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venerdì 30 dicembre 2022

Nei confronti dell'Italia il polo di rigidità era in Washington, piuttosto che Londra


Il 26 settembre 1944, a margine della seconda conferenza di Quebec, i leader anglo-americani concordavano una dichiarazione programmatica che prometteva l’avvio di una nuova fase nelle relazioni tra gli Alleati e l’Italia, in conseguenza delle dimostrazioni di parziale affidabilità offerte da quest’ultima dopo aver combattuto al fianco delle forze antifasciste e partecipato attivamente alla rinascita di una parvenza di sistema democratico rappresentata dal governo di coalizione insediatosi in giugno nella capitale liberata <603. Le potenze occupanti, dunque, stabilivano che una «increasing measure of control will be gradually handed over to the Italian administration» mediante il ripristino di normali relazioni diplomatiche e un progressivo ridimensionamento delle funzioni e delle ingerenze dell’ACC nella vita istituzionale italiana, simboleggiato dalla nuova denominazione di Allied Commission (AC) <604.
L’impressione che una maggiore attenzione all’elemento liberale della politica alleata per l’Italia provenisse dal versante americano dell’alleanza era diffusa tra i contemporanei e confermata in sede storiografica. Nella versione tradizionale, il cambio direzionale operato dagli anglo-americani nella penisola era da ascriversi interamente o quasi all’atteggiamento progressista e amichevole manifestatosi tra le fila americane con maggiore evidenza sin dal gennaio 1944 quando, come si è raccontato nel capitolo precedente, la politica di non intervento preferita dagli statunitensi prendeva la forma di una agevolazione della formazione di un gabinetto marcatamente antifascista e dell’estromissione della figura del monarca dalla scena pubblica italiana. La storiografia, fosse questa di matrice britannica, americana o italiana, ha sottolineato quanto americani e inglesi avessero affrontato la sconfitta dell’Italia e le responsabilità che ne erano seguite con prospettive alquanto differenti, tratteggiando una contrapposizione di fondo tra una Washington interessata alla ricostruzione democratica dell’Italia e una Londra dedita alla conservazione dei propri interessi regionali, per la quale un’Italia debole risultava un fattore indispensabile. Se per gli americani la concentrazione militare nella penisola era stata prevalentemente una tappa nella guerra contro la Germania, «a defeat administered more in sorrow that in anger», per gli inglesi l’eliminazione del nemico mediterraneo, cercata con una determinazione vicina all’ossessione per l’intera durata del conflitto anglo-italiano, costituiva un traguardo a conclusione di un lungo periodo di confusione politica e ansie strategiche, «the elimination of a local rival who had come dangerously close to making good his boasts» <605. Uno tra i maggiori storici dell’occupazione, David Ellwood, sosteneva che il rifiuto britannico di prendere atto del drastico mutamento nella reale consistenza della minaccia rappresentata dagli italiani nel Mediterraneo ora che lo status di potenza era stato annientato da una doppia occupazione aveva portato Londra all’incapacità di definire «in any precise, non-arbitrary way a positive role for Italy in a post-war international system» <606. Secondo Varsori, il fallimento della linea conciliatoria britannica era dovuto alla constatazione della relativa inutilità dell’apporto fornito dalla macchina amministrativa e militare brindisina allo sforzo alleato, che aveva fatto svanire la disponibilità londinese a compiere concessioni modulate sul principio del “payment by results”. Nella delusione provocata dallo scontro dei progetti britannici con la sconfortante realtà del governo provvisorio in fuga da Roma, «i motivi, già emersi in precedenza, che giustificavano un atteggiamento duro verso l’Italia, ripresero il sopravvento» <607.
La differenza sostanziale, insomma, stava nell’importanza che si dava, nelle due capitali alleate, alla lettera dell’armistizio e alle azioni compiute dal governo italiano nelle fasi successive al cambio di campo. Gli inglesi, in una accurata descrizione del loro stato d’animo tracciata dal Dipartimento di Stato, consideravano quella italiana una nazione sconfitta che si era arresa senza condizioni, facendovi riferimento come ad un nemico e insistendo su una rigida applicazione dello strumento di resa, mentre dall’altra parte dell’Atlantico si era preso con serietà lo status della cobelligeranza, traendo le conseguenze dovute dalla cessazione de facto dello stato di guerra tra i due paesi <608. Al forte supporto fornito dagli americani al recupero dell’Italia, rifletteva Gat, faceva da contrappeso la rigidità britannica che, volendo mostrare al mondo che una politica di aggressione non avrebbe pagato, «was not willing to forget Italy’s deeds during three years of war» <609. L’approccio americano, in sostanza, come evidenziano le conclusioni cui giunge lo storico Buchanan, sembrava offrire un’alternativa allo spirito punitivo patrocinato dagli inglesi: «America’s paternalistic intervention in Italian politics had a fundamentally redemptive rather than punitive thrust»; laddove Londra minacciava, Washington offriva speranza <610.
La percezione condivisa da protagonisti e storici aveva raggiunto anche gli ambienti italiani, dove si credeva che gli inglesi, in particolar modo il Foreign Office di Eden, «tenderebbero a mantenere un’Italia debole, che non pensi e non possa dar ulteriori fastidi nel Mediterraneo», mentre gli americani sarebbero invece convinti «della necessità di un’Italia forte che possa riprendere in Europa la sua missione di civiltà e dunque il suo posto, che non può in nessun caso che essere quello di una potenza dirigente»611. Da parte italiana si tendeva a denunciare lo spostamento semantico operato da Churchill, sempre più portato ad addossare alla popolazione italiana la colpa delle condizioni drammatiche nelle quali questa si trovava a vivere, quando invece, in diverse occasioni precedenti, aveva enfatizzato come la responsabilità della guerra italiana fosse da attribuire esclusivamente alle azioni di Mussolini <612.
In sede di analisi conclusiva si possono discutere le possibili accezioni e sfaccettature che la mitezza attribuita alla politica sviluppata in Italia dagli americani a partire dal 1944 poteva assumere, ma l’insistenza sulla natura diretta del controllo da imporre nei territori occupati e il netto rifiuto di una collaborazione con le autorità italiane nella gestione dell’amministrazione che avevano caratterizzato la posizione americana nel periodo precedente al luglio 1943 erano segnali inconfondibili a dimostrazione di un’alleanza che aveva, quantomeno nelle sue fasi iniziali, il suo polo di rigidità in Washington, piuttosto che Londra. Il fatto che a partire dai primi mesi del 1944 le posizioni si fossero soltanto in parte invertite non giustifica la convinzione, piuttosto diffusa, come si accennava, che ad un atteggiamento morbido scelto dagli americani se ne contrapponesse uno duro da parte degli inglesi. La critica alla condotta britannica nel trattamento riservato all’Italia occupata faceva il paio con quella riguardante la strategia mediterranea tradizionalmente articolata in modo esclusivo e autonomo dagli inglesi che tendeva ad escludere dal ragionamento l’attiva collaborazione americana alla definizione di un progetto a lungo termine, anch’essa determinata da interessi e considerazioni strategiche che, seppur diversi da quelli inglesi, rispondevano comunque ad esigenze di carattere nazionale <613. La strategia alleata per l’Europa occupata non era certamente frutto di una elaborazione solitaria compiuta da Londra: Washington aveva iniziato a contribuire ben prima del 1944, riuscendo in più occasioni ad intervenire con l’intento di arginare l’incontinenza strategica mostrata dagli alleati. Con lo sguardo volto agli sviluppi futuri, le posizioni erano destinate a ribaltarsi ancora una volta: gli inglesi mostravano sì un intento punitivo nei confronti dell’Italia, una necessità geopolitica di neutralizzare il pericolo italiano nel Mediterraneo britannico, ma, almeno a detta degli stessi protagonisti della politica londinese in diverse occasioni, l’Italia non rientrava nei piani postbellici inglesi né era considerata una pedina fondamentale nella scacchiera strategica britannica <614. Londra aveva convinto l’alleato d’oltreoceano a partecipare attivamente alla gestione del Mediterraneo e aveva incentivato lo sviluppo di una presenza militare ed economica americana in Italia; l’emergere di particolari interessi nella regione aveva definitivamente legato Washington all’Italia e coinvolto gli americani nella conduzione degli affari locali.
Che il governo inglese avesse mantenuto una posizione a tratti ostile nei confronti del nemico finalmente sconfitto e riportato alla sua condizione di potenza minore è fuor di dubbio. Tra l’aprile e il maggio 1944, quando nelle capitali alleate si discuteva della richiesta riguardante la revisione dello status italiano avanzata da Badoglio, la politica londinese si opponeva con fermezza all’innalzamento della cobelligeranza in alleanza, mostrando scarso interesse ad incoraggiare «too rapidly a marked tendency in her part to forget altogether her position as a defeated enemy or to claim privileges of an ally at the expense of an armistice». Nella visione inglese, quanto più abbondanti le concessioni fatte nel momento di minore capacità italiana, tanto più difficile sarebbe stato imporre le sanzioni desiderate una volta liberata la penisola dalla presenza tedesca <615. Il Foreign Office in particolare non era pronto a intaccare le fondamenta delle relazioni intrattenute con gli italiani e metteva in guardia il War Cabinet dal rischio di essere indotti a fare sempre nuove concessioni dietro la minaccia di una caduta del governo qualora queste non fossero state soddisfatte. Accanto ad un incontrovertibile elemento di verità, secondo l’interpretazione che se ne dava a Londra, nelle lamentele italiane si trovava anche «an unpleasant flavor of blackmail». La linea da adottare, dunque, doveva consistere in un netto rifiuto «even to consider the question of giving Italy Allied status during the war», e subordinare il miglioramento delle condizioni armistiziali al soddisfacimento delle richieste alleate <616. Gli italiani, d’altra parte, secondo la visione condivisa da larghe parti dello schieramento britannico, dovevano considerarsi fortunati ad aver ricevuto la grazia di una permanenza in posizioni di responsabilità governative e amministrative e Londra «shall be very lucky if we never have anything worse than the present Italian government to deal with» <617.
A seguito del rovesciamento di Badoglio in giugno, il fastidio per le macchinazioni degli italiani portava a rigurgiti di quel risentimento che aveva contraddistinto alcune delle reazioni britanniche all’ingresso in guerra dell’Italia. Riflettendo sulla ambigua realtà della resa incondizionata nella sua applicazione al caso italiano, Churchill si chiedeva «whether it was they who had unconditionally surrendered to us or whether we were about unconditionally to surrender to them», richiamando il trattamento di favore riservato agli italiani e il mancato intervento alleato nelle evoluzioni del quadro politico del paese occupato <618. In aggiunta, gli eventi del marzo, con l’avvicinamento sovietico al governo italiano, determinavano un duplice effetto che, spinto dalla paura per la perdita della posizione di predominio nella regione, istigava da una parte una politica di concessioni che motivasse l’Italia a rimanere nella sfera d’influenza anglo-americana, e dall’altra restringesse ulteriormente la morsa del controllo alleato per evitare che si lasciasse libero il governo italiano di passare volontariamente sotto la protezione dell’alleato/nemico sovietico. Pur riconoscendo l’importanza in prospettiva futura di avere un’Italia con la quale poter collaborare in armonia per il mantenimento di un Mediterraneo prospero e pacifico, il Foreign Office era convinto della necessità imperativa di rifiutare «the Italian threat that if we do not go fast enough in transforming Italy from a defeated enemy into a new-made ally, she will at once go Communist and throw herself into the arms of the Soviet government» <619. In considerazione del turbolento passato recente condiviso con l’Italia, gli inglesi intendevano combinare i piani strategico e geopolitico in una politica che impedisse la ricostituzione di una Italia «with an exaggerated sense of her own strength, for that leads to trouble» <620, sviluppando una strategia che indebolisse il paese «so as to deprive her of the capacity for future aggression, while leaving her sufficient power to check the spread of communism» <621.
La situazione sembrava abbastanza chiara. Gli inglesi intendevano tenere a bada le aspirazioni italiane intervenendo con una politica repressiva che rendesse improbabile, se non impossibile, una riemersione dell’imperialismo mediterraneo fascista. Qualche dubbio sulla monoliticità del giudizio generalmente espresso, tuttavia, rimane. L’ostilità manifestata da Londra in diverse occasioni e in particolare nel periodo successivo alla perdita del punto di riferimento rappresentato da Badoglio era essa stessa espressione di valutazioni non unanimemente condivise da tutti gli agenti politici e militari britannici, o comunque figlia di un lungo periodo di inimicizia avviato da una decisione unilaterale italiana che, come si è visto, gli inglesi avevano tentato in ogni modo di scongiurare. Accanto alla fazione capeggiata da Eden, tendenzialmente contraria al riconoscimento di privilegi e scorciatoie agli italiani, ancora ritenuti nemici tout court, nella politica britannica per l’Italia vi era una seconda anima, moderata e pragmatica, che, prendendo atto della precaria posizione inglese nella regione e dell’effettivo rischio di perdere il controllo della situazione italiana in mancanza di gesti concreti in aiuto della popolazione e delle forze liberali, guidava Londra in direzione di un controllo meno duro, partecipando in maniera decisiva alla costruzione di una politica che, nel giro di pochi mesi, si sarebbe rivelata vincente, culminando nell’enunciazione di una nuova direzione alleata in Italia.
I primi segnali di ammorbidimento venivano inviati da Londra già in occasione della pianificazione per la commissione di controllo nelle settimane immediatamente successive all’imposizione dei termini di resa. Con gli sviluppi post-armistiziali, la concezione britannica del controllo sul governo italiano cambiava radicalmente, in considerazione del fatto che l’Italia non aveva passivamente accettato la capitolazione, ma si era offerta di cambiare campo. Il 7 settembre, ancor prima dell’annuncio ufficiale, Churchill mostrava un atteggiamento assai più accomodante di quanto fatto in precedenza riflettendo sul fatto che le guerre non si vincessero «in order simply to pay off old scores but rather to make beneficial arrangements for the future» <622. Un mese più tardi, il Foreign Office, proponendo una mitigazione delle clausole armistiziali sulla base dei servizi resi dagli italiani nella lotta contro il nemico comune, riteneva la rigida struttura della commissione di controllo inadeguata alle esigenze di promozione di una massima collaborazione con gli italiani, anche nel contesto dell’occupazione militare <623.
Il terreno di coltura di questa nuova politica consisteva, oltre che delle considerazioni strategiche tornate all’attenzione dei leader britannici con la penetrazione sovietica e il sorpasso subito dagli americani in Italia, delle precarie condizioni in cui il governo italiano si trovava ad operare e la popolazione civile a vivere. Una serie di rapporti provenienti dai territori occupati ricordavano ai policy-maker britannici che la situazione istituzionale dell’Italia alleata era ancora tutt’altro che stabile. Nonostante la mancata esecuzione di diverse clausole e il processo di costante rafforzamento della macchina amministrativa italiana, ragionava il Foreign Office, «the Italian government are still not masters in their own house» ed era in ultima istanza costretto ad uniformarsi agli ordini esecutivi del Comandante Supremo, oltreché a dovere la propria sopravvivenza economica alla carità dei governi anglo-americani <624. Lo scontento italiano derivava anche e soprattutto, stando all’analisi di Caccia da Brindisi, dal visibile distacco creatosi tra la propaganda effettuata dagli Alleati in Italia nel periodo pre-armistiziale, con la promessa di un trattamento giusto ed equo, e il trattamento imposto dopo l’8 settembre, segnato da un atteggiamento scarsamente conciliante nei confronti delle richieste e delle esigenze italiane <625. In gennaio, Macmillan denunciava un certo dualismo nella politica adottata dagli inglesi verso il governo italiano che rendeva difficili consistenti progressi e invitava di conseguenza Londra a svolgere un ruolo costruttivo che evitasse di affiancare al rafforzamento di Badoglio e del suo governo la tendenza «to deal him fresh blows», sperando che la ricezione della nuova entità governativa italiana presso le opinioni pubbliche e i governi alleati fosse determinata dall’osservazione della sua performance presente tanto quanto dal ricordo dei suoi misfatti passati. Ricorrendo ad una analogia religiosa, il Resmin, pur valorizzando la funzione di confessione e penitenza nella conversione di un peccatore, riteneva sbagliato «to refuse absolution altogether, however tactfully» e, riferendosi al rifiuto opposto dal Foreign Office all’inclusione dell’Italia nella Carta Atlantica, commentava che se Paolo di Tarso avesse adottato un atteggiamento analogo nei confronti dei gentili, «Christianity would have remained a small Jewish sect» <626. Le contraddizioni presenti nella produzione politica britannica nel contesto dell’occupazione italiana erano inconciliabili con gli obiettivi che questa stessa politica si prefiggeva: talvolta si consideravano gli italiani nemici, talaltre cobelligeranti; «sometimes we wish to punish them for their sins; sometimes to appear as rescuers and guardian angels. It beats me» <627.
Il riconoscimento dei limiti della politica restrittiva britannica, considerata parzialmente responsabile degli aspetti più negativi della situazione italiana, generava una istanza di rinnovamento che veniva portata avanti dai tre uomini inviati da Londra ad operare a stretto contatto con gli italiani, Caccia, Macmillan e, ad uno stadio più avanzato delle relazioni, Charles. La prima concreta proposta di allentamento dei legacci armistiziali giungeva nel marzo 1944 sotto forma di una lunga riflessione sulle complicazioni imposte dall’esistenza di un doppio armistizio in Italia sviluppata da Caccia con la collaborazione del collega americano Reber. Le difficoltà esperite dal governo italiano erano da imputare in gran parte al fatto che i termini di resa erano stati preparati con tanto anticipo «that it bore little relation to the conditions of the Italian capitulation and Allied requirements thereafter». La reale applicazione delle clausole si limitava infatti ad una serie di articoli, approssimativamente la metà di quelli previsti dai long terms, che erano eseguiti al massimo delle potenzialità governative, che in quei mesi equivaleva ad un rinvio della piena esecuzione alla fine della guerra, quando l’intero territorio italiano sarebbe stato sottoposto al controllo dell’amministrazione italiana. La mancanza di una politica costruttiva che prevedesse quantomeno l’abolizione delle clausole in disuso, non rispondenti alla realtà militare e istituzionale dell’Italia occupata, era da considerarsi alla radice dell’iniziativa sovietica e soprattutto della felice ricezione di questa nel campo italiano. Come sottolineato dai due emissari anglo-americani, «if by accident or fortuitous circumstances our treatment of a conquered people grows severer, the result is the same as if this had been a considered policy» <628.
[NOTE]
603 La Second Quebec Conference aveva luogo, con il nome in codice Octagon, tra il 12 e il 16 settembre 1944 nella città di Quebec.
604 Il testo integrale della dichiarazione in FRUS, Conference at Quebec, 1944, Washington D.C., U.S. Government Printing Office, 1944, p. 494. L’assunzione della carica di ambasciatore da parte di Charles, già Alto Commissario britannico in Italia, sarà annunciata a Bonomi il 10 ottobre, mentre il rappresentante americano a Roma, Alexander Kirk, ne portava già il titolo; il governo italiano era contestualmente invitato a nominare propri rappresentanti presso le capitali alleate. Pur non essendo ancora possibile la ripresa delle normali relazioni diplomatiche tra i due paesi, veniva stabilito un contatto diretto con il governo italiano per le questioni riguardanti interessi politici tra Italia e Gran Bretagna, cfr. Charles a Bonomi, MAE, SG, vol. XXII.
605 Cit. Reitzel, The Mediterranean, p. 26.
606 Ellwood, Italy, 1943-45, cit., pp. 100-1.
607 Varsori, L’atteggiamento britannico verso l’Italia, cit., p. 156.
608 La posizione americana nel telegramma di Dunn a Offie, Office of US Political Adviser, del 14 febbraio 1945, riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, p. 31.
609 Gat, Britain and Italy, 1943-49, cit., p. 89.
610 Cfr. Buchanan, “Good morning, Pupil!”, cit., p. 240.
611 Cit. l’appunto di Prunas del 29 settembre 1944 su un colloquio avuto con Kirk, in cui si riportava la convinzione di Kirk che durante le conversazioni di Quebec fossero affiorati in tutta la loro evidenza due atteggiamenti radicalmente diversi tra i due alleati circa l’Italia, MAE, AP, Stati Uniti, b. 89.
612 Il 6 settembre 1944, il quotidiano della comunità italiana negli Stati Uniti, Il Progresso Italo-Americano, pubblicava un editoriale dal titolo Italy and Churchill nel quale si denunciava l’inconsistenza della politica del Primo Ministro nei confronti dell’Italia. Nel saluto trasmesso agli italiani alla partenza dal suo viaggio nella penisola, Churchill aveva ricordato come gli italiani non potessero ritenersi immuni da biasimo per essersi lasciati governare per un ventennio dal regime fascista. Secondo il giornale, tuttavia, questa era una conclusione radicalmente diversa da quella presentata da Churchill nel messaggio del 23 dicembre 1940, quando si era proceduto a scindere il giudizio del popolo italiano dalle colpe del Duce. PREM 3/243/15. Altri riferimenti ad una politica britannica tendente a separare i mali del regime dalla popolazione italiana si trovano nei documenti riguardanti la definizione della propaganda politica da adottare in Italia prima dell’invasione, FO 898/163.
613 Per citare Leighton, lo stereotipo consolidato che voleva gli inglesi intenti a manovrare dietro le quinte per indebolire Overlord al fine di dare precedenza alle operazioni mediterranee per poi essere costretti, soltanto in extremis, ad allinearsi controvoglia alla posizione americana non era coerente con le indicazioni della documentazione anglo-americana, Leighton, Overlord Revisited, cit., p. 922.
614 In un discorso ai Comuni del 18 gennaio 1945, Churchill dichiarava che per il governo britannico non vi erano «political combinations in Europe or elsewhere in which we need Italy as a party», MAE, ADG, b. 48.
615 Si vedano il memorandum del Foreign Office del 20 aprile 1944, poi trasmesso a Washington il 24, FO 115/3604; e il telegramma di Churchill a Eden del 26 aprile, in cui si definiva un errore la prematura liberazione del governo italiano dai vincoli armistiziali, CAB 120/584.
616 Cit. la nota di Sargent dell’11 maggio, FO 371/43911. Sulla questione del rancore nutrito da Eden nei confronti dell’Italia, significativa la riflessione di Ellwood, secondo il quale il ministro inglese, «who apparently had not yet heard that Mussolini is dead and is no longer running Italy», era considerato dagli stessi suoi subordinati all’interno del ministero «most unreasonable on subject of Italy and indeed almost psychopathic», Ellwood, Italy, 1943-45, p. 208.
617 Cit. il messaggio di Churchill a Eden del 26 maggio 1944, CAB 120/584.
618 Il commento di Churchill è ripreso dal discorso del gennaio 1945 già citato.
619 Cit. il telegramma di Eden a Charles del 14 agosto 1944, FO 954. Cfr. anche quello di Churchill a Macmillan del giorno precedente, in cui si leggevano le perplessità del Primo Ministro circa la concessione intempestiva all’Italia di uno status che avrebbe affrancato le relazioni anglo-italiane dalle costrizioni dell’armistizio, CAB 120/584.
620 Cit. il Memo on British Long Term Interests in Italy preparato da Caccia e inviato il 26 ottobre 1944 da Charles al Foreign Office, FO 371/43915.
621 Gat, op. cit., p. 89.
622 La citazione nella lettera di Churchill a Eden e ai COS del 7 settembre 1943, PREM 3/245/7.
623 Cfr. la nota FO del 4 ottobre 1943, Relations with the Italian Government and Control Commission in Italy, FO 371/37310. Con questo suggerimento Whitehall non rinunciava alla creazione dell’ACC, ritenuta comunque necessaria alla supervisione del governo italiano, ma intendeva limitare l’insistenza su alcune clausole dell’armistizio che, nelle circostanze di quel periodo, risultavano inapplicabili (l’esempio evidenziato riguarda quella sul disarmo italiano mentre si tentava di formare divisioni italiane per combattere i tedeschi al fianco delle forze alleate).
624 Si veda la nota FO (Williams) del 21 novembre 1944, British Policy Towards Italy, FO 371/43916.
625 Cfr. il rapporto di Caccia al Foreign Office del 27 dicembre 1943, FO 371/43909.
626 24 gennaio 1944, Macmillan a Eden, PREM 3/243/8.
627 Il telegramma di Macmillan a Eden del 10 settembre 1944 è riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, cit., p. 105.
628 Cfr. il memorandum inviato a Londra e Washington il 31 marzo 1944, in ACC, b. 959. Secondo Caccia e Reber, gli articoli 16, 25, 28, 29, 30, 33 e 34 dei long terms non erano mai stati eseguiti o in modo soltanto parziale; gli articoli 1-27 (con l’eccezione del 16) erano stati o continuavano ad essere eseguiti dal governo al massimo delle sue potenzialità, il che però significava che non sarebbero stati pienamente eseguiti fino a quando il governo italiano non avrebbe governato l’intero paese.
Marco Maria Aterrano, “The Garden Path”. Il dibattito interalleato e l’evoluzione della politica anglo-americana per l’Italia dalla strategia militare al controllo istituzionale, 1939-1945, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, Anno Accademico 2012-2013

martedì 13 settembre 2022

Si giunse così a dare nuovo impulso alla persecuzione dei criminali fascisti grazie all’istituzione delle Corti di assise straordinarie, le Cas



Con il 25 luglio del 1943, in Italia, si apre una nuova fase politica dopo un ventennio di dittatura. Il Gran Consiglio del Fascismo, in una seduta estremamente tesa, sfiducia a maggioranza il Duce, Benito Mussolini. Hans Woeller, bene racconta il clima di quei momenti <3, quando alle 22:45 di sera, ora in cui viene ufficializzata pubblicamente la sfiducia a Mussolini, scoppia un vero e proprio “terremoto”: la gente per le strade è festante e aggredisce i simboli tangibili del regime (i monumenti e altri manufatti), anche se in alcune città, come a Milano, si procede all’aggressione caotica ai rappresentanti del regime che arrivano sotto tiro. Mussolini si presenta dal re per rassegnare nelle sue mani, come dal vigente Statuto Albertino, le proprie dimissioni e da questi viene fatto arrestare. Il Generale Badoglio è il nuovo Primo Ministro che già il 27 luglio decreta lo scioglimento del partito fascista e la soppressione del Gran Consiglio del Fascismo. Ma di perseguitare gli ex fascisti ancora non se ne parla. In realtà, l’obiettivo principale di Badoglio è di uscire da una guerra tanto rovinosa quanto violenta a fianco degli alleati tedeschi senza preoccuparsi eccessivamente delle epurazioni, anche se qualcosa venne fatto, come l’arresto avvenuto a fine agosto 1943 di alcuni esponenti di spicco del partito fascista al fine di evitare un complotto antigovernativo; ma questa è un’altra cosa rispetto all’epurazione per aver commesso crimini fascisti o per aver collaborato con essi. I primi veri interventi sono svolti in Sicilia dall’Amgot (Allied Military Government of Occupaid Territory) che altro non è che un organismo amministrativo espressione del governo alleato che intanto si estende alla Sicilia e che, nelle intenzioni di Churchill, avrebbe dovuto fare piazza pulita del regime mussoliniano e dell’alleanza dell’Asse, ma seppur occupandosi dell’epurazione non era assolutamente diretto a licenziamenti indiscriminati e di massa. Per gli alleati, insomma, era necessario cacciare i responsabili della grave situazione italiana e tutto si sarebbe ricomposto.
Il Governo Militare Alleato procedette così allo scioglimento del PNF e dei sindacati ad esso collegati, proibendo qualsiasi forma di manifestazione di natura fascista; parallelamente si procedette all’arresto dei fascisti considerati pericolosi. Si proseguì poi, non senza difficoltà, alla sostituzione di amministratori e funzionari collusi con il vecchio regime.
L’8 settembre del 1943 veniva firmato l’armistizio tra il governo italiano, rappresentato da Badoglio, e gli alleati anglo-americani. I tedeschi invadono Roma e il re scappa a Brindisi, creando le premesse di quello che sarà il Regno del Sud. Mussolini, il 12 settembre, viene liberato dai tedeschi presso il Gran Sasso, dove era detenuto, e di lì a poco darà vita nel nord Italia alla Repubblica Sociale Italiana che durerà fino all’aprile del 1945 e farà “epurazione” a modo suo, quando, a ottobre del 1943, creerà un Tribunale Speciale Straordinario per punire con pene capitali chi aveva votato contro il dittatore nella seduta del 25 luglio (vittime illustri saranno il generale de Bono e Galeazzo Ciano, fucilati di lì a poco a Verona).
Intanto, al Sud, con l’estendersi del controllo anglo-americano a Napoli, la defascistizzazione prosegue con l’epurazione delle istituzioni scolastiche e delle università e con l’epurazione degli enti locali; anzi, per garantire una maggiore efficacia alle politiche alleate viene creata la Allied Control Commission (Acc) con funzioni operative. Invece nelle zone sotto il controllo del governo Badoglio, molto frequentemente, i fascisti erano tornati al potere o perlomeno esercitavano poteri ufficiosi ancora rilevanti senza che il legittimo governo potesse operare se non per sedare le rivolte di cittadini disperati dal ritorno ad una sorta di status quo. Così si dovette ripartire quasi da zero nel campo dell’epurazione. Nonostante non ritenesse il problema di prioritaria importanza, Badoglio, provvide con un ordinanza ad epurare le forze dell’ordine (ottobre 1943) anche se non pensò mai di estendere l’epurazione alla pubblica amministrazione. Nel novembre del 1944, Badoglio, giunge a catalogare, dopo molteplici pressioni politiche, quattro tipi di fascisti: “Del primo gruppo, considerato relativamente inoffensivo, facevano parte gli iscritti al partito da lungo tempo e magari di alto rango che tuttavia si erano sempre comportati abbastanza degnamente e che quindi non andavano annoverati tra i profittatori e gli sfruttatori di regime; certo, dovevano perdere i loro privilegi ma non era necessario sottoporli a misure coercitive. Un analogo riguardo, invece, non bisognava dimostrare nei confronti dei componenti il secondo gruppo, nei confronti, cioè, di quei fascisti che non solo avevano ricoperto cariche pubbliche, ma “sono stati fautori di favoritismi, scorrettezze amministrative, abusi, violenze contro non fascisti ecc…” e che quindi andavano arrestati come del resto gli appartenenti al terzo gruppo, vale a dire gli attivisti e i fascisti della prima ora. Badoglio, infine, considerava particolarmente pericolosi i fascisti del quarto gruppo, cioè quegli “individui che, pur non appartenendo in primo piano alla vita politica, hanno sempre aiutato sottomano i gerarchi con tutti i mezzi specialmente illeciti, per ottenere protezione e favori”; essi sono - continuava Badoglio - “i vermi più luridi del letamaio fascista (…) che occorre ricercare, scoprire e colpire inflessibilmente”. <4 Quest’ultimi, i più deleteri per il paese, andavano perseguiti. Il risultato di questa valutazione sarebbe stato un Regio Decreto del 9 dicembre 1943, “Defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato degli enti locali e parastatali, degli enti comunque sottoposti a vigilanza e tutela dello Stato e delle aziende private esercenti pubblici servizi o di interesse nazionale”, sintesi di tutte le direttive in materia emanate fino a quel momento. Lo scopo della defascistizzazione degli enti statali era evidente.
All’atto dell’applicazione però tale decreto non si mostrò particolarmente gradito a coloro che dovevano applicarlo, poiché non chiariva i molti dubbi procedurali legati alla sua applicazione; fu così che venne rallentato e boicottato. Questa situazione si sarebbe protratta fino all’aprile 1944, quando il governo sostenuto da una nuova coalizione di partiti, tra cui socialisti e azionisti, diede vita ad un nuovo esecutivo che nel maggio 1944 allargò grazie a un nuovo decreto, la platea dei punibili anche a coloro che avevano organizzato e diretto la marcia su Roma, gli squadristi autori di violenze, gli autori del colpo di stato del 3 gennaio 1925 e a chi aveva mantenuto in vita il fascismo con atti rilevanti. Per la prima volta si prendeva in considerazione la “lesione della fedeltà e dell’onore militare per fatti commessi dopo l’8 settembre 1943”. Il ministro Sforza, appena insediato, dovette agire in materia di epurazione colpendo anche banchieri ed ex prefetti.
E ci avviciniamo alla liberazione di Roma. Il Mercuri <5 sottolinea moltissimo le responsabilità della figura del maresciallo Badoglio che più di ogni altra cosa si sarebbe preoccupato di smantellare le strutture politiche del defunto regime con lo scopo solamente che queste non collidessero con il nuovo corso italiano e non per senso di giustizia verso il popolo italiano, indicando con i primi provvedimenti del suo Governo le direttrici di un colpo di stato regio che nel regno del Sud. Infatti, al crollo del fascismo, in assenza di tentativi di rivolta, accadde lo scioglimento del PNF, del Grande Consiglio del Fascismo, del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, della Camera dei fasci e delle Corporazioni, all’incorporamento della MVSN nel Regio esercito e all’arresto di alcuni gerarchi come misura di sicurezza. Chi non fuggì in Germania si affrettò a professarsi leale al nuovo corso politico e manifestando fiducia nel Re si mise a disposizione della patria.
E così si giunge alla liberazione di Roma avvenuta ad opera delle forze alleate il 4 giugno 1944 che, come era avvenuto dieci mesi prima, passa da una esplosione di gioia, all’accanimento esasperato contro i simboli del regime. Si forma un nuovo governo che scalza quello reazionario di Badoglio, presieduto da Ivanoe Bonomi, figura di spicco dell’antifascismo italiano. Il passo, rispetto al governo precedente, cambia poiché ora la compagine parlamentare è composta da azionisti, socialisti, comunisti e dai partiti moderati borghesi, molto poco disposti ad entrare a compromessi con gli ex fascisti. Il 27 luglio 1944 viene controfirmato dal Luogotenente del Regno ritornato a Roma, Umberto di Savoia, dopo la provvida abdicazione di Vittorio Emanuele III, il Decreto Luogotenenziale 159: potremmo definirlo come fa il Woeller la Magna Charta dell’epurazione politica <6. In esso furono accorpate tutte le precedenti “sanzioni contro il fascismo”. In materia penale si prevedeva una responsabilità di livello costituzionale per gli atti che avevano favorito l’avvento del regime fascista compromettendo la sicurezza e l’ordinamento dello stato. Per i membri del governo fascista e i gerarchi “colpevoli di annullare le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del paese” si prevedevano pene dall’ergastolo alla pena di morte. I giudizi sulla colpevolezza erano demandati ad un’Alta Corte di Giustizia presieduta da un presidente e composta da otto membri di nomina del Consiglio dei Ministri tra gli alti magistrati dello stato (nomine difficilissime da fare, perché o i magistrati erano compromessi col precedente regime, o erano prossimi alla pensione, o proprio non volevano saperne di addossarsi responsabilità così grandi <7). Inoltre, erano considerati colpevoli di altri delitti commessi “per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo” gli organizzatori di squadre fasciste colpevoli di violenze e devastazioni, coloro che avevano diretto la insurrezione del 28 ottobre 1922, coloro che avevano promosso e diretto il colpo di stato del 3 gennaio 1925, e chiunque avesse contribuito con atti delittuosi commessi “per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo”.
Questi casi appena citati erano sottoposti al giudizio della magistratura ordinaria. Era inoltre prevista la sospensione temporanea dai pubblici uffici o dall’esercizio dei diritti politici nonché l’assegnazione a colonie agricole o a case di lavoro fino a dieci anni per coloro che, avvalendosi della situazione politica creata dal fascismo o per motivi fascisti avevano compiuto fatti di particolare gravità che, pur non configurando gli estremi di reato, fossero apparsi “contrari a norme di rettitudine o di probità politica”. Accanto alle norme penali che colpivano le responsabilità nell’avvento e nel sostegno del regime fascista, si introdusse anche il concetto di collaborazionismo con l’occupante tedesco. In materia di epurazione si prevedeva la dispensa del servizio in ragione della qualifica ricoperta; questo valeva per gli squadristi, per i partecipanti alla marcia su Roma, per gli insigniti di sciarpa littorio, per i sansepolcristi e per i fascisti ante marcia e gli ufficiali della Milizia Volontari Sicurezza Nazionale, con la possibilità di applicare misure disciplinari meno gravi per chi non si era comportato in modo settario o intemperante. In caso di indebiti avanzamenti di carriera per titoli fascisti, era prevista la retrocessione alla posizione precedente anziché procedere al licenziamento.
Vi era poi un titolo che si occupava dell’avocazione dei profitti di regime che prevedeva che gli arricchimenti patrimoniali avvenuti dopo il 28 ottobre del 1922 da chi aveva ricoperto cariche pubbliche o politiche fasciste avrebbero dovuto essere stati avocati.
Nel complesso per la prima volta ci si trovava di fronte ad una legge organica ed esaustiva, almeno nelle intenzioni.
E qui si potrebbe aprire una riflessione su un fenomeno che Claudio Pavone affronta nel saggio sulla “continuità dello Stato nell’Italia 1943-‘45” <8. Molto sinteticamente l’autore pone l’accento su due piani distinti ai quali, a mio parere, ne va aggiunto un terzo. Vi è infatti un tema della continuità inteso in senso ristretto e formale, come rottura o meno della legalità costituzionale e di una legalità nell’ambito del Regno, ancora esistente, della Repubblica, che vi sarà tra pochissimo. Un secondo livello è poi quello legato all’apparato e organizzazione e il complesso di istituzioni che il fascismo chiamò “parastato” e che venne lasciata in eredità al postfascismo. Aggiungiamo qui un terzo elemento di discontinuità che andrà a rallentare significativamente la macchina burocratica e altri non è se non ciò che consegue alla suddivisione italiana in tre zone di influenza: legislazione in materia di epurazione efficace nelle zone amministrate dagli alleati, inefficienza della legislazione epurativa nella zona in mano alla monarchia nel regno del sud, per finire con la zona corrispondente alla ex RSI che vedrà un accavallarsi di normative, con prevalenza di quelle alleate, se non altro più pratiche.
Vi è poi il tema dell’epurazione spontanea che si cerca di soppiantare con questa normativa [...]
Infine, l’epurazione giudiziaria, concentrata più che altro tra l’estate e l’autunno 1944. Questa la situazione al momento della pubblicazione della nuova legge. E l’attività dell’Alto Commissariato diede i suoi frutti: all’inizio di ottobre del 1944 l’organismo in questione aveva sottoposto ad indagine 6000 persone con 3500 deferimenti alle 61 commissioni costituite e 650 proposte di sospensione con 167 licenziamenti effettivi <10 solo nei Ministeri e nelle altre amministrazioni centrali dello Stato. E alla fine dell’anno, con le dimissioni dell’Alto Commissario, Scoccimarro, i numeri erano ancora più importanti: l’Alto Commissario e la stessa amministrazione pubblica avevano segnalato ben 16000 persone e per 3600 di questi si era finalmente giunti a un giudizio di primo grado da parte delle commissioni con 600 rimozioni e 1400 sanzioni meno pesanti <11. Vi è una rinnovata spinta a procedere contro i rei di atti criminali e di collaborazionismo durante il regime. Un esempio per tutti è il processo che si svolge a Roma il 20-21 settembre 1944 contro l’ex capo della polizia Pietro Caruso: l’accusa mossa era quella di aver preso parte ai rastrellamenti tedeschi o di averli personalmente organizzati, di collaborazione con la Gestapo e le SS. Ma l’accusa di maggior peso lo vedeva responsabile della collaborazione con i tedeschi nel redigere la lista di 335 persone detenute che verranno poi massacrate, nella primavera del 1944, alle Fosse Ardeatine, per rappresaglia contro l’attentato di via Rasella a Roma, che era costato la vita a 35 soldati tedeschi. La corte, nell’applicazione del decreto del 27 luglio, comminò una pena capitale che sembrò più un verdetto “contro l’intero fenomeno del collaborazionismo” <12.
Il contesto politico, nel frattempo, stava mutando nuovamente con la virata dei partiti moderati verso destra e con la convinzione sempre più forte di democristiani e liberali di un effettivo pericolo di rivoluzione socialista in Italia. Era il momento, per i politici, di cambiare registro. A suffragare quanto detto arriva un’inaspettata svolta del comunista Togliatti che già verso la fine del 1944, pur rimanendo fermo nella sua convinzione di una epurazione politica severa, passa a più miti consigli rispetto alla epurazione giudiziaria, constatando una parziale paralisi del paese che non poteva durare ancora per molto senza creare danni irreparabili. Nella primavera del 1945 questo era il sentimento prevalente nella classe politica italiana anche se nessuno pensava di rendere pubbliche queste riflessioni. Di fatto, però, la tendenza a un disimpegno dal terreno si faceva sentire in seno all’Alto Commissariato che a dicembre del 1944 aveva visto i suoi componenti dimissionari. L’Istituzione perse progressivamente significato fino a svuotarsene, e nei primi mesi del 1945 non si ebbero eventi significativi sul fronte epurazione. Poi, nella notte del 5 marzo 1945 fuggì dal carcere un criminale di guerra, il Generale Mario Roatta; questo evento sollevò indignazione generale e sospetti, da parte dei partiti della sinistra, di complicità tra governativi di destra, forze dell’ordine ed ex fascisti. Si giunse così a dare nuovo impulso alla persecuzione dei criminali fascisti grazie all’istituzione delle Corti di assise straordinarie, le CAS, che, con D. Lgs. L. 22 aprile 1945 n. 142, vennero istituite presso i capoluoghi di provincia con competenza a giudicare chi, dopo l’8 settembre 1943, si fosse macchiato di delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione con i tedeschi e di aiuto o assistenza ad essi prestato. Era considerato pertanto colpevole: 1) chi avesse ricoperto cariche di ministro o sottosegretario di stato o cariche direttive del PFR; 2) Presidenti o membri del tribunale speciale per la difesa dello stato o altri tribunali straordinari istituiti dal governo fascista repubblicano; 3) capi di provincia o segretari o commissari federali o cariche equivalenti; 4) direttori di giornali politici; 5) ufficiali superiori in formazioni di camicie nere con funzioni politiche o militari. In parallelo, inoltre, vengono emanati il D. Lgs. Lgt. 26 aprile del 1945 n. 195 che stabilisce sanzioni penali per l’attività fascista nell’Italia liberata (il 25 aprile il CLNAI aveva proclamato la insurrezione del nord Italia contro i tedeschi occupanti), e il D. Lgs. Lgt. 26 aprile 1945 n. 149 che stabiliva sanzioni a carico dei fascisti particolarmente pericolosi e prevedeva interdizioni dai pubblici uffici e privazione dei diritti politici per chi aveva compiuto atti particolarmente gravi mosso da motivi fascisti pur non essendo configurabili come reati. Le sanzioni erano applicate da commissioni provinciali presiedute da tre membri. Molto spesso però nell’Italia liberata al Nord, venivano applicate le Ordinanze generali dell’American Military Government (in particolare la 35) che prevedeva una autodichiarazione scritta, su modelli predisposti dall’AMG, del proprio passato politico e militare e che le Commissioni di epurazione aziendali applicavano regolarmente. Tale ordinanza agiva similmente alle leggi italiane, colpendo le varie categorie di fascisti (sciarpa littorio, marcia su Roma…), trasferendo alle commissioni di epurazione provinciali il potere, dopo avere visionato le schede personali e le prove accusatorie, di sospendere dal lavoro il soggetto sotto giudizio. Era previsto anche un ricorso da effettuarsi da parte dell’epurato nel termine perentorio di 10 giorni dalla comunicazione della sentenza. Dunque, come si evince da questa ultima normativa, erano previsti provvedimenti penali per i crimini, e sanzioni amministrative per le “colpe minori”: due aspetti, il penale e l’amministrativo, che viaggiavano su binari differenti se pure paralleli. Le CAS durano poco.
[NOTE]
3 Hans Woeller, I conti con il fascismo - l’epurazione in Italia. 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 1977, pagg. 19 e seguenti.
4 Hans Woeller, op. cit, pag 111.
5 Lamberto Mercuri, l’epurazione in Italia. 1943-1948, Cuneo, ed. l'Arciere, 1988, pagg.9 e segg.
6 Hans Woeller, op. cit. pag. 193.
7 Cfr., a cura di Giovanni Focardi e Cecilia Nubola, Nei Tribunali - Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2016.
8 Claudio Pavone, Rivista di Storia Contemporanea, Sulla continuità dello Stato, fascicolo 2 anno 1974, Torino, Loescher, pagg. 172-205.
10 Dalla relazione di Upjhon davanti all’Advisory Council for Italy, 6 ottobre 1944.
11 Rapporto conclusivo di Scoccimarro, 3 gennaio 1945.
12 Hans Woeller, op. cit. pag 255.

Fabio Fignani, L’epurazione in Veneto. Alcuni casi di studio, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016

mercoledì 23 marzo 2022

La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti


Alla metà del 1943 i militanti del PCd’I erano dunque in procinto di intraprendere il passaggio in Italia a lungo atteso. Il ritorno di molti dei comunisti italiani desiderosi di combattere il fascismo avvenne tramite un percorso sulle Alpi trovato da Amerigo Clocchiatti e Domenico Tomat, i primi ad averlo utilizzato nel ’42 per rientrare e prendere contatto con Massola. Le principali informazioni in proposito provengono dall’autobiografia di Clocchiatti, friulano cresciuto a poca distanza dal fronte della prima guerra mondiale, espatriato prima in Francia e poi in Belgio senza che il Cpc riuscisse a registrare i suoi spostamenti in maniera esaustiva. Tracciare un percorso sulle montagne evitando i controlli alla frontiera non fu un’impresa facile, e costò ai due incaricati, e alla guida Giulio Albini, faticose scalate tra rocce gelate. Si partiva da Saint-Martin-Vésubie e si saliva su per il monte Clapier, già oltre la frontiera, ma non si trovava un sentiero per scendere; alla fine Albini mise a punto il tragitto ripiegando attorno al monte e giungendo a Tetto Coletta, dove la casa di una contadina serviva da base di approdo per scendere a Vernante, da cui si prendeva il treno per Torino. Grazie a questo tragitto rientrarono Negarville e Roasio nel gennaio ’43 e Novella e Amendola in aprile, in questo modo “tutto il Centro estero [era stato] trasferito in Italia, per costituire nel paese un Centro interno di direzione politica e organizzativa”. Così, nell’ottica dei comunisti italiani, le peregrinazioni, la Spagna, gli arresti e la Resistenza francese furono importanti esperienze di vita e di lotta, trascorse però in attesa del ritorno e della guerra contro il fascismo, anelata e preparata per vent’anni tra le asprezze della vita quotidiana in terra straniera.
[...] I fuoriusciti rientrati costituirono la prima componente per la strutturazione della Resistenza italiana, nell’estate’ 43 in attesa di ricongiungersi con la seconda, gli esponenti del PCI incarcerati o confinati in Italia.
La terza componente furono invece le giovani generazioni che entrarono nel partito negli ultimi anni del fascismo o nelle prime fasi della Resistenza <1. I giovani avvicinatisi alle idee o ai gruppi comunisti che andavano creandosi in Italia già prima della caduta del fascismo provenivano da classi sociali differenti, ma avevano spesso alle spalle un clima antifascista. In particolare a Torino e Milano le fabbriche e i quartieri operai costituirono un fertile retroterra per la nuova generazione antifascista, dalla quale sarebbero emersi anche i principali gappisti. Non mancarono però fra i neocomunisti, e tra i terroristi urbani, giovani intellettuali o studenti. Ne sono un esempio il gruppo romano, in cui spiccano i nomi di Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice, Mario Licata e Pietro Ingrao, e i giovani antifascisti della Normale di Pisa, come Alessandro Natta e Mario Spinella; ma anche, Giovanni Giolitti, Matteo Sandretti, Ennio Carando e Ludovico Geymonat, che gravitavano a Torino attorno alla casa editrice Einaudi. Gli ultimi due insegnavano inoltre nello stesso liceo di Cesare Pavese, che conosceva Luigi Capriolo, membro del PCI, cui presentò il giovanissimo ufficiale Giaime Pintor. Alcuni di loro furono confinati negli ultimi anni trenta o all’inizio della guerra, e ricevettero a Ventotene l’educazione comunista. Le carceri e il confino furono infatti per i comunisti luoghi di studio e dibattito interno, in cui i nuovi antifascisti della fine degli anni ’30 vennero a contatto con i vecchi, personalità del calibro di Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e Gerolamo Li Causi.
A livello internazionale, la metà del ’43 fu la fase che decretò il trionfo dell’unità e dei fronti nazionali. A Casablanca Churchill, Roosevelt e Stalin avevano stabilito l’obiettivo della resa incondizionata per i nemici sconfitti e avevano concordato per giugno lo sbarco in Sicilia. Stalin teneva inoltre all’apertura del fronte decisivo in Francia e, a differenza degli altri due, era disposto a riconoscere il CFLN di De Gaulle e Giraud. In questo clima di grande alleanza, si colloca lo scioglimento del Komintern, deciso dal presidium il 15 maggio e reso pubblico il 22. La mossa serviva a ottenere la fiducia degli anglo-americani ma anche a garantire l’autonomia dei partiti comunisti nella conduzione delle guerre di liberazione nazionale in corso. Resta invariato anche con lo scioglimento dell’Internazionale comunista il fatto che “l’egemonia dell’Urss sul movimento comunista internazionale […] è indiscussa”; “la convinzione che Stalin resti il capo dei lavoratori, il capo del comunismo internazionale, si esprime in tutti i modi e i dirigenti dei massimi partiti comunisti […] sono quadri formatisi sotto la sua direzione e influenza diretta” <2. Il PCI si apprestava dunque ad avviare la guerra partigiana sulle basi unitarie già accettate a Tolosa nel ’41, e ribadite nel marzo ‘43 a Lione da Saragat, Lussu, Dozza e Amendola, poco prima del rientro di quest’ultimo in Italia. La necessità di ribadire l’unità era data non solo dall’avvicinarsi della guerra in Italia, ma anche dal bisogno di rinsaldare tale intento, messo in dubbio dal ritorno di Emilio Lussu. Egli era appena rientrato dagli Stati Uniti, dove gravitava attorno alla Mazzini Society, animata da fuoriusciti antifascisti, che attribuivano un ruolo preponderante agli anglo-americani nel rovesciamento del fascismo e non vedevano di buon occhio l’alleanza coi comunisti. Rientrato in Francia, aderì però alla linea di Tolosa secondo cui la liberazione nazionale sarebbe dovuta partire dall’interno, grazie alla collaborazione con socialisti e comunisti, di cui Trentin fu il più strenuo sostenitore tra le file di GL.
Il 3 marzo 1943 a Lione nacque dunque lo schieramento che avrebbe costituito la sinistra della Resistenza italiana e che si sarebbe congiunto con la destra nel corso dei 45 giorni. Il verbale ufficiale della riunione infatti, dopo aver ribadito gli obiettivi di Tolosa, rivolgeva a tutti gli italiani, “anche se non condividono integralmente il loro programma di ricostruzione del paese, un appello all’unione e all’azione per la pace, l’indipendenza e la libertà, e dichiara[va] che il presente accordo è aperto a tutti i partiti e movimenti che ne accettano lo spirito” <3.
La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti, soprattutto per la prudenza di Massola, ansioso di salvaguardare la cautela con cui aveva portato avanti il lavoro dal ’41. Nel settembre ’42 egli aveva ricevuto da Clocchiatti, appena rientrato, la prima lettera dal Centro Estero e si erano verificati dei contrasti a causa di iniziative propagandistiche di quest’ultimo, come il lancio di volantini, che Massola reputava premature. Ad ogni modo, nel giugno ’43 egli inviò un telegramma a Togliatti, tramite la Francia, aggiornandolo sui progressi degli ultimi mesi. Comunicava il proprio approdo in Italia nell’agosto ’41, l’arresto di Rigoletto Martini in Jugoslavia, la condanna a 24 anni di reclusione da parte del Tribunale Speciale e la sua successiva morte nel carcere di Civitavecchia nel giugno del ’42. Informava poi dell’avvio del lavoro di propaganda tramite la stampa clandestina, in particolare della comparsa dell’Unità, un numero al mese da giugno a novembre ’42 e due numeri al mese a partire dal dicembre ’42. L’approdo in Italia di Primo e Secondo, che dovrebbero essere Roasio e Novella, aveva inoltre permesso nel maggio la costituzione del Centro Interno, alla cui direzione partecipavano, oltre allo scrivente e ai due compagni citati, Roveda, Negarville, Amendola e Rina Piccolato <4. Nonostante per la formazione dei GAP bisogni ancora attendere l’autunno ’43, già nel maggio venne fatta consegnare ai dirigenti provinciali una circolare segretissima (da distruggere dopo la lettura), firmata dalla segreteria del PCI, che prescriveva:
“I patrioti italiani hanno il dovere di organizzarsi e rispondere. In questa lotta tutti i mezzi sono buoni, compresa la lotta armata. Alla violenza bisogna opporre la violenza, alle bande amate fasciste bisogna opporre i Gruppi d’azione dei patrioti, capaci di stroncare la violenza fascista colla lotta armata. […] L’esperienza internazionale della lotta armata contro l’oppressore tedesco e i traditori del proprio paese (la lotta dei patrioti jugoslavi, greci, francesi ecc) dimostra che la formazione e l’armamento di questi Gruppi di patrioti non può avvenire in modo spontaneo. Questa esperienza dimostra pure che la forza organizzatrice e dirigenti dei gruppi armati di patrioti, in tutti i paesi, è il Partito comunista.” <5
Roasio, autore per conto del partito, nella circolare spiega che doveva trattarsi di costituire “piccoli gruppi (GAP) nei primi tempi composti di soli compagni e portarli alla lotta armata, e poi, poco a poco, nella lotta allargare la loro cerchia, il loro numero, attirare i migliori e più combattivi elementi del popolo e riuscire così a organizzare un potente movimento armato di patrioti.” <6. Si prescriveva dunque ai dirigenti locali di incaricare un compagno di fiducia della formazione di questi gruppi di tre uomini, i cui membri dovevano essere scelti non “per spirito di disciplina, ma per la loro spontanea volontà” e dovevano interrompere qualsiasi legame o partecipazione alle attività di partito. Non è scritto nel documento, ma intuibile ed ammesso esplicitamente da Roasio, che la struttura dei Gap “rifletteva grossomodo quella dei FTP, di cui facevano già parte numerosi nostri compagni” <7. Nelle stesse settimane infatti quadri e militanti di base venivano richiamati dalla Francia e rientravano in Italia attraverso le Alpi o con documenti falsi; coloro che scelsero questa via avevano dunque conservato una polarità italiana, a maggior ragione coloro che avevano ormai una famiglia in Francia o vi tornarono dopo la guerra. Alcuni tra i più giovani invece, come abbiamo visto, avevano ereditato dalla famiglia italiana la tendenza politica, ma la propria esperienza personale li aveva condotti a riorientarla in senso francese.
Coloro che decisero di tornare, per combattere il fascismo in Italia, nell’estate 1943 erano nel pieno del lavoro necessario a riprendere contatto con la base di partito, i quadri prendevano appuntamento con vecchi comunisti e ne istruivano di nuovi, oltre ad allacciare i rapporti con le organizzazioni antifasciste di vari indirizzi. Le basi per il fronte nazionale all’interno furono però reputate ancora troppo fragili e nel pieno di tale riorganizzazione il Gran Consiglio del fascismo decretò la caduta di Mussolini. Il 26 luglio fu redatto il primo appello firmato dal Gruppo di ricostituzione liberale, il Partito democratico cristiano, il Partito comunista italiano, il Movimento per l’unità proletaria per la repubblica socialista, il Partito socialista italiano e il Partito d’azione. Quest’ultimo era stato fondato a Roma il 4 giugno 1942 e vi sarebbero confluiti i maggiori esponenti di Giustizia e Libertà. Si disponeva la nascita di un Comitato d’unità delle opposizioni antifasciste che richiedeva la liquidazione delle strutture del regime e la formazione di un governo che fosse espressione delle classi popolari.
Intanto, abolite le corporazioni, era in corso la ristrutturazione dei sindacati, di competenza di una commissione in cui furono nominati tra gli altri il socialista Bruno Buozzi e il comunista Giovanni Roveda. La nomina fu oggetto di critiche da Mosca, di un’intromissione del PCF e di un dibattito interno alla direzione neocostituita, che richiese una dichiarazione pubblica in cui Roveda chiarisse che l’accettazione di tale ruolo non significava sostegno politico al governo monarchico. Il nodo del contendere era costituito dal fatto che il nuovo governo moderato e la monarchia cercassero di limitare il ruolo delle masse nella transizione istituzionale post 25 luglio, dunque Roveda, in qualità di commissario sindacale, era accusato di collusione nel “soffocare il movimento di scioperi a Torino” <8. Lampredi fu inoltre latore di una lettera del PCF alla direzione italiana in cui si sosteneva che una subordinazione dei comunisti italiani al governo Badoglio avrebbe indebolito il movimento insurrezionale antinazista anche oltre i confini della penisola. Secondo il partito francese infatti, “gli alleati vedevano nel maresciallo una sorta di nuovo Darlan che operava in altre condizioni per soffocare il movimento popolare” <9. Il PCF aggiungeva poi che la questione “ci preoccupa particolarmente perché noi dobbiamo fare i conti anche in Francia con la possibile utilizzazione di nuovi Darlan e non ci sono altri modi di impedirlo che di sviluppare al massimo il movimento di massa”. Aldo Lampredi, in un biglietto del ’73 archiviato assieme alla corrispondenza non poté affermare con certezza che gli estratti delle lettere venissero effettivamente dalla Casa, “è scritto così. Però credo che debba ritenersi cosa vera perché come risulta dalla mia lettera prendo in seria considerazione il loro contenuto” <10.
Ad ogni modo, il 13 agosto i commissari della federazione sindacale chiarirono che la loro funzione aveva “uno stretto carattere sindacale, che non implica nessuna corresponsabilità politica”11. Si apriva già a questo punto il dilemma della posizione da tenere in relazione a Badoglio, in qualità di capo del governo riconosciuto dagli Alleati, che si sarebbe risolta solo al ritorno di Togliatti. Per il momento le forze antifasciste italiane decisero di adottare la linea della pressione sul governo per la pace separata, senza scatenare un movimento preinsurrezzionale, per il quale reputarono di non essere pronte. Alla metà di agosto una delle principali rivendicazioni degli antifascisti nei confronti di Badoglio riguardava la liberazione di carcerati e confinati. Il 31 luglio si era infatti costituito un comitato direttivo dei confinati a Ventotene che chiedeva la liberazione immediata e il ripristino dei collegamenti con la terraferma.
La questione si risolse quando, ai primi di agosto, Buozzi, Roveda e Grandi si recarono da Badoglio, minacciando un appello allo sciopero generale se non avesse emesso gli ordini di scarcerazione; “contro la minaccia dello sciopero generale il Maresciallo si scagliò violentemente ma dopo tre ore di discussione finì per cedere” <12.
Così tra il 19 e il 23 agosto detenuti e confinati furono liberati, restarono in carcere solo Emilio Sereni e Italo Nicoletto, consegnati all’Italia il 24 luglio e condannati dal Tribunale speciale rispettivamente a 18 e 10 anni. Sarebbero evasi dalle carceri Nuove di Torino l'8 agosto 1944.
Dunque alla fine di agosto, mentre erano in corso le trattative per l’armistizio, i bombardamenti sulle città italiane e una serie di scioperi contro la guerra, il PCd’I poteva compiere la saldatura tra le due proprie componenti storiche, i rientrati dall’esilio e i liberati dal confino. Il 29 agosto si tenne a Roma la riunione che costituì la direzione di partito, nelle persone di Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi, Roasio, Massola, Roveda, Novella, Negarville e Amendola. A Roma restarono Scoccimarro, Novella, Amendola, Roveda, Negarville e Longo, che premerà però per raggiungere Secchia, Massola, Roasio e Li Causi a Milano, da dove in caso di occupazione sarebbe stata diretta la lotta armata.
Il giorno successivo infatti Longo stilava un “promemoria sulla necessità urgente di organizzare la difesa nazionale contro l’occupazione e la minaccia di colpi di mano da parte dei tedeschi” <13. Il giorno stesso il PSI e il Pd’A accoglievano la mozione, dando vita a un comando militare tripartito composto da Luigi Longo, Sandro Pertini e Bruno Bauer. Il Comitato Centrale stilò inoltre il 2 settembre un appello alla difesa nazionale che concludeva:
“L’Italia deve, in un virile proposito di resistenza e di lotta, ritrovare la sua unità morale spezzata dal fascismo, e conquistarsi, attraverso la sua riscossa nazionale, il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni per collaborare con esse al riassetto dell’Europa e del mondo” <14.
La formula venne ripresa pressoché identica nella deliberazione del Comitato delle opposizioni, che il 9 settembre si costituiva in Comitato di liberazione nazionale:
“Nel momento in cui il nazismo tenta di istaurare a Roma ed in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza, e per conquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni” <15.
[NOTE]
1 P. Spriano, “Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin e la guerra”, op.cit. pag. 338.
2 P. Spriano, “La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata”, op.cit., pag. 206
3 Fondazione Gramsci, APC, marzo 1943, “Unità d’azione per la pace e la libertà”, dichiarazione congiunta Pci, Psiup, Gl, marzo 1943
4 Fondazione Gramsci, APC, settembre 1943, relazione in francese indirizzata a Togliatti relativa alla formazione di un fronte nazionale antifascista in Italia e informazioni riguardo ad alcuni dirigenti del Pci a firma Quinto
5 Fondazione Gramsci, APC, maggio 1943, Circolare riservata della Segreteria del partito comunista italiano riguardo alla necessità di istituire Gruppi d’azione dei patrioti.
6 Ibidem.
7 Antonio Roasio, “Figlio della classe operaia”, Vangelista editore, Milano 1977, pag.206.
8 Fondazione Gramsci, APC, Estratto di una lettera da Mosca, 6/9/1943. 9 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, lettera del PCF alla direzione del Pci in merito alle polemiche tra i due partiti, 23 sett.1943.
10 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, 1 sett.1973.
11 Il comunismo italiano durante la seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 192.
12 Giovanni Roveda, “Precisazioni”, in Rinascita a. IX, n 7-8, luglio-agosto 1952, pag.441.
13 Testo completo in Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 194-195
14 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 197.
15 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag.198.
Elisa Pareo, "Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019