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sabato 16 luglio 2022

Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti

Milano: tra Corso Sempione ed Arco della Pace

Tornato a Bologna informai Roasio, e insieme ci recammo a Milano per esaminare la situazione e portare le notizie raccolte a Padova.
Il 10 giugno [1943] si avvicinava, senza che potesse prendere corpo il vago disegno di utilizzare l'anniversario della entrata in guerra dell'Italia e della uccisione dli Giacomo Matteotti, per scatenare uno sciopero generale politico con manifestazioni di strada e pronunciamenti anche di reparti dell'esercito. Un manifesto, firmato PCI e PSI, chiamava i lavoratori ad azioni dimostrative: due minuti di silenzio al fischio della sirena delle ore 10 del mattino, non comprare i giornali, non uscire la sera dopo le 20,30. Ma non mi risulta quale diffusione tale manifesto abbia effettivamente avuto. In Emilia non credo che sia arrivato. Comunque l'invito non fu raccolto. In realtà mancavano le premesse politiche e organizzative di una tale iniziativa. I socialisti e gli azionisti opponevano la pregiudiziale repubblicana a una intesa unitaria con le forze liberali e cattoliche. Questi, attraverso i loro esponenti più autorevoli, erano sempre fermi su posizioni attesiste. La liquidazione della guerra spettava alla monarchia che l'aveva dichiarata. Il prezzo della sconfitta sarebbe stato durissimo, essi affermavano, e non conveniva che i partiti antifascisti dovessero assumersi questa responsabilità. Quindi, secondo la destra, bisognava limitarsi a promuovere l'intervento del re. Si sapeva che tentativi in questo senso, per ottenere questo intervento, erano già stati compiuti a Roma, da parte del gruppo di Bonomi e di certi ambienti militari, ma il re non si era impegnato o compromesso con affermazioni precise. Così era impossibile preparare, come avremmo voluto, un manifesto unitario di tutte le opposizioni per il 10 giugno. E del resto, anche se ci fosse stato l'accordo politico, mancavano le basi organizzative per tradurlo in azione. Dove stampare l'appello e in quanti esemplari diffonderlo? Ancora una volta si faceva sentire la sproporzione tra le necessità e le possibilità del momento e il grave ritardo organizzativo.
La venuta di Marchesi a Milano ci obbligò come centro interno a esaminare la situazione e a prendere delle decisioni. Negarville ed io fummo incaricati di avere con Marchesi un incontro, che si svolse nella sede della casa editrice Principato in corso Sempione. Convincemmo Marchesi a partire per Roma, dove avrebbe dovuto prendere contatto con i senatori Casati e Bergamini. Egli aveva già visto Casati a Milano, nella stessa sede della casa Principato. A Roma egli doveva insistere perché le pressioni sul re aumentassero in modo da ottenere al più presto un intervento per liquidare il governo fascista, con l'arresto di Mussolini e degli altri gerarchi, e promuovere la formazione di un governo di coalizione antifascista presieduto da Bonomi. I comunisti avrebbero dato il loro appoggio a tale iniziativa ed erano pronti anche a partecipare ad un governo di unità nazionale. Marchesi andò a Roma, prese contatto con i senatori Casati e Bergamini e assunse in questi colloqui le posizioni convenute con noi. Questo viaggio deve avere avuto luogo, secondo i miei ricordi, ai primi di giugno. Al ritorno a Milano ci riferì che la sua missione aveva suscitato una grande impressione. A Roma si parlava anche di un intervento dell'esercito e si facevano i nomi di Badoglio, Caviglia, Ambrosio.
Il mese di giugno passò in affannosi preparativi. Contemporaneamente, su tre piani diversi, si muovevano le iniziative per tentare di uscire dalla guerra.
In seno al partito fascista si andava raccogliendo quella che sarebbe stata la maggioranza del 24 luglio al Gran Consiglio. Era ancora presente l'illusione che, accantonando Mussolini, magari col suo consenso, sarebbe stato possibile agli stessi gerarchi fascisti trattare con gli inglesi e con gli americani il rovesciamento della alleanza. Il compromesso raggiunto da Churchill e Roosevelt con Darlan, nell'Africa del nord, costituiva un esempio, al quale gruppi di dirigenti fascisti si richiamavano. In verità, questa soluzione appariva sempre più irrealizzabile di fronte agli sviluppi de!le operazioni militari, e alle stesse reazioni politiche provocate dal compromesso fatto con Darlan. Comunque i gerarchi marciavano su questa linea, pensando di poter godere dell'appoggio del re e di certi collegamenti politici e finanziari mantenuti su scala internazionale.
Il re, muovendosi con estrema prudenza e senza mai compromettersi, teneva i contatti con tutti. Manifestava sempre a Mussolini la sua fiducia. Lasciava credere a Grandi di poter raccogliere la successione di Mussolini. Aveva ricevuto esponenti liberali, Bonomi e Orlando, ma soprattutto si orientava per la formazione di un governo di militari e di tecnici, contando sull'intervento all'ultima ora dell'esercito e della polizia.
Per evitare una successione fascista (Grandi), o una soluzione militare, bisognava che le forze antifasciste sapessero e potessero prendere in tempo una loro iniziativa politica e promuovere un intervento delle masse popolari.
Dopo il viaggio di Marchesi a Roma si arrivò, non senza ulteriori difficoltà, alla convocazione a Milano di una riunione con i rappresentanti dei partiti antifascisti. Questa si tenne il 24 giugno in corso Sempione presso l'editore Principato. Facemmo un ultimo pressante tentativo perché alla riunione andasse uno di noi due, o Negarville o io. Ma non ci fu modo di vincere la forza delle obiezioni di carattere cospirativo. Così, alla mattina del 24 noi due ci incontrammo con Marchesi, con il quale concordammo la scaletta del suo intervento e il programma di azione che doveva esporre ai rappresentanti degli altri partiti antifascisti. Alla riunione parteciparono: Casati per il PLI (allora Ricostruzione Liberale), Gronchi per la DC, Lombardi per il Partito d'azione, Basso per il MUP, Veratti per il PSI e Marchesi per il PCI. Marchesi espose, a nome del partito, il seguente piano di azione:
a) costituire un fronte nazionale, con un comitato direttivo a cui fosse affidata la direzione di tutto il movimento popolare;
b) lanciare un manifesto al paese per sollecitare l'azione insurrezionale;
c) organizzare un grande sciopero generale con manifestazioni di strada;
d) fare intervenire l'esercito a sostegno del popolo contro il governo fascista;
e) determinare, sulla base di questo movimento insurrezionale di popolo e di esercito, un intervento della monarchia, l'arresto di Mussolini e la formazione di un governo democratico che rompesse immediatamente il patto di alleanza con la Germania, concludesse un armistizio con gli alleati e ristabilisse le libertà democratiche. Questo governo doveva essere composto dai rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, compresi i comunisti.
Ho preso l'elenco delle proposte comuniste, per non essere tratto in inganno dai ricordi, dal testo della relazione presentata al V Congresso del partito, del gennaio 1946. Il secondo capitolo, che riporta questo testo, «Dal 25 luglio all'occupazione tedesca», fu redatto personalmente da me; e allora, a poco più di due anni, i ricordi erano ancora freschi. Nessuno, del resto, ha mai smentito questa parte della relazione.
Le proposte di Marchesi suscitarono una viva discussione. I due elementi che caratterizzavano il piano politico presentato dai comunisti erano, contemporaneamente, l'appello al popolo, per una sua azione diretta, e la preparazione concreta di questa azione, e, d'altro lato, l'appoggio a un intervento del re che, premuto dall'iniziativa popolare, incalzato dal precipitare degli eventi militari, sarebbe stato obbligato a prendere un'iniziativa per formare un governo di unità nazionale, incaricato di fare l'armistizio, e di preparare la resistenza alle prevedibili reazioni tedesche.
Una seconda riunione si svolse il 4 luglio in via Poerio. Vi erano gli stessi partecipanti, con l'eccezione della DC, che mandò Mentasti al posto di Gronchi, e del PLI, che mandò Leone Cattani al posto di Casati. Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti. Marchesi si urtò sempre contro le stesse obiezioni. Socialisti e azionisti non vollero rinunziare alla pregiudiziale repubblicana (anche se si doveva fare una distinzione tra la posizione rigidamente attesista assunta da Basso del MUP, e quella più duttile presa da Veratti del PSI), e democratici cristiani e liberali al loro proclamato attesismo.
Invano si cercò, con colloqui separati, di persuadere le sinistre socialista e azionista che da soli non ce la facevamo a intervenire dal basso nelle prossime settimane, in tempo utile per condizionare lo sviluppo degli avvenimenti. E invano si cercò di convincere le destre, democratici cristiani e liberali, che rinunciare a premere apertamente sul re, anche con manifestazioni dal basso, significava lasciargli le mani libere per organizzare il colpo di Stato come avrebbe voluto, giungere a un governo di militari e di tecnici, ed essere tagliati via dalla partecipazione alle trattative per la conclusione dell'armistizio. Meglio così, rispondevano i liberali e i democratici cristiani, così non ci assumeremo delle responsabilità molto gravi che non ci spettano. Ma noi siamo interessati, incalzavamo, perché le trattative per l'armistizio procedano in un certo modo e giungano a determinati risultati, in modo da permettere all'Italia di partecipare alla guerra contro la Germania, guerra che non sarà evitabile perché i tedeschi cercheranno in ogni modo di mantenere il controllo del paese.
Le discussioni erano rese più difficili dall'orientamento personale di Marchesi, che tracciava una netta delimitazione tra le proposte che egli faceva a nome del partito e che riguardavano l'attualità, e le considerazioni che a titolo individuale faceva sugli sviluppi dell'azione comunista, da lui presentata come tutta orientata alla presa del potere con la violenza. Quando, dopo la prima riunione, Marchesi ci fece la relazione sull'andamento della discussione, fu candidamente sorpreso dalla nostra reazione critica. Perché non dovevo dire queste cose? Non riuscimmo a persuaderlo che non si trattava di non dire «queste cose», di nasconderle diplomaticamente, ma di non pensarle, perché esse erano fuori della prospettiva strategica del PCI, che era quella di avanzare al socialismo per una via di democrazia progressiva.
La «doppiezza», di cui tanto si è poi parlato nelle discussioni suscitate dal XX Congresso, non è stata una invenzione tattica di Togliatti, ma il risultato della sovrapposizione, non criticamente meditata, della linea di unità nazionale elaborata dall'Internazionale comunista a partire dal VII Congresso sulla vecchia visione di un'azione diretta per l'instaurazione della dittatura del proletariato. Il fatto che il PCI si andasse ricostituendo e riorganizzando con militanti restati per anni tagliati via dalle esperienze di elaborazione del centro del partito e dell'Internazionale comunista faceva sì che in questi compagni le due linee, la vecchia e la nuova, coesistessero, si intrecciassero, si confondessero in un rapporto variabile da compagno a compagno, secondo la diversa formazione culturale e le diverse esperienze (emigrazione, carcere, attività illegale all'interno o, addirittura, prolungata forzata inattività). La lotta per affermare coerentemente la linea politica della direzione assumeva una crescente importanza. Ma l'urgenza dei tempi ci diceva che questa lotta doveva essere condotca essenzialmente nella pratica esperienza della battaglia politica, ponendo concretamente i militanti e le organizzazioni di fronte alla necessità di attuare i compiti indicati dalla direzione e corrispondenti alla gravità della situazione in cui si trovava il paese.
La discussione con gli altri partiti era resa anche più difficile dalla necessità di osservare le norme cospirative. Gli arresti di compagni e degli altri militanti antifascisti continuavano, e ciò ci ricordava la esigenza della cautela, anche se l'urgenza dei tempi esigeva una maggiore scioltezza di movimenti. In fondo, malgrado le nostre impazienze, dovevamo riconoscere che Francesco aveva ragione di essere severo e puntiglioso nell'esigere il rispetto di certe elementari norme cospirative.
Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, 1973, pagg. 105-109

giovedì 26 maggio 2022

Il comandante partigiano Renato

Otello Pighin sottotenente del 9° reggimento artiglieria Brennero (Arch. Pighin - Bortolin) - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

La Resistenza padovana fu invece incentrata e organizzata soprattutto all'interno dell'università della città, o comunque da personalità legate al mondo accademico, tanto che all'università di Padova, unica in Italia, venne assegnata nel dopoguerra la medaglia d'oro al valore militare. Nei giorni seguenti l'armistizio Silvio Trentin, (già professore a Ca' Foscari), Concetto Marchesi e Egidio Meneghetti, rispettivamente rettore e prorettore dell'università patavina, organizzano il Cln Veneto (dotato anche di una sua propria pubblicazione, ”Fratelli d' Italia”) che aveva la sua sede a Padova nel palazzo Papafava.
Oltre all'università operano anche altri protagonisti. Il partito comunista aveva insediato a Padova la delegazione triveneta delle brigate “Garibaldi”; squadre di Giustizia e Libertà, guidate dall'ingegnere Otello Pighin, si dedicavano ad attentati e sabotaggi a fabbriche e mezzi di comunicazione. Arrivarono anche ad incendiare la sede, in uno studio dell'università, del giornale studentesco fascista “Il bò”.
A Padova operava anche la banda fascista chiamata “Carità“(dal nome di Mario Carità). Dopo un trascorso in Toscana, la banda scelse come sua sede il Palazzo Giusti, continuando nel tentativo di indebolire la Resistenza, tramite frequenti torture e uccisioni.
Francesco Corniani, Un marinaio in montagna. Storia di Bruno Viola e dell’eccidio di Malga Zonta, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari, Venezia, Anno accademico 2009-2010

Il prof. Egidio Meneghetti dopo la Liberazione (Arch. CASREC unipd) - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

L'ingegnere Otello Pighin e don Giovanni Apolloni, professore di matematica al Seminario Maggiore e al Liceo Barbarigo di Padova, furono tra i primi organizzatori della Resistenza nel Veneto; fin dal gennaio 1944, Padova divenne teatro di azioni dinamitarde che, se non recavano danni sostanziali, infliggevano ai nazifascisti pesanti colpi sul piano psicologico. In particolare, durante la notte tra il 6 e il 7 febbraio 1944, in occasione dell'anniversario della rivoluzione studentesca antiaustriaca dell'8 febbraio 1848, Otello Pighin, Corrado Lubian, Guido Billanovich e lo studente Gianfranco De Bosio entrarono al Bò' con l'aiuto di un bidello, seminarono per tutte le aule migliaia di volantini inneggianti alla rivolta, posero una bomba ad orologeria nello studio del direttore del giornale universitario “Il Bo'”, di ispirazione fascista, ricoprirono le pareti di scale e segreteria di scritte “fuori i tedeschi! viva Marchesi! rivoltatevi! ricordatevi di Matteotti! per una università libera! ricordiamo don Minzoni!”. L'esplosione dell'ordigno, programmata per l'8 febbraio, venne tuttavia coperta dalle esplosioni dovute al pesante bombardamento che subì Padova; durato più ore, provocò 200 morti. Il 7 gennaio 1945, Otello Pighin cadde in una imboscata, ferito e catturato, sottoposto a torture, fu fucilato dalla banda Carità. Il 20 marzo anche Corrado Lubian, che l'aveva sostituito, cadde in un tranello e venne ucciso. Gianfranco De Bosio, successivamente affermato regista, traspose le vicende alle quali aveva partecipato in un film; “Il terrorista” del 1963. (cfr. Padova nel 1943. Dalla crisi del regime fascista alla Resistenza, a cura di Giuliano Lenci e Giorgio Segato, Il Poligrafo, Padova 1996, pag. 270 e Pierantonio Gios, Un vescovo tra nazifascisti e partigiani. Mons. Carlo Agostini vescovo di Padova (25 luglio 1943- 2 maggio 1945), Istituto per la storia ecclesiastica padovana, Padova 1986, pagg. 54 e 55).
(a cura di) Francesco Tessarolo, È questa l'ora … diario di Lino Camonico Martire bassanese della Resistenza (7 ottobre 1943 - agosto 1944), Attilio Fraccaro editore, 2011

Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

La mattina del 10 gennaio 1945 il custode del cimitero di Abano trovò, abbandonato presso il camposanto, un cadavere nudo e insanguinato. Dalle prime indagini e dal “Verbale di visita a cadavere di sconosciuto”, redatto nel pomeriggio dello stesso giorno dall’ufficiale di stato civile del comune, assistito dall’ufficiale sanitario, risultò che il cadavere era quello di una persona di sesso maschile “deceduta per ferite d’arma da fuoco all’Albergo Trieste, sede dell’Ospedale Germanico n° 12462”, “di corporatura media, statura sui 170 centimetri, capelli castani, barba rasa, baffi castani, completamente privo d’indumenti e di documenti di identificazione, dell’apparente età di anni 40”.
La notizia si diffuse rapidamente e presto si venne a sapere che il corpo che, restituito in modo così barbaro e pietosamente sepolto in una fossa senza nome, era quello dell’ingegner Otello Pighin, assistente alla facoltà di Ingegneria, ma soprattutto uno dei più audaci e abili comandanti partigiani, notissimo in tutto il Veneto col nome di battaglia di “Renato”. Pighin era stato gravemente ferito il 7 gennaio 1945 a Padova in un agguato organizzato dai fascisti della “banda Carità” con la collaborazione di un traditore, torturato mentre era in fin di vita e infine spirato il 9 gennaio nelle mani dei tedeschi.
A Pighin l’università di Padova deve una delle pagine più luminose dei suoi ottocento anni di storia. Nato a Lusia (Rovigo) nel 1912 e laureato in ingegneria meccanica a Padova nel 1939, come i migliori tra i giovani cresciuti nel ventennio della dittatura aveva maturato la sua coscienza politica grazie alla guerra, combattuta da sottotenente di complemento del 9° reggimento artiglieria Brennero. Partecipò nel giugno del 1940 alla breve e fallimentare campagna sul fronte occidentale contro la Francia, e pochi mesi dopo fu mandato a combattere sul fronte greco-albanese, dove soffrì le tragiche conseguenze dell’impreparazione dell’esercito italiano.
Pighin fu rimpatriato per malattia in agosto 1941 e dopo lunga degenza ospedaliera fu posto in congedo assoluto in aprile 1942 e iscritto nel ruolo d’onore degli ufficiali inabili al servizio per invalidità di guerra.
Il 16 agosto 1943 fu nominato assistente supplente presso l’Istituto di Macchine della Facoltà d’Ingegneria per l’anno accademico 1943-44. Nei pochi mesi in cui poté prestare servizio, prima di doversi allontanare precipitosamente dall’Istituto, il 30 dicembre 1943, per sfuggire all’arresto della Feldgendarmerie, si dimostrò “assistente capace e solerte”, come disse il prof. Egidio Meneghetti (1892-1961), principale animatore della Resistenza in Veneto, nell’orazione funebre tenuta il 29 maggio 1945 a Palazzo Bo.
Dopo l’8 settembre 1943 e la fuga del Re e degli inetti comandanti dell’esercito, a Padova il rettore dell’università Concetto Marchesi (1878-1957) e il pro-rettore Egidio Meneghetti dettero vita al Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto (C.L.N.R.V.), da cui derivò il C.L.N. provinciale di Padova. Il manifesto di Marchesi, largamente diffuso in tutto il Veneto, fu il primo documento della guerra dichiarata ai nazifascisti e l’invito a dare inizio alla lotta.
Nella sua decisione di aderire alla resistenza Pighin trovò ispirazione e appoggio in Adolfo Zamboni (1891-1960), grande decorato della guerra 1915-1918 e maggiore di complemento dell’esercito, avversario dichiarato del regime fin dal suo inizio e promotore a Padova del Partito d’Azione, cui anche Pighin aderì. Zamboni e Pighin, animati da grande amore per la patria e spinti da un forte senso del dovere di stampo mazziniano, fecero proprie le esortazioni del grande patriota ottocentesco, evidenziandole anche nella testata de “il Maglio”, il giornale dei giovani del Partito d’Azione di cui Pighin fu promotore, redattore e diffusore.
Essi sapevano di poter contare effettivamente su pochi uomini, ma “puri e decisi”, e solo successivamente, dopo aver sparso il seme, su una più larga adesione popolare. Perciò il tipo di lotta contro fascisti e tedeschi che Pighin condusse brillantemente per più di un anno a capo di piccoli gruppi mobilissimi di audaci patrioti si ispirò ai metodi mazziniani della “guerra d’insurrezione per bande”, la guerra del popolo “invincibile e indistruttibile”, che costringe il nemico a una guerra insolita, insidiosa e logorante, spingendolo senza scampo alla disfatta.
Come armi Pighin, da esperto ufficiale d’artiglieria e ingegnere, scelse gli esplosivi e le miscele incendiarie, preparate nei laboratori universitari o nelle cantine di case bombardate, che, “per salvare la Patria, dovevano lacerare le carni della Patria stessa”. Le prime ampolle di fosforo Pighin le provò nel lavandino della stanza dello studente Gianfranco de Bosio al Pensionato “Antonianum”. Poi andarono insieme a lanciarle nel retro dell’ultimo camion di una autocolonna militare tedesca mentre entrava nella grande autorimessa della Wermacht, facendo divampare un incendio che distrusse una quantità di veicoli.
L’altra arma prediletta da Pighin fu il ciclostile, con cui imprimeva su manifestini e giornali “le parole della ribellione, dell’incitamento, dello sdegno, della rivolta”, come disse Meneghetti al suo funerale.
Incurante dei rischi mortali e della allettante taglia di un milione di lire, enorme per quel tempo, messa dalle autorità sulla sua testa, “Renato” si muoveva impavido per la città, solo leggermente travisato con abiti dimessi e grandi occhiali cerchiati “che smorzavano la fredda audacia degli occhi azzurri”. Quando Lina Geremia, la sua eroica moglie, fu arrestata in aprile 1944, fu tanto audace da farle visita nel vecchio e tetro carcere dei Paolotti, spacciandosi per lontano parente.
Fin dall’inizio Pighin seppe affratellare nella lotta studenti e cittadini. Tre giovani di Voltabarozzo, due studenti e un operaio, già uniti idealmente, furono tra i primissimi ad unirsi a lui. I nuclei divennero squadre, che si moltiplicarono col passare dei mesi diventando battaglioni, alcuni con carattere di piccole formazioni militari permanenti, fino a costituire la famosa Brigata Guastatori Giustizia e Libertà, che fu intitolata a Silvio Trentin (1885-1944), il grande antifascista e federalista arrestato a Padova il 19 novembre 1943 e morto il 12 marzo 1944: la brigata “universitaria” prediletta dal prof. Meneghetti.
La Brigata contava tra i suoi componenti anche dei sacerdoti: don Giovanni Apolloni, insegnante del collegio Barbarigo, che per mesi fu carcerato e torturato dalla “Banda Carità”; don Francesco Frasson, amministratore del Seminario; i Benedettini del monastero di S. Giustina padre Angelo Marincich e padre Stefano Graiff. Altri religiosi resero generosi e preziosissimi servigi: il padre abate di S. Giustina Timoteo Campi, padre Carlo Messori, padre Mariano Girotto, don Pietro Costa, don Luigi Panarotto e tanti altri.
Padova era allora il cuore di una regione strategicamente importantissima: a Luvigliano aveva sede il comando della X Armata tedesca; ad Abano quello della Luftwaffe; a Recoaro a fine settembre 1944 il maresciallo Kesselring trasferì il comando supremo tedesco in Italia; a Montemerlo era installata la centrale telefonica per l’intera Alta Italia.
Una delle prime azioni di “Renato” ebbe luogo il 17 novembre 1943, requisendo a Padova, rivoltella alla mano e con un solo compagno, 450 cappotti militari, che servirono per equipaggiare i partigiani della costituenda Brigata Giustizia e Libertà “Italia Libera”, legata al Partito d’Azione, che Lodovico Todesco (1914-1944), laureando in Medicina, stava costituendo sul Grappa a Campocroce. Poco dopo organizzò a Noale il sequestro di 23 quintali di tritolo. Molte armi gli furono fornite da carabinieri simpatizzanti.
Nei primi mesi Pighin si occupò anche del salvataggio dei moltissimi militari britannici e del Commonwealth fuggiti dai campi di prigionia del Padovano dopo l’8 settembre 1943 e braccati dai nazifascisti. Alcuni di loro furono avviati in montagna, dove combatterono con i partigiani. Molti furono protetti, nutriti e avviati verso Sud; molti altri furono aiutati a raggiungere la salvezza in Svizzera, spesso supportati da un’organizzazione di giovani coraggiosi guidati da padre Placido Cortese e Armando Romani con le tre sorelle Martini. Con l’aiuto dei carabinieri che collaboravano con lui, Pighin fece mettere al sicuro in Valrovina, sopra Bassano, anche alcuni gli ebrei padovani.
Sul finire dell’anno all’Istituto di Macchine giunse voce che l’ing. Pighin esercitasse attività politica e fosse ricercato dalla polizia. La mattina del 30 dicembre 1943 Pighin scampò all’arresto allontanandosi dall’Istituto poco prima che due funzionari della Felgendarmerie si presentassero per cercarlo. Così i poliziotti arrestarono sua moglie Lina, che si trovava casualmente in Istituto, la fecero salire sulla loro vettura e si fecero accompagnare nella sua abitazione per ricercare delle armi che sospettavano vi fossero nascoste.
Nel gennaio 1944 “Renato” avviò azioni intimidatorie contro alcune fabbriche che producevano per i tedeschi. La sfida ai nazifascisti fu lanciata proprio nel cuore dell’Ateneo, alla vigilia dell’8 febbraio 1944: due squadre, composte per lo più da studenti, distrussero con una bomba la redazione del giornale Il Bò, organo del Gruppo Universitario Fascista (G.U.F.). Nei giorni seguenti furono lanciati nelle vie cittadine i volantini con l’appello alla rivolta del prof. Concetto Marchesi, il Rettore Magnifico costretto a rifugiarsi in Svizzera.
Nei mesi successivi Pighin e i suoi uomini si dedicarono con efficienza a una straordinaria campagna di attentati, sabotaggi alle linee ferroviarie e telefoniche e ai ponti stradali che misero seriamente in difficoltà gli occupanti nazifascisti. “Renato” però non volle mai che si facessero esecuzioni sommarie di nemici, ma si limitò a beffarli e a ridicolizzarli. In aprile 1944 grande effetto psicologico ebbe l’uso del fosforo in fialette con cui per parecchie sere furono spruzzate e incendiate le divise di una ventina di ufficiali fascisti, i quali agitandosi in preda al panico si coprirono di ridicolo davanti ai cittadini.
Parte del supporto logistico veniva della “Fra.Ma.”, l’organizzazione così denominata dalle iniziali dei cognomi dei professori Ezio Franceschini e Concetto Marchesi; con loro collaboravano l’industriale padovano Giorgio Diena (1897-1960), titolare della fabbrica Zedapa, che per la sua attività fu deportato a Dachau, e la sorella Wanda Diena Scimone.
Il 12 aprile 1944 Pighin, da tempo sospettato, fu arrestato e condotto alla caserma Mussolini, nel vecchio collegio Pratense di fronte al Santo, da cui riuscì subito a fuggire, rifugiandosi nel pensionato universitario “Antonianum”, retto dai Gesuiti.
Alle speranze dell’estate, quando la guerra di liberazione pareva ormai vicina alla vittoriosa conclusione, seguì la più amara delusione, quando l’offensiva sferrata a fine agosto 1944 dall’8a armata britannica e dalla 5a armata statunitense si infranse contro le fortificazioni della Linea Gotica che si stendevano da Massa a Pesaro. I tedeschi in ripiegamento dal Centro Italia e i fascisti al loro seguito si addensarono nel Veneto, scatenando “le più atroci furie della più atroce guerra”, come scrisse Meneghetti esortando i Veneti alla “prova suprema”.
Quando il C.L.N. venne in possesso dei piani segreti con cui i tedeschi intendevano devastare il Veneto con estese distruzioni e vasti allagamenti per fare della regione la loro estrema linea di resistenza all’avanzata delle forze angloamericane, l’ing. Pighin venne designato come comandante della piazza di Padova col compito di operare alle spalle dei tedeschi con un ridotto contingente di giovani audaci.
Intanto nei primi giorni di novembre 1944 giunse a Padova e si insediò a palazzo Giusti in via S. Francesco uno dei più feroci organi repressivi della R.S.I.: il Reparto Servizi Speciali, alle dipendenze delle SS-SD tedesche, comandato dal maggiore Mario Carità (1904-1945). Adottando senza alcuno scrupolo i metodi nazisti, in breve la famigerata “Banda Carità” causò perdite disastrose per il C.L.N., non per merito di abilità investigative particolari, ma per effetto del disprezzo di ogni legge, dell’impiego di spie, delatori e traditori e soprattutto dell’uso sistematico della tortura. Carità usava volentieri i suoi forti pugni da pugilatore, ma prediligeva il crudele supplizio dell’elettricità, che provocava dolori tremendi nelle parti più delicate del corpo senza sporcare le mani dei torturatori.
A Natale del 1944 l’ing. Pighin, sentendosi sempre più braccato, dovette ancora una volta cambiare abitazione e si trasferì in una casa dell’Arcella, il quartiere più bombardato. Calmo e instancabile come sempre, il comandante “Renato” lavorava nella stanza adibita a tipografia clandestina, tra molte armi e pacchi di sigarette sequestrate da distribuire ai suoi compagni. Nella stanza accanto la moglie Lina, laureata in Medicina, che non si era mai voluta allontanare dal marito, stirava serenamente e la figlioletta Elena giocava vivacissima.
l 7 gennaio 1945 fu il giorno più funesto per la Resistenza veneta. Quel giorno, alle ore 17.30, Pighin fu attirato sotto i portici di via Rogati, presso il ponte Barbarigo, da Mario Santoro, alias “Capitano Castelli” e poi “Leonida”: un partigiano azionista che, a seguito della cattura, aveva ceduto alle sevizie e si era trasformato in zelante traditore. Si trattava di un agguato: nel gelido imbrunire Pighin venne ferito a morte dal sergente Corradeschi del “Reparto speciale AK Padova”, il quale pochi giorni dopo ricevette in nome del Führer la Croce di ferro di seconda classe.
Contemporaneamente i principali membri del C.L.N. regionale, traditi anch’essi da Santoro, vennero arrestati nella clinica oculistica Palmieri, dove si erano riuniti, e trascinati nel covo della “Banda Carità”.
Giunto a Palazzo Giusti Meneghetti vide Pighin agonizzante con “intorno alla barella insanguinata, la turba oscena dei sicari che insultavano, torturavano, inquisivano”, mentre “la sola risposta del morente erano due dolci nomi [della moglie e della figlioletta, ndr], continuamente ripetuti: ‘Lina… Elena… Lina… Elena…’”.
Gli altri componenti della Brigata, prontamente avvertiti della retata, dovettero darsi alla fuga nella neve alta mezzo metro, disperdendosi per la città in cerca di rifugi sicuri. La Brigata “Trentin” si riorganizzò a stento, ma a febbraio riprese le attività e fu tra le formazioni protagoniste dell’insurrezione, che a Padova avvenne tra il 26 e il 28 aprile 1945. Di essa fecero parte 495 partigiani combattenti e 188 patrioti, tra i quali le donne erano una cinquantina. I caduti furono 21, i feriti 10, i prigionieri e gli internati 42. Entrambi i comandanti della Brigata che erano succeduti a Otello Pighin, Corrado Lubian e Sergio Fraccalanza, caddero anch’essi in azione.
[...] Alla memoria di Otello Pighin fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare; la stessa altissima decorazione fu conferita all’università di Padova e da allora fregia il suo antico gonfalone, cui spetta l’onore, per questo motivo, di sfilare alla testa del corteo nelle cerimonie. Alla storia dell’ing. Pighin, che era stato il suo comandante, si ispirò nel 1963 il regista Gianfranco de Bosio per la sua sceneggiatura e regia del film intitolato provocatoriamente “Il Terrorista”, con Gian Maria Volontè nella parte di “Renato”. [...]
Adolfo Zamboni Jr, Il comandante «Renato», Il Bo Live - Università di Padova, 25 aprile 2020                     

Il maggiore Mario Carità (al centro), comandante del Reparto Servizi Speciali - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

Le formazioni azioniste nella Resistenza veneta occupano, per quantità, il secondo posto dopo quelle guidate dal Partito comunista: a Padova si formano, con la direzione di Meneghetti e attraverso suoi fidati collaboratori, gruppi di sabotatori, guidati da Otello Pighin, il mitico “Renato”, che sarebbe stato ucciso nella grande retata del gennaio 1945
[...] La direzione azionista della Resistenza dura fino al gennaio 1945. Il ciclo di arresti iniziato in settembre con Giuseppe Calore e Elvio Del Piero, proseguito con la retata di novembre che decapita il Triumvirato insurrezionale, la Federazione provinciale e l’Intendenza regionale del Partito comunista culmina con gli arresti di gennaio, favoriti anche dalle rivelazioni di un azionista, Mario Santoro, fino a quel momento stretto collaboratore di Meneghetti <25. Pighin viene colpito a morte per strada, Meneghetti, Ponti e altri vengono presi nella clinica privata del professor Palmieri, e portati, con don Apolloni, Attilio Casilli, Adolfo Zamboni, Luigi Marziano, Gianni Dogo, Aldo Cestari a palazzo Giusti, nelle mani della “banda Carità” <26.
[NOTE]
25 Cfr. C. Saonara, Nelle mani del nemico. la caduta del Cln regionale veneto, in Istituto veneto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Annale XXIIXXIV, cit., pp. 127-160.
26 Sulla “banda Carità” vedi R. Caporale, La “Banda carità”. Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-45), Lucca 2005: sugli arresti padovani, cfr. C. Saonara, Egidio Meneghetti, cit., pp. 115 e ss.
Chiara Saonara, Meneghetti, Giuriolo e gli altri: il PdA nel Veneto in (a cura di) Renato Camurrri, Antonio Giuriolo e il «partito della democrazia», Istrevi, 2008