impegno antifascista.
[...] Tuttavia, nonostante questo tratto «militare» della resistenza piemontese, la prima formazione che troviamo costituita e stanziata fin dal 12 settembre 1943 fra Valle Gesso e Valle Stura è Italia Libera, composta da una dozzina di civili, azionisti, capeggiati da Duccio Galimberti. Anche loro iniziano la loro avventura partigiana dopo essersi rivolti ad alcuni ufficiali effettivi, e di fronte al rifiuto di guidare la spedizione si pongono come primo obiettivo di organizzarsi solidamente e adeguatamente alla vita in montagna, costituendo il primo nucleo di quelle che saranno le divisioni Giustizia e Libertà del Cuneese.
Nel torinese ebbero immediato successo le iniziative del tenente Pompeo Colajanni (Barbato) <89 con un’ottantina di ex militari quasi tutti di origine meridionale. In val Chisone si insediò la banda Sestriere, composta esclusivamente di militari o graduati del corpo degli alpini, comandati dal sergente Maggiorino Marcellin (Bluter) <90. In Valsesia, spostandosi verso la parte orientale della regione, Cino Moscatelli <91 con un gruppo di ventidue ribelli costituì il primo nucleo delle future formazioni garibaldine della zona, mentre e nella val d’Ossola spicca tra i primi organizzatori Filippo Beltrami <92, che trasforma gli sbandati della zona in una formazione efficiente.
Gli sbandati della IV Armata si concentrano invece nella zona di Boves, presso Cuneo; spesso sono ancora in divisa. Fra loro troviamo un buon numero di ufficiali effettivi, si favoleggia di un imminente sbarco alleato in Liguria e di divisioni alpine ancora intatte e attestate sui monti; ma il 19 settembre di fronte all’attacco tedesco ogni illusione svanisce, la resistenza resta affidata a un pugno di uomini capeggiati da pochi ufficiali subalterni, tra cui si distingue il sergente Ignazio Vian <93; i tedeschi, sorpresi dal contrattacco, sfogano la loro rabbia sulla popolazione di Boves, incendiando l’intero paese e uccidendo 24 persone.
Questa prima fase si può definire «ribellistica», e consiste in un periodo di assestamento e di chiarificazione che perdura fino al dicembre del 1943, favorita dall’inerzia delle truppe nazifasciste. La reazione contro i primi nuclei partigiani è infatti particolarmente lenta, nella convinzione che si sarebbe dileguata ben presto «questa assurda velleità di voler combattere senza armi e senza mezzi contro il più potente esercito del mondo» <94. Questi primi sparuti gruppi di resistenti «in divisa» invece diedero origine alle prime formazioni autonome piemontesi, subendo massicce operazioni di rastrellamento tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1944: i tedeschi miravano infatti «a ripulire dai partigiani le vallate piemontesi» <95, segno che erano diventata una minaccia da neutralizzare.
I primi rastrellamenti in grande stile evidenziarono la debolezza del movimento partigiano piemontese, basate su forme elementari di resistenza delle bande, abbarbicate sulle posizioni di montagna e incapaci di manovra. Pareva impossibile dare vita a un esercito partigiano, ritenendo necessario limitarsi a un’opera organizzativa dei suoi quadri futuri e sciogliendo momentaneamente le formazioni e privilegiando la guerriglia con piccole squadre di sabotatori.
Questa tesi venne esposta nel convegno di Valle Pesio, alla fine di gennaio 1944:
"Là un ufficiale che era stato fra i più brillanti esponenti della banda di Boves sosteneva che, visti i risultati del primo esperimento, bisognava abbandonare l’idea di costruire o mantenere delle formazioni numerose, composte in prevalenza da «uomini»: secondo lui la miglior cosa sarebbe stata formare dei piccoli nuclei di sabotatori e di terroristi, composti esclusivamente di ufficiali, con al massimo qualche uomo per i bassi servizi. Questa idea (condivisa del resto da molti anche altrove, specie fra i «militari») trovò largo seguito fra i presenti al convegno, ma i politici la contrastarono decisamente: la guerra partigiana doveva essere la guerra del popolo italiano; per quanto possibile essa doveva essere impostata e mantenuta su basi e in termini tali da interessare e coinvolgere il maggior numero di persone". <96
I primi difficoltosi passi nella guerra di liberazione evidenziano una prima differenziazione nel fronte dei «ribelli»: da una parte vi sono gli ufficiali effettivi che pur avendo intrapreso la guerriglia continuavano ad essere legati a una concezione legalitaria della guerra, convinti che occorresse affrontare la problematica della preparazione delle «reclute» <97 nella convinzione che ogni azione, se poteva ottenere risultati bellici irrisori, rischiava soprattutto di mettere a repentaglio la sicurezza delle popolazioni. Dall’altra parte invece vi era l’ala politica dei sostenitori della «guerra per bande», dei ribelli il cui nome «corrisponde alla realtà di fatto, indica la funzione ancora polemica o di eversione violenta di ogni struttura tradizionale che i primi partigiani si sono assunta» <98.
La primavera del 1944 portò con sé anche una nuova consapevolezza da parte nemica: la ribellione andava stroncata sul nascere con un’offensiva a vasto raggio, caratterizzata dal contemporaneo sfondamento frontale e dall’aggiramento sulle ali, al fine di non lasciare scampo all’avversario. Al 7 marzo l’operazione investì le valli di Lanzo, al 13 si spostò in Val Casotto, successivamente in Val Varaita. Nella Val Casotto, dove era stata adottata la tattica della difesa rigida frontale, i volontari subirono un rovescio senza precedenti, perdendo i due terzi degli uomini, e solo una esigua schiera di superstiti al comando del capitano Enrico Martini Mauri riuscì a rompere l’accerchiamento e a riparare nelle Langhe. In Val Varaita e in Val di Lanzo le perdite furono minori, ma le bande uscirono dagli scontri disarticolate e scosse.
Nonostante la «batosta» primaverile, l’attività di organizzazione andava via via migliorando, le formazioni e le bande andavano adottando strutture di comando più vicine a quella profilata dal Comitato, pur mantenendo alcuni caratteri originali. Il Comitato Militare gettò le basi, tra il gennaio e il marzo del 1944, del Corpo dei Volontari della Libertà piemontese, nonostante si profilasse all’orizzonte una ulteriore battuta di arresto per l’attività cospirativa: la mattina del 1 aprile il comitato doveva riunirsi nella sacrestia del Duomo di Torino, ma forze imponenti di polizia e di agenti circondarono i dintorni e i cospiratori furono fermati uno ad uno. A seguito di un processo la cui sentenza era evidentemente già scritta la mattina del 5 aprile otto membri del Comitato vennero fucilati, e con la loro morte segnarono la dispersione di un patrimonio di contatti e piani intessuti in quei mesi.
Tuttavia il movimento partigiano si riprese prontamente, il comitato fu ricostituito, anche se ritoccato sulla base della rappresentanza delle varie correnti politiche <99, ereditando dal comitato del generale Perotti una situazione di maggiore concordia e unità d'intenti.
Nonostante colonne di migliaia di uomini avessero battuto le valli alpine e martellato le formazioni garibaldine e Giustizia e Libertà del cuneese non le avevano fiaccate; le bande della Val di Lanzo, temporaneamente ricacciate in alto, ritornavano ad assalire convogli e presidi nemici; quelle delle valli Pellice e Chisone e del Biellese si ingrossavano spostandosi verso la pianura; i volontari di Mauri operavano e crescevano nelle Langhe; in valle Maira, valle Stura e val di Gesso le formazioni GL avevano resistito asserragliate sulle cime tra Italia e Francia.
Stava spuntando «l’estate partigiana», e la caduta di Roma diede un’ulteriore accelerazione al processo di espansione delle formazioni partigiane e all’evolversi dell’organizzazione militare dei resistenti dell’Alta Italia.
[NOTE]
81 In merito alla partecipazione cattolica alla guerra di liberazione, in cui è ricompresa l'azione della divisione e delle brigate “Patria” si veda ad esempio S. TRAMONTIN, La Democrazia cristiana e la Resistenza, in Storia della Democrazia Cristiana, a cura di Francesco Malgeri, vol. 1, 1943-1948. Le origini: la DC dalla Resistenza alla Repubblica, Roma, Cinque Lune, 1987, pp. 66 e ss.; R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1974; PERONA G., Formazioni autonome nella Resistenza, Milano, Franco Angeli, 1996. In merito alla resistenza in Piemonte e in provincia di Alessandria si ricordano in questa sede B. GARIGLIO, I cattolici piemontesi nella guerra e nella Resistenza, in Cattolici e Resistenza nell’Italia settentrionale, Atti del convegno, Torino 8-9 giugno 1995, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 15-32; G. PANSA, Guerra partigiana tra Genova e Po, Bari, Laterza, 1967; W. VALSESIA - F. GAMBERA, La Resistenza in provincia di Alessandria, Alessandria, ANPI 1976; M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, Milano, Feltrinelli, 1962.
82 In merito si veda la lettera di Luigi Manfredi a Martino del 25 agosto 1950, in Appendice, Per una descrizione del fondo Martino, Corrispondenza, fasc. 3.
83 R. BATTAGLIA, Storia della Resisenza italiana, cit., p. 39.
84 Ci viene ancora in aiuto un episodio raccontato da Nuto Revelli: «Penso al tenente colonnello Palazzi, e ne parlo a Piero. Palazzi con il suo prestigio, il suo coraggio, potrebbe ancora organizzare una resistenza contro i tedeschi. Palazzi è rientrato dalla Russia prima della ritirata, perché malato; non ha vissuto il disastro, ma ha conosciuto i tedeschi. In Grecia, in Albania ha dato il meglio di se stesso, non piegava la schiena di fronte ai comandi; si è fatto perdonare dai suoi ufficiali la scorza dura, il tratto da soldato terribile, esigentissimo. Corriamo da Palazzi, sono le 21. palazzi appare, in pigiama. Ha tardato ad aprire. Sull’uscio di casa ci sbarra l’entrata. Non parla, ci guarda di brutto. Con il pigiama a righe sembra un carcerato. “Colonnello, - gli dico - in caserma tutti scappano. Abbiamo fiducia in lei, venga in caserma. Con lei saremo in molti a sparare…”.Esplode “Fuori dai ciglioni, grida - via, non voglio sapere niente. Tutti pidocchi, tutti pidocchi, fuori dai coglioni”. Scendiamo a testa bassa, mentre continua a urlare, e ogni insulto è una staffilata. Abbraccio Piero. Piangiamo come due bambini.» Cfr. N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 123.
89 Pompeo Colajanni, comandante Nicola Barbato 1906-1987. Già negli anni Venti, giovane comunista, si adoperò per la costituzione di un fronte unitario antifascista del quale facevano parte giovani repubblicani, socialisti, anarchici e comunisti e che per quest’attività subì arresti e perquisizioni. Ufficiale di complemento di cavalleria durante la seconda guerra mondiale, subito dopo l’8 settembre del 1943 organizzò in Val Po, presso Borgo San Dalmazzo, con i suoi soldati, altri ufficiali e civili, una delle prime bande partigiane (il distaccamento garibaldino "Pisacane"), da cui si sarebbero poi sviluppate, brigate, divisioni e raggruppamenti di divisioni. Il nome di "Barbato", divenuto comandante della VIII Zona (Monferrato) e vicecomandante del Comando militare regionale piemontese, divenne presto leggendario per le imprese delle formazioni al suo comando e per la competenza militare. Nell’approssimarsi dell’insurrezione generale ebbe il compito di investire e liberare Torino, coordinando le formazioni Garibaldi, GL, Matteotti e Autonome. Il mattino del 28 aprile Torino era completamente liberata e Colajanni veniva designato vicequestore. Pochi mesi dopo "Barbato" era sottosegretario alla Difesa nel governo Parri e lo fu anche nel primo governo De Gasperi. Sino alla sua scomparsa Colajanni non cessò mai l’attività politica: consultore nazionale, membro della Camera dei deputati, membro del Comitato centrale del PCI, deputato regionale in Sicilia, vice presidente dell’Assemblea siciliana, segretario delle federazioni comuniste di Enna e di Palermo, consigliere nazionale dell’ANPI, attivo nel Consiglio nazionale della pace.
90 Maggiorino Marcellin, nato a Pragelato (Torino) il 16 luglio 1914, deceduto a Sestriere (Torino) nel 2001, maestro di sci, Medaglia d’argento al valor militare. Di umili origini - montanari poverissimi, padre di antica militanza socialista - aveva dovuto emigrare in Francia durante il regime fascista, dovendo presto abbandonare la scuola per cogliere le occasioni d’occupazione che gli si offrivano. Allorché i suoi tornarono in Italia, Maggiorino trovò prima lavoro negli alberghi del Sestriere poi, quando nella località turistica si costituì la scuola di sci che sarebbe diventata famosa, divenne maestro di sci. Questo non gli impedì di tornare spesso, clandestinamente, in Francia, dove - a Cannes e a Lione - aveva mantenuto contatti con i circoli degli emigrati antifascisti. Al ritorno da uno di questi viaggi, Marcellin fu arrestato e, per evitare guai maggiori, si risolse ad arruolarsi negli Alpini. Tra richiami e punizioni per le sue posizioni antifasciste riuscì, soprattutto per la sua abilità di sciatore, a diventare sottufficiale. Partecipò con il 3° Alpini alle operazioni belliche in Francia e in Grecia. Rimpatriato per una ferita, Marcellin fu denunciato e arrestato per propaganda antifascista. Non fu processato perché intervennero i suoi superiori, che non volevano privarsi di un sergente maggiore così bravo a insegnare a sciare agli alpini. Sopraggiunto l’armistizio, Marcellin, diventato "Bluter", riuscì subito a raccogliere nuclei partigiani locali e poi a svilupparli, dando vita alla I Divisione autonoma "Val Chisone". Questa sarebbe poi diventata, al comando di "Bluter", la 44a Divisione Alpina Autonoma "Adolfo Serafino”. Ferito due volte in scontri con i nazifascisti, "Bluter" è stato decorato, oltre che con la Medaglia d’argento, anche della Bronze Star alleata. Dopo la Liberazione ha continuato, per molti anni, a fare il maestro di sci al Sestriere.
91 Vincenzo Moscatelli (Cino) nacque a Novara il 3 febbraio 1908. Comunista e antifascista, continuò la sua attività nel partito durante il regime. Il 26 luglio 1943, giorno successivo alla caduta del fascismo, improvvisò a Borgosesia una manifestazione popolare e, nei quarantacinque giorni del governo Badoglio, riprese a dirigere il movimento antifascista in Valsesia, ristabilendo i contatti con le fila dell'organizzazione. Dopo l'8 settembre fu tra i promotori del Comitato valsesiano di Resistenza (il futuro Cln) e svolse subito, impegnando tutti i suoi risparmi, un'intensa attività per l'organizzazione degli sbandati e della guerriglia, contro le forze che la Repubblica di Salò andava riorganizzando, a fianco dell'esercito di occupazione. Per i meriti acquisiti nella lotta partigiana, Moscatelli fu congedato con il grado di tenente colonnello e gli vennero conferite la medaglia d'argento al valor militare e due croci al merito di guerra. Dopo la Liberazione venne designato sindaco di Novara dal Cln. In seguito, dopo essere stato membro della Consulta nazionale, che doveva preparare l'elezione dell'Assemblea Costituente, e fu parlamentare in più occasioni. Morì a Borgosesia il 31 ottobre 1981. Per la biografia completa si veda il sito web dell’Istituto per la Storia della Resistenza di Biella e Vercelli, www.storia900bivc.it
92 Filippo Beltrami, nato a Cireggio (Novara) nel 1908, caduto a Megolo (Novara) il 13 febbraio 1944, architetto, Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria. Il primo riconoscimento, in qualche modo ufficiale, dell’esistenza nell’Italia occupata di un movimento partigiano, che preoccupava i nazifascisti, è comparso il 29 dicembre 1943 su La Stampa. In un articolo intitolato "I cavalieri della macchia" firmato da Concetto Pettinato, sul giornale torinese si ironizzava a proposito di un "artista lombardo" e di sua moglie, scorrazzanti in Val d'Ossola. Quell’"artista lombardo" era Filippo Beltrami, che sarebbe morto in combattimento un mese e mezzo dopo, cadendo con altri dodici compagni, tra i quali Gianni Citterio, Antonio Di Dio e Gaspare Pajetta. All’epoca capitano d’artiglieria, l’8 settembre del 1943 Beltrami si era trasferito, con moglie e figli, da Milano a Cireggio, in una villa di famiglia. Noto nella zona per le sue idee antifasciste, l’architetto fu ben presto avvicinato da alcuni giovani comunisti che, con un gruppetto di militari sbandati, avevano costituito una formazione partigiana sopra Quarna. Gli offrirono di comandare la piccola banda e il capitano accettò. A dicembre il gruppo contava già oltre duecento effettivi le cui azioni, come dimostrò indirettamente l’articolo su La Stampa, cominciarono a diventare un serio problema per le forze d’occupazione. Per questa ragione il Comando tedesco di stanza a Meina, approfittando del fatto che, nel corso delle ultime azioni, i partigiani di Beltrami erano stati duramente provati, decise di proporgli una sorta di salvacondotto per sgombrare dalla zona. Un colloquio tra il comandante partigiano e quello tedesco, Simon, si concluse con una frase di Beltrami, sferzante come quelle della lettera che aveva spedito a Pettinato dopo la pubblicazione dell’articolo: "…qui siamo a casa nostra, siete voi che dovete andarvene". Il giorno dopo l’incontro, i tedeschi attaccarono di sorpresa e con forze soverchianti la base partigiana di Megolo, che fu occupata soltanto quando i partigiani di Beltrami caddero ad uno ad uno o finirono le munizioni.
93 Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, impiccato a Torino il 22 luglio 1944, maestro elementare e studente in Magistero, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 Vian era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca. Raccolti attorno a sé circa 150 uomini, ne assunse il comando costituendo una delle prime formazioni partigiane e, contrariamente ad altri gruppi che avevano scelto di attendere, cominciò subito la guerriglia. Il 19 settembre la formazione di Vian venne duramente impegnata in combattimento dalle SS del maggiore Joachim Peiper, che avrebbe poi perpetrato la strage di Boves (uccisi 32 paesani inermi e incolpevoli, rase al suolo 44 case, nonostante Peiper si fosse impegnato a non effettuare rappresaglie dopo la restituzione di due SS catturate dai partigiani). Per oltre dodici ore i patrioti resistettero all’attacco nemico, condotto con l’appoggio dell’artiglieria. Mentre Boves bruciava e vi veniva commesso l’eccidio, Vian raggiunse la Val Corvaglia. Alla sua banda affluirono altri volontari, così da raggiungere la forza di una Brigata che continuò, senza tregua, la guerriglia. Nel marzo del 1944, i partigiani di Vian si unirono alle formazioni di Martini Mauri e il giovane tenente assunse la responsabilità di comandante in seconda del 1° Gruppo Divisioni alpine degli "Autonomi". In missione a Torino, il 19 aprile del 1944, il comandante partigiano cadde in mano dei nazifascisti. Venne ripetutamente torturato perché rivelasse nomi e luoghi della Resistenza, ma non cedette. Nel timore di non poter più resistere, dopo settimane di torture, si svenò nel carcere. Fu curato e tre mesi dopo l’arresto, quando a malapena riusciva a reggersi in piedi, i nazifascisti lo impiccarono a un albero nel centro di Torino.
94 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit, p. 190.
95 Ibid, pp.204-205.
96 D. L. BIANCO, Venti mesi di guerra partigiana nel cuneese, Cuneo, Panfilo, 1946, p. 63.
97 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit., p. 190. Questo tratto è comune alla preoccupazione che sembra emergere dalla bozza dell’ordine scritto dal comandante Malerba in merito all’arruolamento, in Appendice, Per una descrizione del fondo Martino, Resistenza, fasc. 10.
98 R. BATTAGLIA, Storia della Resistenza italiana, cit, p. 188.
99 Facevano parte del ricostituito Comitato militare il maggiore Gonella e Carlo Marsaglia per il PLI, Maurizio Fracassi per la DC, Pittavino per il PSI, Galimberti per il Pd’A, Pratolongo per il PCI. Inoltre vi erano, in qualità di consulenti militari, il generale Alessandro Trabucchi (Alessandri), il generale Carlo Drago (Nito), il maggiore Creonti e il colonnello Contini (Elle). Cfr M. GIOVANA, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, cit., p. 100.
Lodovico Como, Dall'Italia all'Europa. Biografia politica di Edoardo Martino (1910-1999), Tesi di Dottorato, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Anno Accademico 2009/2010

giovedì 16 dicembre 2021

Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese

Una vista dal Colle del Melogno - Fonte: Luca Magini su Mapio.net

Ai primi di settembre del 1944 sembrò per qualche tempo che la liberazione potesse essere vicina. Gli Alleati erano sbarcati in Provenza il 15 agosto, provocando un rapido crollo delle posizioni tedesche in tutta la Francia meridionale. Sembrava ora ragionevole attendersi un’offensiva generale degli americani attraverso i passi alpini, approfittando della stagione ancora clemente e dell’appoggio delle forti formazioni partigiane piemontesi e liguri, che certo non sarebbe mancato. Ma gli strateghi angloamericani avevano altri progetti: ritenendo prioritario l’attacco allo schieramento nemico tra i Vosgi e i Paesi Bassi, fermarono le loro truppe su una linea che lasciava il confine franco-italiano e l’intera valle del Roia saldamente in mani tedesche. Siffatta scelta, forse opportuna dal punto di vista militare, condannò tutto il Nord Italia ad un nuovo inverno di occupazione, ma, probabilmente, gli evitò le immani distruzioni causate dai combattimenti nel resto del Paese.
Nel clima di fibrillazione di quei giorni, alimentato ad arte dalla trionfalistica propaganda di Radio Londra, i partigiani imperiesi della Prima Zona ligure, credendo fosse giunta l’”ora x”, abbozzarono una calata insurrezionale sui centri della costa che venne stroncata sul nascere da un vasto rastrellamento tedesco talmente tempista da risultare sospetto <1.
I savonesi, meno numerosi ed organizzati oltre che più distanti dal fronte, continuarono la loro attività di guerriglia con il consueto vigore, ma senza esporsi in arrischiate azioni su grande scala. Dopotutto, lo stesso Comando Generale delle Brigate Garibaldi avrebbe rammentato pochi giorni dopo che “L’ora x è già suonata” <2 e che pertanto l’obiettivo principale dei partigiani non doveva consistere solo nel prepararsi ad una futura insurrezione, bensì nell’attaccare giorno per giorno il nemico senza mai concedergli tregua <3.
A Savona come altrove, questa direttiva giunse a conforto di una linea d’azione ormai perseguita da mesi.
La tarda estate vide un contemporaneo fenomeno di rafforzamento quantitativo e qualitativo delle unità partigiane di montagna e di città e un serio indebolimento dei corpi armati della RSI: in particolare la divisione “San Marco” continuava ad essere falcidiata dalle diserzioni, come rilevavano le scarne note informative della GNR <4. Molti “marò” erano spinti a “tagliare la corda” dalle insistenti voci di un prossimo ritorno in Germania della divisione, tanto che il 14 settembre il generale Farina dovette intervenire di persona con un ordine del giorno rivolto ai suoi uomini che recitava testualmente: ”Le voci messe in giro sono false ed hanno l’unico scopo di far perdere la fiducia a quelli fra noi che sono più deboli. Io so che qualcuno ha perso la testa e, lasciandosi ingannare dalla propaganda avversaria, si è messo in condizioni di pagare con la propria vita il disonore e la stupidaggine di aver creduto ai traditori. La propaganda nemica e i traditori interni hanno ora di nuovo fatto subdolamente circolare la voce che i reparti italiani ritornerebbero oltr’Alpe, in Germania. Io sono uomo di parola e sono gran signore del mio onore e di quello della divisione “San Marco”. Malgrado tutte le debolezze già dimostrate, io do fiducia a tutti e assicuro che noi abbiamo il diritto e il dovere di rimanere tutti al nostro posto di combattimento. Nessuno dubiti. Nel territorio di guerra italiano noi continueremo fino all’ultimo a combattere” <5.
Le rassicurazioni di Farina trovarono tuttavia orecchie sorde a qualsiasi richiamo, mentre le paure e le lamentele dei “sammarchini” erano oggetto della più sentita (ed interessata) comprensione da parte degli uomini e delle donne della Resistenza savonese. Un quadro realistico ed impressionante dello sbandamento attraversato dalla grande unità comandata da Farina è dato dal furibondo rapporto stilato dal generale tedesco Ott, ispettore dei gruppi di addestramento della Wehrmacht presso le divisioni dell’esercito della RSI, che il 16 settembre aveva fatto visita alla “San Marco”, riportandone un’impressione terribile. A detta di Ott, entro la metà del mese i disertori della “San Marco” erano già qualcosa come 1400 (il 10% dell’intera divisione!). Più in dettaglio, Ott notava come le diserzioni raggiungessero punte impressionanti (20%!) nelle truppe addette ai rifornimenti e nelle piccole pattuglie, mentre i reparti regolari parevano tenere in misura accettabile. Per ovviare a tale disastro, Ott avanzava una serie di proposte quali la sorveglianza di militari tedeschi su tutte le operazioni di rifornimento, fucilazioni, presa di ostaggi e invio di civili in lager per stroncare l’istigazione a disertare, un controllo meticoloso degli uomini che portasse all’eliminazione degli ”elementi cattivi” in particolare tra gli ufficiali e i nuovi arrivati, l’impiego del controspionaggio divisionale (sezione Ic) per la sorveglianza degli ufficiali e dei rapporti della truppa con i civili, un deciso attivismo nella lotta antiribelli per incoraggiare gli uomini, che dovevano comunque essere tenuti sempre impegnati, il ristabilimento di una disciplina ferrea e un attento esame del comportamento degli ex Carabinieri impiegati come polizia militare <6.
Tanta attenzione era pienamente giustificata dalle abnormi dimensioni del fenomeno e dalla crescente aggressività delle formazioni partigiane, che si erano ormai scrollate di dosso qualsiasi atteggiamento di tipo attendista. E se tra le aspre montagne liguri il pericolo era sempre in agguato, nel capoluogo e negli altri centri della costa la sicurezza era un fattore di giorno in giorno più aleatorio a causa dell’inarrestabile crescita organizzativa delle SAP, che aveva consentito il sorgere di nuovi distaccamenti e il rafforzamento di quelli esistenti, nonché l’estensione dell’area di attività dei gruppi sapisti.
Le zone che videro svilupparsi nuovi nuclei SAP furono quelle ad occidente di Savona. A Quiliano, sede sorvegliatissima di ben due comandi reggimentali della “San Marco”, e nella frazione di Valleggia, sorsero a fine agosto i distaccamenti “Rocca” e “Baldo”, forti di un pugno di uomini ciascuno, ma validamente appoggiati dai civili. La zona di Quiliano era nevralgica per i garibaldini, perché da essa e dalla Valle di Vado passava la gran parte dei rifornimenti di armi e volontari destinati alla Seconda Brigata <7. Pullulante di spie, doppiogiochisti, disertori, staffette e delatori, il Quilianese divenne rapidamente un fulcro della guerra civile, e il clima di violenza che vi si instaurò a partire dall’estate permase ancora a lungo dopo la Liberazione. Nella confinante area di Vado i sapisti, non ancora organizzati in brigata, ottennero in agosto e settembre notevoli successi nell’opera di reclutamento di “sammarchini” da inviare in montagna con armi e munizioni. A Porto Vado, a Sant’Ermete e nella Valle di Vado interi presidi, forti di decine di uomini, si squagliarono per le diserzioni e i continui attacchi dei sapisti finalizzati al recupero degli uomini <8. Come avveniva regolarmente in questi casi, una buona metà dei “marò” che disertavano si unì ai partigiani della Seconda Brigata; i restanti, dopo breve tempo, venivano lasciati andare sulla parola, e prendevano la strada di casa. In seguito al controllo sempre più stretto esercitato sulla zona a dispetto dei rabbiosi rastrellamenti, i sapisti furono poi in grado di creare addirittura un ospedaletto da campo per i garibaldini feriti, alloggiato in una stalla del paese di Segno <9. Se a Spotorno, sede del Comando generale tedesco per la Riviera di Ponente, l’attività dei piccoli nuclei ancora non formalizzati si espletava nell’accompagnamento dei disertori della “San Marco” al distaccamento “Calcagno”, a Finale e a Pietra Ligure operavano i distaccamenti SAP “Simini” e “Volpe” (poi “Fofi”), che il 28 agosto formarono la brigata “Perotti”. Questa unità nacque per coordinare i gruppi fondati da “Basilio” (Orso Pino), precedentemente organizzati come GAP, e poté subito fare affidamento sul personale dell’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, attivo centro nevralgico della resistenza al fascismo repubblicano <10.
Per la Seconda Brigata il mese di settembre significò una lieve diminuzione dell’attività <11 accompagnata da una rapida espansione degli organici. Infatti, stando ai documenti, non meno di 553 uomini risultano essere entrati a far parte dei vari distaccamenti garibaldini durante il mese in questione (e si trattò del dato mensile più elevato in assoluto) <12, anche se bisogna tener conto dei passaggi di volontari da un’unità all’altra. Almeno la metà erano disertori della “San Marco” <13, che andarono a formare il grosso dell’organico di tre distaccamenti, il “Minetto”, poi trasferito nelle Langhe alle dipendenze della 16a Brigata Garibaldi a metà ottobre <14, il “Bruzzone” ed il “Maccari”. Significativa è la quasi totale assenza di disertori della “San Marco” nei ranghi del distaccamento “Calcagno” in questo periodo: da un lato il “distaccamento modello” era già sufficientemente fornito di uomini atti al combattimento, dall’altro il suo accampamento fungeva sovente da centro di smistamento delle nuove reclute verso le altre unità garibaldine. In tal modo la “purezza” ideologica ed etnica (i volontari erano pressoché tutti di Savona, Vado e Quiliano) della “punta di diamante” del partigianato garibaldino savonese si manteneva intatta.
Nel complicato e a tratti oscuro quadro della formazione dei nuovi distaccamenti riveste un certo interesse il caso del “Moroni”, che viene citato a partire dall’8 settembre 1944. Questo distaccamento si trasformò ben presto in un’autentica succursale ligure dell’Armata Rossa perché tra il 15 ed il 20 del mese vi furono incorporati ben 22 cittadini sovietici <15, soldati non più giovanissimi che con tutta probabilità servivano controvoglia nella Wehrmacht come Hiwis (Hilfswillige, ossia “volontari” reclutati nei lager in cui a milioni morivano di fame i prigionieri di guerra sovietici). Non si trattava dell’unico distaccamento “internazionalista”: anche il “Revetria” era ben fornito di russi, polacchi e perfino tedeschi ed austriaci antinazisti o più semplicemente stanchi di battersi per qualcosa in cui non credevano <16.
L’attività armata dei garibaldini, pur meno intensa che nel mese precedente a causa dei problemi organizzativi accennati sopra, si mantenne su livelli tali da perpetuare lo stato d’emergenza in tutta la provincia. In più, come vedremo in dettaglio, il raggio d’azione della Seconda Brigata si allargò a raggiera fin verso l’Albenganese, l’Alta Val Tanaro e le Langhe. I primi ad attaccare furono i volontari del neonato distaccamento “Minetto”, che il giorno 2 prelevarono il presidio “San Marco” di Pietra Ligure (19 uomini) con tutte le armi in dotazione <17, e i veterani del “Calcagno”, che ai primi del mese <18 piombarono di sorpresa con quattro squadre sul Semaforo di Capo Noli, ottenendo la resa di sedici “marò” e recuperando un ingente quantitativo di materiale.
Tre giorni dopo il Comando Brigata corse un rischio gravissimo in seguito ad un’improvvisa puntata nemica. In piena notte un forte contingente misto (forse 200 uomini, probabilmente di meno) composto da SS e Feldgrau (polizia militare tedesca) con cani poliziotto scese furtivamente dalla cima del Settepani nel tentativo di sorprendere il Comando acquartierato presso la base del distaccamento “Maccari”, nelle vicinanze del paese di Osiglia, ma non riuscì ad eliminare le due sentinelle senza far uso delle armi da fuoco, e ciò consentì ai garibaldini di battere rapidamente in ritirata senza ulteriori perdite, ripiegando sul campo del “Nino Bori” dopo una lunga marcia di trasferimento <19.
Anche il “Revetria” sfuggì ad un rastrellamento compiuto dagli “Arditi” della “San Marco”, che ne incendiarono l’accampamento; poco dopo, rinforzato dalla squadra GAP del Comando Brigata, il distaccamento passò al contrattacco infliggendo serie perdite al nemico in ritirata <20.
Entrambe le puntate nazifasciste erano ispirate ad una nuova dottrina della controguerriglia che prevedeva attacchi limitati ma improvvisi e frequenti in luogo di grandi rastrellamenti condotti con forze preponderanti ma poco mobili <21. In realtà la lotta antipartigiana fu poi condotta applicando di volta in volta il sistema più adatto in relazione all’importanza dell’obiettivo e alle forze a disposizione dei rastrellatori. Il 10 agosto un importante successo fu riportato dal “Giacosa”, che si impadronì di una polveriera tra Millesimo e Cengio catturando ben 43 “marò” e rastrellando armi e munizioni in quantità <22. Il giorno successivo vide all’attacco il distaccamento “Bruzzone”, che guidato da “Ernesto” (Gino De Marco) e “Gelo” (Angelo Miniati) assaltò una postazione tedesca a Nucetto, in Val Tanaro, uccidendo due soldati <23. Il 14 fallì un attacco portato dal distaccamento “Rebagliati” contro il presidio di Calice Ligure <24: rimase sul terreno il partigiano “Falco” (Franco Leonardi, romano, classe 1925 <25).
Proprio a Calice era acquartierata la Controbanda della “San Marco”, un reparto specializzato nella repressione antipartigiana alle dipendenze del III° Battaglione del VI° Reggimento. Si trattava inizialmente di un centinaio di “marò”, scelti tra i più decisi e fanatici e comandati dal tenente Costanzo Lunardini coadiuvato dal sottotenente Fracassi <26. Armati ed addestrati in modo eccellente, gli uomini della Controbanda di Calice iniziarono subito un serrato duello con i garibaldini locali e in particolar modo con il distaccamento “Rebagliati”, che a più riprese pagò a caro prezzo la ferocia e l’astuzia di questi commandos, usi ad ogni atrocità e più volte travestiti da partigiani per ingannare i civili.
Il triangolo Finale - Melogno - Monte Alto divenne così uno dei punti focali della guerra civile nel Savonese.
[NOTE]
1.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 161.
2.    Ibidem.
3.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 77.
4.    Cfr. ibidem, pp. 77 - 78 e G. Gimelli, op.cit., vol. I, p. 162.
5.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit, p. 78.
6.    Ibidem, p. 74.
7.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
8.    Ibidem, vol. I, pp. 74 - 75.
9.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 106.
10.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 75.
11.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, p. 165.
12.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 76.
13.    E. Caviglia, op. cit., p. 490.
14.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 107.
15.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
16.    Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, INSMLI - Istituto Gramsci - Feltrinelli, Milano, 1979, vol. I, p. 281.
17.    Ibidem, vol. I, pp. 293 - 295.
18.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
19.    G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 165 - 166.
20.    G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Mondatori, Milano, 1995, p. 261.
21.    R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., p. 80.
22.    Ibidem, p. 81.
23.    Per lo sciopero del 1° marzo 1944 vedi in ibidem, pp. 84 - 90; cfr. G. Gimelli, op. cit., vol. I, pp. 188 - 191.
24.    Addirittura, pochi giorni prima, tutti i questori delle province interessate dallo sciopero si erano riuniti a Valdagno.
25.    N. De Marco - R. Aiolfi, op. cit., p. 108.
26.    Per la strage di Valloria, vedi R. Badarello - E. De Vincenzi, op. cit., pp. 90 - 92.
Stefano d’Adamo, "Savona Bandengebiet - La rivolta di una provincia ligure ('43-'45)", Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000
 
La Controbanda! Storia e operazioni del III Gruppo Esplorante Arditi e della Controbanda di Calice Ligure ‐ Divisione F.M. San Marco - Edito da ITALIA Storica, Genova 2014 - Formato 17x24, 300 pagine, più di 150 illustrazioni b/n e colori e riproduzioni di documenti e due mappe...
Sadici torturatori di partigiani e rastrellatori di civili inermi, o una delle migliori unità per la controguerriglia delle forze italo-tedesche in Italia nel 1943-1945? Il III Gruppo Esplorante della Divisione Fanteria di Marina “San Marco” dell’Esercito Nazionale Repubblicano, derivante dal 10° Reggimento Arditi e comandato dal Tenente Colonnello Vito Marcianò, contese con successo l’entroterra ligure e le Langhe ai partigiani dal 1944 al 1945, non subendo le tattiche partigiane, con il loro stillicidio di imboscate e colpi di mano, ma rivoltando verso le bande queste stesse tattiche, affinate e messe in pratica con la spietata efficienza militare tipica dei reparti Arditi. Il Gruppo operò prima in Liguria alle dipendenze della 34. Infanterie-Division del Generale Theobald Lieb, che seppe per primo sfruttarne appieno le capacità offensive, e poi rientrò alla Divisione “San Marco”, mantenendo però sempre, dato l’altissimo spirito di corpo e rendimento degli Arditi e il carisma del loro comandante, una netta indipendenza d’azione dalla Grande Unità. Gli Arditi del Comandante Marcianò divennero presto un vero incubo per le formazioni partigiane, costantemente individuate e braccate dalle pattuglie a lungo raggio del Gruppo Esplorante, capaci di penetrare sin nei rifugi ritenuti più sicuri dalle bande. Le operazioni del Reparto sono qui ricostruite in dettaglio attraverso un bilanciato confronto di spesso contrastanti fonti edite e d'archivio, tra le quali il verbale del processo al Comandante Marcianò e a diversi membri dell'Esplorante tenuto ad Asti nel 1947, qui riprodotto per la prima volta, integrate dalle voci relative al Gruppo del Diario di guerra della Divisione e da un resoconto sulle sue azioni scritto nel dopoguerra dal Generale Comandante della “San Marco” Amilcare Farina. Un capitolo tratta poi il secondo reparto specializzato nella controguerriglia della Divisione “San Marco”, ossia la “Controbanda” del Tenente Costanzo Lunardini del III Battaglione del 6° Reggimento Fanteria di Marina, accasermata a Calice Ligure nel 1944-1945. Altre sezioni del libro includono le uniformi, i distintivi e l'equipaggiamento dei reparti in oggetto, le decorazioni al Valor Militare concesse, le tenute da controinterdizione nei conflitti contemporanei e una vasta iconografia, spesso inedita.
a cura di Andrea Lombardi, Zimmerit Forum