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venerdì 8 aprile 2022

Traversate clandestine delle Alpi Marittime da parte di esuli antifascisti

Il Monte Clapier - Fonte: Wikimedia

[...] Quella che vorrei ricordare con queste righe però è anche una straordinaria operazione avviata alla fine del 1942 per inviare, al contrario, una serie di dirigenti comunisti in forma clandestina dalla Francia all’Italia per combattere il fascismo. Molti quadri del partito comunista esuli in Francia si erano trasferiti dal 1939 nel sud, nella zona che dal giugno 1940 diverrà regime collaborazionista di Vichy, poi nel novembre 1942 zona occupata dai tedeschi. Qui operavano con la Resistenza, ma per molti di loro la direttiva era di rientrare in Italia per preparare la futura lotta al regime. Il percorso, attraverso le Alpi Marittime, era stato inizialmente tentato senza successo dal veneto Mario Ferro “Romagnosi”, caduto subito nelle mani della polizia fascista. In seguito aveva provato due volte ad aprire la via un friulano, Amerigo Clocchiatti, nato a Tavagnacco (Colugna), ma anch’egli senza successo. Clocchiatti riesce a rientrare in Francia ma le vie che aveva sperimentato si dimostrano impraticabili. L’operazione è infine realizzata da un altro friulano dalla storia straordinaria, Domenico Tomat, di Venzone, assieme a Giulio Albini, originario della Val d’Ossola, boscaiolo e contrabbandiere, e ad un terzo personaggio, probabilmente un bellunese, che non è mai stato sinora identificato. I passaggi iniziano nel dicembre del 1942 e proseguono nell’inverno - primavera del 1943, su percorsi difficilissimi e coperti di neve e ghiaccio.
Tomat era reduce dalla guerra di Spagna, nel corso della quale era stato un abile e valoroso comandante del 1° battaglione della brigata Garibaldi (XII^ Internazionale) e temporaneamente della stessa brigata prima di restare ferito nel marzo 1938. Rientrato in Francia, avendo ottenuto la cittadinanza francese, evita i campi di concentramento ma viene arruolato nell’esercito francese e svolge il suo servizio proprio nella zona delle Alpi Marittime, sul confine con l’Italia, visitando ogni angolo di quelle montagne. In seguito aveva iniziato ad operare con la Resistenza francese a Marsiglia. Ma poi il partito lo aveva incaricato di riuscire ad aprire quella via clandestina con l’Italia che Clocchiatti aveva mancato. Per prima cosa Tomat organizza l’evasione dal campo di Gurs di Giulio Albini, che aveva conosciuto in Spagna, poi assieme iniziano ad esplorare la zona.
Su questa vicenda non si è scritto niente per diverso tempo, poi all’inizio degli anni Settanta è emerso senza grande rilievo dalle poche testimonianze di alcuni di coloro che erano passati in Italia attraverso quella via. E chi era passato era il vero gruppo dirigente del Partito Comunista italiano, da Antonio Roasio e Celeste Negarville a Giorgio Amendola, Agostino Novella, Felice Platone, Giuliano Pajetta, Anton Ukmar e molti altri. Compreso lo stesso Clocchiatti, che una volta in Italia andrà a fare il commissario della Divisione Nannetti tra Veneto e Friuli. (Vedi A. Clocchiatti, Cammina frut, Milano, Vangelista, 1972, pp. 162 - 164. G. Amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1973. A. Roasio, Figlio della classe operaia, Milano, Vangelista, 1977, pp. 188 - 192). A queste vicende ha dedicato un opuscolo nel 2004 il competentissimo compagno Giampaolo Giordana (La via del Clapier. Breve storia di un itinerario clandestino, Castellamonte, Edizioni Valados Lusitanos, 2004).
Il percorso aperto da Tomat ed Albini iniziava in territorio francese a Saint Martin Vésubie. Da qui chi doveva raggiungere l’Italia, in genere due persone, con documenti falsi forniti da un “tecnico” (probabilmente Domenico Manera, che aveva avuto dal partito quell’incarico) assieme a Tomat ed Albini e talvolta a guide francesi raggiungeva una casa contadina a Roquebillière, dove venivano approntati attrezzatura e rifornimenti. Poi la marcia proseguiva lungo le pendici del monte Clapier, massiccio di 3.000 metri di altitudine posto lungo la linea di confine, e proseguiva in territorio italiano con la discesa verso Palanfré terminando a Vernante, in provincia di Cuneo dove le persone “traghettate” venivano ospitate, a pagamento, in casa di una persona fidata, una “donna anziana, gentile, pratica di contrabbandieri” (Clocchiatti, p. 167) ed indirizzate alle loro destinazioni in Italia. La marcia poteva durare anche una settimana, se il tempo cambiava in peggio, su sentieri scoscesi e ghiacciati. Qui abili alpinisti come Tomat ed Albini conducevano politici che non avevano assolutamente esperienza di montagna, talvolta fisicamente deboli per il carcere, le privazioni, la guerra che avevano vissuto, oppure appesantiti e poco avvezzi alla fatica fisica, incoraggiandoli ma anche spingendoli in ogni modo ad andare avanti in caso di stanchezza o di crisi, salvandoli se si mettevano in difficoltà. Lungo il percorso vi erano alcuni rifugi di pastori abbandonati, casermette vuote, ed una casa, a Tetto Coletta, abitata da un’altra anziana e fidata montanara, della famiglia Rizzo, dove riposarsi e rifocillarsi; scatolame e gallette venivano nascoste in luoghi noti solo alle guide. La famiglia di Tetto Coletta non ha mai chiesto compenso per l’attività svolta. Il tutto sotto il naso della milizia confinaria fascista che non è mai riuscita a rendersi conto di quanto avveniva.
Quasi una “leggenda metropolitana” il racconto di quanti scivolavano pericolosamente sul ghiaccio verso un precipizio e venivano bloccati dalla picozza piantata da Tomat o Albini senza grossi scrupoli tra le gambe dei malcapitati cozzando dolorosamente sui genitali. Durissime erano state le osservazioni di Tomat contro il futuro deputato della Costituente e sindaco di Torino (Negarville), evidentemente affaticato e indebolito, che aveva bevuto in poco tempo la riserva di liquore destinata a tutto il gruppo. Lo stesso Negarville, dopo sei giorni di marcia, sfinito, aveva ordinato a Tomat di fermarsi, ma lui aveva risposto “Caro Negarville, tu sei responsabile del lavoro politico ma io sono responsabile di farti arrivare in Italia. Quindi sono io in questo caso che decido” (Roasio, p. 192). Le gerarchie di partito in quei momenti non avevano valore. Una volta in Italia, una parte dei “traghettati” attraverso il Clapier formerà il Centro Interno del PCI e darà un grande contributo alla Resistenza.
Tutti i viaggi condotti da Tomat ed Albini sono stati portati a termine senza incidenti, senza che la milizia fascista si accorgesse di niente, senza che alcuno dei “passeggeri” rimanesse infortunato o peggio. Alla fine del 1943 i due verranno spostati su ordine del partito in Svizzera, dalla Svizzera Tomat rientrerà in Italia andando a fare il partigiano in Valtellina. Clocchiatti ricorda un poco tristemente nella sua autobiografia che Tomat avrebbe potuto raccontare una serie di storie straordinarie in merito a queste vicende; storie che purtroppo oggi sono perse per sempre.
Marco Puppini, Espatri e rimpatri clandestini di antifascisti friulani negli anni del regime, Friuli Occidentale. La storia, le storie, 3 aprile 2020  

Tra i quattro friulani attivi nella Resistenza francese del sud-est appena citati, un rilievo particolare dev’essere dato ad Amerigo Clocchiatti, noto anche con i suoi numerosi pseudonimi di battaglia come «Grillo» o «Ugo», nato a Colugna in provincia di Udine. Lasciò l’Italia per la Francia nel 1930 per sfuggire ad una condanna del Tribunale speciale fascista. Dopo aver alternato negli anni Trenta soggiorni francesi a ritorni clandestini in Italia, inframmezzati da corsi seguiti alla scuola leninista di Mosca, lo troviamo nel 1941 e 1942 a Marsiglia, inviato dal Partito comunista italiano in supporto di Teresa Noce, «Estella», moglie di Luigi Longo, nella direzione delle attività degli FTP-MOI <14 per tutto il sud-est. A partire dalla metà del ’42 la sua principale preoccupazione sarà quella di trovare il modo di passare la frontiera tra Francia e Italia allo scopo di riprendere la propaganda comunista in Italia. Ci riuscirà dopo molti tentativi falliti solo alla fine del ’42, primo di tanti altri dirigenti comunisti presenti in Francia all’epoca: lo farà percorrendo una pista alpina estremamente pericolosa, situata a tremila metri d’altitudine, epico percorso da lui stesso narrato nella più fortunata delle sue autobiografie <15.
Una volta in Italia, dopo l’8 settembre divenne uno dei più prestigiosi comandanti partigiani, prima nel Veneto poi in Emilia. Alla fine del ’42 Clocchiatti riuscì, dopo molti tentativi infruttuosi, ad oltrepassare la frontiera con l’Italia, diventata sempre più invalicabile dopo l’occupazione italiana del sud-est, grazie all’aiuto e complicità dell’altro dei quattro friulani evocati sopra: Domenico Tomat. Questi fu una figura dal percorso al tempo stesso epico-leggendario e atipico. Quanto al primo aspetto, basti ricordare il suo arrivo precoce in Francia, negli anni Venti; i due anni di combattente volontario nella guerra civile spagnola durante la quale occupò posti di grande responsabilità e autorevolezza <16; l’attività di sostegno e assistenza agli ex-compagni combattenti di Spagna quando si trovavano nei campi d’internamento del sud della Francia, che Tomat aveva evitato perché ferito e rientrato in Francia prima della fine della guerra; le sue imprese al servizio della Resistenza francese tra il ’41 e il ’43 nella regione di Marsiglia, in riconoscimento delle quali ricevette in seguito una decorazione ufficiale della Repubblica francese; il ruolo decisivo di «traghettatore», nel senso letterale del termine ma a tremila metri di altitudine, di quasi tutto lo stato maggiore del Partito comunista italiano in esilio alla vigilia del 25 luglio 1943; le sue gesta, infine, di comandante partigiano in Italia negli ultimi mesi della guerra, al comando della brigata d’assalto «Valtellina».
Riguardo all’aspetto atipico, sul quale vorrei avere maggiori elementi d’informazione di quanti ne abbia, questo appare inusuale per la sua precocissima, e più unica che rara, acquisizione della cittadinanza francese fin dal 1927, due anni soltanto dopo l’inizio del suo esilio; oltra a tutto il suo percorso militante successivo che sembra fare a pugni con questa naturalizzazione francese, perché esclusivamente italiano, e che pare piuttosto predisporlo a una brillante carriera politica nel Partito comunista italiano, fino al giorno in cui, pochi mesi dopo la Liberazione, Tomat decise di tornare in Francia per non più allontanarsene fino alla sua morte, nel 1985.
Quanto agli altri due dirigenti degli FTP-MOI originari o del Friuli, come Antonio Zorzetto, o di Trieste, come Antonio Ukmar, essi presentano un profilo relativamente simile a quello di Amerigo Clocchiatti. Anche per essi, come per Clocchiatti, un soggiorno più o meno lungo a Mosca figura nel loro percorso, ma avevano anche fatto, al pari di Tomat, la guerra di Spagna. Antonio Ukmar <17 nel 1940 passò inoltre qualche mese in Etiopia a sostegno dei guerrilleros etiopi che si battevano contro l’occupazione italiana <18. Dopo il 1943 i loro percorsi, tuttavia, prendono strade diverse: mentre Zorzetto torna in Italia solo dopo il 1945, inserendosi nelle istanze locali friulane del Partito comunista italiano, Ukmar rientra in Italia, svolge un’importante attività di comandante partigiano in Liguria, per tornare poi nella sua regione d’origine, iscriversi al Partito comunista jugoslavo e finire i suoi giorni a Capodistria, in territorio attualmente sloveno <19.
14 Gli F.T.P., ovvero Francs Tireurs Partisans, erano un’organizzazione clandestina creata dal Partito comunista francese nel gennaio del 1942. Era un’organizzazione specializzata soprattutto in atti di sabotaggio e in attentati individuali o a ufficiali delle truppe di occupazione o a collaboratori e spie notorie. Gli immigrati erano di varie nazionalità, tra le quali, insieme agli ebrei di Europa orientale, soprattutto polacchi. Gli italiani erano fra i più numerosi, raggruppati in sezioni speciali che prendevano il nome di M.O.I., secondo un acronimo che era già esistito negli anni Venti e Trenta prendendo il posto dell’iniziale M.O.E. Quest’ultimo acronimo stava per Main-d’oeuvre étrangère e M.O.I. per Main-d’oeuvre immigrée e non, come si trova scritto in molte autobiografie militanti italiane e nel libro di Pia Carena Leonetti sopra citato Movimento operaio internazionale. I G.A.P. italiani successivi all’8 settembre 1943 erano a loro volta ispirati, per la loro organizzazione e per le loro modalità d’azione, a questo precedente francese. Non solo, ma alcuni eroi dei G.A.P. italiani, valga per tutti il nome di Giovanni Pesce «Visone», avevano alle spalle un’esperienza francese. Vedasi ora, su quest’ultimo punto, l’autorevole conferma del bel libro di S. Peli, Storie di Gap, Einaudi, Torino 2014, di cui ho potuto prendere visione solo quando il presente saggio era già stato ultimato.
15 A. Clocchiatti, Cammina frut, Vangelista, Milano 1972.
16 Cfr. M. Puppini, In Spagna per la libertà, cit., pp. 228-29; cfr. anche G. Calandrone, La Spagna brucia: cronache garibaldine, Editori Riuniti, Roma 1974 (2a ed.), pp. 280-81
17 Come Ilio Barontini, un altro dirigente degli FTP-MOI, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella resistenza marsigliese, («L’esperienza di lotta armata vissuta a Marsiglia fu molto importante per gli sviluppi futuri della guerra partigiana in Italia [...] quando si trattò di iniziare a Roma la lotta armata, io mi ricordai delle lezioni marsigliesi di Ilio e cercai di metterle a profitto [...] la bomba sul tram del Vieux Port fornì l’idea cui si ispirarono i gappisti che posero la bomba in via Rasella», avrebbe scritto anni dopo Giorgio Amendola nelle sue Lettere a Milano. Ricordi e documenti. 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, p.62), futuro sindaco comunista di Livorno nel dopoguerra.
18 Cfr. M. Puppini, In Spagna, cit., p. 236.
19 Ibid.

Antonio Bechelloni, Friulani e giuliani attivi nella Resistenza francese (1940-1944). Dal socialismo all’antifascismo, dall’antifascismo alla Resistenza: la coerenza di un percorso collettivo in (a cura di) Diego D’Amelio e Patrick Karlsen, «QUALESTORIA» - Rivista di storia contemporanea - 2. Collaborazionismi, guerre civili e resistenze, Anno XLIII, N.ro 2, Dicembre 2015, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia

mercoledì 23 marzo 2022

La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti


Alla metà del 1943 i militanti del PCd’I erano dunque in procinto di intraprendere il passaggio in Italia a lungo atteso. Il ritorno di molti dei comunisti italiani desiderosi di combattere il fascismo avvenne tramite un percorso sulle Alpi trovato da Amerigo Clocchiatti e Domenico Tomat, i primi ad averlo utilizzato nel ’42 per rientrare e prendere contatto con Massola. Le principali informazioni in proposito provengono dall’autobiografia di Clocchiatti, friulano cresciuto a poca distanza dal fronte della prima guerra mondiale, espatriato prima in Francia e poi in Belgio senza che il Cpc riuscisse a registrare i suoi spostamenti in maniera esaustiva. Tracciare un percorso sulle montagne evitando i controlli alla frontiera non fu un’impresa facile, e costò ai due incaricati, e alla guida Giulio Albini, faticose scalate tra rocce gelate. Si partiva da Saint-Martin-Vésubie e si saliva su per il monte Clapier, già oltre la frontiera, ma non si trovava un sentiero per scendere; alla fine Albini mise a punto il tragitto ripiegando attorno al monte e giungendo a Tetto Coletta, dove la casa di una contadina serviva da base di approdo per scendere a Vernante, da cui si prendeva il treno per Torino. Grazie a questo tragitto rientrarono Negarville e Roasio nel gennaio ’43 e Novella e Amendola in aprile, in questo modo “tutto il Centro estero [era stato] trasferito in Italia, per costituire nel paese un Centro interno di direzione politica e organizzativa”. Così, nell’ottica dei comunisti italiani, le peregrinazioni, la Spagna, gli arresti e la Resistenza francese furono importanti esperienze di vita e di lotta, trascorse però in attesa del ritorno e della guerra contro il fascismo, anelata e preparata per vent’anni tra le asprezze della vita quotidiana in terra straniera.
[...] I fuoriusciti rientrati costituirono la prima componente per la strutturazione della Resistenza italiana, nell’estate’ 43 in attesa di ricongiungersi con la seconda, gli esponenti del PCI incarcerati o confinati in Italia.
La terza componente furono invece le giovani generazioni che entrarono nel partito negli ultimi anni del fascismo o nelle prime fasi della Resistenza <1. I giovani avvicinatisi alle idee o ai gruppi comunisti che andavano creandosi in Italia già prima della caduta del fascismo provenivano da classi sociali differenti, ma avevano spesso alle spalle un clima antifascista. In particolare a Torino e Milano le fabbriche e i quartieri operai costituirono un fertile retroterra per la nuova generazione antifascista, dalla quale sarebbero emersi anche i principali gappisti. Non mancarono però fra i neocomunisti, e tra i terroristi urbani, giovani intellettuali o studenti. Ne sono un esempio il gruppo romano, in cui spiccano i nomi di Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice, Mario Licata e Pietro Ingrao, e i giovani antifascisti della Normale di Pisa, come Alessandro Natta e Mario Spinella; ma anche, Giovanni Giolitti, Matteo Sandretti, Ennio Carando e Ludovico Geymonat, che gravitavano a Torino attorno alla casa editrice Einaudi. Gli ultimi due insegnavano inoltre nello stesso liceo di Cesare Pavese, che conosceva Luigi Capriolo, membro del PCI, cui presentò il giovanissimo ufficiale Giaime Pintor. Alcuni di loro furono confinati negli ultimi anni trenta o all’inizio della guerra, e ricevettero a Ventotene l’educazione comunista. Le carceri e il confino furono infatti per i comunisti luoghi di studio e dibattito interno, in cui i nuovi antifascisti della fine degli anni ’30 vennero a contatto con i vecchi, personalità del calibro di Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e Gerolamo Li Causi.
A livello internazionale, la metà del ’43 fu la fase che decretò il trionfo dell’unità e dei fronti nazionali. A Casablanca Churchill, Roosevelt e Stalin avevano stabilito l’obiettivo della resa incondizionata per i nemici sconfitti e avevano concordato per giugno lo sbarco in Sicilia. Stalin teneva inoltre all’apertura del fronte decisivo in Francia e, a differenza degli altri due, era disposto a riconoscere il CFLN di De Gaulle e Giraud. In questo clima di grande alleanza, si colloca lo scioglimento del Komintern, deciso dal presidium il 15 maggio e reso pubblico il 22. La mossa serviva a ottenere la fiducia degli anglo-americani ma anche a garantire l’autonomia dei partiti comunisti nella conduzione delle guerre di liberazione nazionale in corso. Resta invariato anche con lo scioglimento dell’Internazionale comunista il fatto che “l’egemonia dell’Urss sul movimento comunista internazionale […] è indiscussa”; “la convinzione che Stalin resti il capo dei lavoratori, il capo del comunismo internazionale, si esprime in tutti i modi e i dirigenti dei massimi partiti comunisti […] sono quadri formatisi sotto la sua direzione e influenza diretta” <2. Il PCI si apprestava dunque ad avviare la guerra partigiana sulle basi unitarie già accettate a Tolosa nel ’41, e ribadite nel marzo ‘43 a Lione da Saragat, Lussu, Dozza e Amendola, poco prima del rientro di quest’ultimo in Italia. La necessità di ribadire l’unità era data non solo dall’avvicinarsi della guerra in Italia, ma anche dal bisogno di rinsaldare tale intento, messo in dubbio dal ritorno di Emilio Lussu. Egli era appena rientrato dagli Stati Uniti, dove gravitava attorno alla Mazzini Society, animata da fuoriusciti antifascisti, che attribuivano un ruolo preponderante agli anglo-americani nel rovesciamento del fascismo e non vedevano di buon occhio l’alleanza coi comunisti. Rientrato in Francia, aderì però alla linea di Tolosa secondo cui la liberazione nazionale sarebbe dovuta partire dall’interno, grazie alla collaborazione con socialisti e comunisti, di cui Trentin fu il più strenuo sostenitore tra le file di GL.
Il 3 marzo 1943 a Lione nacque dunque lo schieramento che avrebbe costituito la sinistra della Resistenza italiana e che si sarebbe congiunto con la destra nel corso dei 45 giorni. Il verbale ufficiale della riunione infatti, dopo aver ribadito gli obiettivi di Tolosa, rivolgeva a tutti gli italiani, “anche se non condividono integralmente il loro programma di ricostruzione del paese, un appello all’unione e all’azione per la pace, l’indipendenza e la libertà, e dichiara[va] che il presente accordo è aperto a tutti i partiti e movimenti che ne accettano lo spirito” <3.
La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti, soprattutto per la prudenza di Massola, ansioso di salvaguardare la cautela con cui aveva portato avanti il lavoro dal ’41. Nel settembre ’42 egli aveva ricevuto da Clocchiatti, appena rientrato, la prima lettera dal Centro Estero e si erano verificati dei contrasti a causa di iniziative propagandistiche di quest’ultimo, come il lancio di volantini, che Massola reputava premature. Ad ogni modo, nel giugno ’43 egli inviò un telegramma a Togliatti, tramite la Francia, aggiornandolo sui progressi degli ultimi mesi. Comunicava il proprio approdo in Italia nell’agosto ’41, l’arresto di Rigoletto Martini in Jugoslavia, la condanna a 24 anni di reclusione da parte del Tribunale Speciale e la sua successiva morte nel carcere di Civitavecchia nel giugno del ’42. Informava poi dell’avvio del lavoro di propaganda tramite la stampa clandestina, in particolare della comparsa dell’Unità, un numero al mese da giugno a novembre ’42 e due numeri al mese a partire dal dicembre ’42. L’approdo in Italia di Primo e Secondo, che dovrebbero essere Roasio e Novella, aveva inoltre permesso nel maggio la costituzione del Centro Interno, alla cui direzione partecipavano, oltre allo scrivente e ai due compagni citati, Roveda, Negarville, Amendola e Rina Piccolato <4. Nonostante per la formazione dei GAP bisogni ancora attendere l’autunno ’43, già nel maggio venne fatta consegnare ai dirigenti provinciali una circolare segretissima (da distruggere dopo la lettura), firmata dalla segreteria del PCI, che prescriveva:
“I patrioti italiani hanno il dovere di organizzarsi e rispondere. In questa lotta tutti i mezzi sono buoni, compresa la lotta armata. Alla violenza bisogna opporre la violenza, alle bande amate fasciste bisogna opporre i Gruppi d’azione dei patrioti, capaci di stroncare la violenza fascista colla lotta armata. […] L’esperienza internazionale della lotta armata contro l’oppressore tedesco e i traditori del proprio paese (la lotta dei patrioti jugoslavi, greci, francesi ecc) dimostra che la formazione e l’armamento di questi Gruppi di patrioti non può avvenire in modo spontaneo. Questa esperienza dimostra pure che la forza organizzatrice e dirigenti dei gruppi armati di patrioti, in tutti i paesi, è il Partito comunista.” <5
Roasio, autore per conto del partito, nella circolare spiega che doveva trattarsi di costituire “piccoli gruppi (GAP) nei primi tempi composti di soli compagni e portarli alla lotta armata, e poi, poco a poco, nella lotta allargare la loro cerchia, il loro numero, attirare i migliori e più combattivi elementi del popolo e riuscire così a organizzare un potente movimento armato di patrioti.” <6. Si prescriveva dunque ai dirigenti locali di incaricare un compagno di fiducia della formazione di questi gruppi di tre uomini, i cui membri dovevano essere scelti non “per spirito di disciplina, ma per la loro spontanea volontà” e dovevano interrompere qualsiasi legame o partecipazione alle attività di partito. Non è scritto nel documento, ma intuibile ed ammesso esplicitamente da Roasio, che la struttura dei Gap “rifletteva grossomodo quella dei FTP, di cui facevano già parte numerosi nostri compagni” <7. Nelle stesse settimane infatti quadri e militanti di base venivano richiamati dalla Francia e rientravano in Italia attraverso le Alpi o con documenti falsi; coloro che scelsero questa via avevano dunque conservato una polarità italiana, a maggior ragione coloro che avevano ormai una famiglia in Francia o vi tornarono dopo la guerra. Alcuni tra i più giovani invece, come abbiamo visto, avevano ereditato dalla famiglia italiana la tendenza politica, ma la propria esperienza personale li aveva condotti a riorientarla in senso francese.
Coloro che decisero di tornare, per combattere il fascismo in Italia, nell’estate 1943 erano nel pieno del lavoro necessario a riprendere contatto con la base di partito, i quadri prendevano appuntamento con vecchi comunisti e ne istruivano di nuovi, oltre ad allacciare i rapporti con le organizzazioni antifasciste di vari indirizzi. Le basi per il fronte nazionale all’interno furono però reputate ancora troppo fragili e nel pieno di tale riorganizzazione il Gran Consiglio del fascismo decretò la caduta di Mussolini. Il 26 luglio fu redatto il primo appello firmato dal Gruppo di ricostituzione liberale, il Partito democratico cristiano, il Partito comunista italiano, il Movimento per l’unità proletaria per la repubblica socialista, il Partito socialista italiano e il Partito d’azione. Quest’ultimo era stato fondato a Roma il 4 giugno 1942 e vi sarebbero confluiti i maggiori esponenti di Giustizia e Libertà. Si disponeva la nascita di un Comitato d’unità delle opposizioni antifasciste che richiedeva la liquidazione delle strutture del regime e la formazione di un governo che fosse espressione delle classi popolari.
Intanto, abolite le corporazioni, era in corso la ristrutturazione dei sindacati, di competenza di una commissione in cui furono nominati tra gli altri il socialista Bruno Buozzi e il comunista Giovanni Roveda. La nomina fu oggetto di critiche da Mosca, di un’intromissione del PCF e di un dibattito interno alla direzione neocostituita, che richiese una dichiarazione pubblica in cui Roveda chiarisse che l’accettazione di tale ruolo non significava sostegno politico al governo monarchico. Il nodo del contendere era costituito dal fatto che il nuovo governo moderato e la monarchia cercassero di limitare il ruolo delle masse nella transizione istituzionale post 25 luglio, dunque Roveda, in qualità di commissario sindacale, era accusato di collusione nel “soffocare il movimento di scioperi a Torino” <8. Lampredi fu inoltre latore di una lettera del PCF alla direzione italiana in cui si sosteneva che una subordinazione dei comunisti italiani al governo Badoglio avrebbe indebolito il movimento insurrezionale antinazista anche oltre i confini della penisola. Secondo il partito francese infatti, “gli alleati vedevano nel maresciallo una sorta di nuovo Darlan che operava in altre condizioni per soffocare il movimento popolare” <9. Il PCF aggiungeva poi che la questione “ci preoccupa particolarmente perché noi dobbiamo fare i conti anche in Francia con la possibile utilizzazione di nuovi Darlan e non ci sono altri modi di impedirlo che di sviluppare al massimo il movimento di massa”. Aldo Lampredi, in un biglietto del ’73 archiviato assieme alla corrispondenza non poté affermare con certezza che gli estratti delle lettere venissero effettivamente dalla Casa, “è scritto così. Però credo che debba ritenersi cosa vera perché come risulta dalla mia lettera prendo in seria considerazione il loro contenuto” <10.
Ad ogni modo, il 13 agosto i commissari della federazione sindacale chiarirono che la loro funzione aveva “uno stretto carattere sindacale, che non implica nessuna corresponsabilità politica”11. Si apriva già a questo punto il dilemma della posizione da tenere in relazione a Badoglio, in qualità di capo del governo riconosciuto dagli Alleati, che si sarebbe risolta solo al ritorno di Togliatti. Per il momento le forze antifasciste italiane decisero di adottare la linea della pressione sul governo per la pace separata, senza scatenare un movimento preinsurrezzionale, per il quale reputarono di non essere pronte. Alla metà di agosto una delle principali rivendicazioni degli antifascisti nei confronti di Badoglio riguardava la liberazione di carcerati e confinati. Il 31 luglio si era infatti costituito un comitato direttivo dei confinati a Ventotene che chiedeva la liberazione immediata e il ripristino dei collegamenti con la terraferma.
La questione si risolse quando, ai primi di agosto, Buozzi, Roveda e Grandi si recarono da Badoglio, minacciando un appello allo sciopero generale se non avesse emesso gli ordini di scarcerazione; “contro la minaccia dello sciopero generale il Maresciallo si scagliò violentemente ma dopo tre ore di discussione finì per cedere” <12.
Così tra il 19 e il 23 agosto detenuti e confinati furono liberati, restarono in carcere solo Emilio Sereni e Italo Nicoletto, consegnati all’Italia il 24 luglio e condannati dal Tribunale speciale rispettivamente a 18 e 10 anni. Sarebbero evasi dalle carceri Nuove di Torino l'8 agosto 1944.
Dunque alla fine di agosto, mentre erano in corso le trattative per l’armistizio, i bombardamenti sulle città italiane e una serie di scioperi contro la guerra, il PCd’I poteva compiere la saldatura tra le due proprie componenti storiche, i rientrati dall’esilio e i liberati dal confino. Il 29 agosto si tenne a Roma la riunione che costituì la direzione di partito, nelle persone di Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi, Roasio, Massola, Roveda, Novella, Negarville e Amendola. A Roma restarono Scoccimarro, Novella, Amendola, Roveda, Negarville e Longo, che premerà però per raggiungere Secchia, Massola, Roasio e Li Causi a Milano, da dove in caso di occupazione sarebbe stata diretta la lotta armata.
Il giorno successivo infatti Longo stilava un “promemoria sulla necessità urgente di organizzare la difesa nazionale contro l’occupazione e la minaccia di colpi di mano da parte dei tedeschi” <13. Il giorno stesso il PSI e il Pd’A accoglievano la mozione, dando vita a un comando militare tripartito composto da Luigi Longo, Sandro Pertini e Bruno Bauer. Il Comitato Centrale stilò inoltre il 2 settembre un appello alla difesa nazionale che concludeva:
“L’Italia deve, in un virile proposito di resistenza e di lotta, ritrovare la sua unità morale spezzata dal fascismo, e conquistarsi, attraverso la sua riscossa nazionale, il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni per collaborare con esse al riassetto dell’Europa e del mondo” <14.
La formula venne ripresa pressoché identica nella deliberazione del Comitato delle opposizioni, che il 9 settembre si costituiva in Comitato di liberazione nazionale:
“Nel momento in cui il nazismo tenta di istaurare a Roma ed in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza, e per conquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni” <15.
[NOTE]
1 P. Spriano, “Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin e la guerra”, op.cit. pag. 338.
2 P. Spriano, “La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata”, op.cit., pag. 206
3 Fondazione Gramsci, APC, marzo 1943, “Unità d’azione per la pace e la libertà”, dichiarazione congiunta Pci, Psiup, Gl, marzo 1943
4 Fondazione Gramsci, APC, settembre 1943, relazione in francese indirizzata a Togliatti relativa alla formazione di un fronte nazionale antifascista in Italia e informazioni riguardo ad alcuni dirigenti del Pci a firma Quinto
5 Fondazione Gramsci, APC, maggio 1943, Circolare riservata della Segreteria del partito comunista italiano riguardo alla necessità di istituire Gruppi d’azione dei patrioti.
6 Ibidem.
7 Antonio Roasio, “Figlio della classe operaia”, Vangelista editore, Milano 1977, pag.206.
8 Fondazione Gramsci, APC, Estratto di una lettera da Mosca, 6/9/1943. 9 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, lettera del PCF alla direzione del Pci in merito alle polemiche tra i due partiti, 23 sett.1943.
10 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, 1 sett.1973.
11 Il comunismo italiano durante la seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 192.
12 Giovanni Roveda, “Precisazioni”, in Rinascita a. IX, n 7-8, luglio-agosto 1952, pag.441.
13 Testo completo in Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 194-195
14 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 197.
15 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag.198.
Elisa Pareo, "Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019