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domenica 6 novembre 2022

Il 5 giugno 1945 si riuniscono a Reggio Emilia i rappresentanti di tutte le federazioni provinciali del Partito comunista


Il Partito comunista italiano fu interprete di un originale esperimento di comunismo nazionale che si caratterizzò per un singolare intreccio, difficilmente dipanabile, di riformismo e ideologia rivoluzionaria, di senso delle istituzioni e anticapitalismo, di ricerca di autonomia politica e culturale e di persistenza di un solido legame con l’Unione Sovietica. Ciò gli consentì di raggiungere un grado di radicamento sociale e di consenso elettorale non molto dissimile da quello dei grandi partiti del socialismo democratico europeo ma al tempo stesso, dopo lo scoppio della guerra fredda, gli precluse la legittimazione a governare. <1
Se il quadro di riferimento è quello nazionale tale constatazione è senza dubbio condivisibile; calandosi a livello regionale, in particolar modo per l’area che qui ci interessa, l’Emilia-Romagna, occorre puntualizzare: il Pci, sostanzialmente, esercitò una profonda egemonia. Infatti, senza soluzione di continuità, dal 1945 fino alla propria dissoluzione e pure nelle realtà in cui non rappresentava la maggioranza assoluta, imprescindibile era confrontarsi con esso, con le sue ramificazioni, con la sua influenza politica e sociale.
Indubbiamente qui più che altrove il partito era cresciuto in corrispondenza con l’estendersi della lotta partigiana. Nel periodo immediatamente precedente la caduta del fascismo, la forza più decisa e combattiva, ed in Emilia-Romagna l’unica a disporre di un certo apparato organizzativo, restava il Pci. <2  Alla sua nascita, qui, contava 7.850 iscritti, pari a oltre il 18% del totale nazionale. Nell’estate 1944 nell’Italia occupata erano già arrivati a 70.000, di cui circa 18.000 nella sola Emilia-Romagna, dove la componente contadina - mezzadri, braccianti ecc. - era molto forte, e dove pure tra Bologna e provincia si contavano 32 cellule di fabbrica; è la stessa regione dello sciopero generale delle mondine, mentre iniziano le azioni dei fratelli Cervi e di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow. <3
Qui, come scrive Giorgio Amendola nella stessa estate del 1944, «le difficoltà sono certo grandi»: «ci troviamo sulle immediate retrovie e sulla stessa linea del fronte» e «la densità di occupazione è assai forte». <4 Tuttavia, se fin dalla presa del potere da parte del fascismo si era verificato un calo numerico, durante i lunghi anni di leggi eccezionali, stando alle parole di Pietro Secchia, il lavoro organizzativo si era sviluppato con poche interruzioni e nell’immediato dopoguerra la forza numerica dei comunisti era aumentata notevolmente: nel dicembre 1945 si contavano 345.171 iscritti, pari a quasi il 20% del totale nazionale. <5
L’egemonia del Pci in Emilia-Romagna non può non essere, dunque, ricondotta al lungo lavoro di radicamento, alla costante tessitura e ritessitura di una seppur esile rete organizzativa corrispondente al mantenimento in vita di un minimo di legame sociale che instancabilmente migliaia di militanti e quadri avevano portato avanti durante il regime e nella clandestinità. Un paziente e oscuro lavorio che aveva consentito di predisporre quella trama che entrerà in azione nella Resistenza.
È la terra, questa, che, come scrive nel 1949 un anonimo liberale al segretario regionale della Democrazia cristiana Bruno Rossi, «quando fosse giuridicamente riconosciuta, diventerebbe la prima repubblica sovietica d’Italia e potrebbe ben servire a modello per le altre». <6 È la terra, secondo il vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, macchiata di «sangue per l’odio implacabile dei senza Dio». <7 Ancora nel 1951, un militante democristiano romagnolo scrive a Rossi che l’incontro con i comunisti è un’esperienza «da evitare tutte le volte che si può»; «il comunista mi disse che loro avrebbero trattato quelli là fuori (indicando me) come li hanno sempre trattati (alludendo maniere forti)». <8
Nella «lunga liberazione italiana» <9 come si muoveva dunque il Pci emiliano-romagnolo con «quelli là fuori», con chi in tasca non aveva la tessera del partito? Come veniva rappresentato? E «quelli là fuori» come interpretarono, politicamente, la storia così ricca e complessa dei comunisti, la conflittualità, ampliata e deformata dal ruolo schiacciante del Pci in molte aree della regione?
Una serie di temi e problemi, piuttosto che un profilo - meno che mai un profilo unitario - è quanto si tenterà di mettere in luce, seguendo una linea descrittiva piuttosto che interpretativa.
1. La «diabolica organizzazione». Fra Resistenza e Repubblica
Il 5 giugno 1945 si riuniscono a Reggio Emilia i rappresentanti di tutte le federazioni provinciali, alla presenza di Luigi Longo per la Direzione nazionale. L’ordine del giorno è assai amplio ma numerosi interventi si concentrano sui rapporti con gli altri partiti. Nello specifico, a Ferrara questi sono descritti come «abbastanza buoni»; a Parma non viene taciuta «qualche difficoltà» dopo la smobilitazione; a Modena «hanno le stesse caratteristiche che si riscontrano nel campo nazionale»; a Forlì «i rapporti con i socialisti sono buoni e così pure con i democristiani: quelli con i carabinieri ed il prefetto ottimi»; a Piacenza «la situazione della provincia non può essere definita brillante» ma «è stato elaborato un accurato piano di lavoro diretto a stringere sempre più i rapporti». È Longo a trarre le conclusioni, assunto il presupposto che «vi sono stati anche dei lati negativi», e a indicare la linea per il futuro. Si chiede «se in tutti i compagni vi sia una esatta, profonda convinta persuasione della linea politica del partito o se non ci sia qualche atteggiamento, non ancora errore o deviazione ma qualche germe che potrebbe svilupparsi poi in qualche deformazione della linea politica». Nei confronti degli altri partiti, in un momento delicato come quello del «passaggio dallo stato di guerra a quello di pace», «è necessario sforzarsi di ottenere l’unità anche con quegli elementi che tendono a staccarsi», però «non confondendo le forze sane con quelle reazionarie». Con gli Alleati occorre «manifestare loro i nostri sentimenti di riconoscenza per quanto hanno fatto per noi; però non è detto che dobbiamo accettare supinamente e senza resistenza qualsiasi loro decisione»; nei confronti dei democristiani «non si deve tenere un atteggiamento di ostilità, ma di persuasione»; per quanto riguarda gli azionisti «si deve tendere verso la parte più progressiva di loro»; il lavoro, insomma, è «enorme». <10
In Emilia-Romagna il Pci non aveva mai cessato di sostenere che l’unità della Resistenza aveva un valore storico assoluto, che però poteva esistere solo mantenendo in essa la loro presenza attiva, persino la loro egemonia ideologica. <11 I comunisti, qui, si considerano - e comunicano con forza di essere - «l’anima e la guida, la pattuglia più avanzata di questa battaglia»; <12 «oggi, come sempre», i «primi all’attacco per guidare il popolo tutto al combattimento»; <13 «forgiati dal leninismo e dallo stalinismo», è stato creato «un uomo di tipo nuovo, provato ad ogni lotta e ad ogni avversità che ha dato i quadri migliori della battaglia partigiana» e che, «spoglio da ogni romanticheria, semplice, umano, legato al popolo, uomo fra gli uomini», è e sarà «una delle principali forze della ricostruzione». <14 I comunisti piacentini raccontano di nazifascisti «terrorizzati» dalle loro «leggendarie gesta», descrivendone i protagonisti come «eroi», «martiri», «sempre vivi», persino «immortali»; <15 a Ferrara il partito ricorda di essere «punto d’appoggio», in grado di indicare la «strada giusta», «fiero di essere in prima linea»; <16 a Reggio Emilia, pur sottolineando che «nessuna distinzione di fede politica o religione dovrà ostacolare in questo momento lo sforzo comune», i comunisti mettono in chiaro che «la salvezza, la resurrezione dell’Italia non è possibile se non interviene nella vita politica italiana, come elemento di direzione di tutta la nazione» il partito guida della classe operaia; <17 a Forlì si scrive che il Pci «è all’avanguardia dell’insurrezione popolare perché questa è la sua missione storica»; <18 a Cesena, il 31 dicembre 1944, Giovanni Zanelli, partigiano e segretario della Federazione provinciale di Forlì, sostiene che «nessun partito conosce le sofferenze delle masse popolari così come le conosce il nostro partito che vive in mezzo alle masse e ne è l’espressione e la guida» e che «non vi sarà nessuna democrazia vera e popolare se la classe operaia ed il suo partito, il Partito comunista, ne sarà esclusa». <19
Nella stampa comunista dell’epoca è forte il richiamo all’Unione Sovietica. <20  Nella difficoltà di dare un contenuto preciso al desiderio generico di un mutamento radicale e nella parsimonia delle indicazioni sul futuro fornite dal partito, il mito dell’Urss e di Stalin si presentava infatti come particolarmente atto a riempire il vuoto. <21 Della terra dei soviet si celebrano, ad esempio, i successi economici: per «La lotta», organo delle federazioni comuniste romagnole, «lo sviluppo economico e politico europeo riafferma la giustezza delle previsioni del marxismo-leninismo». Ricordando Lenin a 20 anni dalla morte, il giornale clandestino ricorda che «gloriosamente e con sicurezza» proseguono la propria lotta «la Russia sovietica e le sue potenti armate» e «i partiti comunisti saldamente costituiti alla testa della classe operaia lavoratrice», <22 sospingendo l’Armata rossa «con impeto inusitato». <23 A Parma, la «Voce del partigiano» nel gennaio del 1945 scrive che «in Urss non vi sono più classi sfruttatrici, che abbiano interessi distinti e contrastanti con quelli di tutto il popolo»: le vittorie dei popoli dell’Unione Sovietica sono «le vittorie della democrazia. L’Urss ha vinto e vince le sue battaglie perché, sotto la guida della classe operaia, i popoli dell’unione sovietica hanno realizzato una forma superiore di democrazia». <24
Di pari passo con il ribadire la correttezza della dottrina va da un lato la celebrazione di Stalin - simbolo riassuntivo del mito sovietico - definito nel luglio 1944 dall’edizione regionale de «l’Unità» come «il più grande stratega di questa guerra», <25 e dall’altro dello «sforzo glorioso dell’Armata rossa» che dimostra come «l’ordinamento economico-politico instaurato con la Rivoluzione abbia dato vita all’eroismo di massa ed alla storica vittoria delle forze e dell’ideologia proletaria». <26 «Perfettamente e potentemente armata», «la gloriosa Armata rossa avanza con la forza e la velocità di una valanga che tutto travolge», scatenando «la più grande offensiva che la storia ricordi»: così l’Unione Sovietica, «dopo aver salvato l’umanità dallo schiavismo hitleriano dilagante, prosegue e sviluppa con eroismo la sua missione liberatrice e progressista», così, «dopo averli liberati, essa unifica i popoli, ne favorisce e potenzia il contributo alla lotta al nazi-fascismo, la rapida e larga democratizzazione, la rinascita e la libera espressione». <27
Al di là della retorica, tali affermazioni potevano alimentare i sospetti che le direttive togliattiane della svolta di Salerno non fossero altro che una battuta d’arresto momentanea, in attesa di una futura fase. Nella riunione di Bologna del Comitato di liberazione nazionale regionale dell’11 maggio 1945, ad esempio, il colonnello americano Floyd J. Thomas, commissario dell’Allied Military Government, mette in guardia i presenti nei confronti di coloro i quali «desiderino accelerare le cose»: gli alleati «hanno dato il loro impegno di aiutare come è stato fatto per il passato e come sarà per il futuro» ma ciò sarà possibile esclusivamente in «una atmosfera di legge e di ordine nella quale si possa lavorare in cooperazione al massimo grado». Per Thomas «le discussioni politiche devono essere svolte a tempo e luogo debito» e se «ci sono molte cose che possono essere fatte dai partiti», queste non interferiscano «con le funzioni di governo oppure con la legge e con l’ordine». «Nei comuni la responsabilità della cosa comune è nelle mani dei sindaci», prosegue il colonnello, e i Cln «hanno il privilegio di dare consigli e di assistere i pubblici funzionari» ma «non hanno potere per conto loro e si devono assolutamente astenere dall’emettere ordini».
Il comunista ed ex partigiano Paolo Betti puntualizza in risposta l’intenzione del partito di «entrare nella legalità, di rompere tutte quelle che sono le azioni incontrollate» ma «per tale riteniamo anche la mutua collaborazione degli alleati verso di noi»; chiede che sia sanato tutto quello che è stato fatto «di giusto e di logico» dai Cln, «che non sia gettato tutto per aria tutto quello che di buono è stato fatto» e che «gli alleati non usino indulgenze verso gli industriali che hanno stroncato gli scioperai durante la guerra di liberazione». Tocca allora a Giuseppe Dozza, che da soli quattro giorni era stato legittimato sindaco della città dallo stesso governo alleato: «l’appello per la normalizzazione deve essere accolto da tutti e non soltanto da noi». Dozza «non ha l’impressione che ciò avvenga» e che «dinanzi agli alleati non dobbiamo mai dimenticare la nostra dignità di uomini e di italiani», rilevando «qualche episodio di incomprensione assoluta». <28
Da tempo si credeva di intuire, fra sospetto e preoccupazione, che «da parte comunista esisteva già un disegno preordinato». È questa la sensazione che Vittorio Pellizzi, azionista e tra i primi a promuovere e a costruire nel reggiano gli organi politici della Resistenza, sostiene di aver provato durante un incontro del 26 luglio 1943 con il dirigente del Pci Aldo Magnani. Pellizzi aggiunge che quell’occasione gli rivelò che «l’organizzazione comunista clandestina - di cui sapevo l’esistenza, ma di cui ignoravo l’efficienza e l’importanza - veniva ora alla ribalta con i suoi uomini, i quali dimostravano di possedere una grande maturità politica»; sempre Pellizzi constatò come Magnani fosse «preparato e già in possesso di un disegno strategico» e «anche dei mezzi tattici per attuarlo».
«Ad eccezione dei comunisti, noi come cospiratori si era dei novellini», ricorda emblematicamente un altro protagonista della Resistenza reggiana, il democristiano Pasquale Marconi. <29 Gli azionisti emiliani si rivolgono ai comunisti nel marzo del 1944 per sottolineare che «questo tesoro vivo di esperienze altrove maturate» è di certo apprezzato ma guai a utilizzarlo «con intenti servili o peggio ancora con l’idea di applicarle ipso facto al nostro paese». Si pone dunque un problema di libertà, «conditio sine qua non anche per la libertà degli altri paesi europei». <30 È la questione della libertà a scavare un solco ideologico anche con i repubblicani; i comunisti «si fermano all’eguaglianza, e per l’eguaglianza sono disposti a rinunciare alla libertà, accettando la dittatura»; <31 i repubblicani intendono escludere categoricamente che «la nazione abbia per una seconda volta a soggiacere schiava di una dittatura, sia essa della minoranza sulla maggioranza (esempio tipico il fascismo) o della massa sulla minoranza dei cittadini come vorrebbe il comunismo». <32
Dal giogo di una dittatura a quello di un’altra: è ciò che teme anche un antico liberale cattolico come il conte Malvezzi Campeggi scrivendo una lettera a Tommaso Gallarati Scotti, poi reindirizzata al rappresentante del Partito liberale nel Comitato di liberazione nazionale Alessandro Casati, all’indomani della Liberazione. Nel bolognese, secondo il conte, «la situazione è preoccupante: tirate le somme ci accorgiamo di essere passati senza transizioni dal fascismo nero a quello rosso. Medesima mentalità. Medesimi sistemi di violenza, prepotenza, intimidazione, minacce. Tutti i posti di potere sono in mano ai comunisti». Nelle campagne «i contadini vietano ai proprietari di mostrarsi nelle loro proprietà ed impongono taglie», ma la cosa più preoccupante è che «seguitano a scomparire misteriosamente persone, anche notissime, senza che se ne abbiamo più notizie». Due inchieste di «Risorgimento liberale», intitolate rispettivamente 'Il borghese emiliano vive fra queste paure' del gennaio 1946 e 'La psicosi del mitra nell’Emilia rossa' del settembre 1946, trasmettono in controluce la sensazione della circolazione della leggenda dell’invincibilità del Pci e della «diabolica organizzazione comunista diretta da uomini formati nelle scuole di partito sovietiche e che avevano partecipato alle guerre civili europee», evocando il problema del disarmo delle bande partigiane sostenendo che alle loro spalle vi fosse una precisa «organizzazione politica». <33
Nel «magma dell’illegalità del dopoguerra», <34 sempre a Bologna all’inizio del 1946 il liberale Antonio Zoccoli, presidente del Cln, ribadisce che l’organismo da lui presieduto «ha cercato con tutti i suoi mezzi, qualche volta inadeguati, ma sempre spontaneamente generosi, di curare le ferite, ha cercato e cerca di riportare negli animi la calma, la tranquillità, la concordia». Nella medesima riunione, alla presenza di prefetto e questore, il segretario della Camera del lavoro Onorato Malaguti avverte però che ci si trova tutti, ora, «in una delle situazioni più critiche, più critiche di alcuni mesi fa». È evidente, a suo avviso, che «vi è una compressione nella massa operaia» ma anche alla compressione «vi è un limite». Betti esprime ai presenti la propria sensazione che a Bologna si muovano «delle squadre armate per colpire degli uomini politici dei partiti che hanno fatto parte della lotta di liberazione»; il democristiano Angelo Salizzoni, in risposta, non ha timore allora di parlare specificatamente di «delitto»: è «interesse della democrazia» che venga spezzata la catena del delitto, alimentata dal fatto che, a quasi un anno dalla fine del conflitto, «ci sono troppe armi in giro». <35
È presente, certo, un problema pressante di «attività criminosa comune» che, come scrive il questore di Forlì al prefetto e al maggiore Baldwin della polizia alleata, tracciando un quadro della situazione della sua provincia ma descrivendo anche quella di Cesena e Rimini, «ha subito una certa recrudescenza». «I partiti estremisti», i quali «contano il maggior numero di aderenti, si mostrano malcontenti per la lentezza con la quale viene effettuata l'epurazione»: il malcontento, conclude il questore, sfocia «di tanto in tanto con bastonature», a cui è difficile opporsi visto un personale di polizia «tuttora insufficiente armato, disponendo di un numero irrisorio di moschetti e di pistole» e che «scarsi e scadenti sono i mezzi di comunicazione di cui dispone la Questura». <36
L’assimilazione non argomentata e quasi istintiva tra il regime fascista e quello comunista si era verificata, come si diceva, in Emilia-Romagna già nei mesi immediatamente successivi alla Liberazione, coi primi tentativi di produzione propagandistica da parte di gruppi ostili al Pci, alcuni senza filiazione chiara. A Bologna, a fine 1945, erano apparsi slogan come «ieri in camicia nera, oggi in camicia rossa», o «che cos’era il fascismo? Niente altro che il comunismo interpretato da Mussolini», mentre si inveiva contro il «fascismo rosso». Giuseppe Dozza, che aveva intercettato i volantini e li aveva spediti a Togliatti, si dichiarava preoccupato, perché a suo dire essi erano indizi di un clima piuttosto diffuso. <37 In alcuni volantini diffusi in regione da ambienti che confluiranno nella Democrazia cristiana si scrive che il bolscevismo, «con tutti i suoi inimmaginabili terrori, distende avidamente la mano verso la patria»; <38 «la rivoluzione e i rapporti di violenza tra i Partiti non fanno che accrescere malanni e distruzione agli uomini e alle cose» e che «la rivoluzione non sarebbe che la continuazione della lotta fratricida iniziata dal fascismo»: «Guai», allora, «se avesse la maggioranza un partito totalitario, sia di destra che di sinistra: diventeremmo nuovamente schiavi di un dittatore e i nostri fratelli che sono morti per la libertà ci griderebbero dalla tomba tutto il loro sdegno». <39 L’anno successivo, ancora attraverso un volantino, la Dc regionale mette in guardia i lavoratori dal non farsi «abbagliare dalle illusioni, dalle parole grosse e dalle promesse di mari e monti alle quali seguono le più amare delusioni»; infatti, «altrove», nei paesi in cui è stata portata a termine la «rivoluzione, con le fucilazioni e con le deportazioni», «praticamente non sono riusciti ad abolire le disuguaglianze», «si sono tolti di mezzo i vecchi ricchi e ne sono sorti altri, non meno sfruttatori». <40
I comunisti in Emilia, scrive un anonimo militante democristiano modenese, «rubano cibo e vestiti per l’inverno» poi «li rivendono o li regalano a chi pare loro, agli altri comunisti». <41 I comunisti, in Romagna, secondo i repubblicani riminesi, sono i responsabili della partenza di «navi cariche di grano», «in segreto», «dall’Italia affamata verso porti stranieri a est» e «questo traffico frutta del denaro a coloro che lo esercitano, e delle armi ad un movimento… “progressivo” che per ciò proteggerebbe col grande bandierone della propria incosciente omertà la losca opera di questi affamatori del popolo». <42
 


[NOTE]
1 Roberto Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992. Dc e Pci nella storia della Repubblica, Roma, Carocci, 2006, p. 21.
2 Pietro Alberghi, Partiti politici e Cln, Bari, De Donato, 1975, p. 49.
3 Antonio Gibelli, Flaviano Schenone, L’organizzazione nell’Italia occupata, in Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione, 1921/1979, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 1048-1049.
4 Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 390.
5 Luciano Casali, Dianella Gagliani, Movimento operaio e organizzazione di massa. Il partito comunista in Emilia-Romagna (1945-1954), in La ricostruzione in Emilia-Romagna, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Parma, Pratiche Editore, 1980, p. 255.
6 Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi Asbo), Archivio Democrazia cristiana - Comitato regionale Emilia-Romagna (d’ora in poi Adcer), fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera al segretario regionale Bruno Rossi, 13 ottobre 1949.
7 Triangolo della morte, in «La Libertà», 3 aprile 1955.
8 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera al segretario regionale Bruno Rossi, 27 gennaio 1951.
9 Così Inge Botteri, Dopo la liberazione. L’Italia nella transizione tra la guerra e la pace: temi, casi, storiografia, Brescia, Grafo, 2008, p. IX.
10 I comunisti in Emilia-Romagna. Documenti e materiali, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Bologna, Istituto Gramsci Emilia-Romagna, 1981, pp. 41-46.
11 Paolo Pombeni, La ricostruzione politica in Emilia-Romagna nel quadro del contesto nazionale. Una rilettura, in Angelo Varni, La ricostruzione di una cultura politica: i gruppi dirigenti dell’Emilia-Romagna di fronte alle scelte del dopoguerra, Bologna, Il Nove, 1997, p. XXXI.
12 Comunisti, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 5, settembre 1944.
13 L’ora dell’Emilia, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 12, agosto 1944.
14 Lenin è morto: il leninismo vive!, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 1, 21 gennaio 1945.
15 Le Sap, in «La Falce. Organo dei contadini e salariati agricoli di Piacenza», 10 giugno 1944.
16 Rinascita, in «La nuova scintilla», 15 gennaio 1945.
17 Il compito e la funzione del Cln e il «Partito nuovo», in «La stampa libera. Bollettino della federazione comunista reggiana, zona montana», 1 aprile 1945.
18 Fuori dalle fabbriche, in «La nostra fabbrica», 25 luglio 1944.
19 Istituto storico di Forlì-Cesena (d’ora in poi Isfc), Archivio Comitato di liberazione nazionale, b. 3, Partiti e pubblicazioni, Conferenza dei rappresentanti comunisti nelle giunte municipali della provincia di Forlì, 31 dicembre 1944.
20 L’elemento della disciplina internazionale, occorre ricordarlo, giocò un ruolo essenziale nella condotta di tutti i partiti comunisti anche nel secondo dopoguerra tenendo pur sempre presente che né la tesi dell’autonomia, né quella della catena di comando appaiono adeguate a una ricostruzione storica. Cfr. Silvio Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della Guerra fredda (1943-1948), Roma, Carocci, 1999, p. 19.
21 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 404.
22 21 gennaio 1924. Morte del compagno Lenin, in «La lotta. Organo delle federazioni comuniste romagnole», 15-31 gennaio 1944.
23 Per l’insurrezione, in «La lotta. Organo delle federazioni comuniste romagnole», 30 giugno 1944.
24 Cosa ci insegnano le vittorie dell’Unione Sovietica?, in «La voce del partigiano», a. I, n. II, 25 gennaio 1945.
25 L’Esercito rosso ai confini della Germania, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 11, 20 luglio 1944.
26 Evviva il glorioso Esercito rosso! Evviva Stalin!, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 14, 8 novembre 1944.
27 L’Armata rossa, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 2, 22 gennaio 1945.
28 Fondazione Gramsci Emilia-Romagna (d’ora in poi Fger), Archivio Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna, b. 1, fasc. 1, Verbale riunione Cln e sindaci provincia dell’11-5-1945. Il comunista Decio Mercanti, per citare un altro esempio, ricorda che a Rimini nell’immediato dopoguerra «l’attività politica dei partiti era seguita attentamente dalle forze alleate, in particolare veniva seguita l’attività del Pci e quella del Psi anche attraverso la corrispondenza. Ci furono multe e processi a danno dei dirigenti di questi due partiti. Gli alleati, possiamo affermarlo, non agirono con la stessa imparzialità nei confronti dei diversi partiti»; cfr. Decio Mercanti, Attività del Comitato di liberazione di Rimini dalla Liberazione al suo scioglimento, in «Storie e Storia», 13 (1985), pp. 95-96. È da segnalare che, almeno per quanto riguarda il periodo resistenziale in Emilia, le carte dell’intelligence inglese ci conducono a osservazioni più sfumate; cfr. Messaggi dall’Emilia. Le missioni n. 1 Special Force e l’attività di intelligence in Emilia 1944-1945, a cura di Marco Minardi e Massimo Storchi, Parma, Edizioni dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, 2003, pp. 37-39. Per quanto riguarda, infine, i Cln, è ben noto ormai che a prescindere dall’unità di lotta e dallo sforzo bellico unitario, il dibattito al loro interno è caratterizzato, fin dai primi mesi, dai contrasti e dalle divergenze di natura politica fra chi era favorevole a una loro più puntuale valorizzazione e al loro inserimento in una struttura statuale di tipo nuovo e chi era, invece, propenso a sostenere il carattere provvisorio e straordinario, limitato ai soli compiti di direzione politica del movimento di liberazione; cfr. Pierangelo Lombardi, L’illusione al potere. Democrazia, autogoverno regionale e decentramento amministrativo nell’esperienza dei Cln (1944-45), Milano, Franco Angeli, 2003, p. 50.
29 Origini e primi atti del Cln provinciale di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Cooperativa operai tipografi, 1974, p. 28 e p. 67.
30 Propositi nostri, in «Orizzonti di libertà. Periodico emiliano del Partito d’Azione», n. 1, marzo 1944.
31 Libertà ed eguaglianza, in «La Voce repubblicana. Organo dei repubblicani dell’Emilia e Romagna», n. 3, luglio 1944.
32 Libera associazione, in «La Voce repubblicana. Organo dei repubblicani dell’Emilia e Romagna», n. 4, agosto 1944.
33 Fabio Grassi Orsini, Guerra di classe e violenza politica in Italia. Dalla Liberazione alla svolta centrista (1945-1947), in «Ventunesimo Secolo», 12 (2007), pp. 79-80.
34 Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 77. Zone calde come l’Emilia, dove il protrarsi di azioni violente ebbe proporzioni allarmanti nel cosiddetto «triangolo rosso», furono oggetto di un particolare monitoraggio da parte dello stesso Togliatti. Proprio a Reggio Emilia, com’è noto, nel settembre 1946, il segretario tenne un discorso molto netto sul rifiuto della violenza e assunse anche una posizione autocritica, facendo capire che nelle file del Pci si sarebbe dovuto vigilare di più per estirpare la mentalità illegale; cfr. Gianluca Fiocco, Togliatti, il realismo della politica, Roma, Carocci, 2018, pp. 183-184. Già a fine agosto del 1945 lo stesso Togliatti si lamentava con l’ambasciatore sovietico in Italia per l’allarmante «degenerazione del movimento partigiano al nord»; secondo il segretario molti ex partigiani si davano sempre più spesso a veri e propri episodi di banditismo che rischiavano di screditare il movimento comunista italiano nel suo complesso; cfr. Elena Aga Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 110.
35 Istituto storico Parri di Bologna (d’ora in poi Isbo), Archivio Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna, b. 3, fasc. “Ordine pubblico durante il periodo elettorale”, verbale della riunione del Cln regionale del 20 febbraio 1946.
36 Isfc, Archivio Comitato di liberazione nazionale, b. “1945. Questioni economiche, amministrative, situazione comuni post-liberazione, ordine pubblico, epurazione”, Rapporto riservato del questore di Forlì, 25 aprile 1945. È difficile, quando non impossibile, per le forze dell’ordine, distinguere fra atti di violenza politica e di criminalità comune; lo scenario romagnolo di quegli anni è ricostruito in Patrizia Dogliani, Romagna, periferia e crocevia d’Europa, in Carlo De Maria, Patrizia Dogliani, Romagna 1946. Comuni e società alla prova delle urne, Bologna, Clueb, 2007, pp. 36-49.
37 Andrea Mariuzzo, Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana (1945-1953), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, p. 125.
38 Istituto storico di Parma, Fondo Lotta di Liberazione, b. 2, Volantino a firma Democrazia cristiana, novembre 1945.
39 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, volantino con data 1946.
40 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, volantino dal titolo Lavoratore, tu devi ragionare!.
41 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera anonima datata 28 ottobre 1945.
42 Affamatori del Popolo, in «Il Dovere. Periodico della consociazione circondariale riminese del Partito repubblicano italiano», 10 agosto 1946.
Andrea Montanari, Il Pci e le altre forze politiche: temi e problemi nel lungo dopoguerra in (a cura di) Carlo De Maria, Storia del PCI in Emilia-Romagna. Welfare, lavoro, cultura, autonomie (1945-1991), Collana "OttocentoDuemila", Italia-Europa-Mondo, 9, Bologna, Bologna University Press, 2022, testo qui ripreso da Clionet - Associazione di ricerca storica e promozione culturale  

sabato 16 luglio 2022

Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti

Milano: tra Corso Sempione ed Arco della Pace

Tornato a Bologna informai Roasio, e insieme ci recammo a Milano per esaminare la situazione e portare le notizie raccolte a Padova.
Il 10 giugno [1943] si avvicinava, senza che potesse prendere corpo il vago disegno di utilizzare l'anniversario della entrata in guerra dell'Italia e della uccisione dli Giacomo Matteotti, per scatenare uno sciopero generale politico con manifestazioni di strada e pronunciamenti anche di reparti dell'esercito. Un manifesto, firmato PCI e PSI, chiamava i lavoratori ad azioni dimostrative: due minuti di silenzio al fischio della sirena delle ore 10 del mattino, non comprare i giornali, non uscire la sera dopo le 20,30. Ma non mi risulta quale diffusione tale manifesto abbia effettivamente avuto. In Emilia non credo che sia arrivato. Comunque l'invito non fu raccolto. In realtà mancavano le premesse politiche e organizzative di una tale iniziativa. I socialisti e gli azionisti opponevano la pregiudiziale repubblicana a una intesa unitaria con le forze liberali e cattoliche. Questi, attraverso i loro esponenti più autorevoli, erano sempre fermi su posizioni attesiste. La liquidazione della guerra spettava alla monarchia che l'aveva dichiarata. Il prezzo della sconfitta sarebbe stato durissimo, essi affermavano, e non conveniva che i partiti antifascisti dovessero assumersi questa responsabilità. Quindi, secondo la destra, bisognava limitarsi a promuovere l'intervento del re. Si sapeva che tentativi in questo senso, per ottenere questo intervento, erano già stati compiuti a Roma, da parte del gruppo di Bonomi e di certi ambienti militari, ma il re non si era impegnato o compromesso con affermazioni precise. Così era impossibile preparare, come avremmo voluto, un manifesto unitario di tutte le opposizioni per il 10 giugno. E del resto, anche se ci fosse stato l'accordo politico, mancavano le basi organizzative per tradurlo in azione. Dove stampare l'appello e in quanti esemplari diffonderlo? Ancora una volta si faceva sentire la sproporzione tra le necessità e le possibilità del momento e il grave ritardo organizzativo.
La venuta di Marchesi a Milano ci obbligò come centro interno a esaminare la situazione e a prendere delle decisioni. Negarville ed io fummo incaricati di avere con Marchesi un incontro, che si svolse nella sede della casa editrice Principato in corso Sempione. Convincemmo Marchesi a partire per Roma, dove avrebbe dovuto prendere contatto con i senatori Casati e Bergamini. Egli aveva già visto Casati a Milano, nella stessa sede della casa Principato. A Roma egli doveva insistere perché le pressioni sul re aumentassero in modo da ottenere al più presto un intervento per liquidare il governo fascista, con l'arresto di Mussolini e degli altri gerarchi, e promuovere la formazione di un governo di coalizione antifascista presieduto da Bonomi. I comunisti avrebbero dato il loro appoggio a tale iniziativa ed erano pronti anche a partecipare ad un governo di unità nazionale. Marchesi andò a Roma, prese contatto con i senatori Casati e Bergamini e assunse in questi colloqui le posizioni convenute con noi. Questo viaggio deve avere avuto luogo, secondo i miei ricordi, ai primi di giugno. Al ritorno a Milano ci riferì che la sua missione aveva suscitato una grande impressione. A Roma si parlava anche di un intervento dell'esercito e si facevano i nomi di Badoglio, Caviglia, Ambrosio.
Il mese di giugno passò in affannosi preparativi. Contemporaneamente, su tre piani diversi, si muovevano le iniziative per tentare di uscire dalla guerra.
In seno al partito fascista si andava raccogliendo quella che sarebbe stata la maggioranza del 24 luglio al Gran Consiglio. Era ancora presente l'illusione che, accantonando Mussolini, magari col suo consenso, sarebbe stato possibile agli stessi gerarchi fascisti trattare con gli inglesi e con gli americani il rovesciamento della alleanza. Il compromesso raggiunto da Churchill e Roosevelt con Darlan, nell'Africa del nord, costituiva un esempio, al quale gruppi di dirigenti fascisti si richiamavano. In verità, questa soluzione appariva sempre più irrealizzabile di fronte agli sviluppi de!le operazioni militari, e alle stesse reazioni politiche provocate dal compromesso fatto con Darlan. Comunque i gerarchi marciavano su questa linea, pensando di poter godere dell'appoggio del re e di certi collegamenti politici e finanziari mantenuti su scala internazionale.
Il re, muovendosi con estrema prudenza e senza mai compromettersi, teneva i contatti con tutti. Manifestava sempre a Mussolini la sua fiducia. Lasciava credere a Grandi di poter raccogliere la successione di Mussolini. Aveva ricevuto esponenti liberali, Bonomi e Orlando, ma soprattutto si orientava per la formazione di un governo di militari e di tecnici, contando sull'intervento all'ultima ora dell'esercito e della polizia.
Per evitare una successione fascista (Grandi), o una soluzione militare, bisognava che le forze antifasciste sapessero e potessero prendere in tempo una loro iniziativa politica e promuovere un intervento delle masse popolari.
Dopo il viaggio di Marchesi a Roma si arrivò, non senza ulteriori difficoltà, alla convocazione a Milano di una riunione con i rappresentanti dei partiti antifascisti. Questa si tenne il 24 giugno in corso Sempione presso l'editore Principato. Facemmo un ultimo pressante tentativo perché alla riunione andasse uno di noi due, o Negarville o io. Ma non ci fu modo di vincere la forza delle obiezioni di carattere cospirativo. Così, alla mattina del 24 noi due ci incontrammo con Marchesi, con il quale concordammo la scaletta del suo intervento e il programma di azione che doveva esporre ai rappresentanti degli altri partiti antifascisti. Alla riunione parteciparono: Casati per il PLI (allora Ricostruzione Liberale), Gronchi per la DC, Lombardi per il Partito d'azione, Basso per il MUP, Veratti per il PSI e Marchesi per il PCI. Marchesi espose, a nome del partito, il seguente piano di azione:
a) costituire un fronte nazionale, con un comitato direttivo a cui fosse affidata la direzione di tutto il movimento popolare;
b) lanciare un manifesto al paese per sollecitare l'azione insurrezionale;
c) organizzare un grande sciopero generale con manifestazioni di strada;
d) fare intervenire l'esercito a sostegno del popolo contro il governo fascista;
e) determinare, sulla base di questo movimento insurrezionale di popolo e di esercito, un intervento della monarchia, l'arresto di Mussolini e la formazione di un governo democratico che rompesse immediatamente il patto di alleanza con la Germania, concludesse un armistizio con gli alleati e ristabilisse le libertà democratiche. Questo governo doveva essere composto dai rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, compresi i comunisti.
Ho preso l'elenco delle proposte comuniste, per non essere tratto in inganno dai ricordi, dal testo della relazione presentata al V Congresso del partito, del gennaio 1946. Il secondo capitolo, che riporta questo testo, «Dal 25 luglio all'occupazione tedesca», fu redatto personalmente da me; e allora, a poco più di due anni, i ricordi erano ancora freschi. Nessuno, del resto, ha mai smentito questa parte della relazione.
Le proposte di Marchesi suscitarono una viva discussione. I due elementi che caratterizzavano il piano politico presentato dai comunisti erano, contemporaneamente, l'appello al popolo, per una sua azione diretta, e la preparazione concreta di questa azione, e, d'altro lato, l'appoggio a un intervento del re che, premuto dall'iniziativa popolare, incalzato dal precipitare degli eventi militari, sarebbe stato obbligato a prendere un'iniziativa per formare un governo di unità nazionale, incaricato di fare l'armistizio, e di preparare la resistenza alle prevedibili reazioni tedesche.
Una seconda riunione si svolse il 4 luglio in via Poerio. Vi erano gli stessi partecipanti, con l'eccezione della DC, che mandò Mentasti al posto di Gronchi, e del PLI, che mandò Leone Cattani al posto di Casati. Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti. Marchesi si urtò sempre contro le stesse obiezioni. Socialisti e azionisti non vollero rinunziare alla pregiudiziale repubblicana (anche se si doveva fare una distinzione tra la posizione rigidamente attesista assunta da Basso del MUP, e quella più duttile presa da Veratti del PSI), e democratici cristiani e liberali al loro proclamato attesismo.
Invano si cercò, con colloqui separati, di persuadere le sinistre socialista e azionista che da soli non ce la facevamo a intervenire dal basso nelle prossime settimane, in tempo utile per condizionare lo sviluppo degli avvenimenti. E invano si cercò di convincere le destre, democratici cristiani e liberali, che rinunciare a premere apertamente sul re, anche con manifestazioni dal basso, significava lasciargli le mani libere per organizzare il colpo di Stato come avrebbe voluto, giungere a un governo di militari e di tecnici, ed essere tagliati via dalla partecipazione alle trattative per la conclusione dell'armistizio. Meglio così, rispondevano i liberali e i democratici cristiani, così non ci assumeremo delle responsabilità molto gravi che non ci spettano. Ma noi siamo interessati, incalzavamo, perché le trattative per l'armistizio procedano in un certo modo e giungano a determinati risultati, in modo da permettere all'Italia di partecipare alla guerra contro la Germania, guerra che non sarà evitabile perché i tedeschi cercheranno in ogni modo di mantenere il controllo del paese.
Le discussioni erano rese più difficili dall'orientamento personale di Marchesi, che tracciava una netta delimitazione tra le proposte che egli faceva a nome del partito e che riguardavano l'attualità, e le considerazioni che a titolo individuale faceva sugli sviluppi dell'azione comunista, da lui presentata come tutta orientata alla presa del potere con la violenza. Quando, dopo la prima riunione, Marchesi ci fece la relazione sull'andamento della discussione, fu candidamente sorpreso dalla nostra reazione critica. Perché non dovevo dire queste cose? Non riuscimmo a persuaderlo che non si trattava di non dire «queste cose», di nasconderle diplomaticamente, ma di non pensarle, perché esse erano fuori della prospettiva strategica del PCI, che era quella di avanzare al socialismo per una via di democrazia progressiva.
La «doppiezza», di cui tanto si è poi parlato nelle discussioni suscitate dal XX Congresso, non è stata una invenzione tattica di Togliatti, ma il risultato della sovrapposizione, non criticamente meditata, della linea di unità nazionale elaborata dall'Internazionale comunista a partire dal VII Congresso sulla vecchia visione di un'azione diretta per l'instaurazione della dittatura del proletariato. Il fatto che il PCI si andasse ricostituendo e riorganizzando con militanti restati per anni tagliati via dalle esperienze di elaborazione del centro del partito e dell'Internazionale comunista faceva sì che in questi compagni le due linee, la vecchia e la nuova, coesistessero, si intrecciassero, si confondessero in un rapporto variabile da compagno a compagno, secondo la diversa formazione culturale e le diverse esperienze (emigrazione, carcere, attività illegale all'interno o, addirittura, prolungata forzata inattività). La lotta per affermare coerentemente la linea politica della direzione assumeva una crescente importanza. Ma l'urgenza dei tempi ci diceva che questa lotta doveva essere condotca essenzialmente nella pratica esperienza della battaglia politica, ponendo concretamente i militanti e le organizzazioni di fronte alla necessità di attuare i compiti indicati dalla direzione e corrispondenti alla gravità della situazione in cui si trovava il paese.
La discussione con gli altri partiti era resa anche più difficile dalla necessità di osservare le norme cospirative. Gli arresti di compagni e degli altri militanti antifascisti continuavano, e ciò ci ricordava la esigenza della cautela, anche se l'urgenza dei tempi esigeva una maggiore scioltezza di movimenti. In fondo, malgrado le nostre impazienze, dovevamo riconoscere che Francesco aveva ragione di essere severo e puntiglioso nell'esigere il rispetto di certe elementari norme cospirative.
Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, 1973, pagg. 105-109

mercoledì 23 marzo 2022

La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti


Alla metà del 1943 i militanti del PCd’I erano dunque in procinto di intraprendere il passaggio in Italia a lungo atteso. Il ritorno di molti dei comunisti italiani desiderosi di combattere il fascismo avvenne tramite un percorso sulle Alpi trovato da Amerigo Clocchiatti e Domenico Tomat, i primi ad averlo utilizzato nel ’42 per rientrare e prendere contatto con Massola. Le principali informazioni in proposito provengono dall’autobiografia di Clocchiatti, friulano cresciuto a poca distanza dal fronte della prima guerra mondiale, espatriato prima in Francia e poi in Belgio senza che il Cpc riuscisse a registrare i suoi spostamenti in maniera esaustiva. Tracciare un percorso sulle montagne evitando i controlli alla frontiera non fu un’impresa facile, e costò ai due incaricati, e alla guida Giulio Albini, faticose scalate tra rocce gelate. Si partiva da Saint-Martin-Vésubie e si saliva su per il monte Clapier, già oltre la frontiera, ma non si trovava un sentiero per scendere; alla fine Albini mise a punto il tragitto ripiegando attorno al monte e giungendo a Tetto Coletta, dove la casa di una contadina serviva da base di approdo per scendere a Vernante, da cui si prendeva il treno per Torino. Grazie a questo tragitto rientrarono Negarville e Roasio nel gennaio ’43 e Novella e Amendola in aprile, in questo modo “tutto il Centro estero [era stato] trasferito in Italia, per costituire nel paese un Centro interno di direzione politica e organizzativa”. Così, nell’ottica dei comunisti italiani, le peregrinazioni, la Spagna, gli arresti e la Resistenza francese furono importanti esperienze di vita e di lotta, trascorse però in attesa del ritorno e della guerra contro il fascismo, anelata e preparata per vent’anni tra le asprezze della vita quotidiana in terra straniera.
[...] I fuoriusciti rientrati costituirono la prima componente per la strutturazione della Resistenza italiana, nell’estate’ 43 in attesa di ricongiungersi con la seconda, gli esponenti del PCI incarcerati o confinati in Italia.
La terza componente furono invece le giovani generazioni che entrarono nel partito negli ultimi anni del fascismo o nelle prime fasi della Resistenza <1. I giovani avvicinatisi alle idee o ai gruppi comunisti che andavano creandosi in Italia già prima della caduta del fascismo provenivano da classi sociali differenti, ma avevano spesso alle spalle un clima antifascista. In particolare a Torino e Milano le fabbriche e i quartieri operai costituirono un fertile retroterra per la nuova generazione antifascista, dalla quale sarebbero emersi anche i principali gappisti. Non mancarono però fra i neocomunisti, e tra i terroristi urbani, giovani intellettuali o studenti. Ne sono un esempio il gruppo romano, in cui spiccano i nomi di Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice, Mario Licata e Pietro Ingrao, e i giovani antifascisti della Normale di Pisa, come Alessandro Natta e Mario Spinella; ma anche, Giovanni Giolitti, Matteo Sandretti, Ennio Carando e Ludovico Geymonat, che gravitavano a Torino attorno alla casa editrice Einaudi. Gli ultimi due insegnavano inoltre nello stesso liceo di Cesare Pavese, che conosceva Luigi Capriolo, membro del PCI, cui presentò il giovanissimo ufficiale Giaime Pintor. Alcuni di loro furono confinati negli ultimi anni trenta o all’inizio della guerra, e ricevettero a Ventotene l’educazione comunista. Le carceri e il confino furono infatti per i comunisti luoghi di studio e dibattito interno, in cui i nuovi antifascisti della fine degli anni ’30 vennero a contatto con i vecchi, personalità del calibro di Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e Gerolamo Li Causi.
A livello internazionale, la metà del ’43 fu la fase che decretò il trionfo dell’unità e dei fronti nazionali. A Casablanca Churchill, Roosevelt e Stalin avevano stabilito l’obiettivo della resa incondizionata per i nemici sconfitti e avevano concordato per giugno lo sbarco in Sicilia. Stalin teneva inoltre all’apertura del fronte decisivo in Francia e, a differenza degli altri due, era disposto a riconoscere il CFLN di De Gaulle e Giraud. In questo clima di grande alleanza, si colloca lo scioglimento del Komintern, deciso dal presidium il 15 maggio e reso pubblico il 22. La mossa serviva a ottenere la fiducia degli anglo-americani ma anche a garantire l’autonomia dei partiti comunisti nella conduzione delle guerre di liberazione nazionale in corso. Resta invariato anche con lo scioglimento dell’Internazionale comunista il fatto che “l’egemonia dell’Urss sul movimento comunista internazionale […] è indiscussa”; “la convinzione che Stalin resti il capo dei lavoratori, il capo del comunismo internazionale, si esprime in tutti i modi e i dirigenti dei massimi partiti comunisti […] sono quadri formatisi sotto la sua direzione e influenza diretta” <2. Il PCI si apprestava dunque ad avviare la guerra partigiana sulle basi unitarie già accettate a Tolosa nel ’41, e ribadite nel marzo ‘43 a Lione da Saragat, Lussu, Dozza e Amendola, poco prima del rientro di quest’ultimo in Italia. La necessità di ribadire l’unità era data non solo dall’avvicinarsi della guerra in Italia, ma anche dal bisogno di rinsaldare tale intento, messo in dubbio dal ritorno di Emilio Lussu. Egli era appena rientrato dagli Stati Uniti, dove gravitava attorno alla Mazzini Society, animata da fuoriusciti antifascisti, che attribuivano un ruolo preponderante agli anglo-americani nel rovesciamento del fascismo e non vedevano di buon occhio l’alleanza coi comunisti. Rientrato in Francia, aderì però alla linea di Tolosa secondo cui la liberazione nazionale sarebbe dovuta partire dall’interno, grazie alla collaborazione con socialisti e comunisti, di cui Trentin fu il più strenuo sostenitore tra le file di GL.
Il 3 marzo 1943 a Lione nacque dunque lo schieramento che avrebbe costituito la sinistra della Resistenza italiana e che si sarebbe congiunto con la destra nel corso dei 45 giorni. Il verbale ufficiale della riunione infatti, dopo aver ribadito gli obiettivi di Tolosa, rivolgeva a tutti gli italiani, “anche se non condividono integralmente il loro programma di ricostruzione del paese, un appello all’unione e all’azione per la pace, l’indipendenza e la libertà, e dichiara[va] che il presente accordo è aperto a tutti i partiti e movimenti che ne accettano lo spirito” <3.
La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti, soprattutto per la prudenza di Massola, ansioso di salvaguardare la cautela con cui aveva portato avanti il lavoro dal ’41. Nel settembre ’42 egli aveva ricevuto da Clocchiatti, appena rientrato, la prima lettera dal Centro Estero e si erano verificati dei contrasti a causa di iniziative propagandistiche di quest’ultimo, come il lancio di volantini, che Massola reputava premature. Ad ogni modo, nel giugno ’43 egli inviò un telegramma a Togliatti, tramite la Francia, aggiornandolo sui progressi degli ultimi mesi. Comunicava il proprio approdo in Italia nell’agosto ’41, l’arresto di Rigoletto Martini in Jugoslavia, la condanna a 24 anni di reclusione da parte del Tribunale Speciale e la sua successiva morte nel carcere di Civitavecchia nel giugno del ’42. Informava poi dell’avvio del lavoro di propaganda tramite la stampa clandestina, in particolare della comparsa dell’Unità, un numero al mese da giugno a novembre ’42 e due numeri al mese a partire dal dicembre ’42. L’approdo in Italia di Primo e Secondo, che dovrebbero essere Roasio e Novella, aveva inoltre permesso nel maggio la costituzione del Centro Interno, alla cui direzione partecipavano, oltre allo scrivente e ai due compagni citati, Roveda, Negarville, Amendola e Rina Piccolato <4. Nonostante per la formazione dei GAP bisogni ancora attendere l’autunno ’43, già nel maggio venne fatta consegnare ai dirigenti provinciali una circolare segretissima (da distruggere dopo la lettura), firmata dalla segreteria del PCI, che prescriveva:
“I patrioti italiani hanno il dovere di organizzarsi e rispondere. In questa lotta tutti i mezzi sono buoni, compresa la lotta armata. Alla violenza bisogna opporre la violenza, alle bande amate fasciste bisogna opporre i Gruppi d’azione dei patrioti, capaci di stroncare la violenza fascista colla lotta armata. […] L’esperienza internazionale della lotta armata contro l’oppressore tedesco e i traditori del proprio paese (la lotta dei patrioti jugoslavi, greci, francesi ecc) dimostra che la formazione e l’armamento di questi Gruppi di patrioti non può avvenire in modo spontaneo. Questa esperienza dimostra pure che la forza organizzatrice e dirigenti dei gruppi armati di patrioti, in tutti i paesi, è il Partito comunista.” <5
Roasio, autore per conto del partito, nella circolare spiega che doveva trattarsi di costituire “piccoli gruppi (GAP) nei primi tempi composti di soli compagni e portarli alla lotta armata, e poi, poco a poco, nella lotta allargare la loro cerchia, il loro numero, attirare i migliori e più combattivi elementi del popolo e riuscire così a organizzare un potente movimento armato di patrioti.” <6. Si prescriveva dunque ai dirigenti locali di incaricare un compagno di fiducia della formazione di questi gruppi di tre uomini, i cui membri dovevano essere scelti non “per spirito di disciplina, ma per la loro spontanea volontà” e dovevano interrompere qualsiasi legame o partecipazione alle attività di partito. Non è scritto nel documento, ma intuibile ed ammesso esplicitamente da Roasio, che la struttura dei Gap “rifletteva grossomodo quella dei FTP, di cui facevano già parte numerosi nostri compagni” <7. Nelle stesse settimane infatti quadri e militanti di base venivano richiamati dalla Francia e rientravano in Italia attraverso le Alpi o con documenti falsi; coloro che scelsero questa via avevano dunque conservato una polarità italiana, a maggior ragione coloro che avevano ormai una famiglia in Francia o vi tornarono dopo la guerra. Alcuni tra i più giovani invece, come abbiamo visto, avevano ereditato dalla famiglia italiana la tendenza politica, ma la propria esperienza personale li aveva condotti a riorientarla in senso francese.
Coloro che decisero di tornare, per combattere il fascismo in Italia, nell’estate 1943 erano nel pieno del lavoro necessario a riprendere contatto con la base di partito, i quadri prendevano appuntamento con vecchi comunisti e ne istruivano di nuovi, oltre ad allacciare i rapporti con le organizzazioni antifasciste di vari indirizzi. Le basi per il fronte nazionale all’interno furono però reputate ancora troppo fragili e nel pieno di tale riorganizzazione il Gran Consiglio del fascismo decretò la caduta di Mussolini. Il 26 luglio fu redatto il primo appello firmato dal Gruppo di ricostituzione liberale, il Partito democratico cristiano, il Partito comunista italiano, il Movimento per l’unità proletaria per la repubblica socialista, il Partito socialista italiano e il Partito d’azione. Quest’ultimo era stato fondato a Roma il 4 giugno 1942 e vi sarebbero confluiti i maggiori esponenti di Giustizia e Libertà. Si disponeva la nascita di un Comitato d’unità delle opposizioni antifasciste che richiedeva la liquidazione delle strutture del regime e la formazione di un governo che fosse espressione delle classi popolari.
Intanto, abolite le corporazioni, era in corso la ristrutturazione dei sindacati, di competenza di una commissione in cui furono nominati tra gli altri il socialista Bruno Buozzi e il comunista Giovanni Roveda. La nomina fu oggetto di critiche da Mosca, di un’intromissione del PCF e di un dibattito interno alla direzione neocostituita, che richiese una dichiarazione pubblica in cui Roveda chiarisse che l’accettazione di tale ruolo non significava sostegno politico al governo monarchico. Il nodo del contendere era costituito dal fatto che il nuovo governo moderato e la monarchia cercassero di limitare il ruolo delle masse nella transizione istituzionale post 25 luglio, dunque Roveda, in qualità di commissario sindacale, era accusato di collusione nel “soffocare il movimento di scioperi a Torino” <8. Lampredi fu inoltre latore di una lettera del PCF alla direzione italiana in cui si sosteneva che una subordinazione dei comunisti italiani al governo Badoglio avrebbe indebolito il movimento insurrezionale antinazista anche oltre i confini della penisola. Secondo il partito francese infatti, “gli alleati vedevano nel maresciallo una sorta di nuovo Darlan che operava in altre condizioni per soffocare il movimento popolare” <9. Il PCF aggiungeva poi che la questione “ci preoccupa particolarmente perché noi dobbiamo fare i conti anche in Francia con la possibile utilizzazione di nuovi Darlan e non ci sono altri modi di impedirlo che di sviluppare al massimo il movimento di massa”. Aldo Lampredi, in un biglietto del ’73 archiviato assieme alla corrispondenza non poté affermare con certezza che gli estratti delle lettere venissero effettivamente dalla Casa, “è scritto così. Però credo che debba ritenersi cosa vera perché come risulta dalla mia lettera prendo in seria considerazione il loro contenuto” <10.
Ad ogni modo, il 13 agosto i commissari della federazione sindacale chiarirono che la loro funzione aveva “uno stretto carattere sindacale, che non implica nessuna corresponsabilità politica”11. Si apriva già a questo punto il dilemma della posizione da tenere in relazione a Badoglio, in qualità di capo del governo riconosciuto dagli Alleati, che si sarebbe risolta solo al ritorno di Togliatti. Per il momento le forze antifasciste italiane decisero di adottare la linea della pressione sul governo per la pace separata, senza scatenare un movimento preinsurrezzionale, per il quale reputarono di non essere pronte. Alla metà di agosto una delle principali rivendicazioni degli antifascisti nei confronti di Badoglio riguardava la liberazione di carcerati e confinati. Il 31 luglio si era infatti costituito un comitato direttivo dei confinati a Ventotene che chiedeva la liberazione immediata e il ripristino dei collegamenti con la terraferma.
La questione si risolse quando, ai primi di agosto, Buozzi, Roveda e Grandi si recarono da Badoglio, minacciando un appello allo sciopero generale se non avesse emesso gli ordini di scarcerazione; “contro la minaccia dello sciopero generale il Maresciallo si scagliò violentemente ma dopo tre ore di discussione finì per cedere” <12.
Così tra il 19 e il 23 agosto detenuti e confinati furono liberati, restarono in carcere solo Emilio Sereni e Italo Nicoletto, consegnati all’Italia il 24 luglio e condannati dal Tribunale speciale rispettivamente a 18 e 10 anni. Sarebbero evasi dalle carceri Nuove di Torino l'8 agosto 1944.
Dunque alla fine di agosto, mentre erano in corso le trattative per l’armistizio, i bombardamenti sulle città italiane e una serie di scioperi contro la guerra, il PCd’I poteva compiere la saldatura tra le due proprie componenti storiche, i rientrati dall’esilio e i liberati dal confino. Il 29 agosto si tenne a Roma la riunione che costituì la direzione di partito, nelle persone di Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi, Roasio, Massola, Roveda, Novella, Negarville e Amendola. A Roma restarono Scoccimarro, Novella, Amendola, Roveda, Negarville e Longo, che premerà però per raggiungere Secchia, Massola, Roasio e Li Causi a Milano, da dove in caso di occupazione sarebbe stata diretta la lotta armata.
Il giorno successivo infatti Longo stilava un “promemoria sulla necessità urgente di organizzare la difesa nazionale contro l’occupazione e la minaccia di colpi di mano da parte dei tedeschi” <13. Il giorno stesso il PSI e il Pd’A accoglievano la mozione, dando vita a un comando militare tripartito composto da Luigi Longo, Sandro Pertini e Bruno Bauer. Il Comitato Centrale stilò inoltre il 2 settembre un appello alla difesa nazionale che concludeva:
“L’Italia deve, in un virile proposito di resistenza e di lotta, ritrovare la sua unità morale spezzata dal fascismo, e conquistarsi, attraverso la sua riscossa nazionale, il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni per collaborare con esse al riassetto dell’Europa e del mondo” <14.
La formula venne ripresa pressoché identica nella deliberazione del Comitato delle opposizioni, che il 9 settembre si costituiva in Comitato di liberazione nazionale:
“Nel momento in cui il nazismo tenta di istaurare a Roma ed in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza, e per conquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni” <15.
[NOTE]
1 P. Spriano, “Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin e la guerra”, op.cit. pag. 338.
2 P. Spriano, “La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata”, op.cit., pag. 206
3 Fondazione Gramsci, APC, marzo 1943, “Unità d’azione per la pace e la libertà”, dichiarazione congiunta Pci, Psiup, Gl, marzo 1943
4 Fondazione Gramsci, APC, settembre 1943, relazione in francese indirizzata a Togliatti relativa alla formazione di un fronte nazionale antifascista in Italia e informazioni riguardo ad alcuni dirigenti del Pci a firma Quinto
5 Fondazione Gramsci, APC, maggio 1943, Circolare riservata della Segreteria del partito comunista italiano riguardo alla necessità di istituire Gruppi d’azione dei patrioti.
6 Ibidem.
7 Antonio Roasio, “Figlio della classe operaia”, Vangelista editore, Milano 1977, pag.206.
8 Fondazione Gramsci, APC, Estratto di una lettera da Mosca, 6/9/1943. 9 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, lettera del PCF alla direzione del Pci in merito alle polemiche tra i due partiti, 23 sett.1943.
10 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, 1 sett.1973.
11 Il comunismo italiano durante la seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 192.
12 Giovanni Roveda, “Precisazioni”, in Rinascita a. IX, n 7-8, luglio-agosto 1952, pag.441.
13 Testo completo in Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 194-195
14 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 197.
15 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag.198.
Elisa Pareo, "Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019

lunedì 5 aprile 2021

Malgrado la fame, il mio peso era sempre di un quintale circa

Giorgio Amendola con la moglie Germaine

Bisognava ora che le posizioni unitarie affermate a Tolosa fossero fatte conoscere in America e fossero approvate dai gruppi antifascisti che vi si trovavano. Ma, soprattutto, bisognava che quelle posizioni fossero fatte conoscere in  Italia.
Attraverso i «legali», ritornati in Italia, ed i rapporti stabiliti con le famiglie di emigrati, copie dell'appello di Tolosa e circolari e lettere redatte nei mesi successivi, durante il 1942, furono inviate in Italia. Dalla corrispondenza inviata dai «legali» ai recapiti concordati appariva che il materiale inviato aveva avuto una certa diffusione e anche che veniva riprodotto. Una ricerca di archivio dovrebbe permettere di tratteggiare la carta delle aree di diffusione del  materiale inviato dalla Francia. È certo che già entro il 1941 in molte località italiane era pervenuta copia dell'appello di Tolosa. È certamente da deplorare la circostanza che, invece, copia dell'appello sia pervenuta al compagno Massola soltanto nell'estate del '42. Questo ritardo nel collegamento tra il centro estero e il centro interno non mancherà di provocare molti dannosi equivoci. Credo che, per quanto ridotta l'area di diffusione dell'appello di Tolosa, questo abbia servito a promuovere una certa preparazione politica, che dovrà permettere di accogliere con minore resistenza nel '43, dopo il 25 luglio e l'8 settembre, la linea di unità nazionale promossa dal  partito.
Era necessario tuttavia stabilire in Italia un contatto qualificato con gli esponenti antifascisti, per fare giungere loro i testi dei documenti approvati dal Comitato di Tolosa, compresa la lettera redatta da Sereni e diretta ai liberal-socialisti (della cui attività e linea politica eravamo stati informati), e per raccogliere notizie sullo stato in cui si trovavano i partiti antifascisti e sulle linee di attività che andavano svolgendo. Pensammo di affidare questo incarico a Gillo Pontecorvo, cugino di Emilio Sereni, che si trovava a Saint Tropez e che allora era per noi soprattutto un giovane simpatico sportivo, e il «fratello del fisico Bruno Pontecorvo». Ma bisognava prepararlo politicamente a compiere la sua missione, e questa fu l'occasione per fare con Germaine dei viaggi in quella magnifica località, allora ancora intatta nella bellezza delle sue spiagge deserte.
A Saint Tropez aveva trovato rifugio uno strano mondo di ìntellettuali francesi e stranieri, che sembravano vivere fuori del tempo e dello spazio, come se la guerra fosse una cosa remota. (Ma a Saint Tropez vi erano anche dei bravi compagni emigrati italiani, tra i quali il proprietario di un noto ristorante, dove aveva trovato rifugio e una base di attività Claudine Pajetta, che intravidi senza avvicinarla perché la consegna era di non conoscerci).
I viaggi a Saint Tropez erano allietati dalla squisita ospitalità di Gillo e di sua moglie Henriette. Quando non c'era nulla da mangiare, c'era sempre la risorsa della pesca subacquea nella quale Gillo era un asso. Il mare era allora  molto pescoso. Gillo si tuffava e tornava con un grosso pesce, per poi rituffarsi e prenderne rapidamente un secondo. Il primo era destinato allo scambio contro generi in natura: pane, olio, pasta. Il secondo veniva arrostito. E saltava  fuori un magnifico pranzo che per noi affamati di Marsiglia rappresentava una grande festa. Ma non fu per questi motivi turistico-gastronomici che la preparazione di Gillo andò per le lunghe. Alla fine, quando egli partì, si era già nell'estate del 1942.
In Italia egli prese contatto con Edoardo Volterra e questi lo presentò a La Malfa e a Tino. Gillo consegnò a  Volterra il materiale che aveva portato con sé e, tornato in Francia, ci portò informazioni dalle quali risultava che in quel  momento, nel settembre '42, alla vigilia di El Alamein e dello sbarco in Africa degli anglo-americani, lo stato di organizzazione dei partiti antifascisti era ancora assolutamente arretrato. In pratica, si era ancora ai primi contatti. I vecchi «popolari» andavano riannodando prudentemente le fila e preparavano i loro «nuovi orientamenti». I vecchi socialisti erano anch'essi alla fase dei radi contatti tra vecchi amici. Era in corso una discussione sul carattere di un partito nuovo in formazione, dove la pregiudiziale repubblicana spingeva dei democratici liberali come La Malfa accanto ai liberal-socialisti in un bell'imbroglio ideologico e politico, mentre altri democratici liberali venivano respinti a destra verso Croce e i conservatori. Queste informazioni, abbastanza deludenti, contrastavano con quelle provenienti dai nostri compagni «legali», attestanti tutte una crescente estensione del malcontento antifascista nelle masse. In particolare veniva segnalata la importanza assunta dal rifiuto dei contadini di obbedire all'ordine di consegna del raccolto all'ammasso. Veniva indicata la crisi crescente del partito fascista, il dilagare di un atteggiamento di indisciplina, di larga e palese violazione delle disposizioni fasciste.
Portai queste notizie a Nenni che, dopo un breve arresto, era stato trasferito dalle autorità francesi da Palade, nei Pirenei, a Le Croizet, un paese di montagna presso la cittadina di Saint Flour nell'Auvergne. In quel periodo (1942) andai più volte a trovare Nenni. Era una zona della vecchia provincia francese verde e fresca, miracolosamente intatta, non colpita dalla guerra né dalle sue conseguenze. Erano per Nenni giorni di grande ansia per la sorte di sua figlia Vittoria, arrestata a Parigi assieme a suo marito.
L'accoglienza della famiglia Nenni fu molto affettuosa e generosa. Il primo problema era sempre quello di trovare il modo di soddisfare la mia fame arretrata. E la signora Carmen, da brava romagnola, riusciva fare anche il miracolo di trovare la farina per fare delle tagliatele, condite con i funghi raccolti nei boschi da Nenni con la mia impacciata partecipazione. Una volta Nenni arrivò a compiere la prodezza sportiva di portarmi, per non farmi perdere il treno, sulla canna della bicicletta fino alla stazione lontana circa dieci chilometri. Malgrado la fame, il mio peso era sempre di un quintale circa.
In quelle visite, oltre alle questioni politiche di attulità, ci imbarcammo in lunghe e interminabili accalorate discussioni, che ci permisero un ampio e libero riesame critico delle vicende sfortunate dell'antifascismo italiano. Fu in quella occasione che conobbi meglio Nenni e strinsi con lui un'amicizia che dura tuttora e che ha resistito a tutti i motivi di gravi dissensi politici maturati nel corso dei travagliati sviluppi della lotta politica italiana.
Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, 1973, pp. 68-70