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domenica 19 novembre 2023

La nascita dei GAP


Il 20 settembre 1943 a Milano in casa dei coniugi Morini nacque il Comando generale delle Brigate Garibaldi, alla presenza di Massola, Roasio, Novella, Negarville, Scotti, appena rientrato dalla Francia, e Secchia, giunto da Roma. Nei giorni successivi sarebbe arrivato anche Longo, mandando Negarville a Roma e assumendo la responsabilità militare delle Brigate del Pci, mentre Secchia era incaricato della guida politica. Nonostante la mancanza di un'effettiva struttura di partito in Italia, si scelse di rompere l'attesismo e lanciare nell'immediato l'attacco all'occupante e al suo collaboratore. Pur con supporti logistici da socialisti e azionisti, in Italia come in Francia, i comunisti risultano gli unici fautori del terrorismo urbano, mentre gli altri partiti antifascisti "non sono convinti della sua produttività, in termini di consenso da parte dei cittadini, e della praticabilità, in termini morali, del terrorismo urbano" <16. Per il PCI invece, l'esperienza di vita clandestina e di lotta in Francia fu di centrale importanza nella decisione di ricorrere a tale pratica, di cui conosceva già le modalità e i fini, ma anche i rischi e le difficoltà. La scelta di ricorrere alla guerriglia in città fu adottata consapevolmente, in accordo con il comportamento dei comunisti a livello europeo e con la convinzione di costituire l'avanguardia del movimento operaio nella liberazione. Una filiazione delle azioni dei GAP da quelle dei FTP, un filo diretto com'è dipinto da Amendola nel suo panegirico di Ilio Barontini, può forse essere valido sul piano strettamente personale, apparirebbe invece sul piano storiografico un salto deduttivo, in relazione alle scarse informazioni ufficiali sull'operato degli italiani a Marsiglia.
Per Amendola "l'azione all'albergo Terminus divenne l'azione compiuta dai Gap romani contro l'albergo Flora, con la stessa tecnica e l'ordigno gettato davanti alla coda della casa di tolleranza di Marsiglia, divenne l'ordigno gettato da Bentivegna davanti al cinema Barberini a Roma" <17.
Questi eventi potevano forse essere legati nella memoria del protagonista, che si servì del precedente di alcune azioni realizzate in Francia da comunisti italiani per la guerriglia in patria, ma, in assenza di testimonianze e riscontri documentari, tali parallelismi non possono valere sul piano storiografico. Si può tuttavia riconoscere che le strutture di un organismo già noto servirono da modello alla preparazione delle squadre deputate al terrorismo nelle città italiane. Santo Peli riconosce l'imprescindibilità dell'esperienza francese all'inizio della sua storia dei GAP, asserendo che "senza questi dirigenti, senza l'esperienza della concreta organizzazione della lotta armata nelle città di Lione, a Marsiglia, progettare la formazione dei Gap sarebbe stato impensabile" <18.
I comunisti passati per la Francia costituirono lo scheletro dei Gap ma dovettero scontrarsi in Italia con i nodi già presentatisi ai comunisti francesi, il timore delle rappresaglie, l'impreparazione della classe operaia italiana a questo tipo di lotta, la scarsità cronica dei reclutati. Com'era successo oltralpe infatti, la previsione di versare alla lotta armata in città il 10% dei propri effettivi fu impossibile da realizzare per tutta la durata dell'occupazione. La direzione comunista decise comunque che bisognava agire e i più versati nella lotta armata furono impiegati nell'attuazione della direttiva, colpire e sabotare il nemico in città sin dalle prime settimane. Anche i problemi logistici sorti in Francia, la necessità di documenti falsi, armi, vettovagliamenti e appartamenti, si ripresentarono in Italia, aggravati però dalla mancanza di una struttura clandestina preesistente alla lotta, come quella del PCF. I finanziamenti per i Gap vennero dai contributi richiesti ai tesserati al partito, ma anche dalle cosiddette azioni di recupero, ovvero rapine in banca o assalti alle caserme fasciste, esponendo i patrioti alla mescolanza con criminali comuni e con individui di dubbia moralità.
Ad ogni modo, il 25 ottobre Longo, telegrafando a Mosca sulle novità dell'estate e l'armistizio, poteva riferire sinteticamente "Sta nascendo la guerriglia" <19. Infatti le risorse umane più attive del partito erano mobilitate: sotto la guida di Longo e Secchia, Scotti era ispettore generale incaricato dell'organizzazione della lotta in Piemonte, Lombardia e Liguria, mentre a Roasio spettavano il Veneto, l'Emilia e la Toscana. Ritroveremo molti dei militanti addestrati in Spagna e Francia incaricati della costituzione delle singole brigate, mentre Ilio Barontini, prima di assumere la responsabilità militare in Emilia, viaggiò nelle principali città italiane per dare consigli ai comandanti di formazione e insegnare come fabbricare gli ordigni. Come in Francia quindi, non si attese di avere i mezzi e gli uomini necessari alla lotta, ma furono ampiamente dispiegate le risorse disponibili, nella convinzione che bisognasse agire subito, poiché spettava al partito il compito di innescare la miccia per l'azione delle masse.
Il 24 ottobre Ateo Garemi e l'anarchico Dario Cagno colpirono a morte Domenico Giardina, seniore della Milizia a Torino, e, catturati in seguito all'azione, lasciarono spazio al I Gap del Piemonte, guidato da Giovanni Pesce. Le prime azioni di Garemi e Cagno, che, pur avendo avuto contatti con il partito, non ne dipendevano, rientravano nell'ambito di azioni di disturbo da parte di un gruppo anarco-comunista, i cui obiettivi risultavano abbastanza casuali, come per altre cellule autonome, ad esempio Stella Rossa. Appunto per portare sotto la propria autorità la lotta urbana, il PCd'I convocò a Torino Remo Scappini in qualità di responsabile federale, Arturo Colombi, responsabile regionale, e Romano Bessone, commissario politico dei Gap per la città <20. Tutti e tre militanti di vecchia data, i primi due passati per Mosca, per l'emigrazione in Francia e la detenzione a Civitavecchia, Colombi anche per il confino a Ventotene. Bessone invece era nato nel vercellese nel 1903, operaio comunista dalla gioventù, era stato deferito al Tribunale Speciale nel 1927 per aver partecipato ad una riunione comunista nei pressi di Torino. Resosi latitante, fu arrestato il 25 ottobre 1930 e condannato a 16 anni di reclusione e 3 di libertà vigilata, ridotti poi a 7 per amnistia, fu scarcerato nell'ottobre 1935. Al momento dell'arresto dichiarò di essere tornato da Mosca e fu trovato in possesso di volantini comunisti. Durante la reclusione, a partire dal '32, gli fu impedito di tenere corrispondenza con Elodia Malservigi, dattilografa residente in Russia che dichiarò di aver sposato con rito sovietico a Nowieltz nel 1928. La sua scheda personale riporta che in carcere "tenne cattiva condotta politica, appalesandosi pericolosissimo comunista. Pertanto è stato incluso nel 2° elenco di sovversivi pericolosi da arrestare in determinate contingenze" <21. Infatti, dopo l'ingresso in guerra, il 20 luglio 1940, era stato inviato al confino a Ventotene, dove aveva ripreso contatto con i dirigenti confinati e da cui sarebbe stato liberato nell'agosto '43, poche settimane pima di ricevere la responsabilità della formazione dei Gap torinesi. La direzione fu invece affidata al venticinquenne Giovanni Pesce, che abbiamo incontrato tra i giovani accorsi in Spagna sette anni prima. Al rientro in Francia era tornato dalla famiglia nella regione della Gran Combe ma, vista la difficoltà di trovare lavoro e il timore di essere internato per la propria condizione di straniero comunista, entrò clandestinamente in Italia e fu arrestato a Torino il 23 marzo 1940. Trasferito a Ventotene sei mesi dopo, vi trovò compagni vecchi e nuovi: "Terracini, Scoccimarro, Secchia, Roveda, Frasin, Camilla Ravera, Spinelli, Ernesto Rossi, Li Causi, Pertini, Bauer, Curiel, Ghini" <22. In assenza di militanti provati da versare alla nascente formazione, Bessone e Pesce si volsero agli appartenenti a queste cellule di fabbrica spontanee, comuniste ma non legate alla linea di partito, reclutando giovani provenienti soprattutto dall'ambiente operaio.
In Lombardia invece, il comando regionale era assegnato alla metà di ottobre a Vittorio Bardini, responsabile politico, a Cesare Roda, responsabile tecnico, e ad Egisto Rubini, addetto alle operazioni. Il profilo di questi uomini è quello spesso incontrato nel nostro percorso: tutti sopra i 35 anni, divenuti nell'esilio rivoluzionari professionali, passati per la Spagna, e Rubini anche per i FTP del Sud della Francia. In questi parametri generali rientravano tutti i comandi regionali e i principali istruttori dei distaccamenti, che si esposero in un primo momento per dare l'esempio ai nuovi, sotto i trent'anni, che sarebbero stati i fautori del terrorismo urbano. Il primo obiettivo di grande rilievo fu Aldo Resega, responsabile della federazione del fascio a Milano, colpito dal primo nucleo operativo dei GAP milanesi, che sarebbe diventato il distaccamento Gramsci (Validio Mantovani Barbisìn, Carlo Camesasca Barbisùn, Antonio La Fratta Totò e Renato Sgorbaro Lupo). Come rileva Borgomaneri, autore del lavoro più completo sul terrorismo urbano a Milano, "il primo gappismo milanese nasce dalla fabbrica e affonda le proprie radici in quell'oscuro lavoro di agitazione, di propaganda e di proselitismo che l'organizzazione comunista è riuscita a tessere nel ventennio,[inoltre…] la prima forza combattente dei Gap è costituita da operai non più giovanissimi" <23. Essi erano infatti tutti operai dell'area di Sesto San Giovanni, il più giovane, Mantovani, aveva 29 anni, il più anziano, La Fratta, 35. I ragazzi, inesperti poco più che ventenni, sarebbero subentrati tra il gennaio e la primavera. Il 18 dicembre 1943, in concomitanza con uno sciopero che bloccava da giorni i principali stabilimenti milanesi, il federale venne atteso all'uscita della propria abitazione. La Fratta e Mantovani erano di guardia, uno accanto al portone e l'altro all'angolo della via, Camesasca e Sgorbaro nei pressi di un edicola leggevano un giornale, dietro il quale erano nascoste le armi. Resega venne colpito nel momento in cui il proprio cammino incrociava quello dei terroristi, che si affrettavano poi a raggiungere le biciclette e fuggire nel trambusto creato dagli spari. Le prime azioni, spesso improvvisate, rappresentavano per questi militanti, provati ma non temprati nella lotta, una prova del fuoco, lo scoglio da superare per altre azioni. Borgomaneri individua alla fine del '43 due distaccamenti, il Gramsci di Mantovani e il Cinque giornate di Oreste Ghirotti, composti ciascuno da tre squadre. Con le azioni iniziarono però anche le prime cadute. Il 19 dicembre Arturo Capettini, addetto alla logistica e ai rifornimenti di armi, fu arrestato. In seguito al rinvenimento di materiale bellico ed esplosivo nel suo magazzino di riparazione per biciclette, esso divenne una trappola per alcuni ragazzi del Cinque giornate, come Stefano Brau e Augusto Mori. L'individuazione di Sgorbaro portò inoltre all'isolamento del gruppo di Sesto, lasciando spazio alle azioni dei distaccamenti Matteotti e Rosselli, autori in gennaio di attacchi nei ritrovi tedeschi e mordi e fuggi in bicicletta. All'inizio di febbraio, per l'omicidio del nuovo questore di Milano, Camillo Santamaria Nicolini, fu richiamato il distaccamento Gramsci, del quale Camasasca e Mantovani erano stati promossi responsabile militare e politico. In questa fase più avanzata della guerriglia in città però, le autorità non si muovevano a piedi senza protezione: il piano prevedeva perciò di colpire Nicolini in auto da un'altra auto in corsa, una lancia Aprilia appositamente rubata a due tedeschi. L'azione, affidata ai giovani di Niguarda (Elio Sammarchi, Dino Giani e Sergio Bassi) ricorda ancora una volta come la riuscita di un colpo fosse questione di attimi, in cui non mancava l'intervento del caso. Un tram si interpose tra le due vetture e una frenata dell'autista di Nicolini impedì che venisse colpito. L'ultima azione di questa prima fase del gappismo milanese fu un attacco alla casa del fascio di Sesto San Giovanni il 10 febbraio 1944, compiuto con l'aiuto di un operaio della Breda infiltrato, Lacerra. Egli però, invece di lasciare la città (come previsto) si recò sul proprio posto di lavoro, dove fu arrestato due giorni dopo, portando ad una catena di arresti e delazioni che sbaragliò i gruppi di città, giungendo sino al vertice con la cattura di Bardini, Roda e Rubini. Quest'ultimo e Ghirotti si suicidarono in carcere dopo giorni di tortura. Il terrorismo urbano a Milano si sarebbe riacceso in estate, grazie alla riorganizzazione di Giovanni Pesce, che nell'inverno '43 era però ancora a Torino.
[NOTE]
16 Santo Peli, Storie di Gap, op.cit., pag. 31.
17 Amendola, Comunismo, Antifascismo, Resistenza, op.cit., pag. 364.
18 Santo Peli, Storie di Gap, op.cit., pag. 33.
19 Longo, op.cit., pag. 100-101.
20 Nicola Adduci, Il mito e la storia: Dante Di Nanni, in Studi Storici, fascicolo 4, settembre-ottobre 2012, pag. 260-262.
21 Acs, Cpc, fascicolo personale, busta 591
22 Giovanni Pesce, Senza Tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, Milano 1967, pag. 161.
23 Luigi Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia. 1943-1945, Franco Angeli, Milano, 1995, pag. 24.
Elisa Pareo, "Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019

venerdì 23 dicembre 2022

Il carattere dell’attività garibaldina in Valtellina è essenzialmente militante

Cataeggio, Frazione del Comune di Val Masino (SO). Fonte: Paesi di Valtellina e Valchiavenna

Il 10 giugno 1944 la Delegazione per la Lombardia del Comando Generale delle Brigate d’assalto Garibaldi inviava al Comando Generale un rapporto in cui esponeva l’attività svolta nei due mesi precedenti. A fine aprile “i risultati - si legge nel rapporto - furono scarsi, né poteva essere altrimenti, […] in quanto perdurava ancora nelle differenti federazioni una incomprensione ed una sottovalutazione del lavoro militare che ostacolava e rendeva difficile non solo lo sviluppo del lavoro stesso, ma anche la presa di collegamento con le forze esistenti” <1. Nei centri lombardi le forze gappiste erano quasi inesistenti e le poche formazioni partigiane in attività erano disperse e isolate nelle province. La relazione arieggiava un testo assai più duro scritto in quegli stessi giorni dalla sezione organizzazione ed effettivi del Comando generale e forse mai spedito. In esso si legge che “in Lombardia esiste una sola brigata Garibaldi, 3° Lombardia, ma praticamente inesistente perché è stata disorganizzata dai colpi della polizia […]. Cosa volete che sia una brigata inesistente di fronte alle nove del Piemonte, sei dell’Emilia, quattro del Veneto e quattro delle Marche? Come vedete la vostra regione è alla coda del movimento partigiano in Italia e questo ritardo è tanto più grave se si considera la forza organizzativa del Partito nella regione […], la combattività della classe operaia dimostrata in vari scioperi generali, l’odio antitedesco e antifascista della popolazione e questa constatazione è un disonore per voi. Dovete al più presto mettere fine a questo stato di cose […]. In ognuna delle vostre vallate: Brescia, Sondrio, Pavia, dove avete già dei distaccamenti organizzati, nel Bergamasco, nel Varesotto, dove certamente ci sono dei distaccamenti partigiani di cui voi non sapete nemmeno l’esistenza, in ognuna di queste valli dovete organizzare una brigata Garibaldi” <2.
Difficile essere più chiari, ma la durezza del tono era dettata dall’urgenza del momento: Roma era appena stata liberata e le truppe di Eisenhower avevano messo piede in Francia, col grandioso e terribile sbarco in Normandia; a est l’esercito sovietico si stava concentrando per lanciare un’offensiva che stringerà in una morsa le truppe tedesche. La liberazione sembrava ottimisticamente vicina e il movimento partigiano non poteva farsi trovare impreparato. “Ogni vallata, ogni montagna, ogni città e villaggio deve avere il suo gruppo armato di patrioti che disturbi con attacchi continui il nemico” <3.
[...] I due pungoli dei comandi garibaldini lombardi furono dunque il senso della inadeguatezza del movimento partigiano in Lombardia e la necessità di prepararsi per la liberazione, che non doveva essere lontana. “Il 6 giugno - ricorda Nicola [Dionisio Gambaruto] - gli alleati erano sbarcati in Normandia e noi della Resistenza avevamo ricevuto l’ordine di entrare in azione dappertutto per allargare il più possibile il conflitto e per disturbare la marcia delle truppe fasciste e tedesche” <10. I partigiani garibaldini si fecero subito comandanti di distaccamento e si diedero ad organizzare le formazioni partigiane dall’interno. Era il lavoro militare, la mancanza del quale aveva pregiudicato i successi della Resistenza lombarda nella passata primavera. A luglio, nella loro relazione per la federazione e il comando militare, Ario e Silvio ricordarono che “furono scelti i migliori elementi e preparati per coprire posti di comando […]. Il distaccamento fu così organizzato: nucleo - 6 uomini compreso il capo nucleo; squadra su 2 nuclei, più il Capo Squadra; Distaccamento - su 2 squadre, più il Comandante, il Commissario, il Vice Comandante più alcuni elementi per servizi vari” <11. Furono costituite sei basi di appoggio, che dovevano servire da magazzino e da recapito e furono imbastiti i collegamenti con la federazione, il comando militare, il Fronte della Gioventù, il comando unico. I partigiani disponevano poi di due uffici di intendenza collegati con Milano, di un ufficio informazioni e di un medico per il servizio sanitario <12.
Il 25 maggio, in risposta al bando di Mussolini per l’arruolamento nell’esercito di Salò, fu costituita la 40° Brigata Matteotti, divisa in due zone: il Fronte nord, sul lato destro della Valtellina fino a Sondrio, e il Fronte sud, dalla Val Gerola all’alta Valsassina. A capo del primo fu posto Nicola, il secondo fu affidato ad Aldrovandi. Da questi due tronchi nasceranno, nel luglio del 1944 le due brigate Garibaldi della Valtellina: la 40° Matteotti e la 55° Rosselli. Gli effettivi al 10 luglio ammontavano già a cinquecento uomini, per lo più giovani mandati dal Fronte della Gioventù e provenienti da Lecco e da Milano. Ma la loro preparazione lasciava molto a desiderare. Scrivevano Ario e Silvio: "Non andiamo per nulla bene […]. Il 90 % dei giovani del F.d.G. inviati o si sono sbandati o sono ritornati a casa e molti sono stati arrestati perché destavano sospetto in gruppo o hanno parlato lungo il viaggio della loro meta. La maggioranza sono arrivati scalzi e credevano di trovare l’Eden. Il compito principale del F.d.G. è di prepararli a sopportare le dure fatiche della montagna e di tutto il nostro lavoro. Bisogna che prima di partire sappiano che il cibo è scarsissimo che le armi non sono a disposizione come in una caserma, ma che si devono prendere al nemico e che un fucile è già un’arma preziosa per il partigiano" <13.
Il carattere dell’attività garibaldina in Valtellina è essenzialmente militante: il suo obiettivo è il potenziamento del movimento partigiano dall’interno, la sua espansione e lo sviluppo dell’organizzazione. Ma il momento  dell’organizzazione è congiunto all’azione bellica e ne è per così dire il prolungamento: “la migliore organizzazione militare sorge e si tempra alla prova del fuoco”, scrivono Ario e Silvio in maiuscolo nella loro relazione e sono parole che torneranno nelle carte dei comandi partigiani <14.
A fine agosto Ario, diventato nel frattempo comandante in pectore del Raggruppamento della 40°, 55° e 52°, le tre brigate attive tra la Valsassina e Sondrio, scriverà alle compagne partigiane parole inequivocabili: “Alludiamo alla necessità, in questo momento, di bolscevizzare la nostra azione mediante una lotta serrata aperta finale. Nessuna esitazione, nessuna giustificazione, tutte le nostre forze devono essere in linea di combattimento, dobbiamo imitare i gloriosi compagni e compagne dell’Unione Sovietica che hanno saputo dare alla guerra sostenuta dall’esercito rosso un’impronta bolscevica, unica e vera ragione per cui gli eserciti nazifascisti sono ripetutamente battuti […]. Avanti dunque con coraggio, organizzate squadre di gappiste, di sappiste, organizzate distaccamenti completi femminili che agiranno al nostro fianco valorosamente” <15. Dalla lotta nascono i quadri: “non fatemi più sapere (perché purtroppo lo so già) che vi mancano i compagni capaci - così Ario ai compagni della Brigata -. I compagni capaci siete voi, poiché altri non ve ne sono e non ve ne saranno, dato il grandioso compito del Partito nella società democratica immediatamente futura. Sdoppiatevi, moltiplicatevi e mettete avanti negli sforzi con coraggio giovani e poi giovani compagni che, dietro la vostra guida, daranno certamente buoni risultati. Non sono capaci? Diventeranno capaci in misura degli aiuti che voi saprete apportare loro. E solo voi sarete responsabili se non funzioneranno. Così l’avanzamento tra i migliori patrioti. La nostra lotta è la nostra Università e i quadri devono uscire da questo consesso patriottico così come in tutte le rivoluzioni sociali i quadri escono dal popolo” <16. Coraggio dunque: fare e organizzare, lottare e nella lotta forgiare le formazioni.
Certo, il lavoro organizzativo non diede proprio i risultati che i dirigenti di Lecco e di Milano desideravano. Dal giugno al novembre del 1944 uno stillicidio di comunicazioni della Delegazione del Comando generale per la Lombardia al Comando della 40° brigata Matteotti e della 55° Rosselli - cioè a Nicola e Al [Vando Aldrovandi] - e poi al Comando di Raggruppamento delle brigate operanti in Valtellina, lamentava l’evanescenza del Comando di brigata, l’insufficienza dei collegamenti interni, la necessità di costituire, nel mese di agosto, un Comando di divisione, la disorganizzazione della 55° brigata e la mancanza, ovunque, di commissari politici <17.
Il 14 agosto 1944, Nicola rispose piccato in una lettera alla Delegazione: “Questo Comando vorrebbe sapere quali elementi specifici di organizzazione ci rimproverate. Sono sempre stati nostri criteri impedire la burocratizzazione dei Comandi per tenersi il più possibile vicino agli uomini e spingerli continuamente sulla via dell’azione. Quando è stato possibile non abbiamo esitato a lasciare le circolari per adoperare il mitra” <18 e spiegò che il lavoro delle varie Sezioni Operazioni, Intendenza e Sanità poteva essere svolto anche solo da un Capo Sezione, con l’ausilio tutt’al più di un vice. “Tenete però conto di vari elementi - proseguiva Nicola - che i capaci e in fede sono pochi; che non essendo molto numerosa la Brigata, alcuni servizi possono essere assunti dallo stesso individuo senza tema di accumulazione dannosa di lavoro; che abbiamo cercato di snellire i servizi per portare tutti gli elementi idonei alla lotta viva e reale contro l’odiato nemico” <19.
Insomma, per riprendere il filo della nostra argomentazione, le deficienze organizzative del movimento garibaldino non ne inficiarono l’ispirazione di fondo: quella a svilupparsi dall’interno e ad accrescersi per mezzo di un’incessante attività di combattimento. L’organizzazione interna non veniva prima dell’azione, ma dopo: la parola d’ordine era bolscevizzare, lasciare le circolari per il mitra. Accanto al lavoro militare, i comandanti garibaldini comunisti erano consapevoli della necessità di un alacre lavoro politico. “Non essendoci a disposizione un numero di compagni sufficiente, pensammo di reclutare tra i simpatizzanti migliori alcuni elementi per farli entrare nel Partito” così Ario e Silvio, che organizzarono i nuclei di partito nei distaccamenti della 40° Brigata. “Molte riunioni furono fatte per spiegare o comunque chiarire i compiti militari e politici dei Distaccamenti e sviluppammo tutto il programma del CLN. Furono fatte riunioni dei nuclei di partito e spiegammo i loro compiti e le funzioni dei compagni nelle formazioni. Segnalammo alla federazione l’urgente necessità di avere la nostra stampa nelle formazioni” <20.
In un documento senza data, ma collocabile tra il giugno e il luglio del 1944, il vice Commissario di Brigata Gino esponeva ai Commissari di Distaccamento il punto di vista del comando partigiano in tema di propaganda politica. “La propaganda, che dovrebbe dare una coscienza politica al combattente per la libertà, è stata un po’ trascurata finora in quanto gli avvenimenti hanno impedito la propulsione di essa. Da oggi i Commissari politici incaricati a detta mansione, dovranno svolgere un’intensa azione di propaganda al fine di rendere comprensibile a tutti i combattenti il movente della nostra lotta contro l’invasore tedesco e il traditore fascista”. Parlando del CLN, che Gino definisce il nuovo governo degli italiani, il vice commissario si raccomanda: “i combattenti devono anche conoscerlo in tutti i suoi atti e in tutto il suo valore affinché essi vedano sempre che il loro interesse e l’interesse dei lavoratori è salvaguardato ed è il movente principale della lotta di liberazione nazionale” <21.
Tuttavia, il lavoro politico incontrò grosse difficoltà dovute soprattutto alla cronica mancanza di agit prop: “questo comando non è tanto contento in quanto, mancando dei compagni capaci, il lavoro dei nuclei non rende come dovrebbe; anche i Commissari non sono all’altezza dei loro compiti. Pur tuttavia, ora si inizierà una serie di circolari che si crede colmeranno queste lacune, poiché stiamo allestendo una segreteria della Brigata. Si sta preparando il giornale della Brigata e si è certi che se ne trarranno buoni profitti” <22. Nei mesi estivi, comunque, i progressi sul fronte politico furono di scarso rilievo e in autunno si dovette ricominciare daccapo. Il 14 ottobre 1944, in una riunione dei compagni del Comando di Divisione fu stigmatizzata la poca coscienza politica dei nuovi partigiani, ma in ottemperanza alle direttive del Partito Comunista si decise di reclutare tutti i simpatizzanti, escludendo solo gli elementi di moralità molto dubbia <23. Furono nominati i responsabili di partito per ogni distaccamento, battaglione e brigata; fu deciso che i compagni dei distaccamenti si sarebbero riuniti due volte alla settimana, che con la stessa frequenza i responsabili dei distaccamenti avrebbero incontrato i loro omologhi dei battaglioni e che una volta alla settimana si sarebbero riuniti tutti i compagni della brigata <24. Nei mesi di ottobre e novembre, la propaganda politica cominciò a dare i suoi frutti: “In questa Brigata si è dato impulso al lavoro politico con riunioni e conferenze fatte ai Patrioti. I commissari svolgono bene il loro lavoro. […] le riunioni politiche sono state oggi esplicate dai Commissari nei distaccamenti IV e X discutendo: in uno della disciplina nelle formazioni partigiane e nell’altro leggendo e commentando il fascicolo “La nostra lotta”. Particolare attenzione fu dedicata ai più giovani: “A Cataeggio sono stati adunati tutti i giovani del Paese dai 16 anni in avanti ed è stata loro spiegata l’organizzazione del Fronte della Gioventù. Alla richiesta fatta loro di organizzarsi tutti hanno aderito” e alle donne: “è stato formato a Cataeggio un Gruppo di Difesa della donna composto da 35 donne. Anche a Filorera 15 donne si sono organizzate. A queste donne è stata tenuta una conferenza dove veniva loro spiegata l’utilità e la necessità di questa organizzazione” <25.
[NOTE]
1 AAVV, Le brigate Garibaldi nella Resistenza: documenti, Milano, Feltrinelli, 1979, vol. II, pag 23
2 Ivi, pag 30.
3 Ivi, pag. 28
10 Marco Fini e Franco Giannantoni, op. cit., vol II, pag . 56.
11 Relazione per la F. e il CM di Ario e Silvio del 10 luglio 1944, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f6.
12 Cfr Ivi.
13 Ivi
14 Ivi.
15 AAVV, Le Brigate Garibaldi, op. cit., vol. II, pagg 279-280.
16 Comando 40° Brigata d’Assalto Garibaldi Matteotti ai Compagni della Brigata, firmato Ario, 21/7, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f6.
17 Cfr Issrec, Fondo CVL INSMLI.
18 Comando 40° Brigata d’Assalto Matteotti alla Delegazione, firmato Nicola, 14/8/1944, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f6.
19 Ivi.
20 Relazione per la F. e il CM di Ario e Silvio del 10 luglio 1944, cit.
21 40° Brigata d’assalto Matteotti ai commissari di Distaccamento, Oggetto: Lavoro di propaganda politica da svolgere, firmato Gino, s.d., Issrec, Fondo Cvl Insmli, b1 f5. L’intestazione reca tra parentesi la scritta “Comando Fronte nord”. Il 23 luglio 1944 i due fronti della 40° Matteotti si trasformarono reciprocamente nella 40° Brigata Matteotti e nella 55° Brigata Rosselli. Da qui la nostra attribuzione del testo al giugno-luglio del 1944.
22 Comando 40° Brigata d’Assalto Garibaldi Matteotti per la Delegazione Comando e il Comando Regionale unificato Lombardo, 20/7, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f6. Il giornale della 40° Matteotti
23 Il nucleo di Partito del Comando di Divisione alla Federazione del PCI, 14/10/1944, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f5.
24 Ivi
25 Relazione politica al Commissario di Raggruppamento, firmato Nicola e Primo, 24/11/44, Issrec, Fondo Gramsci, b1 f5.
Gian Paolo Ghirardini, Società e Resistenza in Valtellina, Tesi di laurea, Università degli Studi di Bologna, Anno accademico 2007/2008

venerdì 16 dicembre 2022

Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità


Luigi Einaudi fin dal 1944 aveva lanciato il suo durissimo atto d’accusa verso il prefetto, con il celebre grido: "Il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze!" <619
Aggiungendo la sua visione (condivisa da antifascisti di diverso orientamento) di radicale antitesi tra figura prefettizia e democrazia: "Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. […] Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro". <620
L’identificazione tra prefetto e fascismo è profonda, soprattutto per il movimento partigiano del centro-nord e in particolare per i gappisti impegnati nella resistenza urbana; mentre il dibattito politico, che vede contrapporsi per i primi mesi [del secondo dopoguerra] un’opzione più sensibile alle autonomie locali, anticentralista, alla centralizzazione dello Stato post-fascista, ha tra i suoi temi principali proprio il ruolo prefettizio. Questo è dunque antitetico alla democrazia, rappresenta il pericolo permanente della degenerazione se non in dittatura, quanto meno in uno stato di polizia. Tuttavia, per i medesimi motivi per cui il governo Parri non sceglie la strada della rottura, optando invece per la continuità attraverso la depoliticizzazione, allo stesso modo il prefetto è visto come uno strumento di garanzia e tutela: di fronte a una situazione di emergenza sociale, debolezza statale, scarso controllo dell’ordine pubblico, Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità: "Percepito solo come strumento della politica di controllo e di repressione dello Stato fascista, non ha possibilità di ottenere la riconferma. Invece, man mano che passa il tempo, questa rappresentazione si trasforma e il prefetto appare, a una parte della classe politica, come un mezzo importante di garanzia dell’ordine pubblico ma anche come organo fondamentale nell’opera di ricostruzione, sia del paese concreto che della legalità". <621
Nei mesi che precedono le elezioni per la costituente, il fronte abolizionista perde progressivamente forza e iniziativa, mentre la riconversione democratica dell’immagine prefettizia si impone; la democrazia cui si fa riferimento è quella che emerge dall’egemonia del partito moderato, di cui si fanno interpreti i liberali (che infatti causano la caduta del governo Parri) e il nuovo presidente del consiglio democristiano. Per i primi, che presentano un decalogo programmatico durante la crisi di governo, "la revoca dei prefetti e dei questori dei CLN figurava tra i punti più insistiti (insieme allo svuotamento totale dei CLN e alla fine dell’epurazione). Così, mentre un autorevolissimo liberale come Einaudi aveva lanciato il grido di battaglia 'via il prefetto!', grido tutt’altro che privo di eco fra le stesse file liberali, nel governo di cui era stato la mosca cocchiera il PLI avrebbe interpretato quel grido quale 'via i prefetti della Liberazione!" <622
De Gasperi invece, prima ancora di prendere in mano il Viminale, con l’appoggio di Romita, avrebbe avviato l’allontanamento di tutti i prefetti CLN dai loro incarichi (uno dei punti chiave del piano rivendicativo del ciclo conflittuale in questo periodo, fino al suo momento più importante rappresentato dal caso Troilo), avvalendosi tra l’altro del decreto fascista del 1937 ancora in vigore, relativo al ripristino dei funzionari di carriera. In piena discussione sulla redazione della Carta, di fronte a tutti i prefetti riuniti a Roma nel novembre ’46, dirà "Dalla Costituente molti organismi potranno uscire trasformati, ma oggidì ancora i prefetti sono gli organi più immediati del governo, i responsabili più diretti dell’amministrazione; e, in ogni caso, i criteri fondamentali ch’essi devono seguire, frutto dell’esperienza ed emanazione d’immutabili norme di diritto ravvivato dallo spirito democratico, potranno essere rifusi in altre forme, ma non essere distorti o rinnegati, a scanso di portare lo Stato alla dissoluzione o all’assorbimento nella dittatura di parte". <623
Da strumento della possibile distorsione autoritaria a garanzia invalicabile dell’ordinamento democratico repubblicano: la metamorfosi così realizzata a livello culturale e di immagine pubblica permette anche di giustificare il permanere delle prerogative forti del prefetto, proprio partendo dal presupposto che la democrazia e lo Stato devono dimostrare la propria forza e capacità di controllo.
La prima legge post-fascista relativa ai poteri prefettizi (9 giugno 1947) conferma il cosiddetto 'controllo di legittimità', ovvero la prerogativa di controllo sul rispetto del principio di legalità da parte degli enti locali. La fine del dibattito costituzionale conferma di fatto lo status quo.
In secondo luogo, il mantenimento del TULPS comporta anche la sopravvivenza di quelle norme sui poteri speciali del ministro degli Interni e dei prefetti in caso di 'pericolo pubblico'; paradossalmente proprio Scelba aveva proposto in un primo momento, nel ’48-’49, di abolire quelle norme considerate di netto marchio autoritario, ovvero "per quanto riguarda il prefetto, si tratta di sopprimere l’articolo 2 che gli consente, in caso di urgenza, di emettere ordinanze normative e soprattutto il titolo IX che dà la facoltà, negli articoli 214 e 215, al ministro dell’Interno e ai prefetti di istituire lo stato di pericolo pubblico. In questo caso, 'durante lo stato di pericolo pubblico il Prefetto può ordinare l’arresto o la detenzione di qualsiasi persona, qualora ciò ritenga necessario per ristabilire o per conservare l’ordine pubblico', secondo la legge del 1926". <624
È poi lo stesso Scelba che, poco tempo dopo, nel corso del dibattito parlamentare del marzo ’50, propone di ristabilire il titolo IX, coerentemente con il proprio progetto di legislazione speciale, dove la figura teorizzata del 'superprefetto', di cui parlerà sempre nella famosa intervista del 1988, si avvicinava molto a quanto previsto dalla legge fascista del ’26: "Già nei primi tre mesi del 1948 era stata messa a punto un’infrastruttura capace di far fronte ad un tentativo insurrezionale comunista. L’intero Paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale […], un uomo di sicura energia e di assoluta fiducia. L’entrata in vigore di queste prefetture allargate sarebbe stata automatica nel momento in cui le comunicazioni con Roma fossero state, a causa di una sollevazione, interrotte: allora i superprefetti da me designati avrebbero assunto gli interi poteri dello Stato sapendo esattamente, in base ad un piano preordinato, che cosa fare". <625
L’idea dello Stato propria del clerico-moderatismo, di cui fu espressione il ministro degli Interni poi presidente del consiglio, era legata a una 'ideologia' neutralista e impolitica della macchina statale per cui l’intervento governativo poteva, anzi doveva essere per l’interesse generale; un altro paradosso dello scelbismo fu dunque la piena trasformazione degli strumenti di controllo e governo al servizio di una parte (l’anticomunismo e la DC in particolare) in nome dell’imparzialità.
"La sua concezione della statualità, infatti, coniugava i valori definiti dalla tradizione della borghesia liberale con la dottrina ecclesiologica del potere come servizio da rendere alla società con umile e ferma dedizione. Ne conseguiva un’interessante simbiosi tra i princìpi di autorità riconfermati a tutela dell’ordine ('perché la vita sociale è fatta di gerarchie') e i compiti paternalistici e filantropici ancora attribuiti allo Stato da un certo pensiero cattolico, dal fondo tradizionalista, convertitosi di recente alla fede nella democrazia. […] Il suo proposito ideologico […] si richiamava alla forma classica della statualità borghese per piegarla ai contenuti del suo pensiero di cattolico-popolare: in particolare, all’idea di un bene pubblico e di una verità politica (il 'sano' e 'giusto' ordine sociale, la 'vera' democrazia) di cui le funzioni statali avrebbero dovuto farsi interpreti e difensori inflessibili". <626
[NOTE]
619 L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica (1897-1954), p. 59, Laterza 1973, cit. in Virgile Cirefice, Prefetti e dottrina dello Stato di diritto nei dibattiti, p. 9, in P. Dogliani, M.A. Matard-Bonucci (a cura di), Democrazia insicura, Donzelli editore 2017, p. 5
620 Ivi
621 Virgile Cirefice, op. cit., p. 7
622 C. Pavone, op. cit., p. 154
623 Dichiarazione del presidente del consiglio ministro dell’Interno ai prefetti del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e della Liguria, 19 novembre 1946 in Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio, Gabinetto, 1944-1947, cit. in V. Cirefice, op. cit., p. 8
624 V. Cirefice, op. cit., pp. 13-14
625 M. Scelba, cit. in G. De Lutiis, op. cit., p. 153
626 G.C. Marino, op. cit., pp. 221-22

Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

sabato 6 agosto 2022

La Resistenza prese le mosse in Friuli nel marzo 1943


L’organizzazione di un movimento di opposizione armata all’occupante nazista e politicamente antagonista al regime fascista prese le mosse in Friuli sei mesi prima che nel resto d’Italia, cioè sei mesi prima dell’8 settembre 1943, col formarsi del 1° distaccamento Garibaldi nel marzo 1943. Si trattò di un piccolo reparto armato che ebbe da 12 a 25 uomini a seconda dei momenti.
Questa significativa specificità, come del resto la maggior parte dei caratteri distintivi assunti dal movimento resistenziale nella regione, deve la propria origine alla particolare posizione geografica del Friuli, terra di confine tra Italia, Jugoslavia e Austria e al fatto che fin dal 1942 comparvero sul nostro territorio i reparti partigiani sloveni. <4 Fu proprio questa presenza partigiana slovena sulle montagne del Friuli, con cui le formazioni comuniste presero contatti e accordi fin dal 1942, a determinare l’esigenza dell’insorgere di una formazione partigiana italiana prima dell’8 settembre 43. <5
Questa vicinanza territoriale e la collaborazione basata su una certa affinità ideologica riproponeva, però, anche antichi e irrisolti problemi di convivenza tra etnie diverse, rivendicazioni territoriali e rivalità nazionali che si esacerbarono verso la fine del conflitto.
In principio, in seguito ai fatti dell’8 settembre, il movimento partigiano friulano si andò allargando. L’originale distaccamento Garibaldi si trasformò in battaglione e contemporaneamente si costituì ex novo, presso Faedis, sulle Prealpi Giulie, il battaglione Friuli.
Accanto a queste formazioni, a prevalente direzione comunista, sorsero nello stesso lasso di tempo altri due gruppi di combattenti: uno di Giustizia e Libertà, creato dagli uomini del Partito d’Azione, organizzato da Fermo Solari (Somma-Sergio) e Carlo Comessatti (Spartaco) a Subìt, una frazione del comune di Attimis, e uno, a prevalenza democristiana e costituito in gran parte da ex militari, organizzato sempre nella zona di Attimis da Manlio Cencig (Mario).
Il gruppo di Giustizia e Libertà entrò subito in contatto, tramite il commissario Solari, con Mario Lizzero (Andrea), commissario della formazione Garibaldi Friuli e le due unità operative instaurarono una stretta collaborazione tattica militare, pur non riuscendo a rimuovere gli ostacoli che le separavano dalla realizzazione di un’effettiva unificazione dei comandi.
Quello del comando unico delle formazioni partigiane fu anche uno dei primi problemi ad essere affrontato, benché senza successo, dal neocostituito CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) di Udine. Esso era composto da Giovanni Cosattini per il Partito Socialista, don Aldo Moretti (Lino) per la Democrazia Cristiana, Carlo Comessatti per il Partito d’Azione ed Emilio Beltrame per il Partito Comunista. La controversia tra le varie componenti del comitato traeva origine da proposte mal conciliabili, in base alle quali si sarebbe dovuto scegliere il criterio da usare per l’indicazione del comandante. Azionisti e democristiani desideravano che la designazione del comandante unico venisse effettuata, per selezione, nella ristretta cerchia dei militari di carriera, mentre i comunisti, inclini a dare più valore alle azioni effettivamente svolte nell’ambito della lotta partigiana piuttosto che ai gradi conseguiti nell’esercito, si rifiutavano di accettare un comandante rigidamente imposto dall’alto.
In ogni caso, nonostante queste prime diatribe, gli accordi militari tra garibaldini e giellisti restarono operanti fino ai grandi rastrellamenti tedeschi dell’ottobre-novembre 1943, in occasione dei quali le due formazioni furono costrette a separarsi. Successivamente il Partito d’Azione avrebbe svolto una parte importante nella costituzione delle formazioni Osoppo, in totale antitesi rispetto a quanto avvenne nel resto dell’Italia, in cui le brigate di Giustizia e Libertà rimasero sempre al fianco delle Garibaldi. <6
I feroci rastrellamenti tedeschi dell’autunno 1943, misero a dura prova non solo le giovani formazioni italiane, ma anche le più solide formazioni slovene. I partigiani in parte scesero in pianura mantenendo l’attività, in parte si dispersero, tutti comunque furono costretti a ripiegare. Da quella terribile esperienza, le forze della Resistenza italiana uscirono estremamente provate. Rimasero in tutto, sui monti, una cinquantina di uomini delle formazioni Garibaldi Friuli, che si erano ritirati, almeno la maggior parte, in una zona sicura a occidente del Tagliamento, sul monte Ciaurlec, mentre a est, sul Collio, restò il battaglione Mazzini, con una decina di uomini in tutto.
Un’altra importante formazione italiana prese le mosse in questo tempestoso periodo: il 24 dicembre 1943 il CLN di Udine, vista l’impossibilità di giungere ad un accordo sul problema del comando unificato delle formazioni di montagna, autorizzò la costituzione di un altro gruppo partigiano, che avrebbe dovuto impegnarsi a combattere a fianco delle Garibaldi, ma in modo autonomo.
La nuova formazione, che avrebbe in seguito adottato il nome di Osoppo <7, era destinata ad assumere un ruolo particolarmente importante nella società rurale friulana. A differenza delle unità garibaldine, più unite dal punto di vista ideologico, nelle Osoppo confluirono forze varie, spesso distanti le une dalle altre per posizioni, sentimenti e propositi. Intorno al partigianesimo “politico” del PdA e della DC, si muovevano un generico sentimento socialisteggiante delle masse popolari che invocava giustizia sociale, il modernismo cattolico e del clero friulano, il patriottismo degli ex militari, soprattutto degli ufficiali, fedeli al giuramento e, in genere, l’apporto degli apolitici, civili o militari che fossero.
Un ruolo fondamentale nell’aggregazione delle spinte potenzialmente antagoniste al nuovo ordine nazifascista fu svolto dal clero friulano, che vedeva nelle nascenti formazioni osovane un argine al dilagare del comunismo. Numerose furono le parrocchie che si occuparono dall’assistenza ai partigiani sbandati, ai militari e agli ex prigionieri, dell’attività di informazione e di sostegno materiale alle bande armate, nonché della diffusione, all’interno della società contadina friulana, della quale spesso rappresentavano l’unico centro di coesione e partecipazione, di sentimenti antinazisti e patriottici che esortavano ed incoraggiavano la popolazione alla resistenza passiva. Alcune parrocchie e istituti religiosi friulani divennero, inoltre, veri e propri centri di reclutamento del personale da inviare in montagna, in particolare, ovviamente, presso le formazioni Osoppo. Numerosi anche i preti “patrioti”, schierati in prima linea nelle file dell’antifascismo militante: si trattò perfino, a volte, di veri e propri preti combattenti, come fu ad esempio don Ascanio De Luca (Aurelio).
Ma è a don Aldo Moretti, figura decisamente più moderata, che deve tributarsi il merito di aver contribuito al superamento di tutte quelle remore di carattere etico e religioso che rendevano difficoltosa per qualunque cattolico l’ammissione della necessità e del dovere, in determinati frangenti, di aderire alla lotta armata. Per il clero infatti l’adesione alla guerriglia presuppose una serie di approfondimenti e di premesse, senza le quali esso sentiva di non poter agire. <8
Le discussioni che ebbero luogo a Udine, nel “Cenacolo di Studi Sociali per sacerdoti”, tra il 10 novembre 1943 e il 29 marzo 1944, furono in tal senso decisive, in quanto finirono per riconoscere la legittimità della resistenza non solo passiva ma anche militarmente attiva.
Quest’ultima tuttavia, seppur imposta dalle tragiche circostanze del momento, doveva essere praticata il meno possibile e, salvo il caso di legittima difesa, solo quando tutti gli altri mezzi di dissuasione avessero dimostrato la loro inefficacia. La Resistenza, inoltre, si configurava come emanazione della volontà del governo nazionale, espressione di tutto il popolo e dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, proclamata dal re il 13 ottobre 1943, non poteva più configurarsi come guerriglia anarcoide o rivoluzionaria.
Tale impostazione era ben diversa da quella del partigianato comunista, e ciò suscitò non pochi attriti. I cattolici vennero accusati di "attendismo", soprattutto nella prima fase della Resistenza, mentre ai comunisti veniva spesso rimproverato di non tener conto, nelle loro azioni, dei costi umani pagati dalle popolazioni. <9
Le distanze tra le posizioni osovane e quelle garibaldine risultarono piuttosto evidenti anche su altri temi. Se i garibaldini ritenevano che la lotta contro il nemico dovesse puntare ad una partecipazione quanto mai estesa e popolare, gli osovani cercavano invece di limitare il ricorso alle armi e tendevano a privilegiare il reclutamento, soprattutto ai livelli di comando, di personale specializzato, generalmente ex ufficiali dell’esercito.
Oltre a ciò, a dividere e differenziare le due organizzazioni della Resistenza c’era la questione dei rapporti con gli sloveni. I garibaldini sostenevano e avrebbero continuato a sostenere, che nonostante le ripetute ed intransigenti prese di posizione jugoslave sulla questione territoriale, sarebbe stato impensabile combattere da rivali una stessa guerra contro lo stesso nemico e che del resto il modo migliore per lavare l’onta del fascismo, che macchiava il nome del popolo italiano, era quello di mostrare attraverso il combattimento comune il volto diverso e umano dello stesso popolo. La linea adottata dai comunisti friulani fin dalle prime trattative con gli sloveni, si fondò sul rifiuto di dibattere questioni che riguardassero la futura sistemazione del territorio, e sul rinvio a fine guerra e alle trattative dei futuri governi, del problema dei nuovi confini. Da parte osovana si registrava, invece, una maggiore diffidenza alla collaborazione con l’esercito di Tito e la netta ripulsa delle rivendicazioni territoriali slovene. <10
Dopo una stasi invernale, con la primavera del 1944 le formazioni di montagna ripresero ad aumentare in numero e dimensioni.
[NOTE]
4 In Jugoslavia, infatti, la Resistenza iniziò già nel 1941, dopo che il 6 aprile fu invasa da Germania e Italia (con l’appoggio di Bulgaria e Ungheria) e occupata nel giro di soli 11 giorni.
5 M. Lizzero, Considerazione sui reparti partigiani e sui gruppi di resistenza passiva nel ‘43 in Friuli, in “Storia Contemporanea in Friuli” n°10, anno IX, 1979, pp.255-256. Per una panoramica generale sulla Resistenza in Friuli vedi G.C. Bertuzzi, La Resistenza in Friuli e Venezia Giulia, in “Storia del ‘900”, IRSML-LEG, Gorizia 1997, pp.371-382, cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia.
6 M. Lizzero, Origini e peculiarità della Resistenza in Friuli, in “Storia Contemporanea in Friuli”, n°2/3, anno II, 1972, pp.221-223
7 Il nome fu tratto dall’omonima località friulana dove nel 1848 i patrioti resistettero all’assedio austriaco.
8 R. Mascialino, La Resistenza dei cattolici in Friuli (1943-1945), Udine 1978, pp.70-71
9 M. Lizzero, Considerazione sui reparti partigiani e sui gruppi di resistenza passiva nel ‘43 in Friuli, in “Storia Contemporanea in Friuli” n°10, anno IX, 1979, pp.249-250
10 D. Franceschini, Porzûs. La Resistenza lacerata, IRSML, Trieste, pp.1-12
Eleonora Buzziolo, Partigiane in Friuli: storia e memoria, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2003/2004

venerdì 3 giugno 2022

Dopo i ripetuti bombardamenti alleati al ponte di ferro sul fiume Po, i tedeschi organizzarono attracchi per traghetti

Valenza (IM): Palazzo Pelizzari, sede del Municipio - Fonte: Wikipedia

Le montagne dell'Ossola, le colline del Monferrato, le Langhe, la Val Borbera, l'Oltrepo pavese sono tutti luoghi che hanno vissuto una propria e caratterizzante storia resistenziale, oggi di facile ricostruzione e lettura.
Per le città, ciò difficilmente avviene.
Valenza ne è prova. Una città, organizzata e viva, porta con sé un patrimonio di relazioni fra istituzioni, fra poteri pubblici, centri di riferimento economico e sociale.
Negli anni 30'- 40' Valenza, pur in presenza dell'autarchia di Regime, era legata a filo doppio con Alessandria e Casale Monferrato; sviluppava relazioni con la Lomellina, con Pavia e Milano, con Genova e Torino.
Le vie di comunicazione stradale e ferroviaria erano adeguate, poste a raggiera, con frequenti intersezioni verso Milano, Torino e Genova; il Po fungeva da confine fisico fra Piemonte e Lombardia, ma anche da via di traffico e comunicazione naturale.
Le aziende orafe e calzaturiere alimentavano traffici a dimensione più ampia, oltre i confini italiani; i gerarchi fascisti erano correlati al capoluogo provinciale e da qui verso Torino e Roma; le scuole servivano parecchi paesi limitrofi, con scambi di culture fra contadini, operai, artigiani, imprenditori; il Regime aveva da decenni promosso ed organizzato il consenso, con tutte le varie iniziative di proselitismo e indottrinamento.
Era una città articolata, fatta di vissuto diverso, una città aperta e geograficamente polarizzante.
Furono proprio questi fattori a far decidere gli occupanti tedeschi a scegliere Valenza come centro per collocarvi comandi di polizia, squadre di milizie SS, sezione SD Sicherheit Dienst, militari della Wehrmacht, l'organizzazione Todt, la Zugleitung, postazioni di contraerea della Flak, gruppi di genio pontieri.
La presenza tedesca si rafforzò, dopo che Alessandria divenne sempre più frequente bersaglio dei bombardamenti alleati.
A Valenza venne trasferito il comando provinciale delle truppe tedesche. Non solo, vennero intensificati tutti i controlli sulle vie di comunicazione, sulla rete ferroviaria, sul fiume Po, ad ogni attracco di barche e sui vari ponti di attraversamento fra Trino, Casale e Valenza.
In questo contesto va collocata la storia resistenziale di Valenza, una città occupata dai tedeschi perchè ritenuta strategica, una città cerniera fra due regioni, una città sotto il dominio capillare della K 1014 Kommandantur e l'ausilio delle rinate presenze repubblichine, con comandi della G.N.R. e Brigate Nere.
Pur in questo difficile contesto, sorsero le formazioni GAP (gruppi di azione patriottica) di Enzo Luigi Guidi, detto Batista; poi alcune esperienze di SAP (squadre di azione patriottica); la componente comunista, come in passato era stata fattore determinante dell'antifascismo locale unitamente alla matrice socialista, costituì una significativa ispirazione per le formazioni partigiane; venne ricostituita la sezione del PCI, mix di militanza politica ed ideologica.
I distaccamenti Rasinone e Paradiso, il gruppo di Ticineto-Valmacca della Garibaldi, vissero fasi diverse di organizzazione, in crescendo per adesioni ed efficacia. Si affermarono, inoltre, le formazioni GL Paolo Braccini con la brigata Pasino, al comando di Carlo Garbarino fra San Salvatore e Castelletto Monferrato; con la brigata Lenti al comando di Filippo Callori nell'area di Vignale.
Operarono, inoltre, la Divisione Matteotti-Marengo Borgo Po, tra Valle San Bartolomeo-Filippona-Lobbi; la Divisione Patria fra Occimiano-Mirabello-Giarole; la brigata 108 Paolo Rossi della Garibaldi, con il distaccamento nell'area di Bassignana-Fiondi-Pecetto-Grava-Mugarone <1
Attorno a Valenza, mese dopo mese, venne creata una rete capillare ed efficace di dissenso operativo. Le formazioni partigiane si impegnarono in consistenti azioni di sabotaggio e danneggiamento verso i posti di blocco e controllo dei nazifascisti; ospitarono e nascosero per mesi i prigionieri alleati inglesi, americani, australiani, neozelandesi liberati dai campi di concentramento-prigionia del Piemonte e Lombardia e dal Forte di Gavi.
La stazione e la galleria ferroviaria fra Valenza e Valmadonna costituirono per mesi l'obiettivo di furti, saccheggi da parte delle formazioni partigiane.
Sull'arteria ferroviaria, infatti, i tedeschi fecero transitare armi e viveri verso altre località lombarde e piemontesi, per evitare i frequenti bombardamenti alleati su Alessandria.
In alcune circostanze, i partigiani nascosero le armi e munizioni saccheggiate ai tedeschi proprio all'interno della galleria di Valmadonna.
Le formazioni GAP attaccarono a più riprese le postazioni tedesche; le azioni di sabotaggio sono ampiamente documentate e citate in numerosi dispacci e fonogrammi che i tedeschi inviavano giornalmente ai comandi superiori, fonogrammi rinvenuti recentemente, tradotti e pubblicati nel volume "Resistenza e nuova coscienza civile" a cura dell'autore.
I comandi tedeschi giunsero a comminare multe salatissime ai comuni del Valenzano per disincentivare le attività di sabotaggio. Le multe dovevano essere pagate al comando tedesco di Valenza. I tedeschi non solo occuparono il territorio, ma inflissero sanzioni per punire le azioni di dissenso delle popolazioni.
Gli esordi, il CLN, una città controllata dai tedeschi.
La caduta di Mussolini del 25 luglio e l’armistizio dell' 8 settembre 1943 rialimentarono le convinzioni e le speranze per la libertà, anche a Valenza. Durante il ventennio fascista, il dissenso esplicito venne rappresentato, in modo efficace, dal socialista Francesco Boris, già capostazione. Non aderì al Fascio, dovette cercarsi un altro lavoro. Le organizzazioni comuniste, pur nell'omologazione dissuasiva del Fascio, tennero vivo il pensiero antifascista attraverso cellule di militanti. A Valenza era operativa una sezione comunista a tutti gli effetti, con riferimenti organici con Alessandria e Torino.
Anche nelle file cattoliche, si costituì nel ’42 la prima sezione della DC, d’ispirazione degasperiana. Nel laboratorio della farmacia Manfredi, alla presenza dell’ex popolare avv. Giuseppe Brusasca, venne fondata la sezione. Contribuirono Carlo Barberis, Gigi Venanzio Vaggi, Luigi e Vittorio Manfredi, Pietro Staurino, Luigi Deambroggi, Luigi Stanchi, Giuseppe Bonelli e Felice Cavalli. La sezione sviluppò immediatamente temi ed iniziative di dissenso clandestino al regime.
Alla notizia dell’arresto di Mussolini, nell’abitazione di Francesco Boris, si tenne un primo incontro per costituire il CLN valenzano. Accanto a Boris per il partito socialista, vi aderirono Luigi Vaggi per la DC, Ercole Morando per il PCI, Vittorio Carones per il Partito d’Azione e Poggio per il PLI, poi sostituito da Barberis detto Cuttica.
Il CLN di Valenza tenne varie riunioni, cambiando sede di volta in volta, per non destare sospetti. Si svolsero a casa Boris, a casa di Costantino Scalcabarozzi, in casa Mazza alle Terme di Monte Valenza, a casa dei fratelli Marchese, nella biblioteca Silvio Pellico dell’oratorio del Duomo di Valenza. <2
Francesco Boris e Paolo De Michelis (già parlamentare socialista negli anni ’20) furono arrestati a marzo 1944 e condotti nella sezione tedesca delle Carceri Nuove a Torino, per poi essere inviati nei campi in Germania. Vennero poi liberati, grazie ad uno scambio di prigionieri.
Il 16 gennaio 1944, il ventenne Sandro Pino venne colpito a morte in occasione di una perquisizione e retata della G.N.R. nel bar Achille, nel pieno centro, alla caccia di antifascisti e ribelli. Il fatto destò grande sconcerto ed intimorì i giovani. Giulio Doria, antifascista ed aderente a metà ’44 al movimento partigiano, ricorda dettagliatamente quei difficili momenti nell’intervista rilasciata a Maria Grazia Molina e pubblicata nel n. 23 di “Valenza d’na vota” edito a dicembre 2008. Il fratello di Giulio, Mario, aderì subito alla formazione autonoma Patria, guidata da Edoardo Martino e Giovanni Sisto. Il secondo fratello, Pietro, visse anni di prigionia in Germania, come militare catturato dai tedeschi. Giulio disertò la chiamata alla Capitaneria di Savona e si diede alla macchia, nella campagna valenzana. Giulio ricorda d’aver curato e nascosto cinque militari australiani, sfuggiti alla cattura dei tedeschi; di averli poi avviati in Lombardia. Anche Giulio entrò nella brigata autonoma Patria, si collegò con Vaggi e tesse una fitta rete di relazioni fra la città ed i comuni del Monferrato.
La presenza strutturata dei tedeschi occupanti cambiò il volto alla città. I liberi movimenti erano impossibili; le truppe tedesche, coadiuvate ed indirizzate dai fascisti repubblichini, erano pervasive. Vennero organizzati frequenti posti di blocco sulle vie di accesso, sulle arterie di comunicazione verso Pavia, Alessandria, Casale Monferrato, Tortona. La ferrovia era super controllata, perchè utilizzata spesso dai tedeschi per il trasferimento di esplosivi ed armi. Dopo i ripetuti bombardamenti alleati al ponte di ferro sul fiume Po, i tedeschi organizzarono attracchi per traghetti, sui quali transitavano truppe, armi e munizioni verso Milano.
Il 17 febbraio 1944, il 10 dicembre 1944 ed il 2 marzo 1945 si ebbero a Valenza rastrellamenti intensi e radicali, con minuziose perquisizioni ad intere vie ed isolati, arresti di giovani.
L' attività della missione americana Youngstown. Inediti dall'archivio di Gian Carlo Ratti
Una precisa conferma dell'organizzazione militare e logistica tedesca, delle forze partigiane operanti nel Monferrato e nel Valenzano, ci viene dall'inedito e significativo materiale documentale presente nell'archivio Gian Carlo Ratti, ora in consegna all'autore, di prossimo commento e pubblicazione. <3 L'archivio è costituito da un dettagliato memoriale, da ampia documentazione in originale, da mappe, appunti, manoscritti, rapporti, note di guerra, attestati, fonogrammi [...]
 

Un'immagine del bombardamento sul ponte e sulla strada di Torre Beretti (PV), effettuato il 27 Luglio 1944 dai bombardieri statunitensi del 320° Bomb Group, tratta dal sito www.320thbg.org, qui ripresa da Sergio Favretto, Op. cit. infra

[NOTE]
1 Si vedano i saggi: "Valenza antifascista e partigiana" di Enzo Luigi Guidi, edito nel 1981 dall'ANPI di Valenza; "Resistenza e nuova coscienza civile" di Sergio Favretto, edito da Falsopiano nel 2009; "La Provincia di Alessandria nella Resistenza" di William Valsesia, edito nel 1980; "Una brigata di pianura, cronaca della 108° brigata Garibaldi Paolo Rossi" di O. Mussio, edito dall'ANPI di Castelnuovo Scrivia, nel 1976.
2 Questi avvenimenti sono descritti nel volume "Resistenza e nuova coscienza civile" di Sergio Favretto, edito da Falsopiano nel 2009
3 L'archivio Ratti è stato solo recentemente consegnato in esame e custodia all'autore. Si presenta, già a primo acchito, come una fonte significativa di documentazione inedita. Per il 2013 si presume possa costituire la fonte di nuove analisi storiche e possa essere ospitato in alcune pubblicazioni sui temi resistenziali del Piemonte.
Sergio Favretto, La Resistenza nel Valenzano. L'eccidio della Banda Lenti, Comune di Valenza (AL), 2012

[ n.d.r.: nella bibliografia di Sergio Favretto: Partigiani del mare. Antifascismo e Resistenza sul confine ligure-francese, Seb27, Torino, 2022; Il papiro di Artemidoro: verità e trasparenza nel mercato dei beni culturali e delle opere d’arte, LineLab, Alessandria, 2020; Con la Resistenza. Intelligence e missioni alleate sulla costa ligure, Seb27, Torino, 2019; Un carabiniere, testimone di storia. Mussolini a Ponza e a la Maddalena narrato in un diario, Arti grafiche, 2017; Una trama sottile. Fiat, fabbrica, missioni alleate e Resistenza, Seb27, 2017; Coraggio e passione. Riccardo Coppo, il sindaco, le sfide, Falsopiano, 2017; Fenoglio verso il 25 aprile, Falsopiano, 2015; Resistenza e nuova coscienza civile. Fatti e protagonisti nel Monferrato casalese, Falsopiano, 2009; Il diritto a braccetto con l'arte, Falsopiano, 2007; Giuseppe Brusasca: radicale antifascismo e servizio alle istituzioni, Atti convegno di studi a Casale Monferrato, maggio 2006; I nuovi Centri per l’Impiego fra sviluppo locale e occupazione (con Daniele Ciravegna e Mario Matto), Franco Angeli, 2000; Casale Partigiana: fatti e personaggi della resistenza nel Casalese, Libertas Club, 1977 ]

venerdì 8 aprile 2022

Traversate clandestine delle Alpi Marittime da parte di esuli antifascisti

Il Monte Clapier - Fonte: Wikimedia

[...] Quella che vorrei ricordare con queste righe però è anche una straordinaria operazione avviata alla fine del 1942 per inviare, al contrario, una serie di dirigenti comunisti in forma clandestina dalla Francia all’Italia per combattere il fascismo. Molti quadri del partito comunista esuli in Francia si erano trasferiti dal 1939 nel sud, nella zona che dal giugno 1940 diverrà regime collaborazionista di Vichy, poi nel novembre 1942 zona occupata dai tedeschi. Qui operavano con la Resistenza, ma per molti di loro la direttiva era di rientrare in Italia per preparare la futura lotta al regime. Il percorso, attraverso le Alpi Marittime, era stato inizialmente tentato senza successo dal veneto Mario Ferro “Romagnosi”, caduto subito nelle mani della polizia fascista. In seguito aveva provato due volte ad aprire la via un friulano, Amerigo Clocchiatti, nato a Tavagnacco (Colugna), ma anch’egli senza successo. Clocchiatti riesce a rientrare in Francia ma le vie che aveva sperimentato si dimostrano impraticabili. L’operazione è infine realizzata da un altro friulano dalla storia straordinaria, Domenico Tomat, di Venzone, assieme a Giulio Albini, originario della Val d’Ossola, boscaiolo e contrabbandiere, e ad un terzo personaggio, probabilmente un bellunese, che non è mai stato sinora identificato. I passaggi iniziano nel dicembre del 1942 e proseguono nell’inverno - primavera del 1943, su percorsi difficilissimi e coperti di neve e ghiaccio.
Tomat era reduce dalla guerra di Spagna, nel corso della quale era stato un abile e valoroso comandante del 1° battaglione della brigata Garibaldi (XII^ Internazionale) e temporaneamente della stessa brigata prima di restare ferito nel marzo 1938. Rientrato in Francia, avendo ottenuto la cittadinanza francese, evita i campi di concentramento ma viene arruolato nell’esercito francese e svolge il suo servizio proprio nella zona delle Alpi Marittime, sul confine con l’Italia, visitando ogni angolo di quelle montagne. In seguito aveva iniziato ad operare con la Resistenza francese a Marsiglia. Ma poi il partito lo aveva incaricato di riuscire ad aprire quella via clandestina con l’Italia che Clocchiatti aveva mancato. Per prima cosa Tomat organizza l’evasione dal campo di Gurs di Giulio Albini, che aveva conosciuto in Spagna, poi assieme iniziano ad esplorare la zona.
Su questa vicenda non si è scritto niente per diverso tempo, poi all’inizio degli anni Settanta è emerso senza grande rilievo dalle poche testimonianze di alcuni di coloro che erano passati in Italia attraverso quella via. E chi era passato era il vero gruppo dirigente del Partito Comunista italiano, da Antonio Roasio e Celeste Negarville a Giorgio Amendola, Agostino Novella, Felice Platone, Giuliano Pajetta, Anton Ukmar e molti altri. Compreso lo stesso Clocchiatti, che una volta in Italia andrà a fare il commissario della Divisione Nannetti tra Veneto e Friuli. (Vedi A. Clocchiatti, Cammina frut, Milano, Vangelista, 1972, pp. 162 - 164. G. Amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1973. A. Roasio, Figlio della classe operaia, Milano, Vangelista, 1977, pp. 188 - 192). A queste vicende ha dedicato un opuscolo nel 2004 il competentissimo compagno Giampaolo Giordana (La via del Clapier. Breve storia di un itinerario clandestino, Castellamonte, Edizioni Valados Lusitanos, 2004).
Il percorso aperto da Tomat ed Albini iniziava in territorio francese a Saint Martin Vésubie. Da qui chi doveva raggiungere l’Italia, in genere due persone, con documenti falsi forniti da un “tecnico” (probabilmente Domenico Manera, che aveva avuto dal partito quell’incarico) assieme a Tomat ed Albini e talvolta a guide francesi raggiungeva una casa contadina a Roquebillière, dove venivano approntati attrezzatura e rifornimenti. Poi la marcia proseguiva lungo le pendici del monte Clapier, massiccio di 3.000 metri di altitudine posto lungo la linea di confine, e proseguiva in territorio italiano con la discesa verso Palanfré terminando a Vernante, in provincia di Cuneo dove le persone “traghettate” venivano ospitate, a pagamento, in casa di una persona fidata, una “donna anziana, gentile, pratica di contrabbandieri” (Clocchiatti, p. 167) ed indirizzate alle loro destinazioni in Italia. La marcia poteva durare anche una settimana, se il tempo cambiava in peggio, su sentieri scoscesi e ghiacciati. Qui abili alpinisti come Tomat ed Albini conducevano politici che non avevano assolutamente esperienza di montagna, talvolta fisicamente deboli per il carcere, le privazioni, la guerra che avevano vissuto, oppure appesantiti e poco avvezzi alla fatica fisica, incoraggiandoli ma anche spingendoli in ogni modo ad andare avanti in caso di stanchezza o di crisi, salvandoli se si mettevano in difficoltà. Lungo il percorso vi erano alcuni rifugi di pastori abbandonati, casermette vuote, ed una casa, a Tetto Coletta, abitata da un’altra anziana e fidata montanara, della famiglia Rizzo, dove riposarsi e rifocillarsi; scatolame e gallette venivano nascoste in luoghi noti solo alle guide. La famiglia di Tetto Coletta non ha mai chiesto compenso per l’attività svolta. Il tutto sotto il naso della milizia confinaria fascista che non è mai riuscita a rendersi conto di quanto avveniva.
Quasi una “leggenda metropolitana” il racconto di quanti scivolavano pericolosamente sul ghiaccio verso un precipizio e venivano bloccati dalla picozza piantata da Tomat o Albini senza grossi scrupoli tra le gambe dei malcapitati cozzando dolorosamente sui genitali. Durissime erano state le osservazioni di Tomat contro il futuro deputato della Costituente e sindaco di Torino (Negarville), evidentemente affaticato e indebolito, che aveva bevuto in poco tempo la riserva di liquore destinata a tutto il gruppo. Lo stesso Negarville, dopo sei giorni di marcia, sfinito, aveva ordinato a Tomat di fermarsi, ma lui aveva risposto “Caro Negarville, tu sei responsabile del lavoro politico ma io sono responsabile di farti arrivare in Italia. Quindi sono io in questo caso che decido” (Roasio, p. 192). Le gerarchie di partito in quei momenti non avevano valore. Una volta in Italia, una parte dei “traghettati” attraverso il Clapier formerà il Centro Interno del PCI e darà un grande contributo alla Resistenza.
Tutti i viaggi condotti da Tomat ed Albini sono stati portati a termine senza incidenti, senza che la milizia fascista si accorgesse di niente, senza che alcuno dei “passeggeri” rimanesse infortunato o peggio. Alla fine del 1943 i due verranno spostati su ordine del partito in Svizzera, dalla Svizzera Tomat rientrerà in Italia andando a fare il partigiano in Valtellina. Clocchiatti ricorda un poco tristemente nella sua autobiografia che Tomat avrebbe potuto raccontare una serie di storie straordinarie in merito a queste vicende; storie che purtroppo oggi sono perse per sempre.
Marco Puppini, Espatri e rimpatri clandestini di antifascisti friulani negli anni del regime, Friuli Occidentale. La storia, le storie, 3 aprile 2020  

Tra i quattro friulani attivi nella Resistenza francese del sud-est appena citati, un rilievo particolare dev’essere dato ad Amerigo Clocchiatti, noto anche con i suoi numerosi pseudonimi di battaglia come «Grillo» o «Ugo», nato a Colugna in provincia di Udine. Lasciò l’Italia per la Francia nel 1930 per sfuggire ad una condanna del Tribunale speciale fascista. Dopo aver alternato negli anni Trenta soggiorni francesi a ritorni clandestini in Italia, inframmezzati da corsi seguiti alla scuola leninista di Mosca, lo troviamo nel 1941 e 1942 a Marsiglia, inviato dal Partito comunista italiano in supporto di Teresa Noce, «Estella», moglie di Luigi Longo, nella direzione delle attività degli FTP-MOI <14 per tutto il sud-est. A partire dalla metà del ’42 la sua principale preoccupazione sarà quella di trovare il modo di passare la frontiera tra Francia e Italia allo scopo di riprendere la propaganda comunista in Italia. Ci riuscirà dopo molti tentativi falliti solo alla fine del ’42, primo di tanti altri dirigenti comunisti presenti in Francia all’epoca: lo farà percorrendo una pista alpina estremamente pericolosa, situata a tremila metri d’altitudine, epico percorso da lui stesso narrato nella più fortunata delle sue autobiografie <15.
Una volta in Italia, dopo l’8 settembre divenne uno dei più prestigiosi comandanti partigiani, prima nel Veneto poi in Emilia. Alla fine del ’42 Clocchiatti riuscì, dopo molti tentativi infruttuosi, ad oltrepassare la frontiera con l’Italia, diventata sempre più invalicabile dopo l’occupazione italiana del sud-est, grazie all’aiuto e complicità dell’altro dei quattro friulani evocati sopra: Domenico Tomat. Questi fu una figura dal percorso al tempo stesso epico-leggendario e atipico. Quanto al primo aspetto, basti ricordare il suo arrivo precoce in Francia, negli anni Venti; i due anni di combattente volontario nella guerra civile spagnola durante la quale occupò posti di grande responsabilità e autorevolezza <16; l’attività di sostegno e assistenza agli ex-compagni combattenti di Spagna quando si trovavano nei campi d’internamento del sud della Francia, che Tomat aveva evitato perché ferito e rientrato in Francia prima della fine della guerra; le sue imprese al servizio della Resistenza francese tra il ’41 e il ’43 nella regione di Marsiglia, in riconoscimento delle quali ricevette in seguito una decorazione ufficiale della Repubblica francese; il ruolo decisivo di «traghettatore», nel senso letterale del termine ma a tremila metri di altitudine, di quasi tutto lo stato maggiore del Partito comunista italiano in esilio alla vigilia del 25 luglio 1943; le sue gesta, infine, di comandante partigiano in Italia negli ultimi mesi della guerra, al comando della brigata d’assalto «Valtellina».
Riguardo all’aspetto atipico, sul quale vorrei avere maggiori elementi d’informazione di quanti ne abbia, questo appare inusuale per la sua precocissima, e più unica che rara, acquisizione della cittadinanza francese fin dal 1927, due anni soltanto dopo l’inizio del suo esilio; oltra a tutto il suo percorso militante successivo che sembra fare a pugni con questa naturalizzazione francese, perché esclusivamente italiano, e che pare piuttosto predisporlo a una brillante carriera politica nel Partito comunista italiano, fino al giorno in cui, pochi mesi dopo la Liberazione, Tomat decise di tornare in Francia per non più allontanarsene fino alla sua morte, nel 1985.
Quanto agli altri due dirigenti degli FTP-MOI originari o del Friuli, come Antonio Zorzetto, o di Trieste, come Antonio Ukmar, essi presentano un profilo relativamente simile a quello di Amerigo Clocchiatti. Anche per essi, come per Clocchiatti, un soggiorno più o meno lungo a Mosca figura nel loro percorso, ma avevano anche fatto, al pari di Tomat, la guerra di Spagna. Antonio Ukmar <17 nel 1940 passò inoltre qualche mese in Etiopia a sostegno dei guerrilleros etiopi che si battevano contro l’occupazione italiana <18. Dopo il 1943 i loro percorsi, tuttavia, prendono strade diverse: mentre Zorzetto torna in Italia solo dopo il 1945, inserendosi nelle istanze locali friulane del Partito comunista italiano, Ukmar rientra in Italia, svolge un’importante attività di comandante partigiano in Liguria, per tornare poi nella sua regione d’origine, iscriversi al Partito comunista jugoslavo e finire i suoi giorni a Capodistria, in territorio attualmente sloveno <19.
14 Gli F.T.P., ovvero Francs Tireurs Partisans, erano un’organizzazione clandestina creata dal Partito comunista francese nel gennaio del 1942. Era un’organizzazione specializzata soprattutto in atti di sabotaggio e in attentati individuali o a ufficiali delle truppe di occupazione o a collaboratori e spie notorie. Gli immigrati erano di varie nazionalità, tra le quali, insieme agli ebrei di Europa orientale, soprattutto polacchi. Gli italiani erano fra i più numerosi, raggruppati in sezioni speciali che prendevano il nome di M.O.I., secondo un acronimo che era già esistito negli anni Venti e Trenta prendendo il posto dell’iniziale M.O.E. Quest’ultimo acronimo stava per Main-d’oeuvre étrangère e M.O.I. per Main-d’oeuvre immigrée e non, come si trova scritto in molte autobiografie militanti italiane e nel libro di Pia Carena Leonetti sopra citato Movimento operaio internazionale. I G.A.P. italiani successivi all’8 settembre 1943 erano a loro volta ispirati, per la loro organizzazione e per le loro modalità d’azione, a questo precedente francese. Non solo, ma alcuni eroi dei G.A.P. italiani, valga per tutti il nome di Giovanni Pesce «Visone», avevano alle spalle un’esperienza francese. Vedasi ora, su quest’ultimo punto, l’autorevole conferma del bel libro di S. Peli, Storie di Gap, Einaudi, Torino 2014, di cui ho potuto prendere visione solo quando il presente saggio era già stato ultimato.
15 A. Clocchiatti, Cammina frut, Vangelista, Milano 1972.
16 Cfr. M. Puppini, In Spagna per la libertà, cit., pp. 228-29; cfr. anche G. Calandrone, La Spagna brucia: cronache garibaldine, Editori Riuniti, Roma 1974 (2a ed.), pp. 280-81
17 Come Ilio Barontini, un altro dirigente degli FTP-MOI, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella resistenza marsigliese, («L’esperienza di lotta armata vissuta a Marsiglia fu molto importante per gli sviluppi futuri della guerra partigiana in Italia [...] quando si trattò di iniziare a Roma la lotta armata, io mi ricordai delle lezioni marsigliesi di Ilio e cercai di metterle a profitto [...] la bomba sul tram del Vieux Port fornì l’idea cui si ispirarono i gappisti che posero la bomba in via Rasella», avrebbe scritto anni dopo Giorgio Amendola nelle sue Lettere a Milano. Ricordi e documenti. 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, p.62), futuro sindaco comunista di Livorno nel dopoguerra.
18 Cfr. M. Puppini, In Spagna, cit., p. 236.
19 Ibid.

Antonio Bechelloni, Friulani e giuliani attivi nella Resistenza francese (1940-1944). Dal socialismo all’antifascismo, dall’antifascismo alla Resistenza: la coerenza di un percorso collettivo in (a cura di) Diego D’Amelio e Patrick Karlsen, «QUALESTORIA» - Rivista di storia contemporanea - 2. Collaborazionismi, guerre civili e resistenze, Anno XLIII, N.ro 2, Dicembre 2015, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia

martedì 1 marzo 2022

La FIGC punì i giocatori “fuggiti in terra jugoslava” con una squalifica semestrale

Una formazione della Triestina seconda in Serie A nel ’48 - Fonte: unionetriestina.it - Immagine qui ripresa da SportHistoria

La formazione Amatori Ponziana che castigò l’Hajduk Spalato nel 1946/47 - Fonte: Contrasti

La stagione 1947-48 viene celebrata dagli sportivi di Trieste come il fiore all’occhiello del calcio triestino. La società alabardata - dopo le caotiche vicissitudini nel corso del campionato precedente - arrivò seconda in classifica, insediando la testa del campionato al “Grande Torino”. Alla guida della squadra fu chiamato l’ex giocatore della Triestina e della Nazionale Nereo Rocco, che formò una rosa quasi esclusivamente di triestini nutrita da un codice di appartenenza territoriale impensabile ai giorni nostri. Una squadra che doveva essere composta da triestini, per gridare in campo l’appartenenza a una città così vicina e lontana <345.
Una delle novità del campionato fu la concessione del GMA (Governo Militare Alleato) di far giocare dall’inizio della stagione tutte le gare casalinghe a Trieste (allo Stadio San Sabba) ad entrambe le squadre. Tale concessione fu subordinata all’assunzione della completa responsabilità del Presidente dell’Amatori Ponziana e dal segretario della Triestina in caso di incidenti.
Da come si legge dagli atti dell’Archivio statale di Trieste
"Io sottoscritto BOLTAR Edoardo, presidente dell’Amatori Ponziana, dopo essermi consultato con i diversi capi dei partiti politici aderenti all’U.A.I.S., garantisco con la presente e mi assumo la responsabilità per il comportamento corretto degli elementi sloveni di Trieste in occasione dell’incontro calcistico che avrà luogo nello Stadio S. Sabba […]"
"Io sottoscritto, COTTA Luciano, segretario dell’UNIONE SPORTIVA TRIESTINA, dopo essermi consultato con i diversi capi dei partiti politici italiani aderenti al C.L.N. garantisco con la presente e mi assumo la piena responsabilità per il comportamento corretto degli elementi italiani di Trieste in occasione dell’incontro calcistico che avrà luogo nello stadio S. Sabba domenica 22 dicembre 1946, tra una squadra proveniente dalla Jugoslavia ed una squadra di Trieste" <346.
Mentre l’A. Ponziana otteneva una discreta prestazione nel campionato jugoslavo, piazzandosi a metà classifica, la Triestina, dunque, disputò il suo miglior campionato della sua storia: dopo una fila di tredici partite utili consecutive, terminò seconda classificata con 49 punti, a pari merito con Juventus e Milan, e sotto solo al Torino.
L’imponente disponibilità finanziaria elargita dal governo italiano, unita alla possibilità di giocare le proprie gare casalinghe a Trieste e alla sapienza tattica di Nereo Rocco, portarono la Triestina nel punto più alto nella sua storia, a distanza di un solo anno dall’ultimo posto ottenuto nel corso del campionato precedente. Tale risultato sportivo è rimasto tuttora ineguagliato e risulta significativo che sia stato ottenuto proprio durante uno dei periodi più tesi della “questione di Trieste”. L’anno successivo la squadra alabardata non riuscì nell’impresa di riconfermarsi tra le grandi del calcio italiano e terminò il campionato del 1948/49 con un discreto ottavo posto; l’A. Ponziana, invece, concluse la stagione all’ultimo posto in classifica, e fu l’ultima apparizione nella Prva Liga.
Nel frattempo, infatti, un importante evento politico andava a sconvolgere gli equilibri internazionali, segnando profondamente tutto l’universo comunista, in maniera particolare quello triestino, ambito sportivo compreso. Stiamo parlando della “crisi del Cominform”. Tale evento politico determinò l’espulsione del partito comunista jugoslavo dall’ecumene comunista per tutta una serie di motivi: lo Stato jugoslavo veniva accusato dal PCUS di quella di aver condotto una «politica indegna nei confronti dell’URSS» <347, di aver rifiutato di rendere conto dei proprio atti politici al Cominform; di aver intrapreso un percorso di deviazionismo ideologico dai principi marxisti-leninisti; e, infine, Tito venne addirittura accusato di essere una spia imperialista.
In questa sede ci limiteremo a considerare solo una delle principali cause che determinò l’espulsione del PCJ dall’organismo del Cominform; vicenda che, oltre a innescare un vero rovesciamento dei rapporti tra potenze occidentali e lo stato Jugoslavo, avrà un effetto dirompente sugli equilibri politici (e, come vedremo, sportivi) del contesto triestino. Tito usciva dalla seconda guerra mondiale come uno dei leader più autorevoli del panorama comunista. Tra il 1941 e il 1944 divenne la guida del movimento di liberazione jugoslavo, ottenendo la liberazione del paese dalle forze nazifasciste e avviando la costruzione dello Stato socialista Jugoslavo. Sulla base di questi successi - che estesero la sua popolarità e il suo prestigio ben oltre i confini jugoslavi - <348 il leader del PCJ, cominciò, sin dall’immediato secondo dopoguerra, a condurre una politica estera in modo sostanzialmente autonomo, suscitando l’ostilità delle potenze occidentali e diventando una figura ingombrante per il regime sovietico. Come scrisse lo storico Pirjevec Stalin come Geova era un dio geloso, e non poteva permettere che accanto a lui sorgessero altri dei <349. Nel giro di pochi anni si venne a creare un clima di sospetto e diffidenza nei rapporti tra sovietici e jugoslavi che portarono alla definitiva sconfessione della Jugoslavia da parte dell’URSS nel giugno del 1948.
La questione di Trieste fu uno dei primi motivi d’attrito tra il leader jugoslavo e quello sovietico: l’occupazione della città giuliana nel Maggio del 1945 da parte delle truppe di Tito e le conseguenti richieste annessionistiche, rischiarono di trascinare la Jugoslavia, assieme all’Unione Sovietica, alle soglie di uno scontro armato con le potenze alleate <350. L’operazione militare di Tito venne interpretata dalle potenze del blocco occidentale come un gesto di sfida, come un deciso tentativo di espansione del mondo comunista all’interno dell’Europa occidentale. Tale tentativo, dunque, fu percepito dalle potenze del blocco occidentale come una manovra architettata dall’Unione Sovietica; lo stesso Churchill si convinse che Tito «fosse un tentacolo della piovra moscovita» <351. Tuttavia, per Stalin, la “questione di Trieste” - benché non fosse contrario alle pretese jugoslave - non fu mai considerata una questione prioritaria né tantomeno una causa per la quale rischiare un conflitto armato con le potenze occidentali.
[...] Tale clima di ostilità e di contrapposizione si estese anche all’ambito extrapolitico, coinvolgendo l’ambito culturale, quello editoriale e, ovviamente, la dimensione sportiva.
A Trieste ci fu lo scioglimento di tantissimi circoli culturali, compagnie teatrali e gruppi bandistici italo-sloveni; in alcune associazioni si scatenarono durissime guerre intestine tra membri di orientamento titoista e fra quelli stalinisti <365. Le principali testate della città presero due strade separate: i “cominformisti” mantennero il giornale italiano “Il Lavoratore”, mentre i titoisti, invece, conservarono la proprietà del già menzionato “Primorski Dvenik”.
A farne le spese fu altresì la dimensione sportiva. Come ha osservato Nicola Sbetti, lo scisma comunista indebolì profondamente la posizione dell’Ucef sullo sport triestino: "Da quel momento il supporto di Tito all’UCEF venne meno anche perché, con l’uscita della Jugoslavia dal Cominform, vi fu una presa di distanza anche dal PCI, partito a cui molti membri dell’UCEF erano legati" <366.
Ma soprattutto la “crisi del Cominform” pose fine del sostegno finanziario del governo Jugoslavo nei confronti dell’Amatori Ponziana. La società triestina terminò mestamente la stagione 1948/1949 all’ultimo posto in classifica e, dopo tre campionati nella Prva Liga, scomparve completamente dal panorama calcistico <367. Alcuni suoi giocatori trovarono sistemazione in altre squadre del campionato jugoslavo, la maggior parte, invece tornò in Italia. A quest’ultimi, però, fu impedito, per i primi sei mesi, di svolgere l’attività sportiva: la FIGC, infatti, punì i giocatori “fuggiti in terra jugoslava” con una squalifica semestrale <368.
Successivamente, l’epilogo della vicenda dell’A. Ponziana andò a incidere anche sul destino della Triestina, determinando un progressivo disinteresse da parte del governo italiano per le sue sorti sportive, che divenne pressoché totale dopo il 1954.
Dopo il Memorandum di Londra, che sancì il ritorno ufficiale della città all’Italia, il valore simbolico e propagandistico della Triestina subì un deciso ridimensionamento; e, anche per questo motivo, dopo la retrocessione in serie B nella stagione 1956-57, la squadra alabardata non riuscirà più a prendere parte alla massima serie italiana.
Si chiudeva quindi una vicenda fortemente rappresentativa del clima di contrapposizione e rivalità che caratterizzò la città giuliana dopo il 1945.
[...]
Appendice
Intervista con Giuliano Sadar, 19 Febbraio 2015.
Giulino Sadar è stato inviato del quotidiano “TriesteOggi” per il quale ha seguito le vicende delle squadre di vertice triestine. Giornalista professionista dal 1993, oggi lavora alla sede Friuli-Venezia Giulia della Rai. Nell’Ottobre 1997 ha pubblicato il suo primo libri “El Paron, vita di Nereo Rocco (Lint Editoriale).
1. Come nasce l’idea di questo libro?
Tutto nasce dal particolare clima politico che poi si riverberò all’interno del contesto sportivo. Sono venuto a sapere di questo episodio negli anni '80 ad Avellino, durante una partita tra Triestina e Avellino. Sono andato a casa di un certo Lo Schiavo, un triestino che viveva ad Avellino e mi riferì di questo episodio. La storia dell’Amatori Ponziana l’ho raccontata io per la prima volta, perché qua c’era proprio un tabù nel parlarne.
[...]
3. Lei ha scritto che «passare dall’Amatori Ponziana era un tradimento di maglia, affetti e ideologie», cosa intendeva con questa espressione?
Calcoli che il Ponziana, era la tradizionale squadra dei lavoratori del porto di Trieste, un ambiente molto frequentato dai socialisti; la Triestina invece era la squadra, tra virgolette dei “signori”, della borghesia italiana. Erano due mondi diversi, inconciliabili. Passare da una squadra all’altra veniva visto come un tradimento, soprattutto per quelli che dalla Triestina passarono all’Amatori Ponziana. La gente li vedeva come “dei venduti ai comunisti di Tito”. Questi 40 giorni di Tito a Trieste, sono stati vissuti malissimo dalla cittadinanza, era il periodo delle “Foibe”, un periodo di grandi violenze.
4. Quanto contava la questione ideologica nell’aderire all’Amatori Ponziana?
Intanto erano tutti giocatori italiani. A quanto mi ha detto Ettore Valcareggi (giocatore dell’Amatori Ponziana, ndr) fu prevalentemente una motivazione economica. Quando lo incontrai, mi disse “mi davano un milione all’anno”. La dirigenza era invece comunista: c’era un evidente motivazione politica. Secondo me, almeno tra i giocatori, ma è solo una mia sensazione, non c’era una particolare adesione politica.
5. Una parte di Trieste sperava nell’adesione di Trieste durante quel periodo?
Gli sloveni, e una parte dei comunisti italiani favorevoli a Tito. Al di là del socialismo, la Jugoslavia era una potenza militare, perché Tito era uscito vincitore da una guerra civile sanguinosissima, quindi aveva una grande forza di attrazione rispetto all’Italia, che era si era praticamente sfaldata dopo l’8 Settembre.
6. Quanto ha inciso la rottura fra Tito e Stalin sulle sorti sportive di entrambe le squadre?
Come ho già scritto nel libro, ha fatto calare il valore propagandistico di tenere la squadra in Jugoslavia. Lo stesso vale per la Triestina. Ha avuto finanziamenti fino agli anni ’50, fu tenuta in serie A fino al 1959, dopodiché ci fu il declino. Arrivavano soldi qua, come arrivavano soldi dalla Jugoslavia. Lo sport è sempre servito per motivi politici.
7. Era molto seguita l’Amatori Ponziana?
Si, era molto seguita durante le partite, ovviamente dalla parte comunista della città.
[NOTE]
345 Ivi, p. 64.
346 ASTs (Archivio di stato di Trieste), Oggetto n. 246, Unione Sportiva Triestina, II 27 B.
347 J. Pirjevec, Tito, Stalin e L’Occidente, Opicina, Villaggio del fanciullo, 1985, p. 173
348 P. Purini, op.cit. , p. 264.
349 J. Pirjevec, Tito, Stalin e L’Occidente, Opicina, Villaggio del fanciullo, 1985, p, 16.
350 Il pericolo che Tito trasformasse Trieste in un fronte di agitazione comunista portò le forze alleate a prendere in considerazione l’eventualità di uno scontro armato con le forze jugoslave. J. Pirjevec, op. cit., p. 36
351 J. Pirjevec, op.cit , p. 19.
365 P. Purini, op.cit. , p, 272
366 N. Sbetti, op.cit. , p, 429.
367 Ricordiamo che il C.S. Ponziana 1912 continuava a svolgere la sua attività sportiva nelle categorie inferiori del calcio italiano.
368 G. Sadar, op.cit. , p, 64.
Nicolò Falchi, Il Calcio al confine: il caso di Trieste. Dall’irredentismo alla guerra fredda, Tesi di laurea, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Anno accademico 2014-2015


Il Ponziana del 1948/49, all'ultima recita nella Prva Liga - Fonte: Stefano Affolti, art. cit. infra

[...] L'Amatori saluta e torna nei ranghi della casa madre Ponziana. L'Italia non stende certo tappeti rossi e la zelante Figc presenta un conto salato: sei mesi di squalifica per tutti coloro che hanno osato tesserarsi altrove e iscrizione della squadra solo al campionato di Promozione, la quarta serie. Molti giocatori se ne vanno, trovando posto in Jugoslavia o in categorie superiori.
Declino, blitz e campioni. Da allora il Ponziana conosce un lento ma inesorabile declino: la coraggiosa squadra del quartiere popolare naviga nei tornei minori, segnalandosi come ottimo vivaio (escono da lì Fabio Cudicini, il povero Giorgio Ferrini e Giovanni Galeone) e realizzando ogni tanto blitz da prima pagina. Come quando, il 17 luglio 1960, vince grazie alla monetina la finale nazionale dei dilettanti a Rimini con la Scafatese (finita 1-1). O quando, il 1° dicembre 1974, batte 1-0 la Triestina in un memorabile derby di serie D, giocato al Grezar davanti a ventimila spettatori. Triestina che, dopo la fine della querelle sui confini orientali, a sua volta perde la tutela politica della Dc: abbandona la serie A nel 1959 per non rivederla più.
Siccome reincarnarsi non gli dispiace, lo spirito del Ponziana è ancora vivo sotto altre spoglie: la società originaria è scomparsa nel 2014, oggi la legittima erede si chiama Chiarbola Ponziana e milita in Promozione.
Stefano Affolti, La guerra fredda del Ponziana, Gente di Calcio, 22 luglio 2020 

L’inviato speciale del «Corriere» Egisto Corradi avrebbe tenuto in sospeso gli animi dei lettori con un reportage a puntate sulle sorti di quegli «Italiani modello, intensissimi Italiani, uomini che da piccoli giuocavano con le bandiere italiane invece che con bambole e palline», costretti nella Zona B del Territorio Libero di Trieste a veder smantellato «tutto ciò che è italiano, dalle scuole alle squadre di calcio, [...] terra italiana in cui si ascolta Radio-Milano di nascosto, a porte e finestre chiuse» <461, ridotti in libertà vigilata, serrati dietro «una trincea».
"Tutti gli Italiani possono esaminare carte geografiche e rendersi conto della situazione, ma i triestini, in mezz’ora di automobile da Piazza Oberdan, possono arrivare a toccare uno qualsiasi dei sedici posti di frontiera che dividono la zona anglo-americana del Territorio libero dalla Jugoslavia. [...] Dovete sempre ricordarvene quando parlate con loro: vivono in un cerchio che ha per raggio mezz’ora di vita libera. Se ve ne dimenticate, senza dirvelo, ve lo ricordano; e se avete orecchio intenderete sempre questo fatto della mezz’ora come sottinteso implicito ed incombente in ogni loro discorso. I triestini «sentono» la cortina di ferro che corre tutt’intorno, così come un cieco «sente» le pareti che ostacolano il suo cammino" <462.
[NOTE]
461 A Capodistria si ascolta Radio-Milano di nascosto, «Il Corriere della Sera», 1 aprile 1948.
462 Sarà duro per Tito lasciare la “Piccola Istria”, «Il Corriere della Sera», 8 aprile 1948.
Vanessa Maggi, La città italianissima. Usi e immagini di Trieste nel dibattito politico del dopoguerra (1945-1954), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Anno Accademico 2018-2019