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domenica 18 settembre 2022

Macciocchi operava al cuore di una rete femminile che aveva il suo territorio d'azione nel centro di Roma

Roma: uno scorcio di Piazza Navona

4. L’incontro con i GAP <45
“Dato che il partito non poteva fornirci un poligono di tiro, per esercitarci a sparare, con Maria Antonietta andavamo alle bancarelle di Piazza Navona” <46. Così Rinaldo Ricci <47, membro dei GAP romani, in seguito assistente regista di Luchino Visconti, ricorda oggi i giorni in cui lui e Macciocchi facevano “coppia” nell’organizzazione romana della Resistenza. I due si conobbero all’inizio degli anni ‘40, quando entrambi, giovani studenti, davano ripetizioni ai figli del ministro della Cultura, Pavolini.
L’antifascismo, per loro come per tanti altri giovani, era prima di tutto un fatto culturale, alimentato da letture vaste e spesso proibite, sintomo di un'inquietudine delle coscienze cui il plumbeo clima culturale del regime non poteva dare risposte. “Ci influenzava la letteratura americana, ma anche Malraux, Marx”, ricorda Rinaldo Ricci. La condizione umana era stata infatti una lettura determinante per Macciocchi: “Ho letto La condizione umana di Malraux (…) Il fascismo ci aveva tenuto all’oscuro di tutta la cultura straniera, eppure, chissà come, questo Malraux era stato tradotto” <48. Il libraio era meta quotidiana per la giovane, che acquistava libri usati, spesso tenuti “sottobanco”, come nel caso dell’autore francese che tanto la influenzò: “Solo Malraux mi aveva messo in rapporto con i comunisti” <49.
Fu Rinaldo Ricci invece a metterla materialmente in contatto con gli ambienti romani della Resistenza, e in primis con Guttuso <50, che nel suo studio di via Pompeo Magno ospitava gli antifascisti. Come ha scritto Giorgio Galli nella sua Storia del Partito Comunista Italiano, i primi sintomi del risveglio di una coscienza politica durante la guerra erano giunti, già dal 40-41, proprio dagli intellettuali, in particolare quelli dell’ambiente romano: Renato Guttuso, Ruggero Zangrandi <51, Mario Alicata <52, Pietro Ingrao <53, Paolo Bufalini <54, Aldo Natoli <55, Fabrizio Onofri <56, Marco Cesarini Sforza <57, Antonello Trombadori <58. Dopo il 25 luglio del ‘43 Guttuso aveva costituito un comitato pluripartitico per dare assistenza agli antifascisti in carcere, rappresentandovi il PCI. Macciocchi entrò in contatto con quest‟ambiente: incontrò Negarville <59, Di Vittorio <60, Giorgio Amendola <61. Quest'ultimo in particolare avrà un ruolo determinante nella vita di Macciocchi, sia dal punto di vista politico, sia personale, visto che diventerà suo cognato. Figlio di Giovanni Amendola <62, Giorgio si era assunto il compito di seppellirne l’eredità idealista liberale - scrisse Macciocchi - in nome dell’ideologia ufficiale del PCI <63. Giorgio Amendola era un politico accorto, estremamente realista, fedele a Mosca. Il partito doveva seguire la linea dettata dall’URSS, il che in questa fase significava accreditarsi come leale agli occhi delle forze politiche democratiche e degli alleati. Per chi si formò politicamente in quel periodo la parola d'ordine democratica era persino più forte del richiamo alla centralità del proletariato, temporaneamente passata in secondo piano. Con la svolta di Salerno Togliatti propose la collaborazione tra tutte le forze che volessero battersi per la libertà d'Italia accantonando la pregiudiziale dell’abdicazione del re. Nel frattempo la presenza delle truppe angloamericane sul territorio italiano veniva presentata dal PCI come la causa transitoria che impediva di portare avanti una linea rivoluzionaria. Si cominciava a parlare di attesa di “nuove più favorevoli condizioni di lotta per le situazioni future” <64.
Macciocchi intanto fu nominata responsabile delle donne della zona centrale di Roma, e si vide assegnare come primo compito la distribuzione de l’Unità <65. In questa fase iniziale, nella distribuzione di materiali di propaganda, fu affiancata da una giovanissima Miriam Mafai, che ricordò in seguito: “Per tutti i mesi dell’occupazione, continuammo a incontrarci, a distribuire volantini e l’Unità (…). Mi fece leggere Malraux e mi spiegò che i comunisti cinesi erano 'gagliardissimi'” <66.
Dopo l’8 settembre 1943 si assisteva alla rinascita dei partiti politici, l’opposizione antifascista si riorganizzava e nel settembre nasceva il CLN. Accanto a questo, al Nord, nascevano i Gruppi di difesa della donna. A Roma invece era l’occupazione tedesca. Furono mesi interminabili e tragici per la città, durante i quali Macciocchi svolse tutti i compiti propri di una staffetta, facendo da tramite per operazioni militari e di sostegno ai partigiani. Accompagnò Giorgio Amendola, suo futuro cognato, in diversi rifugi, e come lui altri esponenti della rete clandestina, introducendoli in alloggi segreti dove sarebbero stati ospitati e tenuti al riparo. Così conobbe tra gli altri Sandro Pertini, avendo l’incarico di accompagnarlo nell’alloggio clandestino indicatole dal comando della zona <67.
Macciocchi operava al cuore di una rete femminile che aveva il suo territorio d'azione nel centro della città, tra il Lungotevere, piazza del Popolo e piazza Colonna. “Il lavoro femminile nella quinta zona clandestina di Roma (…) non era difficile. Cercavo ragazze antifasciste disposte a svolgere un piccolo lavoro politico come la distribuzione de l’Unità, o qualche volantino clandestino da sparpagliare per Roma, oppure disposte a stare nei posti di blocco sulle arterie stradali che uscivano da Roma, per contare i convogli militari che vi passavano” <68. Le clandestine della zona centrale erano una quindicina, ed erano divise in due spezzoni: quello con compiti di propaganda e di sostegno alle famiglie degli antifascisti incarcerati e quello con compiti propriamente militari. Quest'ultimo dipendeva in parte dal PCI, in parte dal CLN. Erano le partigiane più anziane, sulla quarantina, ad istruire le giovani come Maria Antonietta non solo sui compiti pratici di una staffetta, ma anche sui fondamenti teorici della lotta, trasmettendo alle ragazze rudimenti della filosofia marxista-leninista.
La guerra ha spesso costituito per le donne un'esperienza senza precedenti di responsabilità e libertà, legata alla conquista di spazi tradizionalmente riservati agli uomini, all’apertura di nuovi orizzonti professionali, e spesso, come nel caso della Resistenza, alla partecipazione militare <69. L’attivismo femminile alterava la chiusura sociale ma anche “la rigidità dei modi di abbigliamento e di socialità borghesi” <70. Si tratta spesso di un‟esperienza illusoria, poiché i mutamenti legati alla guerra sono limitati dal rafforzamento, pratico e simbolico, dei ruoli sessuali, oltre ad essere funzione di svariati parametri, quali il gruppo sociale, l’età, la situazione familiare e naturalmente la storia individuale <71.
Nell’autobiografia di Macciocchi si ritrova l’immagine di una vera e propria trasfigurazione legata all’esperienza resistenziale, in linea con altre testimonianze che ci rinviano un'immagine di liberazione femminile legata alla fase del conflitto. Se infatti le donne sono spesso doppiamente travolte dalle guerre, divenendo oggetto di specifiche violenze di genere legate ai conflitti, in molte memorie si ritrova invece come elemento comune l’euforia per la liberazione provvisoria dalle regole e dai rigidi ruoli vincolanti in tempo di pace. Macciocchi descriveva in questi termini la sua liberazione: “Di quell’epoca, mi resta il ricordo di giornate intense, e libere. Provavo la gioia assoluta di voltare le spalle a padre, sorelle, tutela casalinga. La mia emancipazione stava nel mescolarmi agli uomini, ai ragazzi, ai compagni, che avevo visto fino allora solo nell’altra fila di banchi a scuola” <72. Dunque fine della segregazione sessuale, della divisione dei ruoli, anche se solo apparente e transitoria. Il desiderio di emancipazione individuale, la volontà di scardinare un sistema di relazioni sociali soffocanti, appaiono come altrettante motivazioni importanti per comprendere il protagonismo delle donne in quel periodo.
Il 15 febbraio 1944 Macciocchi riceveva l’input per entrare nei gruppi di azione partigiana, i GAP <73. Questi le apparvero come un gruppo di giovani borghesi sicuri, decisi, persino altezzosi.
[NOTE]
45 I GAP, Gruppi d'Azione Patriottica, nacquero su iniziativa del Partito Comunista Italiano, sulla base dell’esperienza della Resistenza francese. Erano articolati in piccoli nuclei di quattro o cinque persone e portavano avanti azioni di sabotaggio nei confronti delle truppe nazifasciste. Sui GAP romani e in particolare su una delle vicende più controverse legate alla loro esperienza, ovvero l’attacco di via Rasella, si veda la ricostruzione del comandande GAP Rosario Bentivegna, protagonista dell’assalto di via Rasella, Achtung Banditen!, Milano, Mursia, 1983, n. ed. 2004. E ancora sulla Resistenza a Roma M. Avagliano G. Le Moli, Muoio innocente. Lettere di caduti della Resistenza a Roma, Milano, Mursia, 1999.
46 Testimonianza di Rinaldo Ricci
47 Rinaldo Ricci (Roma, 1923); è stato assistente alla regia di Luchino Visconti, Franco Zeffirelli e Billy Wilder. Nella sua filmografia ricordiamo con Visconti Il Gattopardo e Rocco e i suoi fratelli, con Franco Zeffirelli Romeo & Juliet. Ha partecipato alla Resistenza.
48 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 77
49 Ivi, p. 77
50 Renato Guttuso (Bagheria, 1911 - Roma, 1987) è stato un pittore italiano, esponente del cosiddetto realismo sociale, e uno dei più illustri nomi della cultura vicini al Partito comunista italiano.
51 Ruggero Zangrandi (1910-1970) è stato un giornalista e scrittore italiano. Si impone al largo pubblico negli anni Sessanta per le sue inchieste sul Sifar e per la sua ricostruzione della mancata difesa di Roma, nel 1943, da parte dello Stato Maggiore italiano.
52 Mario Alicata (Reggio Calabria, 1908 - Roma, 1966) è stato un giornalista e politico italiano. Ha partecipato alla Resistenza. Membro del Comitato centrale del PCI è stato uno dei più stretti collaboratori di Palmiro Togliatti. Ha diretto il quotidiano comunista ‘L’Unità’.
53 Pietro Ingrao (Lenola - Latina 1915), è un giornalista e politico italiano. Partecipò alla Resistenza a Roma e Milano, è stato membro del Comitato centrale del PCI, parlamentare per numerose legislature e presidente della Camera dei Deputati. Ha diretto il quotidiano ‘L’Unità’ e partecipato alla fondazione del Partito Democratico di Sinistra, per abbandonarlo il seguito e aderire al partito della Rifondazione Comunista.
54 Paolo Bufalini (Roma, 1915 - Roma, 2001) è stato un politico italiano. Partigiano, eletto più volte in Parlamento, è stato fra i massimi dirigenti del Partito Comunista Italiano.
55 Aldo Natoli (Messina, 20 settembre 1913) medico, antifascista e deputato italiano per il PCI, fu radiato dal partito con Rossana Rossanda, Luigi Pintor e il gruppo del quotidiano “Il Manifesto” a causa del dissenso sulL’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
56 Fabrizio Onofri (Roma, 1917 - 1982) è stato uno scrittore e dirigente comunista, Medaglia di bronzo al valor militare per il suo impegno nella Resistenza. Fu espulso dal PCI nel '57 in seguito ad una polemica con Togliatti sullo stalinismo.
57 Marco Cesarini Sforza è stato un giornalista e membro del PCI.
58 Antonello Trombadori (Roma, 1917 - Roma, 1993) è stato un giornalista, critico d'arte e politico italiano. Partecipò alla Resistenza e dopo la Liberazione entrò a far parte del Comitato centrale del PCI. Collaboratore di importanti riviste come 'La Ruota', 'Primato', ‘Città’, ‘Corrente’, ‘Cinema’ e ‘Rinascita’, fu eletto quattro volte deputato. Dopo il 1968, si avvicinò dapprima alla corrente migliorista di Paolo Bufalini e Giorgio Napoletano, quindi alle posizioni socialiste. Giorgio Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Milano, Kaos edizioni, 1993.
59 Celeste Negarville (Avigliana, 1905 - Torino, 1959) è stato un politico italiano. Antifascista, nel dopoguerra sarà uno dei maggiori esponenti del PCI e il primo a dirigere l’Unità dopo gli anni di diffusione clandestina. Fu deputato alL’Assemblea Costituente, quindi senatore e più volte sottosegretario. E' stato sindaco di Torino nell’immediato dopoguerra. Ha contribuito alla sceneggiatura del film di Rossellini Roma città aperta.
60 Giuseppe Di Vittorio (Cerignola, 1892 - Lecco, 1957) è stato un politico e sindacalista italiano. Proveniente da una famiglia di contadini, partecipò da antifascista alla guerra civile spagnola e quindi alla Resistenza in Italia nelle Brigate Garibaldi. Nel 1945 fu eletto segretario della CGIL che aveva contribuito a rifondare e che guidò fino alla sua morte.
61 Giorgio Amendola (Roma, 1907 - Roma, 1980) è stato un politico italiano, autore di numerosi libri. Figlio di Giovanni Amendola e dell’intellettuale lituana Eva Kuhn, aderì al PCI nel 1929 militando nell’antifascismo e quindi nella Resistenza, entrando nel comando generale delle Brigate Garibaldi assieme a Luigi Longo, Pietro Secchia, Gian Carlo Pajetta e Antonio Carini. Fu deputato per il PCI dal 1948 fino alla morte. Fu cognato di Maria Antonietta Macciocchi, che sposò il fratello Pietro Amendola.
62 Giovanni Amendola (Salerno, 1882 - Cannes, 1926) è stato un politico italiano. Docente di filosofia teoretica all’Università di Pisa, parlamentare liberale, fu ispiratore del Manifesto degli intellettuali antifascisti e uno dei principali artefici della secessione aventiniana. Inviso al regime, fu una delle prime vittime del fascismo. Morì a Cannes, in Francia, in seguito ad una lunga agonia, per le percosse ricevute a Serravalle Pistoiese (PT) il 20 luglio 1925 da un gruppo di squadristi.
63 Maciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 70.
64 G. Galli, op. cit, p. 239.
65 L’Unità era il quotidiano della sinistra italiana, quindi organo ufficiale del PCI, fondato il 12 febbraio 1924 da Antonio Gramsci. Messo fuori legge nel 1925 dal Prefetto di Milano, uscirà clandestinamente, tra Francia e Italia, sino alla seconda guerra mondiale; solo con l’arrivo degli alleati, dal 1944 riprese a Roma la pubblicazione ufficiale del giornale. Il nuovo direttore era Celeste Negarville.
66 M. Mafai, Addio alla Macciocchi, comunista eretica, ‘La Repubblica’, 16/04/07. In realtà Mafai sembra ricalcare il suo ricordo della Resistenza con Macciocchi dalle pagine di Duemila anni di felicità, cit., p. 77
67 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 85
68 Ivi, p. 88
69 Sulle donne e la guerra alcune considerazioni interessanti si trovano in F. Thébaud, La Grande Guerra, in Storia delle donne. Il Novecento, a cura di F. Thébaud. Bari, Laterza, 1997 “Gli anni della guerra hanno costituito per le donne un‟esperienza positiva, e persino - interrogativo provocatorio quant‟altri mai - un happy time?”, si chiedeva la storica francese analizzando L’impatto della Grande Guerra sulla condizione femminile. Ivi, p. 42. La studiosa rileva come numerose fonti femminili ci rimandino quest‟immagine. L’espressione “good time” è stata usata dalla femminista inglese C. Gasquoine Hartley in Women’s Wild Oats, mentre di “fine time” ha parlato L. Pruette. La propagandista inglese Jessie Pope e la romanziera americana Willa Cather hanno esaltato il rovesciamento dei ruoli sessuali. L’Inghilterra di Harriot Stanton Blatch nel 1918 era un mondo di sole donne, che apparivano sicure nel loro spazio, capaci, felici, gli occhi brillanti.
70 Ivi, p. 46
71 Ivi, p. 49
72 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit., p. 87
73 Ivi, p. 89
 


Eleonora Selvi, Maria Antonietta Macciocchi: profilo di un'intellettuale nomade nel secolo delle ideologie, Tesi di Dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2009

mercoledì 31 agosto 2022

Da notare come le aperture del PCd’I e dell’Internazionale alla democrazia in chiave antifascista aprano proprio in questi anni le porte a molti nuovi aderenti


Anche in Togliatti, come nell’Internazionale, vediamo il permanere (in un lasso di tempo che va dal 1924 all’inizio della guerra di Spagna) di una doppia tendenza. Se da una parte l’eredità dell’intransigenza classista e comunista è ancora presente, anche per fattori di necessaria rappresentatività all’interno del partito, la componente antifascista e frontista vede l’emergere di una figura che sarà sempre più sensibile alla tematica della mediazione e dell’interclassismo proprio nell’obiettivo di combattere le dittature reazionarie che vanno affermandosi nel suolo europeo. Nelle sue "Lezioni sul fascismo", infatti, troviamo dei netti rimandi a quella che è la politica che va affermandosi per la maggiore lungo la direttrice togliattiana. Troviamo, per esempio, l’ammissione della necessità di difendere le conquiste che il proletariato ha saputo compiere nel sistema democratico precedente all’affermazione del fascismo, sistema che quindi non viene più assimilato, come prima, alla degenerazione fascista, ma che già si presenta come una fase antecedente nella quale è possibile riscontrare delle conquiste da difendere. <3
Una conclusione che pare scontata, meno se la si fa coincidere con una apertura che proprio Togliatti, sulla scorta di un ritorno ad uno status quo ante, inizia a mostrare verso il restante spettro politico europeo, anche non comunista. L’antifascismo stesso proprio in questo decennio di gestazione va definendosi come un coagulatore di forze eterogenee, anche democratiche, che come obiettivo principale non hanno più la realizzazione di un mondo nuovo, o di una
rivoluzione senza compromessi da realizzarsi in un futuro incerto, ma l’eliminazione attuale del comune nemico fascista. In tutta l’opera togliattiana possiamo notare come questa politica di combattimento che egli promuove contro il fascismo da leader comunista preveda anche una abile infiltrazione all’interno dei gangli gestionali e delle organizzazioni fasciste. <4 Una tattica, quella del combattere il nemico dal suo interno, che sarà anch’essa costante, e che in questa fase vede una prima, importante implementazione. Un approccio, quello poc’anzi evidenziato, totalmente diverso rispetto alla tattica riconducibile all’epoca bordighista, all’intransigenza classista o al rifiuto settario del confronto, un approccio fatto ora di una significativa empatia, di un tentativo di comprensione delle dinamiche fasciste per meglio combatterle dal loro interno. Un convincimento continuo della massa avvicinata per svariate ragioni dal regime, che va portata sulla via della conversione ad un messaggio più confacente ai suoi interessi.
Questa “vasta e coraggiosa utilizzazione delle possibilità legali offerte dal fascismo” <5 diventa un lavoro di convincimento e penetrazione che, nelle infime possibilità di lotta offerte dalla situazione di ampia repressione del contesto italiano, deve essere svolta anche con l’aiuto e la collaborazione della socialdemocrazia. Il lavoro di analisi fatto in questi anni dal partito e dal suo leader consiste in un profondo riesame anche della politica comunista, capace di evidenziare pure fasi di autocritica; emblematico è il caso della trattazione del dopolavoro, ammettendo che mai prima del fascismo è esistita una organizzazione capace di centralizzare le necessità culturali e sportive delle masse. E’ essenziale notare come le aperture del PCd’I e dell’Internazionale alla democrazia in chiave antifascista aprano proprio in questi anni le porte a molti nuovi aderenti, che nei partiti comunisti europei trovano non più un intimo ritrovo per pochi rivoluzionari, ma una base popolare di lotta e applicazione reale delle necessità più impellenti dell’attualità.
Un atteggiamento che si ripercuoterà anche sulla grande promotrice di questo atteggiamento, quell’Unione Sovietica staliniana che, grazie all’atteggiamento tenuto in particolare nella guerra di Spagna, vedrà catalizzare su di sé la simpatia di moltissimi politici, intellettuali e uomini di cultura per nulla vicini al comunismo (come ad esempio Aldous Huxley, George Bernard Shaw o Heinrich Mann) ma attirati dalla coerenza antifascista del nuovo corso politico. <6
In questi anni anche il PCd’I svestirà i panni del partito su misura per la sola classe operaia, e nella resistenza antifascista prebellica troverà la prima grande adesione di popolazione eterogenea, su base interclassista. Un approccio che anche in Togliatti tende ad approssimarsi sempre più all’anticlassismo, al compromesso con la borghesia, all’accantonamento di una chiusura settaria che appare sempre più dannosa e inutile ai suoi occhi, una astrazione che negli anni a cavallo tra il secondo e il terzo decennio del Ventesimo secolo poteva essere considerata un peccato imperdonabile, oltre che uno sbaglio senza eguali. Idea, quest’ultima, confortata anche nell’infelice esperienza applicativa portata in dote dalla condanna del social-fascismo e dal rifiuto di collaborazione con la socialdemocrazia, un rifiuto che nella Germania prehitleriana ha significato solamente l’agevolare il compito al partito nazionalsocialista tedesco nella sua presa del potere, con un fronte popolare diviso, indebolito e incapace di offrire una valida diga al trionfo delle istanze naziste. <7 Tra i successi travolgenti ottenuti dai regimi fascisti, la durezza della repressione, l’inefficacia della retorica rivoluzionaria e le nuove esigenze sovietiche, Togliatti porterà a compimento una maturazione fondamentale per la sua figura politica e per il suo partito, una maturazione che, assieme a tutti i suoi responsabili, vedrà una prima, grande applicazione nella guerra civile spagnola [1936-1939], una sorta di battesimo dell’antifascismo che, seppur catastrofico nei suoi esiti, vedrà l’implementazione di una tattica di fondamentale importanza per le future sorti dell’Europa.
[NOTE]
3 Palmiro Togliatti, Lezioni sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1976, pag. 13-14
4 Charles F. Delzell, I nemici di Mussolini, Roma, Castelvecchi, 2013, per approfondire l’infiltrazione comunista nelle organizzazioni fasciste si veda in particolare l’analisi contenuta nel capitolo “Il quarto congresso del PCI in Germania”
5 Aldo Grandi, Ruggero Zangrandi. Una biografia, Catanzaro, Abramo, 1994, pag. 76
6 Gabriele Ranzato, L’eclissi della democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pag. 336-337
7 Cit., pag. 20-21
Alessandro Catto, Palmiro Togliatti, il PCI e la democrazia progressiva tra lotta antifascista e costituzionalizzazione, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2015/2016

Viceversa, un termine come ‘popolo’ andò via via acquisendo sempre più rilevanza nel discorso comunista italiano. Un più ampio impiego del lemma si ebbe per esempio durante gli anni trenta, soprattutto con la politica del fronte popolare antifascista e dopo il VII congresso del Komintérn, svoltosi tra il 25 luglio e il 20 agosto del 1935, l’ultimo prima del suo scioglimento. Se il termine ‘popolo’ su l’Unità aveva avuto una frequenza trascurabile tra il 1924 e la prima metà degli anni trenta, oltretutto quasi sempre come specificazione nazionale di altri popoli, la situazione apparve <105 rovesciata nel decennio successivo. Sul quinto numero dell’edizione clandestina del 1935, il popolo italiano era protagonista dell’azione contro l’«avventura brigantesca del governo fascista» <106. Ugualmente accadeva sul settimo numero, dove il popolo faceva la sua comparsa tra i destinatari dell’appello del partito <107. Il dodicesimo si rivolgeva poi direttamente al popolo, titolando “Popolo d’Italia, imponi la pace!” <108, e così il tredicesimo, “Il popolo italiano ha parlato!” <109. Sul quindicesimo numero l’Unità scagionava completamente il popolo italiano dalle sanzioni che nell’ottobre del 1935 la Società delle nazioni aveva applicato al paese per l’aggressione all’Etiopia. Infatti spiegava: «È contro i responsabili della guerra, è contro il fascismo aggressore che le sanzioni sono applicate - non contro il popolo italiano. Le sanzioni sono destinate a stroncare la guerra infame e disastrosa in cui il fascismo ha gettato l’Italia - non a soffocare economicamente il popolo italiano» <110.
Nel secondo numero del 1936 l’Unità insisteva proprio su questo punto: “Il popolo italiano non è responsabile della guerra!”, mentre lo era Mussolini, che <111 «[condannava] il popolo italiano alla fame ed alla morte» <112. Non era responsabilità dei «cinquecentomila giovani» che erano stati «mandati lontano, a soggiogare un altro popolo, con le armi» perché era stato «detto loro che ciò era necessario, nell’interesse del popolo italiano». Le «promesse fatte al popolo non [erano state] mantenute»: «il popolo italiano [era] sacrificato e oppresso», «sotto la minaccia di essere trascinato in una nuova guerra», «alla mercé di un pugno di sfruttatori»: «i grandi finanzieri, i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri» <113.
[...] Nell’articolo “Una grande lezione”, sull’ottavo numero de l’Unità del 1936, si poteva inoltre leggere: «L’eco dei recenti avvenimenti politici e sociali della Francia è giunta rapidamente nella Penisola, e vi ha portato una vaga speranza. L’istinto della classe operaia e del popolo intero, permette loro di stabilire, senza difficoltà, la identificazione degli obbiettivi [sic] dei popoli che lottano e che vincono, con i propri obbiettivi [sic]. Perciò le lotte del popolo spagnuolo, del popolo francese - e del popolo della lontana Cina! - giungono al cuore del nostro popolo, come il suono della campana che annuncia la nuova alba» <117.
Ugualmente, alla fine del 1937, un articolo di Ruggero Grieco invocava l’«unione del popolo» e la «solidarietà fra tutti i popoli» come arma decisiva contro la guerra <118. Da un lato la comunanza spirituale tra il popolo italiano e gli altri popoli in lotta contro il nazifascismo - che tra il 1937 e il 1939 trovava luogo privilegiato nella guerra civile spagnola <119 -, dall’altro le narrazioni delle promesse al popolo italiano non mantenute dal regime e il discorso del prezzo pagato dal popolo per averci creduto <120, costituirono, nel decennio a seguire (1938-1948), la base discorsiva del processo di totale assoluzione del popolo italiano.
Nel 1937, sulla stampa clandestina il ‘popolo’ cominciò a giocare un’importante funzione nel discorso in merito alla morte di Antonio Gramsci. Nell’articolo “L’estremo saluto del partito”, apparso sul sesto numero de l’Unità 1937, la frequenza del lemma ‘popolo’ era più alta che negli articoli dello stesso periodo.
[NOTE]
105 Come il popolo cinese: “La rivoluzione cinese. L’offensiva contro l’esercito del popolo”, l’Unità, III, 30 (4 febbraio 1926); “L’insurrezione del popolo cinese”, l’Unità, II, 129 (6 giugno 1925). Il popolo russo: “I capi della Seconda Internazionale predicano la guerra civile… contro il Governo dei Soviet”, l’Unità, II, 129 (6 giugno 1925). Il popolo macedone: “Le lotte del popolo macedone nelle dichiarazioni di un capo rivoluzionario”, l’Unità, I, 159 (16 agosto 1924). Il popolo italiano: “Il vivace fermento del popolo italiano”, l’Unità, I, 108 (18 giugno 1924); “Il popolo italiano potrà mai sapere chi sono accusati da Rossi, Finzi e Filippelli?”, l’Unità, I, 145 (31 luglio 1924).
106 “Il popolo italiano reagisce all’avventura brigantesca del governo fascista”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 5 (1935).
107 “Salviamo il nostro paese dalla catastrofe! (Appello del Comitato Centrale del Partito Comunista d’Italia)”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 7 (1935).
108 “Popolo d’Italia, imponi la pace!””, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 12 (1935). 109 “Il popolo italiano ha parlato!”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 13 (1935).
110 “Il responsabile delle sanzioni è il governo di Mussolini! Finisca la guerra!, deve essere il grido di tutto il popolo italiano”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 15 (1935).
111 Un gruppo di professionisti, “Il popolo italiano non è responsabile della guerra!”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 2 (1936).
112 R. Grieco [Ruggero Grieco], “Mussolini prepara un nuovo macello!”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 1 (1936).
113 R. Grieco [Ruggero Grieco], “Ex combattenti dell’Africa Orientale! Popolo italiano!”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 1 (1936).
117 “Una grande lezione”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 8 (1936).
118 Ruggero Grieco, “Unione del popolo e solidarietà fra tutti i popoli per la pace e per la libertà”, l’Unità, Edizione clandestina, XIV, 14 (1937).
119 Nel 1937 fu soprattutto la lotta del popolo spagnolo a occupare le pagine de l’Unità: “Solidarietà del popolo italiano per i repubblicani spagnuoli”, sul secondo numero; “In difesa della Spagna del popolo”, sul terzo, sul quale, nella manchette, era scritto: «La vittoria della Sagna del popolo è anche nelle mani del popolo italiano»; “La solidarietà del popolo italiano con la repubblica spagnuola”, sul quinto; “Lavoratore italiano! Il fronte spagnuolo della libertà passa anche per il nostro paese”, sul settimo; Velio Spano, “Il popolo spagnuolo lotta per la vittoria”, sul decimo.
Giulia Bassi, Parole che mobilitano. Il concetto di ‘popolo’ tra storia politica e semantica storica nel partito comunista italiano, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2015/2016
 
Il Partito Comunista d'Italia (PCdI) nasce il 21 gennaio 1921 da una scissione dal Partito Socialista Italiano (PSI) in occasione del XVI Congresso di quest'ultimo (Spriano 1967-1975, I: 108-121). Il dibattito di lungo corso tra massimalisti (radicali, favorevoli al perseguimento del programma massimo) e minimalisti (riformisti, per una declinazione graduale degli obiettivi) registra un salto di qualità in seguito alla Rivoluzione d'Ottobre (1917) e alla conseguente costituzione del Comintern (1919), l'Internazionale Comunista che si propone di coordinare i partiti comunisti periferici sulla base delle indicazioni dell'organizzazione centrale, il Partito Comunista dell'Unione Sovietica (PCUS). Dal ruolo dell'organizzazione sponsorizzatrice nella fondazione del PCdI deriva dunque la “legittimazione esterna” del partito che ne condizionerà gli sviluppi successivi. Il processo di “bolscevizzazione” del partito promosso dal Comintern è tuttavia interrotto dall'avvento del fascismo e dal “passaggio alla illegalità” del PCdI (Panebianco 1982: 157-158). Nel 1923 la leadership di Amadeo Bordiga nel partito viene sconfessata direttamente da Mosca che, approfittando dell'arresto di quest'ultimo, lo rimuove accusandolo di eterodossia e di trockismo (Spriano 1967-1975, I: 429-456). Questo intervento apre la strada a un cambiamento al vertice del PCdI clandestino: nel corso del III Congresso (1926) si afferma una coalizione dominante di osservanza sovietica diretta da Antonio Gramsci (che assume il ruolo di Segretario) e da Palmiro Togliatti (Spriano 1967-1975, I: 510-513). L'8 novembre dello stesso anno Gramsci viene arrestato e morirà in carcere dopo undici anni di prigionia; i suoi 'Quaderni' contribuiranno in maniera decisiva alla ridefinizione dell'identità comunista nella seconda metà degli anni Cinquanta. Ormai scisso tra una direzione in esilio e un'organizzazione clandestina in Italia, il partito attraversa una fase turbolenta, decimato dalla repressione fascista e dalle epurazioni sovietiche, prima di stabilizzarsi con l'ascesa alla Segreteria di Togliatti (Agosti 1999: 26-33). Gli anni Trenta vedono un inasprirsi del controllo del Comintern sulle organizzazioni affiliate: nel 1938 il Comitato centrale del PCdI viene sciolto; Togliatti consolida così la sua preminenza nel partito grazie al rapporto diretto con Iosif Stalin (Spriano 1967-1975, III: 246-261). Il patto tedesco-sovietico (1939) e la conseguente formulazione della teoria della “guerra imperialista” da parte di Mosca mettono in difficoltà la tattica frontista che il PCdI stava portando avanti assieme agli altri partiti antifascisti, confermando ancora una volta come il Comintern agisse come strumento della politica estera dell'URSS (Spriano 1967-1975, III: 309-316). L'Operazione Barbarossa che i nazisti inaugurano nel 1942 produce un nuovo rivolgimento, ovvero la definizione di “guerra antifascista”, e ha quindi conseguenze anche sul PCdI, che torna a promuovere larghe intese tra le forze che si oppongono al regime per provocarne la caduta. Nel 1943 il Comintern viene sciolto e il PCdI assume la denominazione di Partito Comunista Italiano (PCI). Con le dimissioni di Benito Mussolini, l'ascesa di Pietro Badoglio e la sconfessione del Patto d'acciaio che legava l'Italia alla Germania, inizia nel Centro-Nord la Resistenza all'occupazione nazista. Dopo aver faticosamente riorganizzato la propria struttura clandestina, i comunisti si rivelano i principali animatori degli scioperi e delle lotte antinaziste (Spriano 1967-1975, IV: 345-358). Ottenuto l'assenso di Stalin, Togliatti rientra in Italia nel marzo 1944 e avvia la “Svolta di Salerno”, ovvero la disponibilità dei comunisti a entrare in un governo di pacificazione nazionale: si vuole privilegiare la guerra contro gli invasori tedeschi rispetto alla disputa sulla questione istituzionale causata dalla pregiudiziale antimonarchica degli altri partiti laici (Agosti 2009: 51). Togliatti promuove inoltre il “partito nuovo”, nazionale e di massa, ponendo le basi “per uno sviluppo che contiene una sensibile «deviazione» dal modello sovietico”, cioè l'organizzazione di quadri formata da rivoluzionari di professione (Panebianco 1982: 158). La funzione originale del rinnovato PCI è nella “democrazia progressiva” ovvero nell'inclusione delle grandi masse popolari nella gestione politica del Paese: “L'obiettivo che noi proporremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo. […] Questo vuol dire che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza e sul dominio di un solo partito” (Togliatti in Spriano 1967-1975, V: 389). Il PCI entra quindi a far parte dei governi Badoglio, Bonomi, Parri e De Gasperi (con Togliatti al Ministero di Grazia e Giustizia), prima di essere estromesso da quest'ultimo nel maggio 1947, a causa dell'irrigidimento dei rapporti tra USA e URSS e della fedeltà atlantica della DC. Per il resto della sua vicenda storica, il PCI non ricoprirà più incarichi di governo: è la “conventio ad excludendum” che accomuna le esigenze internazionali degli USA e i vantaggi interni della DC.
Alle prime elezioni dopo il ventennio fascista, il PCI sfiora il 19% dei voti e nel 1948 si presenta assieme ai socialisti nel Fronte Democratico Popolare ottenendo però un deludente 31% (alle precedenti consultazioni la somma dei due partiti superava il 39%). Il sistema elettorale proporzionale e la consistente affermazione della DC (48%) stabilizzano il Paese sul perno centrista che ne costituirà la costante per quasi mezzo secolo (Mack Smith 1997: 571).
La difficile transizione post-fascista e la ricostituzione del Comintern sotto nuove vesti (Cominform) provocano un riflesso difensivo nel PCI, che ripiega su se stesso con un parziale ritorno organizzativo al modello leninista (Agosti 1999: 63-65).
Francesco Andreani, The dissolution of the Italian Communist Party and the identity of the Left: ideology and party organisation, a thesis submitted to the University of Birmingham, 2013 

martedì 23 agosto 2022

Trattasi di una comune bomba a mano tipo Balilla

Roma: Corso Vittorio Emanuele II. Fonte: mapio.net

L'assimilazione verso la scelta legalitaria prospettata dalla nascita del MSI per lo più spense i fuochi dei Fasci d'azione rivoluzionaria. “Già alla fine del 1947 - ha scritto Mario Tedeschi - solo pochissimi elementi, non più organizzati ma collegati sulla base di rapporti personali, restavano ancora fermi su quelle che erano diventate pian piano posizioni di natura puramente estetica” <87. La sigla FAR infatti ricomparirà nelle cronache cittadine soltanto nell'ottobre del 1948, in occasione dell'anniversario della marcia su Roma.
"Mentre la Polizia era intenta a rastrellare fascisti in Corso Vittorio, quattro bombe-carta sono state fatte esplodere dal MSI a Porta Pia, a P. Ungheria, a P. Flaminia [sic] e sotto la Galleria Colonna. Le bombe, esplodendo, hanno diffuso manifestini dei FAR (fasci di azione rivoluzionaria) di cui da tanto tempo non sentivamo più parlare. Il testo dei manifestini somiglia assai a una predica […]" <88.
Il rastrellamento cui accenna l'articolo de «l'Unità» era seguito al malriuscito tentativo di tre neofascisti, nella mattinata di quel 28 ottobre, di affiggere dal “fatidico balcone [di Palazzo Venezia] un tricolore con in mezzo disegnato a inchiostro un fascio repubblichino” <89. Per l'affissione e le esplosioni delle bombe carta la Questura arrestò e denunciò una dozzina di persone <90.
Quelle dei FAR tuttavia non erano le uniche micce della città. Tra il dicembre del 1947 e il gennaio del 1948, infatti, Roma fu teatro di cinque attentati tutti perpetrati dallo stesso gruppo che appare essere per lo più scollegato dal resto del contesto neofascista romano.
Il 25 novembre '47, verso le dieci di sera “un giovane dall'apparente età di 16 anni <91 lanciò una bomba a mano di tipo SRCM contro il palazzo di via IV novembre dove aveva sede la tipografia che stampava «l'Unità» e l'«Avanti», allontanandosi poi a bordo di una macchina scura. La bomba esplose sul marciapiede a mezzo metro dal portone, provocando la rottura di una vetrata" <92.
L'indomani su «l'Unità» il governo veniva rabbiosamente accusato di acquiescenza: “È chiaro che i neo fascisti si fanno forti dell'impunità e della compiacente tolleranza del governo. E l'attentato di ieri sera, compiuto a pochi giorni di distanza dall'approvazione della legge per la difesa della Repubblica, assume un evidente carattere di sfida e di provocazione” <93.
Meno di un mese dopo, il 19 dicembre, poco dopo le nove di sera, veniva lanciata un'altra bomba all'ingresso della sezione “Italia” del PCI in via Catanzaro. “Le caratteristiche di questo ennesimo criminale attentato - viene fatto notare ancora da «l'Unità» - sono identiche a quelle dell'ultimo, compiuto contro la nostra tipografia, e dimostrano l'esistenza dì una organizzazione clandestina che si prefigge lo scopo di colpire sistematicamente le sedi dei partiti democratici” <94.
La dinamica dell'attentato, in effetti, è estremamente simile, come si legge nel rapporto stilato la sera stessa dalla Questura:
"svolte le prime indagini, è risultato che nell'ora anzidetta un'automobile, secondo alcuni testimoni, tipo Augusta, ma della quale non sono state rilevate altre caratteristiche, proveniente da via Padova traversava lentamente via Catanzaro diretta via Belluno, rallentando ancor più la marcia all'altezza della sezione comunista. Intanto un individuo, dall'apparenza giovanile, che indossava un trence [sic], ignorasi se sia disceso dalla macchina o già in sosta nei pressi della sede comunista si arrampicava sulla ringhiera antistante l'ingresso di questa, lanciando la bomba. Subito dopo, mentre la macchina accelerava la corsa costui si aggrappava allo sportello sinistro della vettura, dileguandosi con essa verso via Belluno. […] Non si hanno a lamentare danni alle persone. Trattasi di una comune bomba a mano tipo Balilla. Disposte attivissime indagini. Sul posto si sono recati anche l'On. D'Onofrio e il Dr. Natoli segretario della federazione comunista" <95.
L'esplosione mandò in frantumi i vetri della porta della sezione e di una finestra dell'appartamento al piano superiore e provocò la caduta di un metro di cornicione all'interno della sezione <96. Cinque giorni dopo venne identificato il modello dell'auto ma non la targa <97.
La sequenza di attentati si protrasse dunque anche nell'anno nuovo. Nella notte tra il 12 ed il 13 gennaio una carica di tritolo detonò nei pressi di una finestra della sezione Mazzini del PCI in via Monte Zebio, distruggendo la finestra stessa e mandando in pezzi i vetri delle finestre circostanti nel raggio di circa quindici metri. Un ordigno “di scarsa potenzialità” osservava il commissario capo del commissariato di P.S. Piazza d'Armi, posto unicamente a scopo dimostrativo, anche in considerazione del fatto che la sezione era chiusa <98. Due settimane dopo, nella notte tra il 26 ed il 27 gennaio, un altro ordigno a basso potenziale esplose sotto la porta di accesso della sezione “Saverio Tunetti” del Partito Socialista Italiano in via Tiepolo, al quartiere Flaminio, scardinando la porta e infrangendo i vetri della sezione e delle finestre attigue per un raggio di circa cinquanta metri <99. Ancora, nella notte tra il 13 ed il 14 febbraio un ciclista lanciò una bomba, di maggiore potenza rispetto alle due precedenti, nel giardino circostante la sede nazionale dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia (ANPI) in via Savoia.
" Impiegato ANPI - comunicò la Questura - che ivi pernotta Zelli Giuseppe […], che si era appartato in lavori di ufficio aveva modo di notare fumo nel cortile e raccolto involucro circa 600 grammi dal quale sprigionava miccia accesa, lo lanciava per strada, preoccupandosi con gesto lodevole di correre fuori at avvertire pericolo ai passanti rimasti sconosciuti, coadiuvato in ciò da guardia notturna Ficini Benedetto fu Leopoldo nato a Subiaco il 22-8-1893. Dopo circa quattro minuti verificavansi esplosione sul margine esterno del marciapiede frantumando lo stesso e molti vetri abitazioni circostanti. Nessun danno alle persone. Nei pressi sede veniva rinvenuta qualche cartolina raffigurante militare con mitra et elmetto con la scritta “SAM - GC Barbarigo - Buon sangue non mente” " <100.
Nel giro di un mese la Questura, rafforzando il suo convincimento di un'unica organizzazione a monte di questa sequela di attentati, orientò le indagini verso “una combriccola di individui dall'attività sospetta” di stanza nei rioni Ponte e Sant'Eustachio, che si aggirava attorno all'ex Colonnello della milizia, per breve tempo Questore di Forlì durante la RSI, Riccardo Voltarelli <101. Il dirigente dell'ufficio politico della Questura di Roma Tommaso Audiffred spiegò in proposito che
"L'Ufficio politico teneva d'occhio il Voltarelli a causa del passato politico; l'idea che egli, e le persone che lo frequentavano, potessero sapere qualche cosa [degli attentati] alle sedi dei Partiti di Sinistra, non aveva una base sicura e concreta, ma cominciò a consolidarsi quando dai servizi normali di vigilanza nei confronti del Voltarelli, emerse che il suo atteggiamento era molto equivoco […]" <102.
L'ex questore di Forlì, nativo della provincia di Catania (1895), era noto all'ufficio politico per essere uno dei dirigenti del Movimento anticomunista rivoluzionario italiano (MACRI) <103, costituito clandestinamente nella seconda metà del 1946 e rimasto per lo più inerte fino al dicembre 1947. Nell'estate dell'anno successivo, pur mantenendo l'acronimo, l'associazione aveva mutato nome in Movimento di azione cristiana per la ricostruzione italiana al fine di assumere una veste legale, e ne venne stabilita la sede presso il convento degli agostiniani, in piazza S. Agostino. Presidente e vicepresidente ne erano, riferisce sempre il dirigente dell'ufficio politico, i generali, entrambi massoni, Fulgenzio Dall'Ora e Giuseppe Pieche, che tuttavia comunicarono le dimissioni dalle loro cariche sociali nel novembre 1947. "Fino a quell'epoca, continua Audiffred, animatore del movimento sarebbe stato padre Prisco, rettore del convento di S. Agostino, sede che sempre in quel periodo il MACRI abbandonò per mancanza di fondi. Ciò nonostante non è risultato che Voltarelli abbia intrapreso quei due mesi di fuoco per “mandato dei dirigenti del MACRI […] sta di fatto però che egli ha svolto una attività nell'orbita del MACRI, servendosi di uomini che a questo erano iscritti” <104.
Tra il 10 e il 15 di marzo, dunque, sei (di nove) membri della “combriccola di individui dall'attività sospetta” vennero arrestati: il 10 Domenico Palladino, Marcello Carini e lo stesso Voltarelli, il 12 Angelo Lispi e Saverio Capogreco, il 13 Cesare Monti, il 15 Luigi Arione. Il 5 maggio verrà arrestato Aldo Baroni mentre Cristoforo Marullo non sarà arrestato (verrà poi assolto per insufficienza di prove) <105. Al gruppo vennero attribuiti tutti e cinque gli attentati, giacché “sebbene si sia riusciti ad accertare in modo inequivocabile solo alcune precise loro responsabilità, non si ha dubbio date le modalità di esecuzione riscontrate in altri attentati congeneri, che essi siano di loro opera” <106. Durante gli interrogatori, infatti, gli arrestati confessarono la responsabilità degli attentati alle sezioni del PCI di via Catanzaro e di via Monte Zebio, entrambi organizzati da Voltarelli e compiuti il primo da Barone, Capogreco, Lispi e Palladino, il secondo dal solo Voltarelli <107.
Diversamente da quanto osservato nel caso dei FAR (e dei gruppi di persone che vi si avvicinarono, anche per poco), questo gruppo riunitosi attorno a Voltarelli appare decisamente disomogeneo sia sotto l'aspetto anagrafico, sia, conseguentemente, sotto quello della condivisione di esperienze nella RSI, sia ancora da un punto di vista di appartenenza politica. Si può infatti notare che i cinque confessi esecutori degli attentati alle due sezioni del PCI avevano cinque età diverse, e tra il più giovane ed il più anziano vi erano ventisette anni di differenza. I soli ad aver militato insieme nei corpi della RSI risultano essere Palladino e Carini nella GNR nel veronese <108 e la stessa formazione del gruppo sembra essere abbastanza casuale; Lispi ad esempio confessò di aver conosciuto Voltarelli, Palladino e Capogreco nella sede dell'Associazione Nazionale Arditi d'Italia nell'autunno 1947 <109. Quanto all'identità politica si noti che Marullo, l'unico fra gli imputati ad essere assolto per insufficienza di prove, avrebbe avuto un ruolo di collegamento tra il MACRI e “le squadre d'azione che erano state costituite in seno al Movimento Monarchico” <110.
Elementi di un certo interesse si rilevano invece nei primi interrogatori di Voltarelli (che poi ritratterà sistematicamente), in cui spavaldamente sostenne essere nelle sue intenzioni la formazione di una “organizzazione terroristica a sistema cellulare del tipo slavo e allo scopo organizzavo singoli attentati contro sedi comuniste, per addestrare gli uomini ad una maggiore e più grande impresa. Tale impresa consisteva nella distruzione della nuova sede del P.C.I. di via delle Botteghe Oscure” <111. Un proposito ai limiti del delirio di onnipotenza, anche in considerazione del fatto che gli attentati realmente compiuti avevano evidentemente uno scopo meramente dimostrativo. Al riguardo, è anche interessante l'opinione di Salvatore Immè, commissario della Pubblica Sicurezza presso la Squadra politica della Questura, laddove rileva che lo scopo della campagna di Voltarelli fosse “quello di dimostrare ai partiti di sinistra esistere ancora una forza capace di fronteggiarli se fossero passati all'azione diretta” <112, il che rappresenterebbe, oltre al generico anticomunismo, il vero dato politico espresso dal gruppo: un dato fortemente conservatore, tutt'altro che rivoluzionario. Ciò che appare mancare del tutto, e l'assenza di elementi di coesione interna ne è un aspetto, è proprio quell'urgenza identitaria che s'è vista invece nel caso dei FAR, la condizione morale e psicologica dell'azione clandestina; non è un caso che la banda di Voltarelli, che ha compiuto azioni ben più rumorose di quanto non abbiano fatto i FAR, sia svanita del tutto dalla memoria neofascista.
[NOTE]
87 M. Tedeschi, Fascisti dopo Mussolini, cit., p. 163.
88 Una povera pazza fermata dalla P.S. mentre accende un cero al “salmone”, in «l'Unità», 29/10/1948.
89 Ibidem.
90 Cfr. ACS, MI, GAB (1950-1952), b. 18, fasc. “Roma. Omicidio di Billi Achille (del MSI) (6.4.1949)”, rapporto della Questura di Roma n. 0596643/UP, cit. Gli arrestati furono Antonio Grande, Famiano Capotondi e Luciano La Face (condannati a cinque mesi e venti giorni di reclusione); Giovanni Inzani, Giorgio Luparini, Gastone Proietti, Gabriele Fusco, Augusto Procesi, Giannangelo De Merulis e Giuseppe Berti (condannati a quattro mesi e venti giorni); Salvatore Vancati e Luigi Capotorti, cui venne concesso il perdono giudiziale in quanto minorenni.
91 ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, rapporto della Questura di Roma n. 064048/UP, Esplosione bomba via IV Novembre, Roma, 26/11/1947, ff. 83-84.
92 Cfr. ibidem e ACS, MI, GAB (1947), b. 2, fasc. “Roma. Incidenti (III fascicolo)”, fonogramma della tenenza dei carabinieri S. Lorenzo in Lucina n. 50/255, Roma, 25/11/1947
93 L'attentato all'Unità e all'Avanti,in «l'Unità», 26/11/1947. Il riferimento normativo è alla legge 11 novembre 1947, n. 1317, “Modificazioni al codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato”.
94 Una bomba lanciata contro la Sezione P.C.I. del quartiere Italia, in «l'Unità», 20/12/1947. Va rilevato che un mese prima, il 21 novembre (due giorni dopo le bombe contro «l'Unità»), nello stesso quartiere Italia erano state lanciate due bombe, a un quarto d'ora di distanza l'una dall'altra, contro le sezioni della Democrazia cristiana di via Ravenna e dell'Uomo qualunque di via Giovanni da Procida. Cfr. Due bombe al quartiere Italia nelle sedi democristiana e U.Q., in in «l'Unità», 21/11/1947.
95 ACS, MI, GAB (1947), b. 2, fasc. “Roma. Incidenti (III fascicolo)”, fonogramma della Questura di Roma n. 208490/Gab., 19/12/1947.
96 Cfr. anche ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, , Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, fonogramma del commissariato di P.S. Porta Pia n. 06448, 20/12/1947, f. 100.
97 Cfr. ivi, rapporto del commissariato di P.S. Porta Pia [protocollo illeggibile], 25/12/1947, ff. 101-102.
98 Cfr. ivi, rapporto del commissariato di P.S. Piazza d'Armi n. 0277/Gab., Esplosione di ordigno presso la Sezione del P.C.I. a via Monte Zebio n. 9, Roma, 19/1/1948, f. 93. Cfr. anche ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), s. fasc. “Sezione partito comunista di Monte Zebio. Esplosione ordigno”, fonogramma della Questura di Roma n. 5442/Gab., 13/1/1948.
99 ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), s.fasc. “Sezione Partito Socialista di via Tiepolo. Esplosione ordigno”, fonogramma della tenenza dei Carabinieri Flaminio, n. 5442/Gab., 27/1/1948 e fonogramma della Questura di Roma n. 13540/01000/UP, 27/1/1948.
100 ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), s.fasc. “Roma. Attentato alla sede dell'ANPI”, fonogramma della Questura di Roma n. 23396/Gab., 14/2/1948.
101 ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), rapporto della Questura di Roma n. 053748/UP, Attentati terroristici compiuti nella Capitale, 12/3/1948.
102 ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, Verbale di istruzione sommaria, 5/4/1948, ff. 139-140.
103 Parlato ha sciolto l'acronimo in “Movimento anticomunista reduci italiani”, sigla di cui tuttavia non si è trovata altra traccia. Cfr. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, cit., p. 265.
104 Ibidem. È opportuno sottolineare come questa descrizione fatta agli inquirenti dal dirigente l'ufficio politico della Questura coincida nel dettaglio con quella pubblicata da «l'Unità» più di venti giorni prima. Cfr. Un questore repubblichino e un prete a capo della banda di terroristi fascisti, in «l'Unità», 13/3/1948. Il generale dei carabinieri Giuseppe Pieche è stato, secondo lo studioso dell'intelligence italiana De Lutiis, “la figura che più di ogni altro rappresenta emblematicamente, con la propria carriera, la continuità dei servizi segreti dal periodo fascista alle strutture civili di sicurezza del Ministero dell'Interno del dopoguerra […]. Capo della terza sezione del Sim dal 1932 al 1936, nel 1937 coordinò gli aiuti militari italiani all'esercito franchista. Fu poi incaricato da Mussolini di svolgere un controllo discreto e riservato dei gerarchi e delle loro personali strutture occulte. […] con il primo governo De Gasperi, Pieche fu richiamato in servizio dal ministro degli interni Scelba, che gli affidò l'incarico di Direttore Generale dei servizi antincendi, carica solo apparentemente di secondo piano”. G. De Lutiis, Storia dei servizi: guerra fredda, stragismo, depistaggi, in Storia, sicurezza e libertà costituzionali. La vicenda dei servizi segreti italiani, Atti del convegno del 23/24 marzo 2007, Casa memoria di Brescia, Brescia, 2008, pp. 25-39. La citazione è alle pp. 29-30.
105 Cfr. ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), rapporto della Questura di Roma n. 053748/UP, Attentati terroristici compiuti nella Capitale, 22/3/1948.
106 Ibidem.
107 I componenti del commando furono condannati il 26/7/1948 rispettivamente: Voltarelli a 3 anni di reclusione, Palladino, Lispi e Capogreco a 2 anni e 6 mesi, Baroni a 1 anno e 8 mesi, Carini, Monti e Arione a 1 anno e 4 mesi. La sentenza sarà poi confermata in appello il 26/2/1949. Cfr. ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, 9/19 registro Sentenze, 26/2/1949, ff. 1-21.
108 Cfr. ivi, verbale di interrogatorio di Domenico Palladino, 11/3/1948, f. 41 e verbale di interrogatorio di Marcello Carini, 16/3/1948, f. 53.
109 Cfr. ivi, verbale di interrogatorio di Angelo Lispi, 12/3/1948, f. 46.
110 Ivi, verbale di interrogatorio di Riccardo Voltarelli, 15/3/1948, f. 35.
111 Ivi, verbale di interrogatorio di Riccardo Voltarelli, 15/3/1948, f. 35.
112 Ivi, verbale di istruzione sommaria, 6/4/1948, f. 146.
Carlo Costa, "Credere, disobbedire, combattere". Il Neofascismo a Roma dai FAR ai NAR (1944-1982), Tesi di Dottorato, Università degli studi della Tuscia - Viterbo, 2014

venerdì 19 agosto 2022

I coniugi Sverzut si prestano al recapito della corrispondenza a sovversivi

Parigi: nell'XI arrondissement. Fonte: Wikipedia

Altro membro della Milice du XI arr. di cui mi è stato possibile ritrovare un certo numero di informazioni è Fausto Sverzut, che dopo la liberazione di Parigi fece parte del CILN, sezione dell'XI arr. come tesoriere aggiunto. Lo Sverzut fu una persona che assunse un atteggiamento ostile al regime fascista e militò attivamente per il partito comunista in Italia. Espatriato poi in Francia continuò a professare le sue idee politiche senza però aderire ad un movimento politico né sindacale negli anni precedenti la II guerra mondiale. Durante il periodo dell'occupazione prestò aiuto alla resistenza ma senza compiere in prima persona azioni armate contro l'occupante fino al mese della Liberazione.
Fausto Sverzut era nato nel 1909 a Cervignano del Friuli in provincia di Udine. Figlio di una famiglia di sentimenti antifascisti, il padre professava idee comuniste mentre il fratello Giovanni era iscritto al partito socialista unitario, emigrò insieme al padre in Romania. Tornato in seguito a vivere in Italia, fu responsabile della ricostituzione del gruppo clandestino comunista di Monfalcone e fu anche il coordinatore delle attività delle varie cellule della zona. In seguito a denuncia <522 venne condannato al carcere per avere ricostituito la disciolta cellula comunista. Tuttavia nell'agosto del 1928 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, ne ordinò la scarcerazione, dichiarando “non luogo a procedere”. <523
Richiamato alle armi nel 1929, prestò servizio militare in qualità di allievo fuochista artificiere nella Regia Marina. Imbarcato a bordo della R.N. Trento, di ritorno da un viaggio a Buenos Aires fu trovato dal comandante in possesso di manifestini sovversivi stampati alla macchia. Venne così trasferito sul Regio Posamine Fasana, ancorato nel porto di La Spezia, e “anche su questa nave lo Sverzut manifestò facendo quasi esplicita professione, di nutrire idee comuniste e sentimenti di avversione pel Regime e pel Governo nazionale.”. <524 Sottoposto quindi ad una più attenta vigilanza, la polizia si riservava di prendere provvedimenti contro di lui non appena avesse finito gli obblighi di leva, ma durante una breve licenza, lo Sverzut espatriò clandestinamente e raggiunse la Francia. Pertanto con sentenza contumaciale del 5 dicembre 1930 del Tribunale militare Marittimo di La Spezia, venne condannato a 5 anni di reclusione militare ed alla perdita di ogni diritto in quanto uomo di marina verso lo Stato. Su disposizioni del Prefetto di Udine, venne iscritto nel bollettino delle ricerche e nella rubrica di frontiera nel 1931 col la dicitura: “Comunista colpito da mandato di cattura per diserzione”.
Nel gennaio 1933 in un lettera indirizzata alla famiglia, e intercettata dall'UPI del Comando della 58 legione della M.V.S.N., lo Sverzut, dopo aver parlato dei suoi problemi di salute, descrisse le sue idee politiche di militante comunista fiducioso nella futura «rivoluzione proletaria» e nel declino del mondo capitalista. “(...) Per il momento non posso lamentarmi che di un malessere generale pur non condannandomi a letto. Faccio di tutto per curarmi e così prolungare la mia salute tanto contaminata che forse io non ne comprendo la gravità. Una sola cosa mi dà fiducia e speranza aiutandomi così a sopportare tutto, la rivoluzione proletaria in tutto il mondo e il comunismo vincitore. Avendo fiducia nella rivoluzione penso pure che curarmi potrò un giorno in qualche angolo d'Italia al sole e all'aria pura. Penso che non lontano sarà il giorno in cui si realizzerà quello che come le cento e cinquanta milioni di senza lavoro e operai occupati con salari di fame pensano e non invano guardando la realizzazione del socialismo in U.R.S.S. e il declino del mondo capitalista. <525 Non posso fare a meno di dirti il soggetto delle mie idee pur non sapendo che ti possono urtare i sentimenti che certo non corrispondono ai miei. Saluti.”. <526
Il 25 giugno 1933 venne arrestato a Parigi mentre incitava alle porte di una fabbrica gli operai a mettersi in sciopero. Nell'informativa della fonte fiduciaria si legge che “(...) Al momento dell'arresto si è dichiarato anarchico e fuggito dall'Italia perché disertore.”. In seguito a questo avvenimento, la polizia francese ne dispose quindi l'allontanamento dalla Francia facendolo accompagnare alla frontiera del Belgio.
Tuttavia nel 1935 era ancora a Parigi, e come annotava un informatore del Ministero degli Interni continuava a professare i suoi sentimenti comunisti ed antifascisti, senza esplicare attività politica degna di particolar rilievo. Per un periodo la residenza dello Sverzut era in Passage du Genie presso l'hotel-ristorante Mazzocchi, luogo di ritrovo per gli antifascisti italiani dell'XII arr. e della Parigi nord-est, in seguito ad accertamenti fatti eseguire dalla polizia italiana, risultò che si faceva recapitare la posta presso il Mazzocchi ma che non abitava in quell'hotel.
Dalla lettura di un'altra lettera che lo Sverzut spedì al padre nel 1937 alla quale la polizia fascista non dette corso, si apprende che era riuscito a regolarizzare la sua posizione in Francia ottenendo i documenti per il soggiorno “(…) incomincio per dirti che la vita per me qui in Francia è divenuta un poco migliore di quella che era qualche anno fa. Sono riuscito a regolarizzarmi con le carte», che si era sposato con la cittadina francese Margherita Baumer, nata a Parigi il 2.08.1909, che risiedeva insieme a lei nell'XI arr., al n. 96 del Boulevard Charonne, e che avevano un bambino di nome Michel nato nel 1936. La Baumer, per aver frequentazioni con il 'disertore' Sverzut fu seguita e interrogata a Parigi già nel 1933, <527 così si legge in un Telegramma della regia ambasciata d'Italia al Ministero dell'Interno, del 5 maggio 1933, essa dichiarò di non avere nessuna informazione sul suo conto, al Casellario venne anche aperto un fascicolo a suo nome per gli anni 1933-1938.
In una nota del Ministero degli Esteri, del 31.10.1938, è comunicato al Ministero degli Interni che i coniugi Sverzut si prestano al recapito della corrispondenza a sovversivi ed esplicano attività antifascista. Queste considerazioni del Ministero degli esteri nascono in seguito al sequestro di una lettera di Bacchi Giovanni, emigrato a Parigi, e indirizzata a Domenica Trieste, nella quale viene messo come indirizzo del mittente quello di Margherita Baumer. In questa lettera, il Bacchi, schedato come comunista presso il CPC, parla della condizione degli stranieri dopo i provvedimenti adottati nel 1938 dal Governo Daladier e delle sue difficoltà a Parigi, in quanto espulso, privo di documenti in regola, senza lavoro e costretto a vivere nell'illegalità. <528
Dopo il 1938, le ultime informazioni che si ricavano dal fascicolo personale del CPC sullo Sverzut riguardano l'anno 1943, quando lo stesso richiese il rilascio del passaporto con visto per espatrio poiché doveva recarsi in Italia per urgenti motivi familiari. Il Ministero degli Interni si espresse favorevolmente il 24 agosto “Si prega di disporre la rettifica del provvedimento d'iscrizione del predetto nel Bollettino delle Ricerche analogamente a quella ora richiesta da questo Ministero per la rubrica di frontiera e cioè col provvedimento da 'segnalare e vigilare'”, tuttavia fu il Ministero degli Esteri ad esprimere parere contrario, il 20 settembre, poiché il mandato di cattura per diserzione a carico dello Sverzut era ancora eseguibile. Inoltre nel 1943 è data notizia della sua presenza a Parigi dove risiede al n. 27 della rue Alexandre Dumas, nell'XI arr.
Riguardo al periodo dell'occupazione nazista di Parigi, le uniche informazioni che ho potuto trovare sono quelle contenute nelle attestazioni sulla sua attività di resistenza presenti nel Fondo Maffini. All'archivio della Préfecture de Police hanno un fascicolo a suo nome, in quanto venne arrestato il 20 maggio del 1944 a Parigi, tuttavia non m'è stato possibile consultare il fascicolo: mi è stato solo comunicato la data di arresto dello Sverzut, il 22.04.1944 e il numero del fascicolo (7737). Dalle due attestazioni, rilasciate da Maffini, nel 1968 e nel 1977, risulta che lo Sverzut, che è nella lista dei Garibaldini dell'XI arr., era entrato nella resistenza, Front National, nel maggio del 1942 ed
era incaricato, dall'organizzazione clandestina MOI, di occuparsi del reclutamento di resistenti, della propaganda e della distribuzione della stampa clandestina; distribuì i giornali "Italie Libre" e "Front National" e volantini che incitavano al sollevamento e alle azioni armate contro l'occupante.
Dopo il 9 settembre 1943 il suo domicilio servì ad ospitare alcuni soldati italiani della IV armata che si erano rifiutati di servire sotto il comando tedesco, e i resistenti che dovevano compiere una missione. Inoltre la sua casa servì da nascondiglio per armi e munizioni. Venne arrestato e internato alla prigione della Santé il 14 aprile 1944 e venne liberato dai resistenti delle F.F.I. il 17 agosto 1944. Purtroppo non è specificato nelle due attestazioni il motivo dell'arresto, né mi è stato specificato presso l'Archivio della Prefettura. Una volta rilasciato, fece parte, in qualità di sergente, della Milice du XI e collaborò alla confezione di bombe Molotov alla Mairie dell'XI, prese parte a dei combattimenti, costruì le barricate della rue des Immeubles e della rue Montreuil il 22 e 23 agosto, come al recupero di armi. Il 25 agosto prese parte alla cattura dei soldati tedeschi che occupavano la Caserma Prince Eugène. In seguito fece parte del Comité local du XI “Italie Libre”, in rue de Montreil, sezione del Movimento Italie Libre” ex Comité italien de Liberation national, in rue de Babylon. <529 Dopo la II guerra mondiale in Francia, è rimasto a lungo a vivere a Parigi per poi tornare a vivere in Italia.
[NOTE]
522 La Regia Prefettura di Trieste con lettera in data 1 giugno 1929, trasmette copia della denunzia inoltrata l'8 settembre 1927 al Tribunale Militare di Trieste contro il Quarantotto Mario ed altri otto giovani comunisti. “Da detto
rapporto si rileva quanto segue: che la mattina del 7 ottobre 1927 circa alle ore 9,00 un contadino si accorse che in una boscaglia sita presso la Bargellina scoperse un gruppo di giovani comunisti che si riunivano colà
clandestinamente. Subito il contadino Colsutti Giuseppe denunziò il fatto a quel Comando della SVSS il quale subito dispose per accerchiare gli adunati e procedere al loro fermo. Fu così possibile fermare i comunisti sotto elencati e
identificati. Silvestri Giovanni, Belbianco Eugenio, Marega Ferdinando, Sverzut Fausto, Buttignon Volmaro, Sellan Egidio, Budicin Antonio, Quarantotto Mario, Buttignon Bruno. Gli arrestati sono stati portati alle carceri mandamentali dove sono stati denunziati a quell'autorità giudiziaria.” in CPC; fascicolo ad nomen Sverzut Fausto, b. 4991.
523 Cfr. L. Patat, Fra carcere e confino: gli antifascisti dell'isontino e della Bassa Friulana davanti al Tribunale speciale, Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale Leopoldo Gasparini, Gradisca d'Isonzo, 2006,
pp. 158-160.
524 Informativa della Prefettura di Udine al Consolato di Parigi, del 20 febbraio 1931 in ACS, CPC, fascicolo Fausto Sverzut, b. 4991.
525 Lettera datata 24 gennaio 1933. Ivi.
526 Ivi, Lettera del 24.01.1933.
527 Telegramma Regia Ambasciata d'Italia al Ministero Interno (CPC), del 5 maggio 1933; ACS, CPC, f. Sverzut Fausto, b. 4991.
528 Dalla lettera “(…) Felicissimo nel sentire che state tutti bene, in quanto a me si può dire le stesse da un solo atto e cioè salute tutto il resto abbastanza male. Credo sarete a conoscenza attraverso i giornali quali sono le nuove leggi emanate dal governo Daladier concernenti gli stranieri, e in special modo contro gli espulsi. Ora io in qualità di espulso mi trovo in condizioni di dover vivere illegalmente, perché l'art. 11 di detta legge dice che gli espulsi che verranno presi verranno condotti alla frontiera d'origine e che solamente se il colpito potrà dimostrare che si trova impossibilitato di essere rimpatriato gli verrà assegnato un domicilio forzato e cioè (domicilio coatto). Allora pensate un po' voi in quale condizione poco piacevole mi trovo, così pure detto governo ha creato la legge della percentuale degli stranieri sul lavoro e cioè il 10% così la possibilità di lavorare è difficile per coloro che sono in regola con le carte, immaginate quali sono le difficoltà per me. Con questo non è il caso di disperare, tanto lo sapete bene che io sono temprato a tutte le temperature, ma però non avrei mai pensato che un governo che si dice di Fronte Popolare non tollerasse i veri amici della democrazia. In questa mia vi prego tanto di voler spedirmi quel documento che vi ho lasciato il giorno della mia partenza, perché detto libretto solamente potrà salvarmi in più prego parlare con mia sorella e domandargli tutti gli altri documenti concernenti la mia politicità. (…) ”. Citazione da copia di lettera proveniente dalla Francia, Parigi, XI, rue Merceaur, diretta alla Sig.ra Domenica Sbisà, Trieste, 11/06/1938; Ivi.
529 APP, dossier Darno Maffini, n. 466081/77W184, Documento del 20 novembre 1945.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013

mercoledì 4 maggio 2022

Buranello acconsente di fare il gappista «per disciplina»


Il Partito comunista era l’unico [a Genova], seguito in ciò dal Partito d’azione, ad essere riuscito a conservare una seppur embrionale struttura organizzativa; il tutto all’interno del mondo operaio che, agli occhi dei giovani e imprudenti cospiratori, appariva invece inerme e sfiduciato. Gli studenti non potevano credere che i pericolosissimi comunisti descritti dalla propaganda del regime fossero quegli stessi lavoratori spossati dalla fatica e obbedienti alla disciplina di fabbrica; non riuscivano del tutto a capacitarsi di questi militanti, che non conservavano nemmeno un elenco degli iscritti e che sembravano limitare ogni attività alla raccolta delle quote del soccorso rosso.
Così come per gli altri dissidenti, anche per i comunisti era ormai impossibile uscire dal chiuso delle cellule e delle amicizie fidate: a ogni tentativo, seppur minimo, di portare la lotta dal gruppetto clandestino all’azione di massa, rispondeva immediatamente la reazione poliziesca. Ogni movimento più esteso era stroncato sul nascere, colpendo quadri difficili da sostituire. Con un’organizzazione quasi interamente smantellata dalla polizia e con i dirigenti all’estero, in galera o al confino, i comunisti erano del tutto assenti dalla vita pubblica, con l’ovvia esclusione delle scritte sovversive, che mani anonime facevano in genere comparire negli ambienti frequentati da operai. Solo con il crollo del fascismo il partito avrebbe ripreso vitalità, sebbene in forme affatto clandestine.
Anima del gruppo degli studenti nonché loro principale ispiratore era Giacomo Buranello, all’epoca poco più che ventenne. Universitario iscritto al biennio di Ingegneria, in lui si incontravano un’intelligenza decisamente al di sopra della norma e una solida e vasta cultura. Gli erano peculiari uno spirito di sacrificio e una forza di volontà non comuni, senza alcun dubbio determinati dal contesto di provenienza, ossia dall’essere cresciuto in una famiglia operaia del ponente cittadino di disagiate condizioni economiche. Dopo una prima infatuazione per gli ideali del Risorgimento italiano, Buranello aveva aderito al Partito comunista <58.
Non bisogna inoltre dimenticare che il gruppo di ventenni in cui Buranello si sarebbe presto affermato come leader era andato formandosi al di fuori di qualsiasi contatto con la dirigenza del Partito, mentre solo in un secondo momento questi ragazzi avrebbero cercato tra i lavoratori dell’industria vecchi militanti e nuovi adepti. Il piccolo movimento capeggiato da Buranello, benché assolutamente degno di nota, era tuttavia solo uno tra le decine di raggruppamenti giovanili antifascisti che erano andati costituendosi nella prima metà del 1942 e che tendevano a ricreare dal basso un tipo di dissidenza che si richiamava direttamente al comunismo, al socialismo, al rivoluzionarismo socialista o liberale <59.
[NOTE]
58 Numerose e interessanti le notizie desumibili sulla breve vita di Giacomo Buranello che, dopo l’arresto dell’11 ottobre 1942 e la liberazione del 29 agosto 1943, sarebbe divenuto a Genova il comandante del primo nucleo dei Gruppi di azione patriottica (Gap). Catturato il 2 marzo 1944, venne fucilato il giorno seguente; gli venne conferita la Medaglia d’oro al Valor militare (N. Simonelli, Giacomo Buranello: primo comandante dei Gap di Genova, Ghiron, Genova, 1977; e inoltre Calegari, Comunisti e partigiani, op. cit., pp. 7-60; F. Gimelli, La Resistenza armata, in Tonizzi, Battifora, Genova 1943-1945, op. cit., pp. 111-142).
59 Per citare due tra gli esempi più significativi, tra il gennaio e il giugno 1942 venne fondato a Perugia il Movimento universitario rivoluzionario italiano (Muri), da parte di alcuni studenti universitari e medi; quasi contemporaneamente a Cesena una ventina di diciottenni diede vita alla Giovane internazionale. Cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. IV, La fine del fascismo dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino, 1976, pp. 84-91.
Paola Pesci, La famiglia Lazagna tra antifascismo e Resistenza, Storia e Memoria, n. 5, 2015, Ilsrec, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea


Fonte: Patria Indipendente

Fonte: Patria Indipendente

L’esempio più efficace per descrivere questi primi gappisti è sicuramente Giacomo Buranello, studente in Ingegneria all’università di Genova, che, nonostante la giovane età, aveva già conosciuto le galere fasciste per la sua attività sovversiva durante il regime. Buranello venne scelto dai vertici del Pci proprio per la sua spregiudicatezza che si spingeva fino ai limiti dell’incoscienza. Per il suo atteggiamento audace generò tensioni tra i vecchi militanti genovesi che lo consideravano un “avventurista”, ma Buranello si dimostrò la persona adatta per dare il via alle azioni gappiste in un contesto dove mancava l’apporto logistico necessario: non si disponeva di armi - che andavano assolutamente strappate ai nemici -, di bombe e di uomini, ma al contempo era necessario che qualcuno si sacrificasse e desse il via alla lotta uccidendo fascisti, indipendentemente dal ruolo ricoperto, generando in loro la paura di un nemico invisibile. La prima azione militare di rilievo, organizzata dal primo gruppo di Gap comandato da Buranello, venne compiuta a Sampierdarena alle ore 18 del 28 ottobre 1943, quando fu colpito a morte il capo manipolo della Milizia fascista <29.
Quella che possiamo definire “prima generazione gappista” pagò un prezzo altissimo per la propria partecipazione alla guerra di Resistenza: i pochi che riuscirono a sfuggire alle torture e alle fucilazioni dovettero riparare in montagna da ricercati, con taglie pesanti sulle loro teste. Sulla testa di Buranello pendeva, già nel gennaio del 1944, una taglia da un milione di lire e, per questo, venne fatto allontanare da Genova, tornò poi in città alla fine di febbraio per partecipare allo sciopero generale ma fu catturato il 2 marzo: venne fucilato dopo aver subito pesanti torture all’alba del giorno successivo.
29 Cfr. N. Simonelli, Giacomo Buranello, primo comandante dei Gap di Genova, De Ferrari, Genova 2002.
Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca in Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea. II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici - Rivista di storia contemporanea, 3 (2015)


A Genova, dopo il dissolvimento del primo nucleo di Giacomo Buranello, l’organizzazione gappista, agli ordini di Germano Jori <137, tra il maggio e il giugno 1944, realizza un numero consistente di azioni, tra cui la bomba esplosa al cinema Odeon con la quale, il 15 maggio, vengono eliminati 5 soldati tedeschi <138. Le catture e le cadute subite nel luglio 1944, che coinvolgono lo stesso Jori, conducono, però, al tracollo dell’intera struttura. In un rapporto del 14 agosto 1944, Remo Scappini afferma che l’organizzazione gappista genovese:
"È quasi inesistente come tale. A Genova dopo gli arresti l’organizzazione ha subito così duri colpi che ci ha indotto ad allontanare tutti i vecchi membri […] Siamo molto deboli in questo campo" <139.
La condizione dei GAP resta deficitaria anche nei mesi seguenti, dato che Scappini, in un’informativa del 19 marzo 1945, in riferimento alle operazioni compiute dalle varie strutture armate del PCI, non fa alcun accenno al gappismo:
"A questo elevamento morale e rinvigorimento dello spirito di lotta specialmente degli operai e impiegati industriali […] hanno molto contribuito le azioni partigiane, specialmente quelle effettuate nelle province di Genova e di Savona, le azioni delle Sap e l’intensa agitazione e propaganda delle organizzazioni del Partito" <140.
[...] Giacomo Buranello nasce nel comune veneziano di Meolo il 17 marzo 1921. La madre, Domenica Bondi, proviene da una famiglia toscana di condizione agiata, la qual cosa le permette di portare avanti gli studi fino alle scuole superiori. Una volta caduto in disgrazia, il nucleo familiare Bondi si sposta a Genova con la speranza di trovare una migliore sistemazione economica. È qui che Domenica conosce Giuseppe Buranello, un contadino di origine veneta che ha lasciato i luoghi natii al fine di cercare lavoro in una grande città industriale. I due si sposano e Domenica, rimasta incinta, in attesa che Giuseppe trovi un’occupazione a Genova, decide di affrontare la gravidanza dai parenti del marito a Meolo. Quando Giuseppe viene assunto alle fonderie dello stabilimento Ansaldo, la moglie e il neonato si trasferiscono con lui in un’abitazione sita in via Leone Pancaldo, nel quartiere di Sampierdarena. È in questo «piccolo mondo abitato esclusivamente da famiglie operaie e da poverissima gente» <290 che Giacomo trascorre la sua infanzia.
Egli, fin da piccolo, si dimostra dotato di intelligenza e predisposizione allo studio. Alle scuole elementari risulta sempre il migliore della classe, pur dovendo lasciare il primo posto al figlio del podestà <291 o della famiglia benestante di turno. Decisivo per la sua formazione è l’incontro, in quarta e quinta elementare, con l’insegnante Antonio Rossi, antifascista, il quale «fu soprattutto un maestro di vita» <292. Tra i due nasce un rapporto di stima reciproca, «proseguito durante l’adolescenza e la giovinezza di Buranello e sfociato in un sodalizio intellettuale e politico» <293. Giacomo assorbe con precocità e vivo interesse gli insegnamenti del maestro. Rossi propone a Buranello, divenuto suo ex scolaro, consigli di lettura e discussioni su varie tematiche. A testimonianza dell’impatto avuto negli anni da Rossi sul suo sviluppo culturale e umano, queste sono le parole scritte nell’agosto 1939 da Giacomo al vecchio docente:
"Lei è per me il Maestro per eccellenza: dai Suoi due anni di insegnamento, vorrei dire di apostolato, ho attinto quelle prime idee, soprattutto quei sentimenti fondamentali che non si mutano e che creano l’uomo e il cittadino. Dalle sue lezioni ardenti su Mazzini, che io ricordo come se fossero di ieri, ho appreso l’amore della libertà e il culto della dignità umana, quei sentimenti che danno uno scopo alla vita e moltiplicano le energie degli individui intenti a realizzarle. Non abbandonerò questi sentimenti, qualunque sia la strada che io seguirò in futuro" <294.
Terminate le scuole elementari nel 1931, Buranello viene iscritto all’istituto tecnico Vittorio Emanuele III. Anche qui Giacomo, malgrado la sua preparazione e gli ottimi risultati conseguiti, si vede scavalcato, per quel che concerne il merito scolastico, da compagni provenienti da famiglie abbienti. È l’inizio di un processo che lo porta ad acquisire una progressiva consapevolezza della sua condizione sociale di figlio di operaio e a sviluppare una «spiccata avversità nei confronti di chi aveva condizioni agiate e di conseguenza di privilegio» e un «forte senso critico nei confronti delle autorità» <295.
Buranello inizia a frequentare nell’autunno 1935 il liceo scientifico Gian Domenico Cassini. Malgrado questo genere di studi, propedeutico alle facoltà universitarie di medicina e ingegneria, sia solitamente precluso a ragazzi di bassa estrazione sociale, la madre Domenica, dotata di grande personalità e di una notevole influenza su Giacomo, «avendo perfettamente compreso le attitudini del figlio, non ebbe dubbi ad indirizzarlo verso uno studio che gli permettesse, accedendo poi all’Università, di far valere tutta la propria intelligenza» <296.
A partire dal terzo anno di liceo, la cucina di casa Buranello, con il favore di Domenica, diventa luogo di ritrovo di un gruppetto di giovani di Sampierdarena. Si tratta di amici di Giacomo di vecchia data, tra cui Walter Fillak, Giambattista Vignolo, Ottavio Galeazzo e Orfeo Lazzaretti, i quali sono mossi da un «comune interesse per la lettura, lo studio e per la conversazione» <297:
"Dalle iniziali discussioni letterarie e filosofiche, passeranno ben presto ad esprimersi con molta chiarezza e senso critico sugli avvenimenti politici. […] Da questi giovani studiosi verrà intentato, sul piano intellettuale, con un enorme sforzo, un lungo processo alle strutture del fascismo" <298.
Dal confronto tra i membri del gruppo emerge una «estraneità alle sollecitazioni e alla cultura del fascismo» <299:
"Non accettavamo i rituali. Ci si ribellava. Non andavamo alle riunioni. Trovavamo giustificazioni per non far parte di quello che allora era considerato l’atteggiamento giusto, confacente. Forse tutto ciò dipende dalla predisposizione di ciascuno di noi verso l’accettazione o meno. Per noi l’accettazione era il fascismo. Ribellarsi era rifiutare il fascismo <300. Tutto è stato quando sono cominciate le nostre letture; i libri che ci piacevano. Lì abbiamo capito che il fascismo era tutto il contrario. C’era anche una certa predisposizione all’indisciplina, a non accettare le adunate e una scuola che ti trattava come un bambino dell’asilo. C’era un rifiuto… Il rifiuto ci accomunava e nello stesso tempo ci apriva a cose diverse da quelle che ci proponeva il fascismo" <301.
Giacomo ritiene il fascismo «un’enorme macchina fondata sulla paura di “perdere il posto”», che «si frantumerà inevitabilmente» <302 una volta dato l’esempio. Dal suo diario, steso tra 1937 e 1939, per quanto condizionato dal «pensiero posteritatis» che induce chi scrive ad una «falsa sincerità caratteristica anche delle autobiografie ritenute più schiette» <303, emerge in lui una disposizione al sacrificio, di sapore risorgimentale e mazziniano:
"[…] ho concluso che occorre sacrificarsi; che il sangue dei martiri segna la strada più sicura alle Idee, che il nostro Risorgimento era fatto meritorio già dopo i primi tentativi falliti e soffocati nel sangue. Dissi che occorre mantenersi liberi da nuova famiglia perché la nostra eventuale morte debba lasciare il minor lutto possibile: niente moglie niente figli. Che occorre trasformare il pensiero e i sentimenti in azione: questo si fa sacrificandosi. Ma prima di giungere al sacrificio supremo bisogna prepararsi perché tale sacrificio possa effettuarsi ed abbia la maggior efficacia" <304.
Si tratta di «una visione eroica dell’impegno personale, che gli anni matureranno, attenuandone gli aspetti più letterari e i toni retorici, e che resterà sino alla fine un aspetto peculiare della sua milizia» <305.
Conseguita la maturità scientifica nell’estate del 1939, Giacomo inizia l’università. Insieme a Fillak e a Lazzaretti, frequenta il primo anno del biennio di ingegneria, comune al ramo di chimica industriale, scelto dagli amici, e a quello di elettrotecnica, selezionato da lui. Le nuove conoscenze strette in ambito universitario portano all’entrata nel gruppo, facente capo a Buranello, di nuovi studenti, quali Luciano Codignola, Arnaldo Minnicelli, Tommaso Catanzaro e Goffredo Villa <306.
In tutti gli appartenenti del raggruppamento vi è la necessità di dare una svolta organizzativa agli incontri, di «trasformare il proprio antifascismo teorico in attività pratica» <307. Giacomo sceglie di iniziare da semplici azioni di propaganda volte a «recuperare la classe operaia dal suo lungo sonno» <308. Nella classe operaia, infatti, egli vede il potenziale rivoluzionario in grado di abbattere il fascismo:
"Senza la lotta attiva delle masse lavoratrici, senza l’esperienza combattiva operaia, il fascismo non sarebbe mai caduto. Ma dovrà essere lo studioso […] a mettersi al servizio degli oppressi. L’intellettuale dovrà muoversi per primo. È il suo privilegio culturale che lo obbliga ad essere avanguardia. Egli, l’intellettuale, conoscendo meglio d’ogni altro l’efficacia contenuta nel movimento e nell’azione, dovrà agire pensando di compiere un atto pedagogico, educativo nei confronti delle masse" <309.
Sulla base di questa logica, l’attività viene avviata in direzione della classe operaia genovese nelle zone di Sampierdarena, Cornigliano, Sestri Ponente e Rivarolo. Attraverso queste iniziative propagandistiche, Buranello si propone «conseguenze politiche precise per una prossima organizzazione comunista» <310. Per il gruppo di studenti, il comunismo:
"[…] rappresentava il coronamento di storie familiari, locali. Gli studenti erano approdati al comunismo per una inquietudine frutto di una somma di fattori dove carattere, sensibilità, condizione familiare, un maestro elementare e un eccesso di letture avevano avuto, sia pure in dosi diverse per ognuno, il loro peso" <311.
Il primo contatto comunista per Buranello avviene all’inizio del 1940, attraverso un colloquio, preparatogli dal maestro Antonio Rossi, con Emilio Guerra <312, ferroviere di Sampierdarena. Ciò rappresenta per Giacomo l’inizio di una serie di incontri e collegamenti con militanti operai di varie fabbriche e del porto di Genova.
Il 1° marzo 1941 Buranello viene chiamato a prestare servizio militare. Destinato a Bologna, vi trascorre 5 mesi, ossia la durata del corso per specialisti marconisti. Conseguita la specializzazione, viene trasferito momentaneamente a Chiavari, in attesa di essere inviato a Pavia per partecipare ad un corso preparatorio per allievi ufficiali di completamento. Classificatosi tra i primi del corso, ha la possibilità di scegliere una sede che lo avvicini maggiormente a casa. Così, nel febbraio 1942, è nuovamente a Chiavari, sottotenente di completamento presso il 15° Reggimento Genio. Favorito dalla vicinanza con Genova, Giacomo riprende la sua attività politica alla testa della neonata organizzazione clandestina comunista, che continua ad espandersi a macchia d’olio, sviluppandosi, oltre che in Liguria, anche in direzione di Alessandria e Torino.
Nel maggio 1942 viene costituito un Comitato centrale di cui entrano a far parte Buranello, Walter Fillak, Giambattista Vignolo e Ottavio Galeazzo per il gruppo degli studenti, mentre tra gli operai vengono scelti Emilio Guerra, l’ex ferroviere Edgardo Pinetti per i suoi contatti con il centro della città e la val Bisagno, il falegname Cesare Bussoli per quelli con la Riviera di Levante e Raffaello Paoletti <313, in quanto responsabile del gruppo operante in val Polcevera. Scopo del Comitato è «formare un’organizzazione centralizzata che dia unità e forza al Partito nella Provincia di Genova e nelle zone contigue» <314.
[...] Questo organismo, che rappresenta a Genova «l’ultimo progetto cospirativo comunista vissuto in città prima della caduta del fascismo» <317, viene smembrato dagli arresti dell’11 ottobre 1942.
Nel giorno fissato da Buranello con l’architetto Giuseppe Bianchini <318, rappresentante di un altro gruppo comunista operante nel centro della città di Genova, per concludere le modalità di fusione dei due raggruppamenti, l’organizzazione di Giacomo, sotto indagine da diversi mesi, cade vittima di una vasta operazione di polizia che porta alla cattura della quasi totalità dei suoi membri dirigenti.
Buranello, essendo ancora in servizio militare, viene incarcerato nelle prigioni del 15° Reggimento di Chiavari, salvo poi essere trasferito nel carcere genovese di Marassi e, in seguito, in quello di Apuania. Trovatosi a Roma, nel carcere di Regina Coeli, in attesa di essere giudicato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, al momento della destituzione di Mussolini, Giacomo viene rimesso in libertà il 29 agosto 1943.
Tornato a casa, egli viene inserito ufficialmente nell’organico del PCI genovese, di cui uomo forte è ora Raffaele Pieragostini <319. Quest’ultimo, «consapevole della singolarità delle loro posizioni e della difficoltà di controllarne politicamente l’azione» <320, decide di utilizzare Giacomo Buranello e Walter Fillak in ruoli operativi e non in «un impiego che valorizzasse le caratteristiche intellettuali o la loro collocazione universitaria» <321:
"[…] non ci si fermò ad interrogarsi sulla migliore collocazione di un quadro né sul ruolo che potevano assumere militanti della caratura di un Buranello o di un Fillak. […] si decise che Fillak e Buranello sarebbero andati a lanciare bombe. Specialmente non avrebbero assunto ruoli di direzione politica che restavano riservati al partito di Ventotene" <322.
Quando gli viene comunicata la scelta di impiegarlo, in virtù dei suoi trascorsi nell’esercito, come comandante dei futuri GAP, Giacomo non vuole accettare. Infine, acconsente di fare il gappista «per disciplina» <323, pur non riuscendo a tenere nascosta, nel corso dei mesi, «una ribellione intima (che rigettava in continuazione) al ruolo che si trovava a svolgere e che certo non identificava con l’indole del proprio essere» <324:
"Buranello avrebbe preferito fare, data l’attività svolta precedentemente, un lavoro di coordinamento politico specialmente in settori come l’Università, con gruppi di studiosi e studenti, mantenere contatti in ambienti in cui avrebbe potuto esprimere la sua personalità ed esplicare una funzione dirigente" <325.
Ciononostante, verso la metà di ottobre si forma a Genova il primo nucleo dei GAP, composto da Buranello, Fillak, Andrea Scano <326, Angelo Scala <327, Balilla Grillotti <328 e Germano Jori. La loro prima azione militare di rilievo viene compiuta il 28 ottobre 1943 a Sampierdarena, con l’uccisione del capo manipolo della MVSN Manlio Oddone.
A seguito della già accennata retata fascista del 31 dicembre 1943, che, anche nei giorni successivi, è causa di arresti e trasferimenti in montagna, gli unici gappisti rimasti attivi a Genova nel mese di gennaio sono Buranello e Scano, i quali portano a termine due iniziative: la prima, realizzata il 13, in via XX Settembre, riguarda l’abbattimento, tramite colpi di pistola da distanza ravvicinata, di due ufficiali tedeschi; la seconda consiste nel lancio di alcune bombe a mano contro la casa del fascio di Sampierdarena in data 15 gennaio.
Dopodiché, anche loro ricevono l’ordine di Remo Scappini, divenuto responsabile del PCI a Genova e in Liguria, di allontanarsi dalla città e di portarsi in montagna.
A Buranello viene assegnato il comando del 1° distaccamento della 3ª brigata Liguria, operante nella zona del monte Tobbio. Si tratta di un ruolo che ricopre per breve tempo, per il fatto che, in vista dello sciopero generale programmato per l’inizio di marzo 1944, egli viene richiamato a Genova, insieme a Walter Fillak, allo scopo di sostenere, attraverso azioni di sabotaggio, i manifestanti in lotta nelle fabbriche.
Così, Giacomo torna a Sampierdarena la sera del 28 febbraio. L’ampia mobilitazione di forze tedesche e fasciste in conseguenza del proclamato sciopero, unitamente al riscontro di un’assoluta mancanza di partecipazione della classe operaia ad esso, però, porta ad un immediato contrordine: Buranello viene intimato a non eseguire interventi armati in città e a fare ritorno al più presto alla sua formazione partigiana. Egli, tuttavia, malgrado la precarietà della situazione, decide di non tornare in montagna, bensì di «organizzare alcune azioni che avessero ridato fiducia agli operai per la lotta» <329:
"Quando mi dissero che Buranello, nella situazione in cui si trovava Genova, non voleva ritornare in montagna, pensai che egli rimaneva coerente con se stesso fino all’ultimo. Buranello aveva fretta di bruciare le tappe. Il suo entusiasmo nel perseguire una giusta causa gli fece perdere di vista anche le elementari norme di condotta dell’attività clandestina. Nel suo fervido pensiero […] forse ripudiava le lentezze, i compromessi in attesa che maturassero gli altri. Ed ancora, le raccomandazioni di compagni anziani alla prudenza. Per tutto questo penso fu spinto, in quel clima drammatico, ad agire" <330.
La mattina del 2 marzo, durante un appuntamento al bar Delucchi mirato ad ottenere documenti di identità falsi per la sua permanenza a Genova, Giacomo viene catturato e portato in questura, dove subisce interrogatori e torture. Su ordine del questore Arturo Bigoni, viene convocata per la sera stessa una riunione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI <331, i cui componenti decretano la pena di morte a Buranello mediante fucilazione alla schiena.
La sentenza viene eseguita, all’alba del 3 marzo 1944, sull’altura del Forte San Giuliano.
[NOTE]
137 Germano Jori (1904-1944). In carcere dal 1933 al 1937, fu comandante dei GAP genovesi dopo la morte di Giacomo Buranello. Il 13 luglio 1944, identificato in un bar di Sampierdarena, fu ucciso mentre tentava di sottrarsi alla
cattura, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 27-06-2019.
138 L’attentato fu seguito, il 19 maggio, dalla rappresaglia del passo del Turchino, con la fucilazione di 59 detenuti, prelevati dal carcere di Marassi.
139 Remo Scappini (Giovanni), Rapporto dalla Liguria del 14-08-1944, in Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945, cit., p. 481.
140 Remo Scappini (Giovanni), Informazioni dalla Liguria del 19-03-1945, in Ibid., p. 975.
290 Nicola Simonelli, Giacomo Buranello. Primo comandante dei GAP di Genova, De Ferrari, Genova 2002, p. 15.
291 Il podestà, nel corso del regime fascista, fu, con la soppressione della carica di sindaco, l’organo monocratico a capo del governo di un comune.
292 Testimonianza di Domenica Bondi, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 18.
293 Pietro Rossi, Giacomo Buranello, i Gap, la violenza e la moralità nella Resistenza: analisi e riflessioni, in «Storia e memoria», 2005, 2, pp. 212-213.
294 Lettera di Buranello ad Antonio Rossi del 12-08-1939, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., pp. 42-43.
295 Testimonianza di Orfeo Lazzaretti, in Ibid., p. 20.
296 Ibid., p. 26.
297 Ibid., p. 34.
298 Ivi.
299 Manlio Calegari, Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945, Selene, Milano 2001, p. 22.
300 Testimonianza di Ottavio Galeazzo, in Ibid., p. 38.
301 Testimonianza di Orfeo Lazzaretti, in Ivi.
302 Mariella Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in «Storia e memoria», 1994, 2, p. 86.
303 Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in Ibid., p. 81.
304 Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in Ibid., p. 86.
305 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 33.
306 Goffredo Villa (1922-1944). Comunista, entrò a far parte del gruppo di studenti di Buranello e Fillak. Arrestato, riacquistò la libertà in seguito alla caduta del fascismo. Fu membro dei GAP genovesi e, in seguito, partigiano. Venne fucilato al Forte San Giuliano il 29 luglio 1944, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
307 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 49.
308 Ibid., p. 50.
309 Ivi.
310 Ibid., p. 52.
311 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 31.
312 Emilio Guerra (1906-1944). Ferroviere comunista, fatto prigioniero nel corso della Resistenza, fu tra coloro che persero la vita, mediante fucilazione, nella strage del Turchino del 19 maggio 1944, in Simonelli, Giacomo Buranello,
cit., p. 58.
313 Raffaello Paoletti, nato nel 1910, comunista. Dichiaratosi contrario all’organizzazione centralizzata pensata da Buranello, il 27 settembre 1942 fu espulso dal Comitato centrale di cui faceva parte. Malgrado l’allontanamento,
anch’egli finì nell’elenco degli arrestati di ottobre, in Calegari, Comunisti e partigiani, cit., pp. 61-62.
314 Atto costitutivo dell’organizzazione, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 109.
317 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 67.
318 Giuseppe Bianchini (1894-1951). Aderì al PCd’I dal 1921, fu tra i primi dirigenti della sezione genovese del partito. Nel corso della Resistenza divenne segretario del Triumvirato insurrezionale della Liguria, in Donne e Uomini della
Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
319 Raffaele Pieragostini (1899-1945). Aderì al PCd’I nel 1922. Fu arrestato nel 1927 e condannato a 5 anni. Scarcerato, lasciò l’Italia, in accordo con il partito, continuando a svolgere attività politica in Francia, Unione Sovietica e
Spagna. Fu arrestato in Francia nel 1942 e condotto in Italia, riottenendo la libertà dal carcere di San Gimignano nell’agosto 1943. Venne chiamato a dirigere il PCI a Genova. Fu vice comandante militare del CLN della Liguria, in
AA. VV., Ear, vol. IV, cit., p.587.
320 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 74.
321 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 139.
322 Ivi. Con partito di Ventotene si intende il gruppo di dirigenti e quadri di partito che, a seguito della liberazione dall’isola omonima, assunse la guida dell’organizzazione comunista in Italia.
323 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 74.
324 Ibid., p. 78.
325 Ibid., p. 74.
326 Andrea Scano (1911-1980). Accorso volontario in Spagna per combattere nelle Brigate internazionali, nel 1939 finì nei campi di internamento francesi. Consegnato nel 1941 alle autorità fasciste italiane, fu confinato a Ventotene. Nel
corso della Resistenza, fu gappista a Genova e partigiano nell’alessandrino, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
327 Angelo Scala (1908-1974). Comunista, fece parte dei GAP genovesi. Con il nome di battaglia «Battista» nel novembre 1944 divenne comandante della Brigata Volante Balilla, squadra di punta dotata di grande mobilità, operante tra
Bolzaneto, la val Polcevera e Genova, in Wikipedia, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
328 Balilla Grillotti (1902-1944). Operaio comunista, operò nei GAP di Genova. Catturato il 19 luglio 1944 e processato dieci giorni dopo, fu condannato a morte e fucilato, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
329 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 94.
330 Testimonianza di Remo Scappini, in Ibid., p. 95.
331 Fu un tribunale straordinario della Repubblica Sociale Italiana, istituito nel dicembre 1943 ed erede del disciolto Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019


Era uno studente bravissimo, Giacomo Buranello. Il capo dei Gap genovesi, fucilato il 3 marzo 1944 quando ancora non aveva compiuto 23 anni, ai ragazzi più giovani che avevano scelto di seguirlo dopo l’8 settembre, ripeteva sempre l’insegnamento mazziniano: “studiate, studiate sempre”, come ricorda Giordano Bruschi, il partigiano “Giotto” che, diciottenne, fu tra loro.
E a cent’anni dalla nascita - era nato il 27 marzo 1921 - decine di docenti della Scuola Politecnica dell’Università di Genova, insieme al centro di Documentazione Logos hanno infatti promosso una richiesta per il conferimento della Laurea alla Memoria a Buranello - a cui già negli anni 70 era stata intitolata l’Aula Magna della Facoltà di Ingegneria - e il Consiglio della Scuola Politecnica ha approvato all’unanimità la proposta, trasmettendola ora ai vertici dell’Ateneo a cui spetta la decisione di attribuire il titolo [...]
Donatella Alfonso, Giacomo Buranello, una laurea alla memoria, Patria Indipendente, 27 marzo 2021