Il Partito comunista italiano fu
interprete di un originale esperimento di comunismo nazionale che si caratterizzò per un singolare intreccio, difficilmente dipanabile, di riformismo e ideologia rivoluzionaria, di senso delle istituzioni e anticapitalismo, di ricerca di autonomia politica e culturale e di persistenza di un solido legame con l’Unione Sovietica. Ciò gli consentì di raggiungere un grado di radicamento sociale e di consenso elettorale non molto dissimile da quello dei grandi partiti del socialismo democratico europeo ma al tempo stesso, dopo lo scoppio della guerra fredda, gli precluse la legittimazione a governare. <1
Se il quadro di riferimento è quello nazionale tale constatazione è senza dubbio condivisibile; calandosi a livello regionale, in particolar modo per l’area che qui ci interessa,
l’Emilia-Romagna, occorre puntualizzare: il Pci, sostanzialmente, esercitò una profonda egemonia. Infatti, senza soluzione di continuità, dal 1945 fino alla propria dissoluzione e pure nelle realtà in cui non rappresentava la maggioranza assoluta, imprescindibile era confrontarsi con esso, con le sue ramificazioni, con la sua influenza politica e sociale.
Indubbiamente qui più che altrove il partito era cresciuto in corrispondenza con l’estendersi della
lotta partigiana. Nel periodo immediatamente precedente la caduta del fascismo, la forza più decisa e combattiva, ed in Emilia-Romagna l’unica a disporre di un certo apparato organizzativo, restava il Pci. <2 Alla sua nascita, qui, contava 7.850 iscritti, pari a oltre il 18% del totale nazionale. Nell’estate 1944 nell’Italia occupata erano già arrivati a 70.000, di cui circa 18.000 nella sola Emilia-Romagna, dove la componente contadina - mezzadri, braccianti ecc. - era molto forte, e dove pure tra Bologna e provincia si contavano 32 cellule di fabbrica; è la stessa regione dello sciopero generale delle mondine, mentre iniziano le azioni dei
fratelli Cervi e di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow. <3
Qui, come scrive Giorgio
Amendola nella stessa estate del 1944, «le difficoltà sono certo grandi»: «ci troviamo sulle immediate retrovie e sulla stessa linea del fronte» e «la densità di occupazione è assai forte». <4 Tuttavia, se fin dalla presa del potere da parte del fascismo si era verificato un calo numerico, durante i lunghi anni di leggi eccezionali, stando alle parole di Pietro Secchia, il lavoro organizzativo si era sviluppato con poche interruzioni e nell’immediato dopoguerra la forza numerica dei comunisti era aumentata notevolmente: nel dicembre 1945 si contavano 345.171 iscritti, pari a quasi il 20% del totale nazionale. <5
L’egemonia del Pci in Emilia-Romagna non può non essere, dunque, ricondotta al lungo lavoro di radicamento, alla costante tessitura e ritessitura di una seppur esile rete organizzativa corrispondente al mantenimento in vita di un minimo di legame sociale che instancabilmente migliaia di militanti e quadri avevano portato avanti durante il regime e nella clandestinità. Un paziente e oscuro lavorio che aveva consentito di predisporre quella trama che entrerà in azione nella
Resistenza.
È la terra, questa, che, come scrive nel 1949 un anonimo liberale al segretario regionale della Democrazia cristiana Bruno Rossi, «quando fosse giuridicamente riconosciuta, diventerebbe la prima repubblica sovietica d’Italia e potrebbe ben servire a modello per le altre». <6 È la terra, secondo il vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, macchiata di «sangue per l’odio implacabile dei senza Dio». <7 Ancora nel 1951, un militante democristiano romagnolo scrive a Rossi che l’incontro con i comunisti è un’esperienza «da evitare tutte le volte che si può»; «il comunista mi disse che loro avrebbero trattato quelli là fuori (indicando me) come li hanno sempre trattati (alludendo maniere forti)». <8
Nella «lunga liberazione italiana» <9 come si muoveva dunque il Pci emiliano-romagnolo con «quelli là fuori», con chi in tasca non aveva la tessera del partito? Come veniva rappresentato? E «quelli là fuori» come interpretarono, politicamente, la storia così ricca e complessa dei comunisti, la conflittualità, ampliata e deformata dal ruolo schiacciante del Pci in molte aree della regione?
Una serie di temi e problemi, piuttosto che un profilo - meno che mai un profilo unitario - è quanto si tenterà di mettere in luce, seguendo una linea descrittiva piuttosto che interpretativa.
1. La «diabolica organizzazione». Fra Resistenza e RepubblicaIl 5 giugno 1945 si riuniscono a Reggio Emilia i rappresentanti di tutte le federazioni provinciali, alla presenza di Luigi Longo per la Direzione nazionale. L’ordine del giorno è assai amplio ma numerosi interventi si concentrano sui rapporti con gli altri partiti. Nello specifico, a Ferrara questi sono descritti come «abbastanza buoni»; a Parma non viene taciuta «qualche difficoltà» dopo la smobilitazione; a Modena «hanno le stesse caratteristiche che si riscontrano nel campo nazionale»; a Forlì «i rapporti con i socialisti sono buoni e così pure con i democristiani: quelli con i carabinieri ed il prefetto ottimi»; a Piacenza «la situazione della provincia non può essere definita brillante» ma «è stato elaborato un accurato piano di lavoro diretto a stringere sempre più i rapporti». È Longo a trarre le conclusioni, assunto il presupposto che «vi sono stati anche dei lati negativi», e a indicare la linea per il futuro. Si chiede «se in tutti i compagni vi sia una esatta, profonda convinta persuasione della linea politica del partito o se non ci sia qualche atteggiamento, non ancora errore o deviazione ma qualche germe che potrebbe svilupparsi poi in qualche deformazione della linea politica». Nei confronti degli altri partiti, in un momento delicato come quello del «passaggio dallo stato di guerra a quello di pace», «è necessario sforzarsi di ottenere l’unità anche con quegli elementi che tendono a staccarsi», però «non confondendo le forze sane con quelle reazionarie». Con gli Alleati occorre «manifestare loro i nostri sentimenti di riconoscenza per quanto hanno fatto per noi; però non è detto che dobbiamo accettare supinamente e senza resistenza qualsiasi loro decisione»; nei confronti dei democristiani «non si deve tenere un atteggiamento di ostilità, ma di persuasione»; per quanto riguarda gli azionisti «si deve tendere verso la parte più progressiva di loro»; il lavoro, insomma, è «enorme». <10
In Emilia-Romagna il Pci non aveva mai cessato di sostenere che l’unità della Resistenza aveva un valore storico assoluto, che però poteva esistere solo mantenendo in essa la loro presenza attiva, persino la loro egemonia ideologica. <11 I comunisti, qui, si considerano - e comunicano con forza di essere - «l’anima e la guida, la pattuglia più avanzata di questa battaglia»; <12 «oggi, come sempre», i «primi all’attacco per guidare il popolo tutto al combattimento»; <13 «forgiati dal leninismo e dallo stalinismo», è stato creato «un uomo di tipo nuovo, provato ad ogni lotta e ad ogni avversità che ha dato i quadri migliori della battaglia partigiana» e che, «spoglio da ogni romanticheria, semplice, umano, legato al popolo, uomo fra gli uomini», è e sarà «una delle principali forze della ricostruzione». <14 I comunisti piacentini raccontano di nazifascisti «terrorizzati» dalle loro «leggendarie gesta», descrivendone i protagonisti come «eroi», «martiri», «sempre vivi», persino «immortali»; <15 a Ferrara il partito ricorda di essere «punto d’appoggio», in grado di indicare la «strada giusta», «fiero di essere in prima linea»; <16 a Reggio Emilia, pur sottolineando che «nessuna distinzione di fede politica o religione dovrà ostacolare in questo momento lo sforzo comune», i comunisti mettono in chiaro che «la salvezza, la resurrezione dell’Italia non è possibile se non interviene nella vita politica italiana, come elemento di direzione di tutta la nazione» il partito guida della classe operaia; <17 a Forlì si scrive che il Pci «è all’avanguardia dell’insurrezione popolare perché questa è la sua missione storica»; <18 a Cesena, il 31 dicembre 1944, Giovanni Zanelli, partigiano e segretario della Federazione provinciale di Forlì, sostiene che «nessun partito conosce le sofferenze delle masse popolari così come le conosce il nostro partito che vive in mezzo alle masse e ne è l’espressione e la guida» e che «non vi sarà nessuna democrazia vera e popolare se la classe operaia ed il suo partito, il Partito comunista, ne sarà esclusa». <19
Nella stampa comunista dell’epoca è forte il richiamo all’Unione Sovietica. <20 Nella difficoltà di dare un contenuto preciso al desiderio generico di un mutamento radicale e nella parsimonia delle indicazioni sul futuro fornite dal partito, il mito dell’Urss e di Stalin si presentava infatti come particolarmente atto a riempire il vuoto. <21 Della terra dei soviet si celebrano, ad esempio, i successi economici: per «La lotta», organo delle federazioni comuniste romagnole, «lo sviluppo economico e politico europeo riafferma la giustezza delle previsioni del marxismo-leninismo». Ricordando Lenin a 20 anni dalla morte, il giornale clandestino ricorda che «gloriosamente e con sicurezza» proseguono la propria lotta «la Russia sovietica e le sue potenti armate» e «i partiti comunisti saldamente costituiti alla testa della classe operaia lavoratrice», <22 sospingendo l’Armata rossa «con impeto inusitato». <23 A Parma, la «Voce del partigiano» nel gennaio del 1945 scrive che «in Urss non vi sono più classi sfruttatrici, che abbiano interessi distinti e contrastanti con quelli di tutto il popolo»: le vittorie dei popoli dell’Unione Sovietica sono «le vittorie della democrazia. L’Urss ha vinto e vince le sue battaglie perché, sotto la guida della classe operaia, i popoli dell’unione sovietica hanno realizzato una forma superiore di democrazia». <24
Di pari passo con il ribadire la correttezza della dottrina va da un lato la celebrazione di Stalin - simbolo riassuntivo del mito sovietico - definito nel luglio 1944 dall’edizione regionale de «l’Unità» come «il più grande stratega di questa guerra», <25 e dall’altro dello «sforzo glorioso dell’Armata rossa» che dimostra come «l’ordinamento economico-politico instaurato con la Rivoluzione abbia dato vita all’eroismo di massa ed alla storica vittoria delle forze e dell’ideologia proletaria». <26 «Perfettamente e potentemente armata», «la gloriosa Armata rossa avanza con la forza e la velocità di una valanga che tutto travolge», scatenando «la più grande offensiva che la storia ricordi»: così l’Unione Sovietica, «dopo aver salvato l’umanità dallo schiavismo hitleriano dilagante, prosegue e sviluppa con eroismo la sua missione liberatrice e progressista», così, «dopo averli liberati, essa unifica i popoli, ne favorisce e potenzia il contributo alla lotta al nazi-fascismo, la rapida e larga democratizzazione, la rinascita e la libera espressione». <27
Al di là della retorica, tali affermazioni potevano alimentare i sospetti che le direttive togliattiane della svolta di Salerno non fossero altro che una battuta d’arresto momentanea, in attesa di una futura fase. Nella riunione di Bologna del Comitato di liberazione nazionale regionale dell’11 maggio 1945, ad esempio, il colonnello americano Floyd J. Thomas, commissario dell’Allied Military Government, mette in guardia i presenti nei confronti di coloro i quali «desiderino accelerare le cose»: gli alleati «hanno dato il loro impegno di aiutare come è stato fatto per il passato e come sarà per il futuro» ma ciò sarà possibile esclusivamente in «una atmosfera di legge e di ordine nella quale si possa lavorare in cooperazione al massimo grado». Per Thomas «le discussioni politiche devono essere svolte a tempo e luogo debito» e se «ci sono molte cose che possono essere fatte dai partiti», queste non interferiscano «con le funzioni di governo oppure con la legge e con l’ordine». «Nei comuni la responsabilità della cosa comune è nelle mani dei sindaci», prosegue il colonnello, e i Cln «hanno il privilegio di dare consigli e di assistere i pubblici funzionari» ma «non hanno potere per conto loro e si devono assolutamente astenere dall’emettere ordini».
Il comunista ed ex partigiano Paolo Betti puntualizza in risposta l’intenzione del partito di «entrare nella legalità, di rompere tutte quelle che sono le azioni incontrollate» ma «per tale riteniamo anche la mutua collaborazione degli alleati verso di noi»; chiede che sia sanato tutto quello che è stato fatto «di giusto e di logico» dai Cln, «che non sia gettato tutto per aria tutto quello che di buono è stato fatto» e che «gli alleati non usino indulgenze verso gli industriali che hanno stroncato gli scioperai durante la guerra di liberazione». Tocca allora a Giuseppe Dozza, che da soli quattro giorni era stato legittimato sindaco della città dallo stesso governo alleato: «l’appello per la normalizzazione deve essere accolto da tutti e non soltanto da noi». Dozza «non ha l’impressione che ciò avvenga» e che «dinanzi agli alleati non dobbiamo mai dimenticare la nostra dignità di uomini e di italiani», rilevando «qualche episodio di incomprensione assoluta». <28
Da tempo si credeva di intuire, fra sospetto e preoccupazione, che «da parte comunista esisteva già un disegno preordinato». È questa la sensazione che Vittorio Pellizzi, azionista e tra i primi a promuovere e a costruire nel reggiano gli organi politici della Resistenza, sostiene di aver provato durante un incontro del 26 luglio 1943 con il dirigente del Pci Aldo Magnani. Pellizzi aggiunge che quell’occasione gli rivelò che «l’organizzazione comunista clandestina - di cui sapevo l’esistenza, ma di cui ignoravo l’efficienza e l’importanza - veniva ora alla ribalta con i suoi uomini, i quali dimostravano di possedere una grande maturità politica»; sempre Pellizzi constatò come Magnani fosse «preparato e già in possesso di un disegno strategico» e «anche dei mezzi tattici per attuarlo».
«Ad eccezione dei comunisti, noi come cospiratori si era dei novellini», ricorda emblematicamente un altro protagonista della Resistenza reggiana, il democristiano Pasquale Marconi. <29 Gli azionisti emiliani si rivolgono ai comunisti nel marzo del 1944 per sottolineare che «questo tesoro vivo di esperienze altrove maturate» è di certo apprezzato ma guai a utilizzarlo «con intenti servili o peggio ancora con l’idea di applicarle ipso facto al nostro paese». Si pone dunque un problema di libertà, «conditio sine qua non anche per la libertà degli altri paesi europei». <30 È la questione della libertà a scavare un solco ideologico anche con i repubblicani; i comunisti «si fermano all’eguaglianza, e per l’eguaglianza sono disposti a rinunciare alla libertà, accettando la dittatura»; <31 i repubblicani intendono escludere categoricamente che «la nazione abbia per una seconda volta a soggiacere schiava di una dittatura, sia essa della minoranza sulla maggioranza (esempio tipico il fascismo) o della massa sulla minoranza dei cittadini come vorrebbe il comunismo». <32
Dal giogo di una dittatura a quello di un’altra: è ciò che teme anche un antico liberale cattolico come il conte Malvezzi Campeggi scrivendo una lettera a Tommaso Gallarati Scotti, poi reindirizzata al rappresentante del Partito liberale nel Comitato di liberazione nazionale Alessandro Casati, all’indomani della Liberazione. Nel bolognese, secondo il conte, «la situazione è preoccupante: tirate le somme ci accorgiamo di essere passati senza transizioni dal fascismo nero a quello rosso. Medesima mentalità. Medesimi sistemi di violenza, prepotenza, intimidazione, minacce. Tutti i posti di potere sono in mano ai comunisti». Nelle campagne «i contadini vietano ai proprietari di mostrarsi nelle loro proprietà ed impongono taglie», ma la cosa più preoccupante è che «seguitano a scomparire misteriosamente persone, anche notissime, senza che se ne abbiamo più notizie». Due inchieste di «Risorgimento liberale», intitolate rispettivamente 'Il borghese emiliano vive fra queste paure' del gennaio 1946 e 'La psicosi del mitra nell’Emilia rossa' del settembre 1946, trasmettono in controluce la sensazione della circolazione della leggenda dell’invincibilità del Pci e della «diabolica organizzazione comunista diretta da uomini formati nelle scuole di partito sovietiche e che avevano partecipato alle guerre civili europee», evocando il problema del disarmo delle bande partigiane sostenendo che alle loro spalle vi fosse una precisa «organizzazione politica». <33
Nel «magma dell’illegalità del dopoguerra», <34 sempre a Bologna all’inizio del 1946 il liberale Antonio Zoccoli, presidente del Cln, ribadisce che l’organismo da lui presieduto «ha cercato con tutti i suoi mezzi, qualche volta inadeguati, ma sempre spontaneamente generosi, di curare le ferite, ha cercato e cerca di riportare negli animi la calma, la tranquillità, la concordia». Nella medesima riunione, alla presenza di prefetto e questore, il segretario della Camera del lavoro Onorato Malaguti avverte però che ci si trova tutti, ora, «in una delle situazioni più critiche, più critiche di alcuni mesi fa». È evidente, a suo avviso, che «vi è una compressione nella massa operaia» ma anche alla compressione «vi è un limite». Betti esprime ai presenti la propria sensazione che a Bologna si muovano «delle squadre armate per colpire degli uomini politici dei partiti che hanno fatto parte della lotta di liberazione»; il democristiano Angelo Salizzoni, in risposta, non ha timore allora di parlare specificatamente di «delitto»: è «interesse della democrazia» che venga spezzata la catena del delitto, alimentata dal fatto che, a quasi un anno dalla fine del conflitto, «ci sono troppe armi in giro». <35
È presente, certo, un problema pressante di «attività criminosa comune» che, come scrive il questore di Forlì al prefetto e al maggiore Baldwin della polizia alleata, tracciando un quadro della situazione della sua provincia ma descrivendo anche quella di Cesena e Rimini, «ha subito una certa recrudescenza». «I partiti estremisti», i quali «contano il maggior numero di aderenti, si mostrano malcontenti per la lentezza con la quale viene effettuata l'epurazione»: il malcontento, conclude il questore, sfocia «di tanto in tanto con bastonature», a cui è difficile opporsi visto un personale di polizia «tuttora insufficiente armato, disponendo di un numero irrisorio di moschetti e di pistole» e che «scarsi e scadenti sono i mezzi di comunicazione di cui dispone la Questura». <36
L’assimilazione non argomentata e quasi istintiva tra il regime fascista e quello comunista si era verificata, come si diceva, in Emilia-Romagna già nei mesi immediatamente successivi alla Liberazione, coi primi tentativi di produzione propagandistica da parte di gruppi ostili al Pci, alcuni senza filiazione chiara. A Bologna, a fine 1945, erano apparsi slogan come «ieri in camicia nera, oggi in camicia rossa», o «che cos’era il fascismo? Niente altro che il comunismo interpretato da Mussolini», mentre si inveiva contro il «fascismo rosso». Giuseppe Dozza, che aveva intercettato i volantini e li aveva spediti a Togliatti, si dichiarava preoccupato, perché a suo dire essi erano indizi di un clima piuttosto diffuso. <37 In alcuni volantini diffusi in regione da ambienti che confluiranno nella Democrazia cristiana si scrive che il bolscevismo, «con tutti i suoi inimmaginabili terrori, distende avidamente la mano verso la patria»; <38 «la rivoluzione e i rapporti di violenza tra i Partiti non fanno che accrescere malanni e distruzione agli uomini e alle cose» e che «la rivoluzione non sarebbe che la continuazione della lotta fratricida iniziata dal fascismo»: «Guai», allora, «se avesse la maggioranza un partito totalitario, sia di destra che di sinistra: diventeremmo nuovamente schiavi di un dittatore e i nostri fratelli che sono morti per la libertà ci griderebbero dalla tomba tutto il loro sdegno». <39 L’anno successivo, ancora attraverso un volantino, la Dc regionale mette in guardia i lavoratori dal non farsi «abbagliare dalle illusioni, dalle parole grosse e dalle promesse di mari e monti alle quali seguono le più amare delusioni»; infatti, «altrove», nei paesi in cui è stata portata a termine la «rivoluzione, con le fucilazioni e con le deportazioni», «praticamente non sono riusciti ad abolire le disuguaglianze», «si sono tolti di mezzo i vecchi ricchi e ne sono sorti altri, non meno sfruttatori». <40
I comunisti in Emilia, scrive un anonimo militante democristiano modenese, «rubano cibo e vestiti per l’inverno» poi «li rivendono o li regalano a chi pare loro, agli altri comunisti». <41 I comunisti, in Romagna, secondo i repubblicani riminesi, sono i responsabili della partenza di «navi cariche di grano», «in segreto», «dall’Italia affamata verso porti stranieri a est» e «questo traffico frutta del denaro a coloro che lo esercitano, e delle armi ad un movimento… “progressivo” che per ciò proteggerebbe col grande bandierone della propria incosciente omertà la losca opera di questi affamatori del popolo». <42