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mercoledì 11 settembre 2024

C'era un bar...

Vallecrosia (IM): la zona del "Ponte"

C'era un bar sul "Ponte" di Vallecrosia, dapprima ubicato a settentrione, poi spostato dall'altra parte della Via Aurelia. Nell'ultima sistemazione aveva nel seminterrato una sala che a lungo rappresentò per quella cittadina l'unica occasione per riunioni di carattere politico, sociale e culturale, tanto è vero che è tuttora ben ricordata dagli animatori dell'Unione Culturale Democratica di Bordighera, che tra quelle mura mosse i suoi primi passi. Ma anche quell'esercizio ebbe tra i clienti più assidui alcuni protagonisti della più normale vita sociale della zona.

Via Dante a Ventimiglia, da molte persone ancora adesso chiamata Via Regina, fornisce talora l'occasione, in quanto pregresso sito di residenza, per fare ritrovare qualche vecchio amico, magari rientrato in vacanza da fuori regione. Più spesso questo appuntamento viene dato non proprio in loco, ma la motivazione scaturisce sempre dalla vecchia appartenenza a quella strada o alle sue immediate vicinanze. Come sovente capita in questi casi, un punto di riferimento per le pregresse frequentazioni era un pubblico esercizio, all'inizio una latteria, presto affiancata da un vero e proprio bar, gestito dalla famiglia di due dei nostri personaggi. Anche questi ultimi si esibirono nei gruppi musicali degli anni Sessanta, con altri giovani del posto o del comprensorio, in genere con buoni risultati di carattere locale, messi in evidenza, al pari di altri aspetti qui riferiti, ad esempio, da Gaspare Caramello in un suo scritto di quasi venti anni fa. Non poteva mancare, infatti, in Via Regina, né poco lontano, qualche capannone per la costruzione di carri per la Battaglia di Fiori, in cui si diedero da fare quasi tutti i richiamati ragazzi, mentre altri tra di loro preferirono affinare le competenze da carristi in altre parti della città.

C'era un bar a Nervia di Ventimiglia, l'unico bar in pratica della località sino agli inizi degli anni Sessanta, ma che aveva la singolarità di essere stato dotato da subito di un televisore. A detta di una persona della famiglia di quella proprietà fu proprio la presenza di quell'apparecchio a determinare notevole affluenza a quel locale. Vista la variegata composizione dei clienti, provenienti anche da Bordighera, viene da dubitare della serietà di quella affermazione, ma rimane il fatto che gli echi di quelle frequentazioni sono sparsi per tutto il comprensorio intemelio. Non mancavano tra quegli avventori gli ideatori di memorabili scherzi, giocati pure alle spalle di ignari vigili urbani, né gli animatori di una compagnia di carristi della Battaglia di Fiori. Quando per ripicca alle ennesime vibranti proteste della padrona per il chiasso prodotto da quelle allegre compagnie i capifila di una di queste decisero che era ora di aprire un nuovo esercizio dall'altra parte della Via Aurelia questo venne fatto: con il risultato che, come quasi sempre in casi del genere, qualcuno prese ad alternare la sua presenza tra i due locali, ma che il teatrino - non solo goliardico - si era definitivamente spostato.

C'era un bar ai Piani di Borghetto in Bordighera, la cui squadra di calcio - all'epoca composta rigorosamente da non tesserati alla Federazione, tra i quali un noto ristoratore, appassionato di musica melodica, un valente commercialista, diversi floricoltori, più o meno fortunati - vinse almeno un torneo estivo a metà degli anni Sessanta, un periodo in cui alcuni giovani frequentatori potevano già essere annoverati tra i carristi de I Galli del Villaggio.

Ci sono stati in questi luoghi di confine, come in tutte le parti del Paese, bar, osterie, bettole (e non sempre vere e proprie: il pregresso Premio - artistico e letterario - "Cinque Bettole" di Bordighera aveva un titolo alquanto autoironico). Oggi sempre meno, con prevalenza, forse, di pub e di semplici punti di ristoro. Resiste a Ventimiglia il caffè delle elites cittadine, ma da decenni è chiuso quello, posizionato a fianco del (ormai ex) Mercato dei Fiori e preferito da tanti operatori, tra i quali Libero Alborno, il Libero rivisitato in chiave di fantasia da Nico Orengo nel suo "La curva del Latte". Altri esercizi si sono trasformati nel senso sopra indicato. Non ci sono più - o quasi -  ritrovi di artisti e di letterati.

A tornare, in ogni caso sfiorandola, in una dimensione di cultura più popolare sono utili ulteriori esempi, che prescindono, tuttavia, da bar che sono stati semantici di sindacato e di politica progressista. Quando si tornò ad organizzare la Battaglia di Fiori di Ventimiglia - oggi di nuovo sospesa - si fece quasi vorticoso il passaggio di carristi, anche per la rapida chiusura di compagnie e per la formazione di nuove, da un gruppo all'altro. E qualcuno tornava da fuori, prese le ferie, per dare una mano, quella già affinata in gioventù. Ci sono pensionati che si emozionano a vedere fotografie ormai ingiallite che ritraggono in una tipica osteria di Bordighera, ormai scomparsa, persone vicine di casa o comunque un tempo note. Si possono citare - sempre a titolo indicativo - tra i tanti clienti dei bar indicati le persone che con il passare degli anni sono diventate chi collezionista di fumetti e chi di dischi, chi disegnatore di argute vignette satiriche, chi bravo coltivatore di orchidee, chi dirigente di circolo velico, chi scrittore di romanzi polizieschi, chi stimato storico, chi ricercatore di vicende locali con l'occhio attento all'individuazione di fotografie in tema.

Adriano Maini

martedì 3 settembre 2024

Sciamavano numerosissime le lucciole



C'è un pino marittimo a Bordighera, ultracentenario, che poteva essere una delle perle di un progetto di valorizzazione dell'alberatura storica della Via Romana (comprensiva di un tratto anche in Vallecrosia), progetto di cui non si è saputo più nulla.
L'albero in questione, oggi forse non molto distinguibile per la successiva crescita lì vicino di qualche suo simile, si trova pressoché all'incrocio - una rotonda - della richiamata arteria con la strada per Vallebona, ma un tempo fiancheggiava i pilastri del cancello d'ingresso alla sovrastatante, ormai scomparsa, Villa Cappella, pilastri ancora visibili alla svolta degli anni Sessanta.
A fianco di quel pino veniva eretto a quel tempo - un po' prima, un po' dopo - il capannone dove veniva realizzato per la Battaglia di Fiori di Ventimiglia il carro della compagnia "I Galli del Villaggio", destinata a vincere molti concorsi, ma anche a vedere qualche sua opera squalificata perchè - a termini di regolamento - troppo grande.
Accorrevano in quei casi ad aiutare per infilzare con spilloni i garofani destinati a dare colore ai carri ragazzini della limitrofa - a ponente - regione Cabane (in una carta del Touring Club degli anni Venti del secolo scorso Regione Luco), ma anche del complesso Gallinai, posto al lato di nord-est della zona, destinato in oggi ad essere assorbito in un'operazione edilizia ventilata da tempo, complesso meritevole per la sua pregressa storia di considerazioni a parte.
Dirigevano le operazioni adulti, alcuni di grande esperienza, anche di Vallecrosia, anche un affabile geometra di Ventimiglia, disegnatore delle figure dei carri.


Tra questi chi - come testimonia una vecchia fotografia - si era fatto le ossa da giovane con una compagine, che aveva forse agito in un'unica occasione, ma pur sempre operante nelle vicinanze.
Difficile sapere se in quegli operosi momenti qualcuno ricordasse che Villa Cappella, requisita dal regime fascista ad una vedova inglese, era pur stata durante la guerra sede di un reparto di SS tedesche, ma degli eventi bellici almeno un episodio uno di quegli attivisti si sarebbe ricordato tanti anni dopo, quello riguardante l'apparecchio da caccia statunitense che, colpito dalla contraerea, si era abbattutto nella non lontana collina dei Mostaccini.  


Sciamavano numerosissime le lucciole nel lato - di levante - di Via Romana adiacente l'orto giardino di Villa Pendice per la gioia dei già citati ragazzini dei Gallinai e di altri loro amici, tutti impegnati a giocare a nascondino: nei ricordi di tanti sembra che questo accadesse dopo la Battaglia di Fiori e le infiorate delle ringhiere del ponte Bigarella (scomparso per la copertura vastissima del torrente Borghetto) per la processione dedicata a Sant'Antonio da Padova, quindi a giugno inoltrato, mentre più di recente chi ha avuto la fortuna di ammirare nel ponente ligure i piccoli luminosi messaggeri ne sottolinea una precoce apparizione, ma forse potrebbe trattarsi di un fenomeno come quello che riguarda la fioritura delle jacarande, vale a dire conseguenze di un anticipo di calura estiva.

Adriano Maini

martedì 9 luglio 2024

Peglia e dintorni...





Località  Peglia di Ventimiglia (IM), a nord del ponte della ferrovia per la Francia.
C'era un po' più in su una pista di go-kart con annesso pubblico servizio: un'area molto frequentata ed oggi molto rievocata in tante memorie. Con base di partenza e di arrivo da quel sito e con deviazione su sentieri sull'addomesticato greto o solo su quel cemento - si tenne almeno in un'occasione (anno di grazia 1966) una sorta di pre-selezione (sub-provinciale) dei campionati studenteschi di corsa campestre.
A valle della strada ferrata l'area forse ha un altro nome, ma un tempo aveva una maggiore interconnessione con la precedente: c'erano anche anche delle piccole peschiere; il vecchio mattatoio; un po' a ponente, a fianco della strada che attualmente concede solo un minimo accesso a Peglia, ai suoi vecchi mulini, alla Bocciofila del Dopolavoro Ferroviario, c'era una fabbrica di liquirizia, un edificio purtroppo devastatato dallo scoppio di una caldaia agli inizi degli anni '70, con la conseguenza di gravi danni alle persone, soprattutto con la morte di una giovane ragazza che frequentava il Bar Irene, vero centro sociale e culturale dell'epoca nella città di confine. Ed ancora un camping sempre molto affollato d'estate...
Sino a tutti gli anni Sessanta alcuni carri della Battaglia di Fiori, una volta finita la manifestazione, venivano portati, o riportati, davanti al mattatoio.
La via principale per Peglia, che passava per un varco del ponte della ferrovia, è stata resa intransitabile in quel proseguimento per motivi di sicurezza rispetto alle piene del limitrofo fiume Roia.
Per arrivare all'altra Bocciofila (quella storica ed affiliata al CONI), ai campi da tennis, ai rettangoli verdi del calcio occorre adesso sottoporsi ad un lungo giro.
Il campo di calcio di Peglia forse venne realizzato man mano che veniva dismesso quello vecchio in Piazza d'Armi a Camporosso (IM), ancora utilizzato nel 1964.

Adriano Maini

giovedì 30 dicembre 2021

Sull’estremo limite della linea di difesa di Stalingrado


Vasilij Grossman, ufficiale dell’Armata Rossa e corrispondente del giornale militare «Stella Rossa» scrisse nel suo diario che l’inizio dell’offensiva tedesca nell’estate del 1942 - quasi un anno esatto dall’inizio dell’invasione - «avrebbe deciso tutte le questioni e tutti i destini». La sua predizione si avverò. L’offensiva della Wehrmacht terminò con la battaglia di Stalingrado, il punto di svolta della guerra e del suo destino personale.
Il generale David Ortenberg, l’editore in capo della «Stella Rossa» durante la guerra, ci ha detto in un colloquio personale che questo periodo fu «il momento d’oro» della vita di Grossman.
La corrispondenza privata di Grossman conferma questa affermazione. Dopo due mesi del più intenso combattimento ravvicinato dell’intera guerra, egli scrisse a suo padre: «Non ho desiderio di lasciare questo posto. Anche se la situazione è migliorata, voglio ancora stare in un luogo dove ho potuto testimoniare i tempi peggiori» (Garrard 1996, p. 159).
Anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, egli proiettò le proprie emozioni riguardo alla battaglia nella fine di "Vita e destino", la sua ricostruzione romanzesca della battaglia.
Krymov, un commissario dell’Armata Rossa, a cui Grossman prestò molte delle sue esperienze personali, oltre che il suo grado nell’esercito, viene arrestato dall’Nkvd. Lo troviamo ora giacere alla Lubjanka, sanguinante, dopo essere stato preso a pugni. Krymov ricorda a come «libero e felice, solo qualche settimana prima se ne stesse spensierato dentro il cratere di una bomba e sulla sua testa fischiasse l’acciaio» (vd, p. 772).
«Libero e felice» non è proprio il modo in cui descriveremmo la condizione degli uomini che combattevano a Stalingrado. La visione di Grossman sulla paradossale natura della libertà di Stalingrado comporta la sua analisi più profonda della condizione umana e della unicità di ogni singolo individuo. Si tratta anche della sua accusa più lucida nei confronti dello Stato sovietico, il quale, salvato da questi stessi soldati, si preparava a trattarli in modo così ingiusto.
[...] «Libertà» a Stalingrado voleva dire innanzitutto libertà dall’Nkvd. La polizia segreta normalmente stazionava al sicuro nelle retrovie sparando a chiunque cercasse di ritirarsi. Ma non c’erano «retrovie» dentro la città, visto che l’Armata Rossa doveva combattere su tutti i fronti con alle proprie spalle il fiume Volga.
[...] Un commento dei quaderni di Grossman riassume la situazione: «nella difesa di Stalingrado i comandanti di divisione basarono i propri calcoli più sul sangue che sul filo spinato» (Grossman 1989, p.363). Tale affermazione è pressoché identica a quella che lo stesso Cujkov riferisce ai suoi comandanti riguardo alla missione: stavano guadagnando tempo e «il tempo è sangue».
[...] La situazione era altrettanto orrenda per entrambi i contendenti, eppure quando Vasilij Grossman scrive a suo padre in dicembre, quasi nello stesso identico momento, dichiara che «il peggiore di tutti tempi» è anche il migliore di tutti tempi.
I tedeschi alla fine occuparono il 99 per cento della città. L’1 per cento della città che non presero includeva un numero ad hoc di unità dell’Armata Rossa dislocate in punti strategici e una minuscola linea continua di terra ancora tenuta dal generale Cujkov e dai suoi uomini lungo il Volga. Questo «fronte » alla fine si riduceva a circa 300 metri di roccia bombardata e di fango. Ma includeva l’area di attracco per i traghetti del Volga e per la linea di rifornimento della guarnigione. Ogni rinforzo, cartuccia, medicazione e razione di cibo di cui Cujkov e i suoi uomini avevano bisogno doveva passare attraverso il fiume; ogni ferito doveva essere evacuato dai traghetti di nuovo attraverso il fiume. Se i traghetti del Volga fossero stati fermati definitivamente, la linea dei rifornimenti sarebbe stata tagliata. Se la linea dei rifornimenti fosse stata tagliata, allora la guarnigione di Stalingrado sarebbe stata effettivamente circondata. Una volta circondata, sparata l’ultima pallottola e mangiata l’ultima razione, non ci sarebbe stata scelta per questa piccola e coraggiosa banda di uomini se non arrendersi, vittima ancora una volta di un accerchiamento come quelli che avevano già stroncato intere armate come era successo a Gomel, Vjaz’ma-Brjansk, Smolensk e Kiev.
La strategia dei tedeschi  era semplice: ogni loro offensiva tendeva a conquistare l’attraversamento del Volga.
Cujkov, però, aveva elaborato un piano che impediva ai tedeschi di raggiungere il fiume. Aveva organizzato i suoi uomini in unità di combattenti che comprendevano dai 10 ai 20 elementi e aveva messo ogni squadra in edifici-chiave nel cuore della città, parte dell’1 per cento della mappa della città era tenuta dai sovietici. Ogni struttura fortificata era responsabile di alcune intersezioni cruciali delle strade. In "Vita e destino" il commissario Krymov visita uno di questi castelli in miniatura chiamato «la casa di Grekov». Queste strutture agivano come degli «spartiacque» incanalando i carri armati nazisti in percorsi obbligati sui quali Cujkov aveva puntato la sua limitata artiglieria.
Quando i carri armati apparivano in queste vie predisposte in cui si muovevano a fatica, si trovavano ad affrontare il fuoco delle armi pesanti di Cujkov. Una volta bloccati, le piccole unità combattevano corpo a corpo con la fanteria tedesca.
Il piano di Cujkov spezzò il pugno d’acciaio dei panzer e le colonne di carri armati poterono così esser rese vulnerabili in un combattimento ravvicinato. Fu un piano brillante che annullò la superiorità tedesca di uomini e di mezzi. Indebolì perfino la virtuale supremazia aerea perché la Luftwaffe non poteva bombardare visto che i propri uomini erano mischiati ai nemici nel combattimento corpo a corpo con i soldati dell’Armata Rossa.
[...] Krymov, l’alter ego di Grossman in quanto commissario dell’Armata Rossa, alla fine di "Vita e destino", dice ai suoi torturatori della Lubjanka: «dovreste essere mandati ad affrontare un attacco di carri armati senza nient’altro che i fucili» <1.
[...] Gli storici militari confermano il massacro: quando i tedeschi si arresero il 3 febbraio del 1943, molte delle divisioni dell’Armata Rossa formate da 10.000 uomini si erano ridotte a meno di 100 sopravvissuti, il che significa che della guarnigione di Stalingrado solo un uomo su 100 era sopravvissuto.
Questo era l’inferno nel quale Grossman voleva entrare a tutti i costi. Ne aveva avuto l’occasione ai primi di ottobre del 1942, quando il generale Ortenberg gli aveva mandato un messaggio urgente domandandogli del materiale sulla divisione delle guardie del generale Aleksandr Rodimcev. Grossman decise che la sua presenza fisica nella città era necessaria e, quindi, domandò a Ortenberg il permesso di attraversare il Volga da est a ovest. Una volta arrivato sulla riva ovest non trovò superiori della Sezione Politica a dirgli che cosa fare o dove andare, perché essi erano rimasti al sicuro sull’altro lato del Volga.
Per i successivi 100 giorni circa, egli fu libero di andare dovunque volesse, e approfittò appieno di questa pericolosa libertà.
Era estasiato dall’assenza dei papaveri di Partito e dell’Nkvd e si mosse senza risparmio. La sua totale assenza di paura gli conquistò il rispetto dell’Armata Rossa; i soldati non lo considerarono un giornalista, ma uno di loro. I suoi articoli scritti da Stalingrado gli assicurarono fama nazionale. Probabilmente il pezzo più rilevante per ciò che si vuole mettere in luce, “L’asse di tensione principale”, è un tributo allo straordinario coraggio della divisione siberiana del colonnello Gurt’ev. Questo resoconto apparve sulla prima pagina della «Stella Rossa» e fu subito ristampato sulla «Pravda». La sua frase «l’eroismo era diventato un fatto quotidiano, lo stile della divisione e dei suoi
uomini» (Grossman 1999, p. 74) fu abbreviato in uno slogan popolare: «l’eroismo è diventato un fatto quotidiano».
[...] Dopo che “L’asse di tensione principale” uscì sulla «Pravda», Il’ja Erenburg disse a Grossman: «ora puoi avere tutto quello che chiedi». Ma Grossman non chiese nulla. Qualche soldo [perks] in più avrebbe certamente aiutato sua moglie Olga Michajlovna o suo padre che si lamentava continuamente della situazione del luogo in cui era stato evacuato. La mancanza di egoismo di Grossman fu probabilmente una risposta personale al coraggio mostrato dalla divisione siberiana.
Per una singolare eccezione «il trentesimo del colonnello Gurt’ev fu la sola divisione russa ad aver combattuto in Stalingrado dopo la metà di settembre che non fu né promossa allo stato di guardia né ricompensata con l’encomio di un’unità» (Kerr 1978, p. 202) <2. È chiaro che cosa significhi questa omissione. Quasi certamente questi uomini provenivano dai battaglioni di punizione, gli infami ˇstrafbaty nei cui ranghi (non solo tra quelli inviati a Stalingrado) solo quattro uomini su 100 sopravviveranno alla guerra. Di nuovo, in "Vita e destino", Grossman ci introduce in questo pezzo di verità. Fa sì che Krymov urli contro i suoi ben pasciuti torturatori alla Lubjanka: «voi, porci, dovreste essere mandati in distaccamento penale... ad affrontare un carro armato senza nient’altro che i fucili» <3.
In questo passaggio Grossman rivela che cosa significa l’orrore del combattimento cittadino per molti soldati della guarnigione dell’Armata Rossa. Grossman conosceva questa verità e, anche se questi fatti sarebbero stati inaccettabili per la censura sovietica, era determinato a farli conoscere. Gli uomini di questo battaglione erano siberiani, famosi per essere taciturni. Tuttavia, ciascuno emerge nell’articolo di Grossman come un essere umano unico <4. Il colonnello Gurt’ev, un uomo dal quale ogni altro trovava difficile strappare più di un da o net, si confidò con Grossman per sei ore. La tecnica di intervista di Grossman era più simile al counseling che al giornalismo. Non prendeva appunti. Non voleva che gli uomini fossero attenti, mentre parlavano con lui. Preferiva che incidessero i loro famosi cucchiai di legno così che potessero concentrarsi sulle loro mani invece che guardare lui negli occhi. Questi uomini, così coraggiosi in combattimento, erano terrificati dall’essere intervistati da un commissario dell’Armata Rossa e dal poter dire qualcosa che mettesse un compagno nei pasticci. Allora Grossman li faceva rilassare parlando innanzi tutto della caccia o delle loro famiglie. Di notte avrebbe poi scritto l’intera conversazione registrata dalla sua formidabile memoria e poi l’avrebbe riformulata. La tecnica di Grossman permetteva a uomini in continua tensione di aprirsi. Ogni «Ivan» dell’Armata Rossa è idiosincratico.
[...] L’intero reportage di Grossman a Stalingrado mostra la futilità delle etichette. Ciò che importava a Stalingrado era il tipo di soldato che eri.
Grossman adottò deliberatamente un’istanza narrativa molto pacata. Egli richiama i suoi compatrioti a onorare il coraggio.
La sua voce non è mai stridente e ciò innalza «L’asse di tensione principale» al di sopra del livello della propaganda militare. Il basso profilo della voce narrativa corrisponde all’autoimmagine degli uomini descritti: "I suoi uomini non potevano rendersi conto dei cambiamenti psicologici prodottisi in loro nel corso del mese che avevano passato in quell’inferno, sull’estremo limite della linea di difesa di Stalingrado. Credevano di essere rimasti quel che erano sempre stati […]". (Grossman 1999, p. 73).
Ma se gli uomini non erano consapevoli del cambiamento o erano incapaci di esprimerlo a parole, Grossman non lo era.
Qui Grossman accenna a un altro tipo di «libertà» presente a Stalingrado, la libertà dal sospetto, dall’interferenza e dal costante assillo del Partito. Gli uomini della divisione siberiana erano uniti dalla fiducia, una qualità del tutto assente dalla vita sovietica.
In uno degli ultimi articoli che firmò sulla «Stella Rossa» prima di essere riassegnato, Grossman scrisse che «la fede reciproca unì l’intero fronte di Stalingrado dal comandante in capo ai soldati di ogni rango e di ogni linea». Da quella fede e da quella fiducia uscì la libertà che «generò la vittoria».
Secondo Grossman fu precisamente durante i giorni più terribili del combattimento che la città distrutta fu la capitale della terra della libertà.
La paradossale libertà garantita all’Armata Rossa durante il combattimento cittadino cambiò letteralmente il corso della storia.
Resistendo contro forze sovrastanti, la guarnigione di Stalingrado fece commettere ai tedeschi un errore catastrofico. Essi sovrastimarono le forze del generale Cujkov <5. Ciò li condusse a un fatale errore di calcolo. I tedeschi vedevano le proprie riserve esaurirsi nel combattimento, il loro orgoglio li convinse che i russi dovevano sprecare le proprie riserve nella battaglia allo stesso modo. Credendo che le forze dei russi si stessero esaurendo con uguale, se non con maggiore, rapidità, esclusero una controffensiva russa per mancanza di riserve. Per tutta la durata del combattimento cittadino, il ministero della propaganda di Goebbels vantava il fatto che a Stalingrado si stesse consumando la «più grande battaglia di logoramento» mai combattuta.
Era vero. Ma Goebbels commise un errore di presunzione. Erano i tedeschi, e non l’Armata Rossa, che stavano perdendo, per feriti e per stanchezza, tutte le proprie divisioni sul terreno.
Allo stesso tempo, il maresciallo Zukov, stava costruendo al di là del Volga un’enorme forza di uomini e mezzi su un fronte di attacco di 40 miglia.
[...] Vasilij Grossman era sul posto e in "Vita e destino" descrisse la natura dell’errore tedesco con la stessa chiarezza di uno storico professionista, ma con molto anticipo: "Stalingrado continuava a resistere, come prima gli attacchi tedeschi non fruttavano vittorie decisive benché i contingenti impiegati fossero massicci e dei logorati reggimenti sovietici rimanesse solo qualche decina di uomini. Queste poche decine di soldati si erano accollate tutto il peso di quegli scontri tremendi, e pure avevano in sé una forza che riusciva a disorientare tutte le aspettative del nemico. I tedeschi non riuscivano a capacitarsi del fatto che la loro potenza potesse essere disintegrata da un pugno di uomini. Erano convinti che le riserve sovietiche fossero destinate a sostenere ed alimentare la difesa di Stalingrado. I soldati che respinsero sulle rive del Volga gli attacchi delle divisioni di Paulus, furono i veri strateghi dell’offensiva di Stalingrado" (Vd, p. 485).
[...] Il generale Ortenberg ordinò a Grossman di lasciare Stalingrado il 3 gennaio 1943, quasi un mese esatto prima dell’arresa definitiva, ma sei settimane dopo l’accerchiamento del 23 novembre che aveva ipotecato la sconfitta finale della Germania. Konstantin Simonov, il perfetto ragazzo modello di Partito, lo sostituì. Quando Grossman partì, la città che era stata la capitale della “libertà” stava tornando a essere solo un insieme di rovine di un’altra città distrutta, ancora una volta sotto il controllo del Partito e dell’Nkvd.
In "Vita e destino" Grossman scrive la vera storia di come la libertà dal controllo di Partito avesse «generato la vittoria». Solo che era una visione che non poteva essere pubblicata all’interno dell’Unione Sovietica. Grossman se ne accorse lentamente.
Come ha riferito la sua stretta amica Ekaterina Zabolockaja in un’intervista: «era un bambino in queste cose». Parrebbe che Grossman pensasse che la mentalità da «banda di fratelli» della guarnigione di Stalingrado potesse permanere nel pieno degli anni ’60. Persino dopo che gli uomini del Kgb perquisirono il suo appartamento e si impadronirono di tutto ciò che trovarono di "Vita e destino" - comprese le bobine della macchina da scrivere - Grossman cercò di liberare il proprio libro dalla prigionia.
[...] Dopo l’incontro con Suslov, Grossman si rese conto che il manoscritto non gli sarebbe mai stato restituito né pubblicato durante la sua vita. I restanti due anni della sua vita furono estremamente difficili e pieni di dolore. La fama conquistata a Stalingrado, tuttavia, gli fornì qualche protezione. Non morì alla Lubjanka, ma in ospedale (il 14 settembre 1964), di cancro allo stomaco.
[...]  Ancora vivo nei suoi libri, Grossman ci chiama, ovunque noi siamo, a farci carico del fardello della storia e a ricordare i veri vincitori di Stalingrado: i soldati della 62ª armata di Cujkov, che cambiarono il senso della «forza del destino» <10 contro la Wehrmacht e salvarono il pianeta dal fascismo.
[NOTE]
1. Il testo è tratto dalla traduzione inglese (Grossman 1986, p. 786), che differisce leggermente da quella italiana nella quale non compare il riferimento ai «fucili», che è invece presente nell’edizione originale.
2. Secondo Kerr, la sola altra divisione a essere altrettanto maltrattata fu la 112ª, la divisione Sologub.
3. Si veda la nota 1.
4. Questa osservazione è vera per tutti i reportages di Grossman da Stalingrado. Nel suo altrettanto famoso «Vista da Cechov» (grossman 1999, pp. 52-62) egli ci dà un ritratto di un giovane cecchino dallo strano nome: Cechov. In Siberia era abituato a cacciare e sapeva come giacere immobile per ore nella neve. La sua infanzia difficile con un padre alcolizzato gli aveva insegnato molte cose della vita. Ora, egli era determinato a non permettere ai tedeschi di camminare orgogliosamente a testa alta nella sua città, essi avrebbero nascosto la testa tra le spalle, per la paura di essere colpiti. Cechov faceva chinare la testa alla «razza padrona», li faceva strisciare, nascondersi di luogo in luogo e infine collassare, morti, tra le macerie con una pallottola nel cranio. La freddezza di un cecchino professionista si combina nell’articolo di Grossman con gli affettuosi e particolareggiati dettagli su che cosa volesse dire essere un giovane soldato dell’Armata Rossa.
5. Alan Clark, lavorando sulle fonti primarie degli archivi tedeschi ha descritto l’errore in questi termini: «La VI armata, per un comprensibile desiderio di giustificare la richiesta di ulteriori rinforzi e di enfatizzare il compito che stava svolgendo, tendeva a riportare la presenza di divisioni nemiche laddove c’erano soltanto reggimenti o persino battaglioni, assumendo la presenza della divisione di appartenenza ogni volta che una delle formazioni subordinate venivano rilevate. Dato il numero delle unità che Cujkov aveva dislocato in parti diverse della città, il calcolo abituale della VI armata immaginò le forze russe cinque o sei volte più numerose di quelle reali […]».
10. Winston Churchill usò questa memorabile espressione «hinge of fate» come titolo di uno dei suoi libri in cui descrive la battaglia di Stalingrado.
John e Carol Garrard, Finalmente libero: Vasilij Grossman e la battaglia di Stalingrado, saggio ripreso da Il romanzo della libertà. Vasilij Grossman tra i classici del XX secolo, a cura di Giovanni Maddalena e Pietro Tosco, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2007, pp. 69-87 in Ricordare la seconda guerra mondiale, poloniaeuropae n. 1 2010

lunedì 19 aprile 2021

Vi sono anche le bande di Nice, di Finale e di Alassio

Una ormai datata immagine del posto di frontiera, con annessa Dogana, di Ponte San Luigi a Ventimiglia (IM) - Fonte: Alessandra Maini

Il posto di frontiera di Ponte San Luigi visto, nel 1958, dalla parte francese. Fonte: Collezione Sansoni

Quindi tutte insieme le ragazze intonano qualche nota della simpatica vecchia canzonetta che ripete quelle parole:
No, ma cherie no,
ainsi non va
disons adieu à l'amour
si dans l'amour
il n'y à pas... de felicité...

Più tardi, piano piano, Fofò ed il Brigadiere ritornano in Dogana e Gianni dice loro che il Direttore li desidera.
Con un ragionamento molto equilibrato, il Direttore commenta il fatto di poco innanzi e li incita a far meglio nel futuro.
Fofò cerca di scusarsi e fa presente che è stato il Vicedirettore a far partire la macchina senza permettere che lui parlasse.
Il Direttore li assicura di aver telefonato alla Volante di Ventimiglia di fermare la macchina, farsi dare i documenti e portarli in Dogana con una delle loro veloci motociclette per provvedere alla mancata registrazione ed ai dovuti  visti.

Fuori c'è il signor Di Pietra che li attende, ma Fofò, senza dargli tempo di aprir bocca, gli dice che per star bene e far le cose giuste, bisogna essere sempre tranquilli [...]

p. 141

Il Trofeo di Augusto a La Turbie - Fonte: Wikipedia

Davanti a quel monumento [ndr: il Trofeo di Augusto a La Turbie, Costa Azzurra], tutti restano attratti in muta ammirazione. La ciclopica opera d'arte è fatta interamente con enormi massi di pietra, lavorati e squadrati con una perfezione sorprendente, tanto più che in quell'epoca non avevano alcuna macchina di moderna invenzione. Quei pesantisimi massi furono sollevati e messi a posto con grande precisione ad altezze considerevoli.
Un'ampia base quadrata alta una decina di metri; poi un colonnato snello ed alto riunito tutto insieme da un unico gigantesco capitello.
Ena fa notare che un altro monumento dello stesso stile, ma più piccolo, si trova a Pompei, il monumento degli Istacidii.
Fanno delle fotografie e prendono un caffè, una tazza di caffè stile francese, come un decotto diluito ed abbondante.
Ripartono; adesso la macchina discende: si va verso Nizza. In tutta la zona attraversata vi sono ricche e splendide ville che sono dei veri gioielli d'arte incastonati in angoli naturali di incomparabile bellezza.
A Nizza l'autobus sosta per tre ore circa. Ne approfittano per passeggiare un po', pranzano, si fermano negli ampi giardini ove i passerotti rubano ai colombi i pezzetti di pane, che lanciano i bambini.

p. 197

Uno scorcio della Battaglia di Fiori di Ventimiglia (IM), anno 1956 - Fonte: Giuseppe Silingardi

Vi sono anche le bande di Nice, di Finale e di Alassio; quest'ultima è preceduta da un piccolo stuolo di belle ragazze che spargono profumi con appositi spruzzatori.
Sembra di vivere in un mondo irreale.
Il bel sole, caldo e chiaro, avvolge tutto con la sua luce più bella, sembra che anche lui intervenga alla festa ed i suoi raggi danno maggior vita a tutto lo scenario. Ognuno si sente come dominato ed esaltato.
Dopo alcuni giri fatti dai carri, sempre accompagnati da ben meritati applausi, gli altoparlanti danno l'ordine di sostare un po' e di prepararsi per la battaglia; per chi non lo sa, gli altoparlanti precisano che, appena si rimettono in moto i carri, incomincia la Battaglia dei fiori. Una vera battaglia, ove i proiettili sono graziosamente rappresentati da fiori, fiori e fiori.
È assolutamente proibito raccogliere fiori in terra o strapparli dai carri. La maggior parte dei fiori sono applicati ai carri con speciali chiodi sottili e lunghi, il cui lancio è pericoloso.
Per le tribune circolano delle ragazze con i classici e simpatici costumi antichi di Ventimiglia, portano cestini e panieri di fiori, piccoli fasci che offrono gratuitamente agli spettatori, affìnché possano rispondere ai tiri  provenienti dai carri.
La lotta si presenta accanita.  

p. 244

Luigi Nicodemi, Fofò in Dogana, Edizioni Europa, 1957

domenica 7 novembre 2010

Gli spiccioli di un provinciale

Racconti di guerra, grande ingiustizia del mondo, sentiti in famiglia. 

Il nonno Maini, che fece la Grande Guerra nel Battaglione Aosta, in divisa da alpino
La Grande Guerra.

Il gruppo di case sparse in Slovenia, dove nacque il nonno materno
Dalla viva voce della nonna materna appresi fanciullo di bambini sloveni trattenuti sulle linee del fronte dell'Isonzo al pari di donne ed anziani, feroce anticipo italiano delle persecuzioni e dei campi di concentramento loro riservati vent'anni dopo. Bambini in allora obbligati a sentire le grida di agonia dei feriti gravi abbandonati tra i reticolati delle trincee. Anziani considerati spie e trattati di conseguenza, salvati solo all'ultimo minuto dall'esecuzione. Stupri o tentativi di stupro. Su un fronte più lontano l'altro mio nonno, a combattere. Schivo di parole in merito, però, eccezione fatta per meticolosi chiarimenti tecnici resi al sottoscritto di ritorno da Gorizia. Già, ma la pandemia di spagnola della prima famiglia gli lasciò solo lo zio tragicamente destinato a perire più tardi in Russia. Particolari appresi da adulto. Pudori arcaici di famiglia. 

Le donne, meravigliose creature, sensibili e pratiche ad un tempo, come progressivamente ho appreso nella vita. Loro quindi mi hanno illuminato per prime su tante nefandezze umane. Forse il primo squarcio di luce rispetto alle letture artatamente patriottiche dei libri di testo mi arrivò proprio dai particolari di Musei e Sacrari narrati da una zia (a noi tutti carissima!) anche lei di ritorno dalla Venezia Giulia. 

Più sfumate le testimonianze dirette della seconda guerra.


La malaria (altre persone a me care ne soffrirono nella loro conseguente breve vita) del nonno materno, reduce dall'Albania, più o meno costretto ad indossare di nuovo la divisa del carabiniere.

Quali orrori avrà visto in tale veste? Un anticipo del suo espatrio clandestino in Jugoslavia per riabbracciare la madre, con particolari - i duri interrogatori dei "titini" che, date le sue origini, lo ritenevano un spia - conosciuti solo da mio padre per essere svelati tanti, troppi anni dopo? 


Ultima guerra, mio padre, da Ventimiglia (IM): i bombardamenti aerei a  Napoli, la prima battaglia navale della Sirte:



la fuga da Pola, 8 settembre 1943, della squadra della corazzata Giulio Cesare, la successiva destinazione ad altri incarichi, spesa a terra tra Taranto e Lecce. A lungo senza contatti con i genitori e, sino all'indomani dell'8 settembre 1943, con il fratello più piccolo, anch'egli in  Marina. Il fratello più grande, che era nel Genio Ferrovieri, già morto (ufficialmente disperso!), come sopra accennato, nella sciagurata campagna di Russia, a dicembre 1942.

Da queste parti, in Riviera, i civili in dura lotta per la sopravvivenza. Anche bambine di Bordighera (IM) a spingere carrette su e giù per il Col di Nava alla ricerca di farina in cambio di olio cercando di evitare i feroci controlli tedeschi. 

Potrei continuare, aggiungendo notizie apprese diversamente, alcune decisamente significative. Ho già lasciato qualche traccia scritta di questi eventi, che in gran parte costituiscono da sempre il filo conduttore di mie narrazioni orali, nella convinzione che particolari come questi aiutino a comprendere la Storia. Ho trovato, invero, anche riscontri, destando talora nei miei interlocutori la necessità di ripercorrere con attenzione le loro ascendenze. 

Ma sulla guerra, fatalmente sulla seconda, che vede ancora dei testimoni diretti, la mia curiosità partecipe va anche alla vita dei civili e dei militari in libera uscita, forse attratto da tanti passi incrociati di parenti e di conoscenti, comunque, desideroso di sapere quali molle caricassero quelle donne e quegli uomini a sopportare quei mesi difficili. Di qui il mio trepido stupore quando ho rivisto "Ossessione" di Visconti, realizzato fortunosamente in tempo di guerra, dove abbondano scene di vita reale nelle retrovie. E la grande attenzione con cui ho ammirato "Estate violenta" di Florestano Vancini.

La Resistenza, poi, affiora per ironico paradosso in presa diretta di stampo familiare con ambientazioni geograficamente lontane dalla Liguria Occidentale. 

Ci sono episodi, riconducibili a quando avevo da poco superato i vent'anni di età, che non ho mai raccontato, anche perché mi tornano, chissà perché, raramente alla memoria.


Una visita guidata ai Musei Vaticani. Afferrare e ritenere per sempre da poche parole dell'accompagnatore l'essenza dell'arte, ma ancor più la sottesa storia sociale, un po' come compie con grande respiro il professor Flavio Caroli con le sue lezioni magistrali, l'ultima sentita ieri sera a "Che tempo che fa", su Goya, stupenda! Capire, meglio, forse, perché "Tempesta" di Giorgione, "Adamo ed Eva cacciati dall'Eden" di Masaccio, "Guidoriccio da Fogliano" di Simone Martini da sempre mi affascinino in modo particolare. E dal vivo ho visto solo la Cappella Brancacci. Per le prime due opere é ampiamente riconosciuto, mi pare, un accostamento non arbitrario a "L'urlo" di Munch. Io aggiungo anche la terza. Ma lo intendo solo ora. Così come é giusto cercare di aiutare il superamento delle angosce altrui.


Colli Albani. Presenza inattesa in quella storica villa del capo delegazione, una donna, del VietNam del Nord al tavolo della pace di Parigi. Io sono il primo a vedere la piccola comitiva, che sperava di passare inosservata, e a chiamare gli altri per esprimere in modo improvvisato e goffo emozione e solidarietà a quella lotta di liberazione e a popoli atterriti da nuovi micidiali bombardamenti aerei. Senonché, ci sono le amare pagine della storia che ci rammentano tante ingiustizie. No, non era un modello quel VietNam, non lo é neanche adesso. Anche se era giusto che quella guerra cessasse. Forse non comunque, di sicuro non in quel modo, con le rappresaglie dei vincitori e i Boat People. Per non parlare dell'immane tragedia della Cambogia. Penso adesso a "Asce di guerra" dei WuMing, un libro in cui l'anima, a mio avviso, ce l'hanno messa sul serio. Ed illuminante.


Un viaggio in treno da Milano all'inizio di una ormai lontana estate. Per me si trattava di un ritorno a casa, a Ventimiglia (IM). Nello scompartimento ebbi la fortunata opportunità di sedermi vicino a Carlo Levi, che poi scese ad Alassio (SV), dove, sulle alture, aveva casa e ricordi d'infanzia. Un distinto signore molto elegante nel suo abito di lino chiaro. Io insistetti ingenuamente a dirgli che in quella cittadina era nata mia madre. Lo spessore umano di un personaggio che si lasciava tormentare dalle domande del sottoscritto. Entrambi reduci da una Conferenza dell'Emigrazione, svolta in una bella villa sul Lago di Como. Lui dirigente di quel sodalizio e grande relatore con un discorso intriso di splendide e commoventi immagini. Io semplice spettatore. In vettura, ma lo comprenderò (mi è capitato con altri personaggi importanti) una volta di più anni dopo, mi impartì una lezione di vita. E di autentica Storia. Non si lasciò andare ai ricordi di "Cristo si é fermato ad Eboli". Tutt'al più mi parlò delle sue prove artistiche di pittore. Mi fece toccare con mano con la sua narrazione di fatti apparentemente minuti il profondo significato di essere degni cittadini.


Se qui ho parafrasato, come riconosco di aver fatto, "Gli spiccioli di Montale" di Nico Orengo, compianto autore dalla grande scrittura creativa, sottolineo, come ho già documentato, che quest'ultima opera si apre in una casa storica in riva al mare che ho avuto la ventura di frequentare. Le mie odierne trame, invece, hanno preso le mosse a Bordighera in un'altra residenza più modesta, non lungi da dove abito adesso, ormai abbandonata in attesa della furia delle ruspe per il compimento dell'ennesima speculazione edilizia. Solo la nonna materna ci ha vissuto per più di sessant'anni. Lo zio più di settanta.


Il mare é vicino, ma non visibile. Si scorgevano (si scorgerebbero) dagli usci verdi colline ormai massacrate dal cemento ed una torre d'avvistamento contro i pirati turcheschi, che si é scoperto da poco insistere su rari reperti archeologici dell'Alto Medio Evo, ma destinata ad essere circondata dagli ennesimi residences. Ed ancora - basterebbe spostarsi un po'! - il Sasso, Seborga, Monte Caggio. Più o meno di fronte, non rammento ora se di colà ben visibili, Borghetto San Nicolò e Vallebona. In mezzo il torrente Borghetto che, quasi tutto tombinato e destinato ad accogliere acque furiose non più trattenute da rilievi modesti, ma ormai spelacchiati o ricoperti da manufatti agricoli e non, in otto anni ha più volte esondato, con conseguenze particolarmente pesanti a metà settembre 2006: non più luogo di giochi durante la siccità estiva per bambini che amavano l"intrepido", dunque, non più sito di raccolta di erbe odorose per i conigli ed altri animali da cortile, non più terreno di ricerca delle more più dolci mai mangiate.


D'altronde da tanti anni ormai avevano cessato di defluirvi le acque della grande antica lavanderia di Guido, omaccione generoso dalla voce tonante che non spaventava nessuno.