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martedì 2 gennaio 2024

Ma chi erano, poi, i fratelli Lazaridès?

Fonte: Alessandro Dall'Aglio, op. cit. infra

Il ferroviere rimase molto stupito nel controllare il biglietto a Lucien Lazaridès, con il quale aveva frequentato (nel 1931-1932) un anno di scuola elementare francese nel corso della sua breve, molto breve permanenza a Le Cannet in qualità di figlio di emigrante. Riconoscersi da adulti dopo oltre vent'anni non è cosa di tutti i giorni.

Ma Lucien (nato ad Atene) aveva un fratello - Jean, soprannome Apo -,  anche questi probabilmente frequentato da quel conduttore nel lontano trascorso in Costa Azzurra. 

Due fratelli entrambi ciclisti professionisti di discreta fama, più accentuata - va da sè - nel Nizzardo, avendo anche partecipato a diverse edizioni del Tour de France. E Lucien, quando rivide il vecchio compagno di scuola, era probabilmente ancora in carriera.

Il ferroviere aveva raccontato in famiglia, ad amici e conoscenti che uno - Apo (Jean) - dei due fratelli aveva vinto un Tour de France, uno non ufficiale, quello del 1946: il Web - e non solo - consente oggi di appurare tranquillamente che si trattava di giusta informazione.

Di queste vicende si trova riscontro in una tesi di laurea, quella di Alessandro Dall'Aglio (Emigrazione italiana e sport a Nizza nel secondo dopoguerra. 1945-1960, Università degli Studi di Parma, Anno Accademico 2002-2003), un documento che pur passando in rassegna nello specifico ciclisti di origine italiana, non poteva non dedicarsi ai Lazaridès, registrando, altresì, gli entusiasmi locali dell'epoca. Ad esempio: "Alla Marsiglia-Monaco, il 30 giugno 1946, vince Jean Lazaridès, corridore dell’ES Cannes, figlio di immigrati greci trasferitisi nel 1922 a Marsiglia [...] A fine luglio si corre la Monaco-Parigi, gara a cinque tappe organizzata da «Le Parisien Libéré» e «Nice Matin». Il quotidiano nizzardo si ostina a nobilitare questa corsa col titolo di Tour de France e, talvolta, più onestamente, di mini Tour de France. Questa corsa in realtà non viene mai inserita negli annali del Tour. Semplicemente riproduce il vero Tour, ma in forma molto ridotta. I ciclisti vengono comunque convocati per nazionalità [...] Per la Costa Azzurra le cose non andranno comunque male, visto che a Parigi leader della classifica finale sarà, a sorpresa, Lazaridès".
 
Adriano Maini

mercoledì 4 ottobre 2023

All'inizio dei tentativi di epurazione dei fascisti in Italia



Da ultimo, le nuove autorità politiche avrebbero dovuto far luce, anche attorno ai numerosi episodi di violenza realizzati nel periodo della guerra civile (8 settembre 1943- maggio 1945): con particolare riferimento alle feroci rappresaglie naziste realizzate nel centro-nord della Penisola <4, al trasferimento di civili e militari italiani nei campi di prigionia nazista (c.d. I.M.I. Internati Militari Italiani), alla sorte dei soldati del Regio Esercito, abbandonati senz'ordini alla vendetta dell'ex “fratello d'arme” tedesco <5. Numerosi aspetti oscuri riguardavano anche la lotta partigiana, nelle cui maglie vennero sovente ad innestarsi, regolamenti privati tra cittadini e scontri tra bande ideologicamente rivali, nonché l'opera di liberazione condotta dagli eserciti alleati, nel corso delle cui azioni non mancarono episodi di violenza e aggressione ai danni delle popolazioni civili dei territori di volta in volta liberati <6. Si trattava, come è evidente di incombenze imbarazzanti che difficilmente la giovane ed inesperta democrazia italiana avrebbe potuto realizzare nel breve periodo, specie se si consideri che essa era, in pari tempo, chiamata ad affrontare ulteriori prioritarie questioni: la ricostruzione del Paese distrutto dai bombardamenti, la crisi economica post-bellica, la riconversione dell'industria militare agli usi civili, la riorganizzazione, infine, dopo un vuoto durato vent'anni del pluralismo politico e culturale, operazioni alle quali avrebbe dovuto procedersi, peraltro, sotto le spinte di una popolazione che ampiamente rivendicava una maggiore giustizia sociale ed una più incisiva partecipazione alle scelte politiche del Paese.
In un simile quadro, i primi sforzi del Governo Badoglio furono indirizzati alla “defascistizzazione” dello Stato, divenuto nel corso del ventennio quasi un unicum con il Partito di Mussolini <7: con R.d.l. n. 668/1943 venne disposta, infatti, la soppressione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con R.d.l. n. 706/1943 si provvide allo scioglimento del Gran Consiglio del fascismo, infine, con R.d.l. n. 704/1943 venne liquidato il P.N.F. e le sue organizzazioni. Ulteriori provvedimenti diedero luogo all'abolizione dell'ordine corporativo e alla Camera dei Fasci e delle corporazioni. Una volta demolite le strutture del vecchio regime, con l'insediamento dei Governi ciellenisti Bonomi e Parri furono riattivate le regole del gioco democratico: vennero soppresse le antiche limitazioni alla libertà di stampa, si ristabilirono le libertà politiche e sindacali (d.lg.lgt. n. 369/1944), fu convocata (nell'attesa dell'insediamento di un nuovo Parlamento) una Consulta Nazionale, incaricata di formulare pareri sui problemi generali e i provvedimenti legislativi sottoposti dal Governo <8.
Per quanto concerne gli aspetti più dichiaratamente discriminatori del passato, con R.d.l. n. 25/1944 si provvide all'abolizione di tutti i decreti, le leggi e le singole disposizioni regolamentari in cui era fatto esplicito riferimento “all'accertamento o alla menzione della razza”, reintegrando al contempo tutti i cittadini di fede ebraica nel pieno godimento dei diritti civili e politici. Con riferimento specifico alle loro sofferenze economiche, il R.d.l. n. 26/1944 precisò, inoltre, la reintegrazione dei suddetti nei loro precedenti diritti patrimoniali <9.
Una corretta gestione del passato, non poteva prescindere, tuttavia, dalla realizzazione di una significativa opera di epurazione del personale dell'esercito, dell'amministrazione pubblica e degli organi di giustizia, nonché dalla persecuzione dei c.d. «delitti collaborazionisti» e dei più efferati crimini perpetrati durante la lunga vigenza del regime, specie nei primi tumultuosi anni della sua affermazione con la marcia del 1922. Tale ufficio rappresentava, peraltro, una delle condizioni (art. 30) specificamente imposte dai rappresentanti dell'esercito anglo-americano al momento della concessione dell'armistizio lungo dell'3 settembre 1943.
Assumendosi detto impegno, il Governo provvide, già il 28 dicembre successivo, durante il c.d. Regno del Sud, all'emanazione del D.l. n. 28/1943, per mezzo del quale si dispose l'assoggettamento a giudizio di chiunque si trovasse, al momento dell'emanazione, insignito della qualifica di squadrista, marcia su Roma, gerarca o sciarpa littorio, o avesse, in ogni caso rivestito in passato ruoli dirigenziali nel quadro organizzativo del Partito nazionale fascista, attribuendo al Consiglio dei ministri, ai consigli di amministrazione o di disciplina degli enti nazionali, nonché a commissioni di nomina prefettizia appositamente istituite, il compito di emettere la decisione e comminare la relativa sanzione. Al di là delle categorie su richiamate furono ad ogni modo considerati colpevoli gli autori di episodi configurabili come “attentato alla libertà individuale” dei cittadini.
Era evidente, in ogni caso, che, stante la divisione del Paese in due Stati in conflitto e la perdurante lotta tra bande partigiane e milizie repubblichine del Governo saloino, il provvedimento in argomento non poté conoscere puntuale attuazione, dando origine a risultati significativamente distanti da quelli auspicati.
Sulla questione dovettero intervenire, perciò, numerose ulteriori disposizioni. Sotto la vigenza dell'Esecutivo Bonomi fu adottato, in particolare il d.lg.lgt. n. 159/1944, per mezzo del quale furono inasprite le pene comminate dal precedente intervento, venne fornita più esatta indicazione dei soggetti destinatari della sanzione, si provvide ad istituire, quali organi di giudizio nelle operazioni, l'Alta Corte di giustizia, le Corti d'assise e i Tribunali militari, integrati questi ultimi, con giudici non togati appartenenti agli ambienti resistenziali. A garanzia del corretto svolgimento delle operazioni venne istituito, altresì, l'Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, organo destinato ad essere successivamente assistito da quattro Alti Commissari aggiunti, ciascuno dei quali incaricato alla supervisione di uno dei settori di intervento: punizione dei delitti, epurazione dell'amministrazione, avocazione dei profitti del regime, liquidazione dei beni fascisti <10. Il provvedimento in esame stabilì, altresì, che, avverso le sentenze, le ordinanze e i provvedimenti emessi dell'Alta Corte di giustizia non avrebbe potuto proporsi gravame in appello, ma solo il giudizio in Cassazione la valutazione dei vizi di legittimità nell'applicazione di esso. Secondo dette disposizioni si procedette all'epurazione del Senato <11, dei dipendenti militari e civili dello Stato in posizione apicale, dei vertici delle aziende di Stato e delle imprese private, specie se titolari di rapporti di fornitura o di appalto con le amministrazioni pubbliche.
Il sistema predisposto, stando al parere della più recente storiografia <12, conobbe nel complesso, un apprezzabile avvio, tale da consentire - nel caso in cui fosse stato portato effettivamente a compimento - un effettivo rinnovamento del sistema amministrativo centrale e periferico dello Stato (prefetti, podestà, dirigenti della burocrazia ministeriale), nonché una più facile rielaborazione del problematico passato da parte della generalità dei consociati.
Le operazioni in tal modo avviate dovettero subire, però, un radicale mutamento con l'approvazione del d.lg.lgt. n. 625/1945, per mezzo del quale fu disposta la soppressione dell'Alta Corte di giustizia ed il trasferimento di tutti i procedimenti allora pendenti ad una sezione speciale (rectius specializzata) delle Corti d'assise.
La magistratura ordinaria (che era riuscita nel complesso a sottrarsi alle misure di epurazione) si trovò, così, investita del non facile compito di “defascistizzare” la Pubblica amministrazione, assumendo su di sé l'incarico di comminare sanzioni penali e disciplinari a funzionari e dirigenti rei di aver assunto, nel corso della propria carriera, atteggiamenti non dissimili da quelli posti in essere da essi stessi durante il lungo interregno della dittatura fascista <13.
Nell'esercizio di tale attività, fu evidente, quindi, che i magistrati presero ad assumere atteggiamenti di maggior indulgenza rispetto a quelli fatti propri dai componenti delle precedenti commissioni d'epurazione governative, i quali, nel passato, avevano generalmente rivestito ruoli di primo piano nelle file dell'antifascismo e della guerra di liberazione partigiana.
Il frequente ricorso da parte del legislatore a clausole interpretative quali “delitto per motivi fascisti”, “atto rilevante”, “dolo”, “faziosità” consentì ai medesimi, infatti, di procedere ad interpretazioni giurisprudenziali salvifiche delle condotte poste in essere dai dirigenti e dagli impiegati della struttura amministrativa dello Stato e delle sue articolazioni, assicurando ai medesimi una generalizzata e pressoché totale impunità ogniqualvolta non fosse incontrovertibilmente dimostrato - sulla base delle risultanze istruttorie contro di essi prodotte - il ricorso ad atteggiamenti settari o faziosi (requisito esso stesso, come è evidente, suscettibile di ampia interpretazione) nell'esercizio delle funzioni per le quali erano preposti.
[NOTE]
4 L'occupazione dell'Italia da parte delle truppe naziste nel periodo compreso tra l'8 settembre 1943 ed il 2 maggio 1945 (data della resa tedesca in Italia), provocò più di diecimila vittime tra la popolazione civile. Tra l'8 settembre 1943 e l'aprile del 1945 in tutto il centro-nord si registrarono oltre 400 stragi, tra le quali gli eccidi delle Fosse Ardeatine (335 vittime) e di Marzabotto (770 vittime) furono solamente gli episodi più conosciuti. L'area dell'Appennino tosco-emiliano, data la sua posizione strategica lungo la linea Gotica, conobbe, il maggior numero di violenze: tra l'aprile e l'agosto del 1944 le stragi furono 280 e 83 i comuni interessati (tra cui Sant'Anna di Stazzema, Bardine S. Terenzo, Fivizzano, Fosdinovo, Padule di Fucecchio). Le stime più attendibili sono al momento quelle avanzate da Gerhard Schreiber secondo il quale i militari italiani giustiziati nel settembre-ottobre 1943 furono 6.800 tra Balcani, Grecia ed Egeo; 22.720 furono, invece, i partigiani “uccisi nel disprezzo delle disposizioni internazionali” e 9.180 civili i sterminati. Autori di tali esecuzioni collettive non furono soltanto i nazisti delle SS, ma anche i soldati della Wermacht e della Luftwaffe - l'aviazione militare tedesca - nonché le milizie regolari e irregolari del partito fascista inquadrate sotto le insegne della Repubblica sociale italiana. Alla base di tali stragi vi furono sicuramente: il pregiudizio nei confronti degli italiani per reazione psicologica al “tradimento” dell'8 settembre; la decisione del comando supremo della Wermacht e del feldmaresciallo Kesserling (Capo supremo delle forze armate tedesche in Italia) di difendere ad ogni costo il territorio italiano in un momento in cui la guerra all'Est era ormai perduta, il timore di un'attività partigiana che si faceva sempre più efficace e che intimoriva i giovani ed inesperti soldati provenienti direttamente dalla Hitlerjugend; la volontà di ricorrere a dimostrazioni di forza e di superiorità, legittimata con la serie di misure repressive adottate dalle autorità di occupazione.
5 L'esempio più emblematico è senza dubbio l'eccidio di Cefalonia, ma episodi analoghi ebbero a realizzarsi anche nelle altre isole greche: Lero, Coo, Rodi. Con la resa del Governo Badoglio agli anglo-americani, i soldati italiani della 33ª Divisione fanteria "Acqui" si trovarono ad assumere il ruolo di “traditori” agli occhi del co-occupante tedesco. Di fronte alla sua richiesta di disarmo, e senza più conoscere ordini dallo Stato maggiore, le truppe di stanza si trovarono a dover affrontare l'ex alleato, intenzionato a ridurli in prigionia e trasferirli in Germania. La guarnigione comandata dal generale Gandin si oppose ed aprì le ostilità contro quello che ora era diventato il nemico della fazione alleata. Ebbe inizio una sanguinosa battaglia (13-22 settembre) alla quale, in spregio a qualsiasi norma di diritto internazionale militare, l'esercito tedesco vincitore fece seguire il massacro di 4750 soldati e 341 ufficiali. Migliaia di militari furono, invece deportati su navi poi fatte saltare nell'Adriatico.
6 Tra le violenze alleate, emerse nel corso degli ultimi decenni, l'episodio certamente più emblematico è quello delle c.d. “marocchinate”, documentato in letteratura già nel 1957 dall'opera “La ciociara” di Alberto Moravia (e a cui fece seguito il più noto adattamento cinematografico di De Sica). Con tale espressione ci si riferisce all'insieme di stupri e sevizie realizzate nel basso Lazio - all'indomani della battaglia di Montecassino - dalle truppe coloniali franco-marocchine comandate dal generale Juin (c.d. Goumiers). Le vittime furono circa diecimila tra donne, uomini, bambini, anziani e religiosi. All'origine di tali violenze, delle quali era a conoscenza lo stesso generale de Gaulle, vi era un forte sentimento di rancore da parte dei francesi nei confronti degli italiani, considerati colpevoli del “coup de pugnace dans le dos” del giugno 1940. Casi di violenza analoghi si registrano anche in Sicilia, in Toscana ed in altre zone del Meridione.
7 Per un'analisi approfondita della trasformazione dello Stato italiano in senso autoritario successivamente all'affermazione del movimento fascista si rinvia all'ormai classico A. ACQUARONE, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965.
8 Per maggiori approfondimenti sul tema della transizione italiana si rinvia a U. DE SIERVO, La transizione costituzionale (1943-1946), in Diritto Pubblico, 1996; V. ONIDA, (a cura di), L'ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all'avvento della Costituzione repubblicana, 1991; A. SACCOMANNO, La transizione italiana: le costituzioni provvisorie, in L. GARLATI, T. VETTOR (a cura di), Il diritto di fronte all'infamia del diritto, cit., 397-414.
Per un quadro sulla riaffermazione dei diritti civili e politici nella neonata democrazia italiana si cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, 2005
9 Come giustamente sottolinea Falconieri, la reintegrazione dei cittadini di fede ebraica nel pieno possesso dei diritti si iscrive «a pieno titolo nel percorso di rielaborazione e edificazione di una memoria condivisa che avrebbe dovuto
coinvolgere tanto le élites politiche e intellettuali quanto la popolazione italiana del dopoguerra». Cfr. S. FALCONIERI, Riparare e ricordare la legislazione antiebraica. La reviviscenza dell'istituto della discriminazione (1944-1950) in G. RESTA, V. ZENO-ZENCOVICH, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 141.
10 Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo venne nominato il liberale Carlo Sforza. Ad esso si affiancarono il comunista Mauro Scoccimarro (epurazione nella Pubblica Amministrazione), il liberal-democratico Stangone (sequestro delle proprietà fasciste), il democristiano Cingolani (illeciti profitti del regime) e Mario Berlinguer del Partito Demo-laburista (persecuzione dei crimini fascisti). Le quattro commissioni per l'epurazione furono istituite,
invece, con d.lg.lgt. 198/1944 e 238/44. Per l'intera ricostruzione del processo di epurazione in Italia si rinvia ai dettagliati e completi: A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 2012, pp. 72-92; P. BARILE., U. DE SIERVO, Sanzioni contro il fascismo e il neofascismo, in Novissimo digesto italiano, Torino, 1969, pp. 541-564 e in sede storiografica a H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), Bologna, 1997, C. PAVONE, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in AA. VV., Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Torino, 1974 e M. FLORES, L'epurazione, in L'Italia dalla liberazione alla Repubblica. Atti del Convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976 con il concorso della Regione Toscana, Milano, 1977, pp. 413-467, infine M. SALVATI, Amnistia e amnesia nell'Italia del 1946, in M. FLORES, Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Milano, 2001, pp. 141-161.
11 L'art. 8 del d.lg.lgt. 159/1944 prevedeva all'ultimo comma la decadenza dalla loro carica vitalizia per i senatori che «con i loro voti o atti contribuirono al mantenimento del regime fascista ed a rendere possibile la guerra». Furono deferiti all'Alta Corte di giustizia 394 senatori su 408, di questi 275 furono dichiarati decaduti dalla carica. I senatori sanzionati appellandosi alla Corte di Cassazione (che riconobbe l'assoluto difetto di giurisdizione dell'Alta Corte) riuscirono ad ottenere l'annullamento dei provvedimenti irrogati. Alla fine del processo di epurazione, solo 51 furono dichiarati decaduti. Su questi punti si rinvia ancora a A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 82.
12 Il giudizio sull'epurazione in Italia da parte della storiografia tradizionale è stato nel complesso negativo. Secondo la terminologia più corrente esso è stato definito una «farsa legale», un processo al termine del quale le élite fasciste mantennero le funzioni pubbliche tradizionali. Tale valutazione, seppur in sostanza non inveritiera, è stata però rivisitata e sfumata negli ultimi anni da magistrati come Canosa e storici come Woller, Minetti e Argenio. A parere di questi ultimi, infatti, gli sforzi per realizzare un'effettiva epurazione vi furono ed anche considerevoli. Ad una prima intensa attività delle commissioni seguì, però, un esito deludente causato dall'adozione dell'amnistia e da un'opera di interpretazione salvifica degli ex fascisti da parte della magistratura. Per un'interpretazione tradizionale del processo di epurazione si rinvia a Z. ALGARDI, Processi ai fascisti, Firenze, 1973, per le più recenti interpretazioni si veda ancora H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), cit.
13 La magistratura, come qualsiasi altro potere dello Stato aveva subito nel corso del ventennio una significativa opera di fascistizzazione, che si era compiuta per gradi attraverso il progressivo allontanamento degli elementi togati non allineati al regime. Nel 1925 i giudici ostili alla dittatura furono dispensati dal servizio e l'Associazione generale magistrati sciolta di diritto. I vecchi togati furono rimpiazzati con elementi più favorevoli alla dittatura, mentre i più giovani furono crebbero in un clima che finì per plasmarli completamente alle direttive del duce. Il fascismo creò anche una singolare commistione tra apparato politico-amministrativo dello Stato e funzione giudicante: il Procuratore del Re divenne, infatti, membro delle commissioni per la disposizione del confino politico ai cittadini accusati di antifascismo. Come ha sottolineato Franzinelli, infine, «molti magistrati andarono molto in discesa sul versante dell'autorità, in parte per fanatismo o per senilismo, ma soprattutto per la troppo facile convinzione che la legalità corrispondesse all'autorità: chi aveva a cuore la legalità doveva favorire l'autorità, senza star troppo a sottilizzare la qualità e la legittimazione sostanziale di chi rappresentava l'autorità». La completa fascistizzazione della magistratura trovò conferma in ogni caso nella legge sull'ordinamento giudiziario deliberata nel 1941, con cui si riservò l'accesso ai ruoli requirenti e giudicanti ai cittadini di «razza italiana», di sesso maschile, iscritti al Partito nazionale fascista.
Mirko Della Malva, Diritto e memoria storica nell'esperienza giuridica comparata: il difficile bilanciamento tra tutela della dignità delle vittime, libertà di manifestazione del pensiero, protezione della democrazia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014

domenica 20 agosto 2023

Gli analisti americani erano convinti che gli jugoslavi volessero invadere i territori italiani al confine


I documenti dell'intelligence statunitense desecretati nel 2002 mostrano come a giudizio di Angleton esistessero due fronti, di importanza vitale, su cui lavorare in Italia: mentre il primo era formato dai confini con i Balcani, il secondo era costituito dai luoghi in cui la forza elettorale dei comunisti cresceva eccessivamente, cosa che accadeva soprattutto in Sicilia. Nell'isola infatti il forte movimento contadino e i successi che la pratica delle occupazioni delle terre andava accumulando avevano fatto sì che il movimento fosse arrivato con tutta la sua forza all'attenzione dei media. Tutti i braccianti e i contadini poveri della penisola guardavano alle vicende delle campagne siciliane con partecipazione e speranza. La Sicilia avrebbe potuto quindi attivare un effetto domino nazionale: innescare cioè un'ondata favorevole alle sinistre in tutta la penisola, analogamente a come avrebbe fatto l'Italia con gli altri paesi europei se fosse caduta in mano ai comunisti - pericolo di cui aveva avvertito Kennan nel suo celebre lungo telegramma. Angleton aveva puntato interamente l'attenzione su questi punti caldi: il 12 febbraio del 1946 inviò al War Department dell'SSU e al direttore stesso del servizio un cablogramma cifrato, nel quale richiedeva immediatamente almeno 10 ufficiali, necessari per una "fase militare": "Oltre agli ufficiali in sostituzione del personale che deve andare in congedo, ho bisogno immediatamente di almeno 10 ufficiali che vanno assegnati come agenti di emergenza, e per aprire e far funzionare stazioni a Napoli, in Sicilia, a Bari e a Trieste. Tutti gli ufficiali che saranno inviati per questi scopi devono essere sottoposti ad un periodo di intenso addestramento a Roma prima di assumere i futuri incarichi. Il personale richiesto serve per una fase militare". <394
Gli agenti di cui Angleton faceva richiesta agli uffici dell'SSU di Washington non dovevano quindi essere agenti normali, personale militare di tipo impiegatizio: dovevano operare concretamente sul campo. Il direttore dell'X-2 non aveva bisogno di "novellini" da ufficio, e cercò di fare intendere fra le righe questa esigenza ai suoi superiori scrivendo nelle conclusioni del cablogramma: "Spendere una grande percentuale del nostro tempo per riscrivere e rivedere i rapporti, quando invece c'è urgenza di operazioni di lungo termine, non sarebbe il caso: per questo è impossibile nella presente fase sovraccaricarci di personale militare che si occupi più che altro di leggere e scrivere", un modo elegante, nel linguaggio necessariamente formale usato per scrivere ai superiori di Washington, per far capire che aveva bisogno di gente pronta a tutto.
Nel documento, come si è visto, il capo dell'X-2 parla esplicitamente di una inquietante "fase militare". Il contesto di pace in cui operava, considerato che il conflitto era finito in tutto il mondo già da diversi mesi, fa presumere che lo scenario bellico per il quale erano destinati i nuovi agenti fosse in realtà una guerra coperta, condotta mediante operazioni clandestine. Tali operazioni clandestine del resto erano la modalità con cui il controspionaggio affrontava i compiti più importanti, in un momento storico in cui il primo obiettivo era il mantenimento dell'Italia nello schieramento occidentale. Sul confine orientale proprio in quei mesi le tensioni si facevano crescenti, e gli analisti americani erano convinti che gli jugoslavi volessero invadere i territori italiani al confine e da lì provocare un'insurrezione comunista nel paese, per poi invaderlo direttamente, con una manovra che avrebbe avuto il coinvolgimento del Partito comunista, garante del sostegno dall'interno <395.
Alla luce di questi documenti la fase militare, per la quale Angleton aveva un bisogno così urgente di agenti, sembra dunque da intendersi come una fase di operazioni paramilitari, volte a contenere l'avanzata di quello che, agli occhi dell'intelligence statunitense, appariva come un unico fronte comunista articolato in due diverse minacce: la possibile invasione jugoslava sui confini orientali della penisola e l'ascesa dei partiti di sinistra.
Le elezioni amministrative svoltesi nel marzo del '46 indicarono poi come la forza dei due partiti della sinistra - il Pci ed il Psi - fosse ulteriormente in piena ascesa. I vertici del controspionaggio statunitense a Washington temevano, sulla base dei rapporti che ricevevano dall'Italia, una manovra a tenaglia da parte dei comunisti: se la pressione delle truppe jugoslave sul versante nord-orientale si fosse fatta insostenibile, nello stesso momento in cui sul versante meridionale gli equilibri politici si fossero spostati in favore del partito guidato da Togliatti - come sembrava che stesse accadendo soprattutto in Sicilia vista la crescente forza del movimento contadino - non sarebbe rimasto alcuno spazio di manovra per frenare la caduta dell'Italia nell'orbita comunista, catastrofica eventualità che rendeva pertanto necessaria un'attività coperta e paramilitare preventiva.
Il 15 febbraio Angleton scrive a Washington riportando l'informazione che "l'ambasciata sovietica stava forzando" i comunisti italiani a "provocare una crisi di governo per scatenare una guerra civile" <396. Fu proprio in previsione di questi scenari dunque che il capo dell'intelligence statunitense fece richiesta ai suoi superiori di agenti che fossero pronti ad operare sul campo, per quella che aveva appunto definito una "fase militare" <397.
[NOTE]
394 NARA, RG 226, Entry 210, Box 457, Folder "In Rome 1/8/46 - 9/30/46", cablogramma cifrato classificato con il grado di segretezza "confidenziale" del 12 febbraio 1946, inviato da Angleton al War Department- Strategic Services Unit.
395 Secondo Angleton ed i suoi agenti inoltre c'era la possibilità, giudicata concreta, che qualora il clima internazionale fosse diventato ancora più teso, il Pci stesso avrebbe potuto "richiedere l'intervento delle truppe  russo-jugoslave schierate sulla frontiera orientale italiana" per prendere il potere in Italia. Rapporto a firma di George C. Zappalà, uno degli agenti di Angleton, riprodotto nell’antologia a cura di N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica, cit., pp. 415-420.
396 NARA, RG 226, Entry 216, Box 6 (Original Box 3), Folder 27, cablogramma inviato da Angleton al War Department dell'SSU di Washington, il 15 febbraio 1946.
397 Il primo maggio 1947, su una delle alture che circondano la spianata di Portella della Ginestra, di fronte a quella dove si trovava Giuliano, prima della sparatoria alcuni testimoni videro proprio un reparto di uomini della Decima Mas in assetto militare, appostati fra le rocce, fare il saluto e il grido della formazione, come testimoniarono durante il processo. Portella della Ginestra potrebbe forse prospettarsi dunque come la prima applicazione di queste operazioni paramilitari per le quali si stava preparando Angleton. Cfr. R. Mecarolo e A. La Bella, Portella della Ginestra, Milano, Teti editore, 2003; cfr. a questo proposito anche A. Giannuli, Turiddu e la trama nera, Roma, Nuova Iniziativa Editoriale (l’Unità), 2005.
Siria Guerrieri, Obiettivo Mediterraneo. La politica americana in Europa Meridionale e le origini della guerra fredda. 1944-1946, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Roma "Tor Vegata", Anno accademico 2009-2010

venerdì 16 dicembre 2022

Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità


Luigi Einaudi fin dal 1944 aveva lanciato il suo durissimo atto d’accusa verso il prefetto, con il celebre grido: "Il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze!" <619
Aggiungendo la sua visione (condivisa da antifascisti di diverso orientamento) di radicale antitesi tra figura prefettizia e democrazia: "Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. […] Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro". <620
L’identificazione tra prefetto e fascismo è profonda, soprattutto per il movimento partigiano del centro-nord e in particolare per i gappisti impegnati nella resistenza urbana; mentre il dibattito politico, che vede contrapporsi per i primi mesi [del secondo dopoguerra] un’opzione più sensibile alle autonomie locali, anticentralista, alla centralizzazione dello Stato post-fascista, ha tra i suoi temi principali proprio il ruolo prefettizio. Questo è dunque antitetico alla democrazia, rappresenta il pericolo permanente della degenerazione se non in dittatura, quanto meno in uno stato di polizia. Tuttavia, per i medesimi motivi per cui il governo Parri non sceglie la strada della rottura, optando invece per la continuità attraverso la depoliticizzazione, allo stesso modo il prefetto è visto come uno strumento di garanzia e tutela: di fronte a una situazione di emergenza sociale, debolezza statale, scarso controllo dell’ordine pubblico, Romita e soprattutto De Gasperi iniziano quella riconversione in senso democratico dell’immagine pubblica del prefetto come pilastro dell’unità statale e del ripristino della legalità: "Percepito solo come strumento della politica di controllo e di repressione dello Stato fascista, non ha possibilità di ottenere la riconferma. Invece, man mano che passa il tempo, questa rappresentazione si trasforma e il prefetto appare, a una parte della classe politica, come un mezzo importante di garanzia dell’ordine pubblico ma anche come organo fondamentale nell’opera di ricostruzione, sia del paese concreto che della legalità". <621
Nei mesi che precedono le elezioni per la costituente, il fronte abolizionista perde progressivamente forza e iniziativa, mentre la riconversione democratica dell’immagine prefettizia si impone; la democrazia cui si fa riferimento è quella che emerge dall’egemonia del partito moderato, di cui si fanno interpreti i liberali (che infatti causano la caduta del governo Parri) e il nuovo presidente del consiglio democristiano. Per i primi, che presentano un decalogo programmatico durante la crisi di governo, "la revoca dei prefetti e dei questori dei CLN figurava tra i punti più insistiti (insieme allo svuotamento totale dei CLN e alla fine dell’epurazione). Così, mentre un autorevolissimo liberale come Einaudi aveva lanciato il grido di battaglia 'via il prefetto!', grido tutt’altro che privo di eco fra le stesse file liberali, nel governo di cui era stato la mosca cocchiera il PLI avrebbe interpretato quel grido quale 'via i prefetti della Liberazione!" <622
De Gasperi invece, prima ancora di prendere in mano il Viminale, con l’appoggio di Romita, avrebbe avviato l’allontanamento di tutti i prefetti CLN dai loro incarichi (uno dei punti chiave del piano rivendicativo del ciclo conflittuale in questo periodo, fino al suo momento più importante rappresentato dal caso Troilo), avvalendosi tra l’altro del decreto fascista del 1937 ancora in vigore, relativo al ripristino dei funzionari di carriera. In piena discussione sulla redazione della Carta, di fronte a tutti i prefetti riuniti a Roma nel novembre ’46, dirà "Dalla Costituente molti organismi potranno uscire trasformati, ma oggidì ancora i prefetti sono gli organi più immediati del governo, i responsabili più diretti dell’amministrazione; e, in ogni caso, i criteri fondamentali ch’essi devono seguire, frutto dell’esperienza ed emanazione d’immutabili norme di diritto ravvivato dallo spirito democratico, potranno essere rifusi in altre forme, ma non essere distorti o rinnegati, a scanso di portare lo Stato alla dissoluzione o all’assorbimento nella dittatura di parte". <623
Da strumento della possibile distorsione autoritaria a garanzia invalicabile dell’ordinamento democratico repubblicano: la metamorfosi così realizzata a livello culturale e di immagine pubblica permette anche di giustificare il permanere delle prerogative forti del prefetto, proprio partendo dal presupposto che la democrazia e lo Stato devono dimostrare la propria forza e capacità di controllo.
La prima legge post-fascista relativa ai poteri prefettizi (9 giugno 1947) conferma il cosiddetto 'controllo di legittimità', ovvero la prerogativa di controllo sul rispetto del principio di legalità da parte degli enti locali. La fine del dibattito costituzionale conferma di fatto lo status quo.
In secondo luogo, il mantenimento del TULPS comporta anche la sopravvivenza di quelle norme sui poteri speciali del ministro degli Interni e dei prefetti in caso di 'pericolo pubblico'; paradossalmente proprio Scelba aveva proposto in un primo momento, nel ’48-’49, di abolire quelle norme considerate di netto marchio autoritario, ovvero "per quanto riguarda il prefetto, si tratta di sopprimere l’articolo 2 che gli consente, in caso di urgenza, di emettere ordinanze normative e soprattutto il titolo IX che dà la facoltà, negli articoli 214 e 215, al ministro dell’Interno e ai prefetti di istituire lo stato di pericolo pubblico. In questo caso, 'durante lo stato di pericolo pubblico il Prefetto può ordinare l’arresto o la detenzione di qualsiasi persona, qualora ciò ritenga necessario per ristabilire o per conservare l’ordine pubblico', secondo la legge del 1926". <624
È poi lo stesso Scelba che, poco tempo dopo, nel corso del dibattito parlamentare del marzo ’50, propone di ristabilire il titolo IX, coerentemente con il proprio progetto di legislazione speciale, dove la figura teorizzata del 'superprefetto', di cui parlerà sempre nella famosa intervista del 1988, si avvicinava molto a quanto previsto dalla legge fascista del ’26: "Già nei primi tre mesi del 1948 era stata messa a punto un’infrastruttura capace di far fronte ad un tentativo insurrezionale comunista. L’intero Paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale […], un uomo di sicura energia e di assoluta fiducia. L’entrata in vigore di queste prefetture allargate sarebbe stata automatica nel momento in cui le comunicazioni con Roma fossero state, a causa di una sollevazione, interrotte: allora i superprefetti da me designati avrebbero assunto gli interi poteri dello Stato sapendo esattamente, in base ad un piano preordinato, che cosa fare". <625
L’idea dello Stato propria del clerico-moderatismo, di cui fu espressione il ministro degli Interni poi presidente del consiglio, era legata a una 'ideologia' neutralista e impolitica della macchina statale per cui l’intervento governativo poteva, anzi doveva essere per l’interesse generale; un altro paradosso dello scelbismo fu dunque la piena trasformazione degli strumenti di controllo e governo al servizio di una parte (l’anticomunismo e la DC in particolare) in nome dell’imparzialità.
"La sua concezione della statualità, infatti, coniugava i valori definiti dalla tradizione della borghesia liberale con la dottrina ecclesiologica del potere come servizio da rendere alla società con umile e ferma dedizione. Ne conseguiva un’interessante simbiosi tra i princìpi di autorità riconfermati a tutela dell’ordine ('perché la vita sociale è fatta di gerarchie') e i compiti paternalistici e filantropici ancora attribuiti allo Stato da un certo pensiero cattolico, dal fondo tradizionalista, convertitosi di recente alla fede nella democrazia. […] Il suo proposito ideologico […] si richiamava alla forma classica della statualità borghese per piegarla ai contenuti del suo pensiero di cattolico-popolare: in particolare, all’idea di un bene pubblico e di una verità politica (il 'sano' e 'giusto' ordine sociale, la 'vera' democrazia) di cui le funzioni statali avrebbero dovuto farsi interpreti e difensori inflessibili". <626
[NOTE]
619 L. Einaudi, Il buongoverno. Saggi di economia politica (1897-1954), p. 59, Laterza 1973, cit. in Virgile Cirefice, Prefetti e dottrina dello Stato di diritto nei dibattiti, p. 9, in P. Dogliani, M.A. Matard-Bonucci (a cura di), Democrazia insicura, Donzelli editore 2017, p. 5
620 Ivi
621 Virgile Cirefice, op. cit., p. 7
622 C. Pavone, op. cit., p. 154
623 Dichiarazione del presidente del consiglio ministro dell’Interno ai prefetti del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e della Liguria, 19 novembre 1946 in Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio, Gabinetto, 1944-1947, cit. in V. Cirefice, op. cit., p. 8
624 V. Cirefice, op. cit., pp. 13-14
625 M. Scelba, cit. in G. De Lutiis, op. cit., p. 153
626 G.C. Marino, op. cit., pp. 221-22

Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

sabato 19 novembre 2022

L’affermazione della "Settimana Incom" giunse in un periodo di grande espansione del cinema in Italia


Il primo numero della "Settimana Incom" uscì il 15 febbraio del 1946. Chi lo mise in piedi non poteva sapere che il cinegiornale sarebbe andato avanti sino al n. 2554 del 1965.
La Industria Corto Metraggi, con sede a Roma in via Bellini 27, dopo una pausa di quasi tre anni, tornò sul mercato con un prodotto nuovo <45. Se in epoca fascista, come sappiamo, il regime aveva riservato all'Istituto Luce il settore dei film d'attualità, lasciando alla Incom e agli altri privati uno spazio di produzione solo nell'ambito del documentario, nel dopoguerra il vincolo cadde <46 e il direttore, che era sempre Sandro Pallavicini, decise di puntare sul cinegiornale per rilanciare la società <47.
Ad agevolare l'iniziativa privata, giungeva l'articolo 8 del decreto luogotenenziale n. 678 del 5 settembre 1945, che garantiva al cinegiornale il rimborso dei diritti erariali per il 3 per cento dell'introito lordo sugli spettacoli cui il breve filmato era abbinato. Il passaggio dal regime fascista al periodo di transizione fino alla repubblica, non danneggiò Pallavicini, anzi, con la fine della guerra, il potere del direttore crebbe. Egli intratteneva ottimi rapporti con i nuovi alleati d'oltreoceano, non tanto per motivi di parentela <48, che seppe peraltro certamente sfruttare, quanto per la sua capacità di presentarsi come l'artefice di un nuovo tipo di informazione. Pur facendo tesoro dell'esperienza maturata sotto il fascismo, Pallavicini sposò la causa dell'antifascismo e della difesa della democrazia come se fossero sempre stati i suoi valori fondanti. Il nuovo successo della Incom fu il risultato di una serie di fattori: in primo luogo, come vedremo, lo smaccato filo-atlantismo, evidente sin dal primo numero; in secondo luogo, la capacità di farsi espressione di quella parte politica del paese che già si intuiva dominante; in terzo luogo, lo stile «disinvolto, un po' superficiale ma spettacolarmente vivace» <49 che affondava le radici nelle produzioni realizzate sotto il regime; infine, un'aggressiva campagna di distribuzione, che si avvalse di una serie di concorsi a premi <50, appetibili al pubblico e, di conseguenza, agli esercenti.
La società riuscì ad occupare quasi per intero lo spazio di mercato dei cinegiornali, nonostante il decreto luogotenenziale del 1945 aprisse le sale italiane anche all'invasione straniera. «Negli anni che seguono, accadde un fatto abbastanza insolito - almeno non registrato negli altri paesi, Stati Uniti compresi -, che solo in parte è da imputare alla mancanza di informazione visiva libera del pubblico italiano durante il periodo fascista. Ci sono anche fattori di interesse, economici e politici insieme, che portano ad una vera e propria invasione delle testate di cinegiornali, molti dei quali però vivono per breve tempo» <51. Nella seconda metà degli anni '40 uscirono in Italia 9 cinegiornali, soprattutto edizioni nazionali di prodotti inglesi e statunitensi <52: "Notizie da tutto il mondo" della Eagle Lion, "Notizie del giorno" della M.G.M., "Fox Movietone" della 20th Century Fox, "Colpi d'obbiettivo" sul mondo della Paramount, "Universal News" della Universal, che diventerà poi "Film Giornale Universale" realizzato su commissione dalla Sedi. E' invece lo sport il tema di fondo di uno dei primi cinegiornali interamente “made in Italy” del dopoguerra: "Cinesport", edito dalla Compagnia Italiana Attualità Cinematografiche, dal 1945 fu prima quindicinale, per i primi tre anni, poi settimanale. Nel 1944 erano usciti tre numeri di "Attualcine", con il titolo di "Giro d'Orizzonte", in una Venezia appena liberata: erano dedicati all'insurrezione di Venezia, alla liberazione della città e alla manifestazione del primo maggio <53. Del 26 luglio 1945 è il primo numero del "Notiziario Nuova Luce", realizzato dall'Istituto Luce, che aveva cambiato denominazione in “Istituto Nazionale Nuova Luce”: i suoi cinegiornali andarono avanti per 22 numeri sino al 1947, quando il governo decise di fermarne la produzione <54.
Nonostante i numerosi concorrenti, la "Settimana Incom" riuscì a conquistarsi progressivamente un posto di primo piano. Lo staff della società <55 era rimasto pressoché invariato dai tempi del Ventennio: Sandro Pallavicini ne era ancora, come abbiamo visto, il direttore; Alfonso Cedraschi, altro membro della ricca famiglia di imprenditori italo-svizzeri, prese il posto del fratello Erminio come consigliere delegato; Domenico Paolella <56, che era stato uno dei registi, divenne redattore capo, e, dopo il 1948, direttore artistico; Guido Notari <57, una delle voci fuori campo dei documentari di epoca fascista, fu nel dopoguerra “la voce” della "Settimana Incom". Figura del tutto nuova era, invece, Giacomo Debenedetti <58, intellettuale di estrazione comunista, chiamato personalmente da Pallavicini a scrivere i testi dei cinegiornali. Debenedetti svolse questo compito per dieci anni e, almeno sino al 1950, fu l'unica attività retribuita dell'intellettuale. Questa informazione è importante, perché configura la sua collaborazione, che non risulta da nessun contratto e che non fu mai pubblicamente dichiarata nè da Debenedetti né dalla Incom <59, come un lavoro dettato dalle necessità della sopravvivenza, e contribuisce a spiegare l'adattamento del fine uomo di cultura allo stile superficiale e propagandistico del cinegiornale <60.
Le preziose dichiarazioni di Paolella chiariscono le modalità attraverso le quali avveniva la ricerca del compromesso all'interno della redazione: «Per cominciare, d'accordo con Pallavicini, io avevo fatto una redazione politicamente composita, in cui eravamo rappresentati un po' tutti. I commenti parlati, che sono un po' la chiave dei cinegiornali, li faceva Giacomo Debenedetti, grandissimo saggista, un comunista col quale ho avuto dimestichezza per cinque anni. Tra i redattori c'era un socialista e uno dell'Uomo Qualunque, che allora era un gruppo politico importante. Pallavicini era un po' al disopra e al di fuori, e naturalmente l'indirizzo lo dava lui, ma non poteva evitare che i collaboratori esprimessero un certo tipo di opinioni.» <61
Le indicazioni venivano date a Debenedetti anche in fase di preparazione del servizio, nel momento in cui si visionavano le immagini <62. A guidare la realizzazione del cinegiornale era l'idea che l'immagine e il commento dovessero procedere in sincronia: «La perfetta armonia di parlato e immagine resta una delle caratteristiche della Incom e una delle ragioni del successo» <63. L'impostazione data era di carattere giornalistico, con un occhio ai rotocalchi: La "Settimana Incom" proponeva cronache politiche, servizi sulla ricostruzione e sulle relazioni con gli americani, curiosità italiane e dal mondo, interviste a uomini politici, filmati sulle tradizioni religiose locali, cronache sportive e rubriche di moda. I filmati dovevano avere una lunghezza standard <64, e le inquadrature e il montaggio richiedevano la massima cura. Anche l'organizzazione interna ricalcava quella di un quotidiano a stampa <65: una volta ricevuta, dall'Ufficio Informazioni, la segnalazione di una serie di appuntamenti, questi venivano selezionati dal capo redattore, in accordo col regista che effettuava un sopralluogo. L'ufficio lavorazione organizzava la troupe <66, indicando circostanze, luoghi e persone da filmare, per poter procedere con la stesura del commento. Presso lo stabilimento sviluppo e stampa, che si occupava anche della catalogazione, venivano individuati i temi che potevano essere interessanti per l'esportazione all'estero <67.
«Avevamo adottato un certo tipo di comportamento verso le richieste di riprese che tutti ci facevano. È chiaro che i nostri telefoni erano bombardati dai partiti, dalle industrie, perché tutti ci volevano, e il problema era di convincerli che solo i grossi avvenimenti nazionali avevano senso, e non i tagli dei nastri. Ci avvalevamo di una serie di registi-giornalisti un po' in tutta Italia, una rete che avevo messo su perché funzionasse non solo in rapporto alla cronaca, ma anche rispetto agli avvenimenti politici importanti, e mi pare di aver reso in sostanza uno specchio veritiero dell'Italia di allora, con tutto quello che di difettoso c'era.» <68
L'affermazione della "Settimana Incom" <69 giunse in un periodo di grande espansione del cinema in Italia: nel '48 il numero delle sale era quasi il doppio rispetto a dieci anni prima e i biglietti venduti erano saliti del 75%. Nel settore dello spettacolo, il cinema non lasciava spazio ad alcun altro tipo di intrattenimento: nel 1949 su 70 miliardi incassati dagli spettacoli, il grande schermo se ne era aggiudicati 54. Dopo appena tre anni dalla fine della guerra, in Italia si contavano 6500 sale private e oltre 5000 sale parrocchiali. La crisi della guerra che aveva portato distruzione anche nel mondo del cinema era in via di superamento.
Nel 1948 la fisionomia della Incom si definì ulteriormente con l'ingresso di Teresio Guglielmone, in qualità di Presidente. Personaggio chiave della Dc, il finanziere piemontese diventò senatore con le elezioni del 18 aprile 1948, dotando la Incom di un potente sostegno politico <70. Parallelamente, il controllo sulla società da parte di Guglielmone garantì alla Democrazia Cristiana un efficace strumento di propaganda. «Il successo della Incom fu capillare e straordinario. E della Incom cominciò a interessarsi la Democrazia Cristiana, nella persona del senatore Guglielmone, che non so se da sé o attraverso comitati diversi, riuscì ad avere, proprio nel '48, il 51% delle azioni della società. Naturalmente le cose cambiarono, anche se, debbo dire, con una certa gradualità. […] A poco a poco però il cinegiornale peggiorò. Cominciarono a entrarci i tagli dei nastri […]» <71.
Il filo-atlantismo della Incom, portato quasi all'esasperazione, come vedremo, nei primi mesi del 1948, e che si esercitava anche attraverso l'utilizzo di materiali forniti direttamente dagli americani, che esaltavano gli effetti del sostegno statunitense sullo sviluppo economico italiano, valse a Pallavicini il plauso del rappresentante Usa a Roma, e qualcosa di più: «Già all'indomani della vittoria elettorale del 1948 egli si presenta agli americani per riscuotere i suoi crediti. L'ambasciatore americano a Roma, in una lettera del 27 aprile del 1948 al Dipartimento di stato, ne sottolinea caldamente i meriti filoamericano e sollecita da parte del governo, aiuti più continui e sostanziosi e soprattutto filtrati da canali governativi» <72. Il sostegno politico della Dc e quello finanziario degli americani garantirono alla società Incom il dominio incontrastato per quasi vent'anni. Soltanto l'affinamento dell'informazione televisiva, che era in grado di proporre uno stile giornalistico con il quale la vecchia formula del cinegiornale non poteva competere, decretò il tramonto della società Incom: <73 «La cultura della transizione al capitalismo dei consumi non poteva accontentarsi della formula dello stereotipo. La televisione fu la grande innovazione tecnologica in grado di coniugare valori morali, innovazione formale e modernità, lasciando al giornalismo rosa dei rotocalchi popolari la
parte più effimera e “luccicosa” che era stata propria dell'offerta dei cinegiornali, e appropriandosi, con ben altra consapevolezza, nel bene e nel male, di quel segmento dell'informazione sociale e politica sul quale si sarebbero giocati i destini del paese.» <74
[NOTE]
45 «L'aggettivo “nuovo” è la foglia di fico che consente di conciliare capra e cavoli, tradizione e cambiamento. Guardiamo i giornali. Solo in rarissimi casi si cambia la testata radicalmente […] Ma ancor più minuscolo e irriconoscibile è il travestimento quando la testata rimane proprio la stessa e si aggiunge sopra o sotto l'aggettivo “nuovo”. È quel che accade all'Istituto Nazionale Luce ritinteggiato appena nell'insegna che ora è Istituto Nazionale Luce Nuova.», E.G. Laura, op. cit., p. 235. La Incom, dal canto suo, non cambiò neanche la propria sigla.
46 Dopo la liberazione di Roma si era costituito il Film Board, una sorta di commissione tra alleati occupanti e italiani, che si riunì per decidere il destino del cinema in Italia. Il Board si componeva di 5 membri rappresentanti i vari interessi in gioco: l'ammiraglio americano Stone, a presiedere la commissione, Pilade Levi, in rappresentanza dell'esercito americano, Stephen Pallos, di quello britannico, Alfredo Guarini, come rappresentante dei lavoratori dello spettacolo, Alfredo Proia, a tutelare gli interessi degli industriali del cinema. All'interno del Board i tentativi statunitensi di ridurre ai minimi termini il cinema italiano, considerato troppo compromesso con il fascismo, trovarono un argine nelle posizioni del rappresentante britannico, che aveva interesse a contenere l'influenza statunitense, spalleggiato da Guarini. Nel 1945, in sede di Commissione paritetica sulla cinematografia, istituita dal governo provvisorio, fu messo insieme un progetto di legge che garantiva l'obbligatorietà per 84 giorni all'anno del film italiano nei cinematografi italiani, ma, in sede di Consiglio dei ministri, al posto della legge preparata dalla Commissione paritetica, venne fuori il decreto n. 678, che escludeva il contingentamento. Il Board, nella persona dell'ammiraglio Stone, aveva fatto pressione sul governo affinché venisse approvata una legge che, accanto al sostegno ai produttori cinematografici, garantisse l'apertura alle pellicole straniere delle sale italiane. Cfr., Lorenzo Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano. 1945-1980, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 37 e sgg.
47 Paolella afferma: «Quello che […] a me interessava presso la Incom, era che si facesse un cinegiornale, una mia idea fissa, anche perché ero veramente stato scandalizzato dall'Istituto Luce, dalla sua struttura rigidamente piramidale. Un cinegiornale giornalistico. L'incontro con il buon Pallavicini, che era ancora militare, fu abbastanza positivo. […] Comunque si convinse subito che bisognava fare un cinegiornale “giornalistico”, con tutte le regole: direttore, caporedattore, gli inviati; e che ci fosse la libertà di girare delle cose vere.», F. Faldini e G. Fofi, op. cit., p. 132.
48 Il matrimonio con Margaret Roosevelt stava probabilmente naufragando: la donna tornò in America nel 1945 e nel 1949 Pallavicini sposò, a Roma, un'altra donna, Gaea. Come abbiamo ricavato dall'articolo del «New York Times», il matrimonio con Margaret era stato celebrato con rito protestante; inoltre alla cerimonia religiosa non era seguita, per espressa volontà del padre della sposa, la cerimonia civile. Probabilmente questi fatti consentirono a Pallavicini di convolare a nuove nozze con rito cattolico. La Settimana Incom dedica al matrimonio del direttore un servizio nel numero 258 del 3 marzo 1949, dal titolo “Auguri al nostro direttore”, in cui nessun riferimento viene fatto alle precedenti nozze.
49 E.G. Laura, op. cit., p. 240.
50 Uno di questi concorsi fu “Aurora della rinascita”. Cfr. p. 55 di questa tesi.
51 Cfr. Franco Cocchi, C'erano una volta i cinegiornali italiani, in «Cinema nuovo», luglio-ottobre 1992, p. 29.
52 Cfr. Franco Cocchi, Il tempo dei cinegiornali annullato dalla televisione, in «Problemi dell'informazione», anno XVIII, n. 3, settembre 1993, p. 342.
53 Ibid., p 341.
54 Il destino dell'Istituto Luce venne discusso in una delle prime sedute del Consiglio dei ministri del governo Parri. Si decise di rifondare l'Istituto e di affidarne la gestione, in qualità di commissario straordinario, al socialista Vernocchi. Questi rimise in funzione l'attività cinegiornalistica del Luce, ribattezzato “Istituto Nazionale Luce Nuova”, con il Notiziario Nuova Luce, il cui primo numero uscì il 26 luglio 1945. La produzione fu però molto limitata: uscirono appena 22 numeri, dal luglio 1945 all'ottobre 1946. Il Notiziario aveva uno stile asciutto, antiretorico e puntava sui contenuti. Quando il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani rifondò, nel 1946, i “Nastri d'argento”, Il documentario prodotto dal Luce Nuova, La Valle di Cassino di Giovanni Paolucci, ottenne il premio per il miglior documentario. Alla Manifestazione del Cinema di Venezia dello stesso anno, il Notiziario Nuova Luce ottenne, dalla commissione internazionale dei giornalisti, la segnalazione per il miglior cinegiornale d'attualità dell'anno. Nonostante questi importanti riconoscimenti, l'Istituto venne messo in liquidazione, con il decreto legislativo n. 305 del 10 maggio 1947. Dietro le insinuazioni di continuità con il Luce fascista, si celava la volontà di agevolare la Incom, che si rivelava in maniera sempre più esplicita un utile strumento di propaganda democristiana e filoamericana. Del nastro d'argento al Notiziario Nuova Luce, la Settimana Incom dà sbrigativamente notizia nella chiusura del servizio “Nel mondo del cinema. Il nastro d'argento”, Settimana Incom n. 19, 14 agosto 1946. Un breve cenno al documentario premiato a Venezia è nel servizio “Il mondo del cinema. La Mostra di Venezia”, Settimana Incom n. 22, 6 settembre 1946.
55 «La società era piccola ma solida, finanziata da un gruppo di signori svizzero-milanesi di grande intelligenza affaristica, soprattutto i Cedraschi. E facemmo in quegli anni un cinegiornale che era l'unico mezzo audiovisivo che avessero gli italiani per vedere le cose, se si pensa che la televisione è cominciata nel '53. Io mi sono occupato della Incom dal '46 al '51, e in quei cinque anni ho fatto, credo, seicento numeri come redattore capo.», D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 132-133.
56 Nel n. 38 del 23 dicembre 1946, Pallavicini presenta i suoi collaboratori: “[…] Paolella, per chi non lo sapesse, è il redattore capo. Per lui l'avvenimento è un nastro di celluloide: dal suo ufficio, come da un posto di blocco ferroviario, egli manovra cataclismi, eruzioni, incendi, e altre piccolezze del genere, nel preciso instante in cui stanno trasformandosi in celluloide. […]”, “Parliamo un po' di noi”, La Settimana Incom n. 38, 23 dicembre 1946. Paolella fu anche sceneggiatore e regista. Negli anni '50 si dedicò soprattutto a pellicole musicali e mitologiche. Tra i suoi film più celebri, Destinazione Pievarolo, con Totò.
57 Nel sopracitato n. 38 della Settimana Incom, Guido Notari è presentato attraverso un brevissimo spezzone di film in cui figura come attore, nella parte di un uomo che suona il pianoforte, in stato di ebbrezza. Questo spezzone è lo stesso che la Incom aveva inserito nel documentario Cinque minuti con… Cinecittà del 1939, preceduto da brevi immagini del film - di propaganda coloniale - Abuna Messias. Nel servizio della Settimana Incom compaiono infatti anche le immagini del film fascista, senza, ovviamente, che ne sia citata l'origine. La voce fuori campo, che è quella dello stesso Notari, dice: “Beh! Ma cosa mi stanno combinando? Io, Guido Notari, che in questo momento vi sto parlando, non vesto affatto lo smoking, ma una giacca marrone! Io non bevo, non faccio il gagà! E Guido, Guido, non me li fare questi scherzi! Ma ecco che Gervasio [colui che metteva in musica le immagini] inverte la marcia della moviola [anche
quest'“inversione di marcia”, sulle scene di Abuna Messias, proviene dal documentario del 1939]. Quante signore e signori di nostra conoscenza vorrebbero possedere questa macchina per tornare indietro! Stop, bloccato! Beato Gervasio, che può bloccare il corso degli avvenimenti![…]”. È forse azzardato affermare che ci sia un messaggio di sapore nostalgico in questa parte del servizio, ma, considerando che la provenienza di quelle immagini poteva essere colta solo dagli autori stessi (o dai grandi estimatori del film Abuna Messias), la scena potrebbe rappresentare un “gioco” tutto interno, tra le righe di un servizio brioso e innocente. Un'altra ipotesi è che, in modo meno celato e in linea con la nuova professione di antifascismo della Incom, si facesse riferimento alla nostalgia altrui (“Quante signore e signori di nostra conoscenza […]”).
58 Per una ricostruzione dettagliata della figura di Debenedetti cfr. P. Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Manni, Lecce, 2001. A questo lavoro si deve il recupero delle frammentarie notizie sulla collaborazione di Debenedetti alla Incom e il riconoscimento dell'importante ruolo che egli ebbe come unico autore dei commenti parlati.
59 Nei nn. 38 e 107, rispettivamente del 23 dicembre 1946 e del 27 dicembre 1947, che concludono gli anni 1946 e 1947, viene presentata la redazione del cinegiornale, ma Debenedetti non è citato.
60 La Frandini, in Giacomo Debenedetti e la «Settimana Incom» (in «Strumenti critici», a. XXII, n. 2, maggio 2007), tende ad evidenziare i riferimenti “colti” presenti nei testi dei servizi Incom, non solo come palese firma dell'intellettuale, ma anche come espressione degli spazi di autonomia che egli era in grado di ritagliarsi. Se consideriamo poi la politica del Pci di Togliatti nei primi due anni del dopoguerra, tesa a mantenere in piedi l'alleanza con la Dc, obiettivo al quale i comunisti sacrificarono più di una battaglia, il ruolo di Debenedetti all'interno della Incom risulta meno incomprensibile.
61 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 132.
62 I testi dattiloscritti, che abbiamo inserito in appendice, evidenziano il controllo operato, presumibilmente, da Pallavicini e le correzioni apposte a mano. In alcune note rivolte a Debenedetti compare il suo nome: nel testo dattiloscritto relativo al n. 173 del 22 luglio 1948, sulla campagna elettorale americana, troviamo un appunto in cui l'autore dei testi viene caldamente invitato a correggere il tiro (“Niente spirito Giacomo, per favore… Spiegare il duello fra i due e essere chiaro. Solo una spiritosaggine finale.”). Nel n. 339 troviamo un riferimento ancora più esplicito: “Il signor Debenedetti, nel redigere il commento parlato, è pregato di mettere in evidenza […]”.
63 P. Frandini, Il teatro della memoria, op. cit., p. 233.
64 Ogni numero è costituito da 6-7 servizi, la cui durata è compresa tra i 40 secondi e i due minuti (salvo notizie di particolare rilievo, che occupano un tempo maggiore). Alcuni eventi “cruciali”, come le elezioni, impegnano l'intero numero.
65 “[…] Primatista tra i divoratori di scatolame [scatole di pellicole sugli avvenimenti ripresi] Borracetti: ogni giorno riceve a chilometri il mondo in scatola, e lo passa al capo cronista Cancellieri, martire delle forbici e del telefono [possibile riferimento alla censura] L'ignaro passante domanda atterrito: «Cos'è, una caserma dei pompieri? [i cronisti escono dalla sede Incom e si infilano veloci nelle auto]», «No!», riponde Giovanni, l'olimpico usciere, «Ma sta succedendo un avvenimento, signore». D'improvviso, un colpo di silenzio [uomo alla moviola]. Eppure è proprio qui che nasce il suono: Gervasio è il maestro che mette in musica le notizie […]”, “Parliamo un po' di noi”, La Settimana Incom n. 38, 23 dicembre 1946.
66 In ogni regione era presente una troupe, formata da regista, operatore, aiuto operatore e organizzatore. Nella capitale le troupe a disposizione erano addirittura cinque.
67 La Presidenza del Consiglio, che aveva la necessità di fornire anche all'estero un immagine positiva dell'Italia nel pieno fermento della ricostruzione, commissionò alla Incom alcuni numeri destinati all'esportazione.
68 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133.
69 Fin dal 1948, la Settimana Incom godette di una distribuzione capillare, che, grazie a un accordo che riduceva il prezzo del noleggio, portava il cinegiornale anche nei cinema di bassa categoria. Le attualità di Pallavicini erano maggiormente diffuse al nord e in particolare in Emilia Romagna e Piemonte.
70 Alla morte di Guglielmone la Incom dedicò un lungo servizio celebrativo: “L'ultimo viaggio terreno del senatore Guglielmone”, La Settimana Incom n. 1732, 28 gennaio 1959. La Incom cita Guglielmone in 87 servizi dal 1946, quando egli era Presidente della Commissione economica del Cln, al 1960 in occasione del primo anniversario della morte.
71 D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133. I legami politici e finanziari della Incom erano noti: quando, nel 1950, si discusse al senato della possibilità o meno di consentire all'Istituto Luce di produrre nuovamente cinegiornali (dopo la sua messa in liquidazione nel 1947), arrivò puntuale la denuncia del parlamentare Menotti, nella seduta del 21 novembre: «La Incom è nelle mani di un gruppo finanziario e bisogna dire che questa Incom presenta gli spettatori una produzione deteriore e, quel che è peggio ancora, una produzione volutamente tendenziosa, di propaganda politica di parte».
72 G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano 1945-1980, Editori Riuniti, Roma, 1982, pp. 47-48.
73 «La Incom finì perché, in Italia, tutto diventa presto senile; perché le persone che l'hanno fatta a un certo punto l'hanno abbandonata.», D. Paolella, in F. Faldini e G. Fofi, op. cit., pp. 133. L'ultimo numero della Settimana Incom è il 2554 del 1° marzo 1965.
74 F. Monteleone, Dalla pellicola alla telecamera: l'informazione per immagini tra stereotipo sociale e controllo politico, in A. Sainati (a cura di), op. cit., p. 126.
Giulia Mazzarelli, L'Italia del secondo dopoguerra attraverso i cinegiornali della "Settimana Incom" (1946-1948), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2011

domenica 6 novembre 2022

Il 5 giugno 1945 si riuniscono a Reggio Emilia i rappresentanti di tutte le federazioni provinciali del Partito comunista


Il Partito comunista italiano fu interprete di un originale esperimento di comunismo nazionale che si caratterizzò per un singolare intreccio, difficilmente dipanabile, di riformismo e ideologia rivoluzionaria, di senso delle istituzioni e anticapitalismo, di ricerca di autonomia politica e culturale e di persistenza di un solido legame con l’Unione Sovietica. Ciò gli consentì di raggiungere un grado di radicamento sociale e di consenso elettorale non molto dissimile da quello dei grandi partiti del socialismo democratico europeo ma al tempo stesso, dopo lo scoppio della guerra fredda, gli precluse la legittimazione a governare. <1
Se il quadro di riferimento è quello nazionale tale constatazione è senza dubbio condivisibile; calandosi a livello regionale, in particolar modo per l’area che qui ci interessa, l’Emilia-Romagna, occorre puntualizzare: il Pci, sostanzialmente, esercitò una profonda egemonia. Infatti, senza soluzione di continuità, dal 1945 fino alla propria dissoluzione e pure nelle realtà in cui non rappresentava la maggioranza assoluta, imprescindibile era confrontarsi con esso, con le sue ramificazioni, con la sua influenza politica e sociale.
Indubbiamente qui più che altrove il partito era cresciuto in corrispondenza con l’estendersi della lotta partigiana. Nel periodo immediatamente precedente la caduta del fascismo, la forza più decisa e combattiva, ed in Emilia-Romagna l’unica a disporre di un certo apparato organizzativo, restava il Pci. <2  Alla sua nascita, qui, contava 7.850 iscritti, pari a oltre il 18% del totale nazionale. Nell’estate 1944 nell’Italia occupata erano già arrivati a 70.000, di cui circa 18.000 nella sola Emilia-Romagna, dove la componente contadina - mezzadri, braccianti ecc. - era molto forte, e dove pure tra Bologna e provincia si contavano 32 cellule di fabbrica; è la stessa regione dello sciopero generale delle mondine, mentre iniziano le azioni dei fratelli Cervi e di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow. <3
Qui, come scrive Giorgio Amendola nella stessa estate del 1944, «le difficoltà sono certo grandi»: «ci troviamo sulle immediate retrovie e sulla stessa linea del fronte» e «la densità di occupazione è assai forte». <4 Tuttavia, se fin dalla presa del potere da parte del fascismo si era verificato un calo numerico, durante i lunghi anni di leggi eccezionali, stando alle parole di Pietro Secchia, il lavoro organizzativo si era sviluppato con poche interruzioni e nell’immediato dopoguerra la forza numerica dei comunisti era aumentata notevolmente: nel dicembre 1945 si contavano 345.171 iscritti, pari a quasi il 20% del totale nazionale. <5
L’egemonia del Pci in Emilia-Romagna non può non essere, dunque, ricondotta al lungo lavoro di radicamento, alla costante tessitura e ritessitura di una seppur esile rete organizzativa corrispondente al mantenimento in vita di un minimo di legame sociale che instancabilmente migliaia di militanti e quadri avevano portato avanti durante il regime e nella clandestinità. Un paziente e oscuro lavorio che aveva consentito di predisporre quella trama che entrerà in azione nella Resistenza.
È la terra, questa, che, come scrive nel 1949 un anonimo liberale al segretario regionale della Democrazia cristiana Bruno Rossi, «quando fosse giuridicamente riconosciuta, diventerebbe la prima repubblica sovietica d’Italia e potrebbe ben servire a modello per le altre». <6 È la terra, secondo il vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, macchiata di «sangue per l’odio implacabile dei senza Dio». <7 Ancora nel 1951, un militante democristiano romagnolo scrive a Rossi che l’incontro con i comunisti è un’esperienza «da evitare tutte le volte che si può»; «il comunista mi disse che loro avrebbero trattato quelli là fuori (indicando me) come li hanno sempre trattati (alludendo maniere forti)». <8
Nella «lunga liberazione italiana» <9 come si muoveva dunque il Pci emiliano-romagnolo con «quelli là fuori», con chi in tasca non aveva la tessera del partito? Come veniva rappresentato? E «quelli là fuori» come interpretarono, politicamente, la storia così ricca e complessa dei comunisti, la conflittualità, ampliata e deformata dal ruolo schiacciante del Pci in molte aree della regione?
Una serie di temi e problemi, piuttosto che un profilo - meno che mai un profilo unitario - è quanto si tenterà di mettere in luce, seguendo una linea descrittiva piuttosto che interpretativa.
1. La «diabolica organizzazione». Fra Resistenza e Repubblica
Il 5 giugno 1945 si riuniscono a Reggio Emilia i rappresentanti di tutte le federazioni provinciali, alla presenza di Luigi Longo per la Direzione nazionale. L’ordine del giorno è assai amplio ma numerosi interventi si concentrano sui rapporti con gli altri partiti. Nello specifico, a Ferrara questi sono descritti come «abbastanza buoni»; a Parma non viene taciuta «qualche difficoltà» dopo la smobilitazione; a Modena «hanno le stesse caratteristiche che si riscontrano nel campo nazionale»; a Forlì «i rapporti con i socialisti sono buoni e così pure con i democristiani: quelli con i carabinieri ed il prefetto ottimi»; a Piacenza «la situazione della provincia non può essere definita brillante» ma «è stato elaborato un accurato piano di lavoro diretto a stringere sempre più i rapporti». È Longo a trarre le conclusioni, assunto il presupposto che «vi sono stati anche dei lati negativi», e a indicare la linea per il futuro. Si chiede «se in tutti i compagni vi sia una esatta, profonda convinta persuasione della linea politica del partito o se non ci sia qualche atteggiamento, non ancora errore o deviazione ma qualche germe che potrebbe svilupparsi poi in qualche deformazione della linea politica». Nei confronti degli altri partiti, in un momento delicato come quello del «passaggio dallo stato di guerra a quello di pace», «è necessario sforzarsi di ottenere l’unità anche con quegli elementi che tendono a staccarsi», però «non confondendo le forze sane con quelle reazionarie». Con gli Alleati occorre «manifestare loro i nostri sentimenti di riconoscenza per quanto hanno fatto per noi; però non è detto che dobbiamo accettare supinamente e senza resistenza qualsiasi loro decisione»; nei confronti dei democristiani «non si deve tenere un atteggiamento di ostilità, ma di persuasione»; per quanto riguarda gli azionisti «si deve tendere verso la parte più progressiva di loro»; il lavoro, insomma, è «enorme». <10
In Emilia-Romagna il Pci non aveva mai cessato di sostenere che l’unità della Resistenza aveva un valore storico assoluto, che però poteva esistere solo mantenendo in essa la loro presenza attiva, persino la loro egemonia ideologica. <11 I comunisti, qui, si considerano - e comunicano con forza di essere - «l’anima e la guida, la pattuglia più avanzata di questa battaglia»; <12 «oggi, come sempre», i «primi all’attacco per guidare il popolo tutto al combattimento»; <13 «forgiati dal leninismo e dallo stalinismo», è stato creato «un uomo di tipo nuovo, provato ad ogni lotta e ad ogni avversità che ha dato i quadri migliori della battaglia partigiana» e che, «spoglio da ogni romanticheria, semplice, umano, legato al popolo, uomo fra gli uomini», è e sarà «una delle principali forze della ricostruzione». <14 I comunisti piacentini raccontano di nazifascisti «terrorizzati» dalle loro «leggendarie gesta», descrivendone i protagonisti come «eroi», «martiri», «sempre vivi», persino «immortali»; <15 a Ferrara il partito ricorda di essere «punto d’appoggio», in grado di indicare la «strada giusta», «fiero di essere in prima linea»; <16 a Reggio Emilia, pur sottolineando che «nessuna distinzione di fede politica o religione dovrà ostacolare in questo momento lo sforzo comune», i comunisti mettono in chiaro che «la salvezza, la resurrezione dell’Italia non è possibile se non interviene nella vita politica italiana, come elemento di direzione di tutta la nazione» il partito guida della classe operaia; <17 a Forlì si scrive che il Pci «è all’avanguardia dell’insurrezione popolare perché questa è la sua missione storica»; <18 a Cesena, il 31 dicembre 1944, Giovanni Zanelli, partigiano e segretario della Federazione provinciale di Forlì, sostiene che «nessun partito conosce le sofferenze delle masse popolari così come le conosce il nostro partito che vive in mezzo alle masse e ne è l’espressione e la guida» e che «non vi sarà nessuna democrazia vera e popolare se la classe operaia ed il suo partito, il Partito comunista, ne sarà esclusa». <19
Nella stampa comunista dell’epoca è forte il richiamo all’Unione Sovietica. <20  Nella difficoltà di dare un contenuto preciso al desiderio generico di un mutamento radicale e nella parsimonia delle indicazioni sul futuro fornite dal partito, il mito dell’Urss e di Stalin si presentava infatti come particolarmente atto a riempire il vuoto. <21 Della terra dei soviet si celebrano, ad esempio, i successi economici: per «La lotta», organo delle federazioni comuniste romagnole, «lo sviluppo economico e politico europeo riafferma la giustezza delle previsioni del marxismo-leninismo». Ricordando Lenin a 20 anni dalla morte, il giornale clandestino ricorda che «gloriosamente e con sicurezza» proseguono la propria lotta «la Russia sovietica e le sue potenti armate» e «i partiti comunisti saldamente costituiti alla testa della classe operaia lavoratrice», <22 sospingendo l’Armata rossa «con impeto inusitato». <23 A Parma, la «Voce del partigiano» nel gennaio del 1945 scrive che «in Urss non vi sono più classi sfruttatrici, che abbiano interessi distinti e contrastanti con quelli di tutto il popolo»: le vittorie dei popoli dell’Unione Sovietica sono «le vittorie della democrazia. L’Urss ha vinto e vince le sue battaglie perché, sotto la guida della classe operaia, i popoli dell’unione sovietica hanno realizzato una forma superiore di democrazia». <24
Di pari passo con il ribadire la correttezza della dottrina va da un lato la celebrazione di Stalin - simbolo riassuntivo del mito sovietico - definito nel luglio 1944 dall’edizione regionale de «l’Unità» come «il più grande stratega di questa guerra», <25 e dall’altro dello «sforzo glorioso dell’Armata rossa» che dimostra come «l’ordinamento economico-politico instaurato con la Rivoluzione abbia dato vita all’eroismo di massa ed alla storica vittoria delle forze e dell’ideologia proletaria». <26 «Perfettamente e potentemente armata», «la gloriosa Armata rossa avanza con la forza e la velocità di una valanga che tutto travolge», scatenando «la più grande offensiva che la storia ricordi»: così l’Unione Sovietica, «dopo aver salvato l’umanità dallo schiavismo hitleriano dilagante, prosegue e sviluppa con eroismo la sua missione liberatrice e progressista», così, «dopo averli liberati, essa unifica i popoli, ne favorisce e potenzia il contributo alla lotta al nazi-fascismo, la rapida e larga democratizzazione, la rinascita e la libera espressione». <27
Al di là della retorica, tali affermazioni potevano alimentare i sospetti che le direttive togliattiane della svolta di Salerno non fossero altro che una battuta d’arresto momentanea, in attesa di una futura fase. Nella riunione di Bologna del Comitato di liberazione nazionale regionale dell’11 maggio 1945, ad esempio, il colonnello americano Floyd J. Thomas, commissario dell’Allied Military Government, mette in guardia i presenti nei confronti di coloro i quali «desiderino accelerare le cose»: gli alleati «hanno dato il loro impegno di aiutare come è stato fatto per il passato e come sarà per il futuro» ma ciò sarà possibile esclusivamente in «una atmosfera di legge e di ordine nella quale si possa lavorare in cooperazione al massimo grado». Per Thomas «le discussioni politiche devono essere svolte a tempo e luogo debito» e se «ci sono molte cose che possono essere fatte dai partiti», queste non interferiscano «con le funzioni di governo oppure con la legge e con l’ordine». «Nei comuni la responsabilità della cosa comune è nelle mani dei sindaci», prosegue il colonnello, e i Cln «hanno il privilegio di dare consigli e di assistere i pubblici funzionari» ma «non hanno potere per conto loro e si devono assolutamente astenere dall’emettere ordini».
Il comunista ed ex partigiano Paolo Betti puntualizza in risposta l’intenzione del partito di «entrare nella legalità, di rompere tutte quelle che sono le azioni incontrollate» ma «per tale riteniamo anche la mutua collaborazione degli alleati verso di noi»; chiede che sia sanato tutto quello che è stato fatto «di giusto e di logico» dai Cln, «che non sia gettato tutto per aria tutto quello che di buono è stato fatto» e che «gli alleati non usino indulgenze verso gli industriali che hanno stroncato gli scioperai durante la guerra di liberazione». Tocca allora a Giuseppe Dozza, che da soli quattro giorni era stato legittimato sindaco della città dallo stesso governo alleato: «l’appello per la normalizzazione deve essere accolto da tutti e non soltanto da noi». Dozza «non ha l’impressione che ciò avvenga» e che «dinanzi agli alleati non dobbiamo mai dimenticare la nostra dignità di uomini e di italiani», rilevando «qualche episodio di incomprensione assoluta». <28
Da tempo si credeva di intuire, fra sospetto e preoccupazione, che «da parte comunista esisteva già un disegno preordinato». È questa la sensazione che Vittorio Pellizzi, azionista e tra i primi a promuovere e a costruire nel reggiano gli organi politici della Resistenza, sostiene di aver provato durante un incontro del 26 luglio 1943 con il dirigente del Pci Aldo Magnani. Pellizzi aggiunge che quell’occasione gli rivelò che «l’organizzazione comunista clandestina - di cui sapevo l’esistenza, ma di cui ignoravo l’efficienza e l’importanza - veniva ora alla ribalta con i suoi uomini, i quali dimostravano di possedere una grande maturità politica»; sempre Pellizzi constatò come Magnani fosse «preparato e già in possesso di un disegno strategico» e «anche dei mezzi tattici per attuarlo».
«Ad eccezione dei comunisti, noi come cospiratori si era dei novellini», ricorda emblematicamente un altro protagonista della Resistenza reggiana, il democristiano Pasquale Marconi. <29 Gli azionisti emiliani si rivolgono ai comunisti nel marzo del 1944 per sottolineare che «questo tesoro vivo di esperienze altrove maturate» è di certo apprezzato ma guai a utilizzarlo «con intenti servili o peggio ancora con l’idea di applicarle ipso facto al nostro paese». Si pone dunque un problema di libertà, «conditio sine qua non anche per la libertà degli altri paesi europei». <30 È la questione della libertà a scavare un solco ideologico anche con i repubblicani; i comunisti «si fermano all’eguaglianza, e per l’eguaglianza sono disposti a rinunciare alla libertà, accettando la dittatura»; <31 i repubblicani intendono escludere categoricamente che «la nazione abbia per una seconda volta a soggiacere schiava di una dittatura, sia essa della minoranza sulla maggioranza (esempio tipico il fascismo) o della massa sulla minoranza dei cittadini come vorrebbe il comunismo». <32
Dal giogo di una dittatura a quello di un’altra: è ciò che teme anche un antico liberale cattolico come il conte Malvezzi Campeggi scrivendo una lettera a Tommaso Gallarati Scotti, poi reindirizzata al rappresentante del Partito liberale nel Comitato di liberazione nazionale Alessandro Casati, all’indomani della Liberazione. Nel bolognese, secondo il conte, «la situazione è preoccupante: tirate le somme ci accorgiamo di essere passati senza transizioni dal fascismo nero a quello rosso. Medesima mentalità. Medesimi sistemi di violenza, prepotenza, intimidazione, minacce. Tutti i posti di potere sono in mano ai comunisti». Nelle campagne «i contadini vietano ai proprietari di mostrarsi nelle loro proprietà ed impongono taglie», ma la cosa più preoccupante è che «seguitano a scomparire misteriosamente persone, anche notissime, senza che se ne abbiamo più notizie». Due inchieste di «Risorgimento liberale», intitolate rispettivamente 'Il borghese emiliano vive fra queste paure' del gennaio 1946 e 'La psicosi del mitra nell’Emilia rossa' del settembre 1946, trasmettono in controluce la sensazione della circolazione della leggenda dell’invincibilità del Pci e della «diabolica organizzazione comunista diretta da uomini formati nelle scuole di partito sovietiche e che avevano partecipato alle guerre civili europee», evocando il problema del disarmo delle bande partigiane sostenendo che alle loro spalle vi fosse una precisa «organizzazione politica». <33
Nel «magma dell’illegalità del dopoguerra», <34 sempre a Bologna all’inizio del 1946 il liberale Antonio Zoccoli, presidente del Cln, ribadisce che l’organismo da lui presieduto «ha cercato con tutti i suoi mezzi, qualche volta inadeguati, ma sempre spontaneamente generosi, di curare le ferite, ha cercato e cerca di riportare negli animi la calma, la tranquillità, la concordia». Nella medesima riunione, alla presenza di prefetto e questore, il segretario della Camera del lavoro Onorato Malaguti avverte però che ci si trova tutti, ora, «in una delle situazioni più critiche, più critiche di alcuni mesi fa». È evidente, a suo avviso, che «vi è una compressione nella massa operaia» ma anche alla compressione «vi è un limite». Betti esprime ai presenti la propria sensazione che a Bologna si muovano «delle squadre armate per colpire degli uomini politici dei partiti che hanno fatto parte della lotta di liberazione»; il democristiano Angelo Salizzoni, in risposta, non ha timore allora di parlare specificatamente di «delitto»: è «interesse della democrazia» che venga spezzata la catena del delitto, alimentata dal fatto che, a quasi un anno dalla fine del conflitto, «ci sono troppe armi in giro». <35
È presente, certo, un problema pressante di «attività criminosa comune» che, come scrive il questore di Forlì al prefetto e al maggiore Baldwin della polizia alleata, tracciando un quadro della situazione della sua provincia ma descrivendo anche quella di Cesena e Rimini, «ha subito una certa recrudescenza». «I partiti estremisti», i quali «contano il maggior numero di aderenti, si mostrano malcontenti per la lentezza con la quale viene effettuata l'epurazione»: il malcontento, conclude il questore, sfocia «di tanto in tanto con bastonature», a cui è difficile opporsi visto un personale di polizia «tuttora insufficiente armato, disponendo di un numero irrisorio di moschetti e di pistole» e che «scarsi e scadenti sono i mezzi di comunicazione di cui dispone la Questura». <36
L’assimilazione non argomentata e quasi istintiva tra il regime fascista e quello comunista si era verificata, come si diceva, in Emilia-Romagna già nei mesi immediatamente successivi alla Liberazione, coi primi tentativi di produzione propagandistica da parte di gruppi ostili al Pci, alcuni senza filiazione chiara. A Bologna, a fine 1945, erano apparsi slogan come «ieri in camicia nera, oggi in camicia rossa», o «che cos’era il fascismo? Niente altro che il comunismo interpretato da Mussolini», mentre si inveiva contro il «fascismo rosso». Giuseppe Dozza, che aveva intercettato i volantini e li aveva spediti a Togliatti, si dichiarava preoccupato, perché a suo dire essi erano indizi di un clima piuttosto diffuso. <37 In alcuni volantini diffusi in regione da ambienti che confluiranno nella Democrazia cristiana si scrive che il bolscevismo, «con tutti i suoi inimmaginabili terrori, distende avidamente la mano verso la patria»; <38 «la rivoluzione e i rapporti di violenza tra i Partiti non fanno che accrescere malanni e distruzione agli uomini e alle cose» e che «la rivoluzione non sarebbe che la continuazione della lotta fratricida iniziata dal fascismo»: «Guai», allora, «se avesse la maggioranza un partito totalitario, sia di destra che di sinistra: diventeremmo nuovamente schiavi di un dittatore e i nostri fratelli che sono morti per la libertà ci griderebbero dalla tomba tutto il loro sdegno». <39 L’anno successivo, ancora attraverso un volantino, la Dc regionale mette in guardia i lavoratori dal non farsi «abbagliare dalle illusioni, dalle parole grosse e dalle promesse di mari e monti alle quali seguono le più amare delusioni»; infatti, «altrove», nei paesi in cui è stata portata a termine la «rivoluzione, con le fucilazioni e con le deportazioni», «praticamente non sono riusciti ad abolire le disuguaglianze», «si sono tolti di mezzo i vecchi ricchi e ne sono sorti altri, non meno sfruttatori». <40
I comunisti in Emilia, scrive un anonimo militante democristiano modenese, «rubano cibo e vestiti per l’inverno» poi «li rivendono o li regalano a chi pare loro, agli altri comunisti». <41 I comunisti, in Romagna, secondo i repubblicani riminesi, sono i responsabili della partenza di «navi cariche di grano», «in segreto», «dall’Italia affamata verso porti stranieri a est» e «questo traffico frutta del denaro a coloro che lo esercitano, e delle armi ad un movimento… “progressivo” che per ciò proteggerebbe col grande bandierone della propria incosciente omertà la losca opera di questi affamatori del popolo». <42
 


[NOTE]
1 Roberto Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992. Dc e Pci nella storia della Repubblica, Roma, Carocci, 2006, p. 21.
2 Pietro Alberghi, Partiti politici e Cln, Bari, De Donato, 1975, p. 49.
3 Antonio Gibelli, Flaviano Schenone, L’organizzazione nell’Italia occupata, in Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione, 1921/1979, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 1048-1049.
4 Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 390.
5 Luciano Casali, Dianella Gagliani, Movimento operaio e organizzazione di massa. Il partito comunista in Emilia-Romagna (1945-1954), in La ricostruzione in Emilia-Romagna, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Parma, Pratiche Editore, 1980, p. 255.
6 Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi Asbo), Archivio Democrazia cristiana - Comitato regionale Emilia-Romagna (d’ora in poi Adcer), fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera al segretario regionale Bruno Rossi, 13 ottobre 1949.
7 Triangolo della morte, in «La Libertà», 3 aprile 1955.
8 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera al segretario regionale Bruno Rossi, 27 gennaio 1951.
9 Così Inge Botteri, Dopo la liberazione. L’Italia nella transizione tra la guerra e la pace: temi, casi, storiografia, Brescia, Grafo, 2008, p. IX.
10 I comunisti in Emilia-Romagna. Documenti e materiali, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Bologna, Istituto Gramsci Emilia-Romagna, 1981, pp. 41-46.
11 Paolo Pombeni, La ricostruzione politica in Emilia-Romagna nel quadro del contesto nazionale. Una rilettura, in Angelo Varni, La ricostruzione di una cultura politica: i gruppi dirigenti dell’Emilia-Romagna di fronte alle scelte del dopoguerra, Bologna, Il Nove, 1997, p. XXXI.
12 Comunisti, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 5, settembre 1944.
13 L’ora dell’Emilia, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 12, agosto 1944.
14 Lenin è morto: il leninismo vive!, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 1, 21 gennaio 1945.
15 Le Sap, in «La Falce. Organo dei contadini e salariati agricoli di Piacenza», 10 giugno 1944.
16 Rinascita, in «La nuova scintilla», 15 gennaio 1945.
17 Il compito e la funzione del Cln e il «Partito nuovo», in «La stampa libera. Bollettino della federazione comunista reggiana, zona montana», 1 aprile 1945.
18 Fuori dalle fabbriche, in «La nostra fabbrica», 25 luglio 1944.
19 Istituto storico di Forlì-Cesena (d’ora in poi Isfc), Archivio Comitato di liberazione nazionale, b. 3, Partiti e pubblicazioni, Conferenza dei rappresentanti comunisti nelle giunte municipali della provincia di Forlì, 31 dicembre 1944.
20 L’elemento della disciplina internazionale, occorre ricordarlo, giocò un ruolo essenziale nella condotta di tutti i partiti comunisti anche nel secondo dopoguerra tenendo pur sempre presente che né la tesi dell’autonomia, né quella della catena di comando appaiono adeguate a una ricostruzione storica. Cfr. Silvio Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della Guerra fredda (1943-1948), Roma, Carocci, 1999, p. 19.
21 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 404.
22 21 gennaio 1924. Morte del compagno Lenin, in «La lotta. Organo delle federazioni comuniste romagnole», 15-31 gennaio 1944.
23 Per l’insurrezione, in «La lotta. Organo delle federazioni comuniste romagnole», 30 giugno 1944.
24 Cosa ci insegnano le vittorie dell’Unione Sovietica?, in «La voce del partigiano», a. I, n. II, 25 gennaio 1945.
25 L’Esercito rosso ai confini della Germania, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 11, 20 luglio 1944.
26 Evviva il glorioso Esercito rosso! Evviva Stalin!, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 14, 8 novembre 1944.
27 L’Armata rossa, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 2, 22 gennaio 1945.
28 Fondazione Gramsci Emilia-Romagna (d’ora in poi Fger), Archivio Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna, b. 1, fasc. 1, Verbale riunione Cln e sindaci provincia dell’11-5-1945. Il comunista Decio Mercanti, per citare un altro esempio, ricorda che a Rimini nell’immediato dopoguerra «l’attività politica dei partiti era seguita attentamente dalle forze alleate, in particolare veniva seguita l’attività del Pci e quella del Psi anche attraverso la corrispondenza. Ci furono multe e processi a danno dei dirigenti di questi due partiti. Gli alleati, possiamo affermarlo, non agirono con la stessa imparzialità nei confronti dei diversi partiti»; cfr. Decio Mercanti, Attività del Comitato di liberazione di Rimini dalla Liberazione al suo scioglimento, in «Storie e Storia», 13 (1985), pp. 95-96. È da segnalare che, almeno per quanto riguarda il periodo resistenziale in Emilia, le carte dell’intelligence inglese ci conducono a osservazioni più sfumate; cfr. Messaggi dall’Emilia. Le missioni n. 1 Special Force e l’attività di intelligence in Emilia 1944-1945, a cura di Marco Minardi e Massimo Storchi, Parma, Edizioni dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, 2003, pp. 37-39. Per quanto riguarda, infine, i Cln, è ben noto ormai che a prescindere dall’unità di lotta e dallo sforzo bellico unitario, il dibattito al loro interno è caratterizzato, fin dai primi mesi, dai contrasti e dalle divergenze di natura politica fra chi era favorevole a una loro più puntuale valorizzazione e al loro inserimento in una struttura statuale di tipo nuovo e chi era, invece, propenso a sostenere il carattere provvisorio e straordinario, limitato ai soli compiti di direzione politica del movimento di liberazione; cfr. Pierangelo Lombardi, L’illusione al potere. Democrazia, autogoverno regionale e decentramento amministrativo nell’esperienza dei Cln (1944-45), Milano, Franco Angeli, 2003, p. 50.
29 Origini e primi atti del Cln provinciale di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Cooperativa operai tipografi, 1974, p. 28 e p. 67.
30 Propositi nostri, in «Orizzonti di libertà. Periodico emiliano del Partito d’Azione», n. 1, marzo 1944.
31 Libertà ed eguaglianza, in «La Voce repubblicana. Organo dei repubblicani dell’Emilia e Romagna», n. 3, luglio 1944.
32 Libera associazione, in «La Voce repubblicana. Organo dei repubblicani dell’Emilia e Romagna», n. 4, agosto 1944.
33 Fabio Grassi Orsini, Guerra di classe e violenza politica in Italia. Dalla Liberazione alla svolta centrista (1945-1947), in «Ventunesimo Secolo», 12 (2007), pp. 79-80.
34 Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 77. Zone calde come l’Emilia, dove il protrarsi di azioni violente ebbe proporzioni allarmanti nel cosiddetto «triangolo rosso», furono oggetto di un particolare monitoraggio da parte dello stesso Togliatti. Proprio a Reggio Emilia, com’è noto, nel settembre 1946, il segretario tenne un discorso molto netto sul rifiuto della violenza e assunse anche una posizione autocritica, facendo capire che nelle file del Pci si sarebbe dovuto vigilare di più per estirpare la mentalità illegale; cfr. Gianluca Fiocco, Togliatti, il realismo della politica, Roma, Carocci, 2018, pp. 183-184. Già a fine agosto del 1945 lo stesso Togliatti si lamentava con l’ambasciatore sovietico in Italia per l’allarmante «degenerazione del movimento partigiano al nord»; secondo il segretario molti ex partigiani si davano sempre più spesso a veri e propri episodi di banditismo che rischiavano di screditare il movimento comunista italiano nel suo complesso; cfr. Elena Aga Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 110.
35 Istituto storico Parri di Bologna (d’ora in poi Isbo), Archivio Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna, b. 3, fasc. “Ordine pubblico durante il periodo elettorale”, verbale della riunione del Cln regionale del 20 febbraio 1946.
36 Isfc, Archivio Comitato di liberazione nazionale, b. “1945. Questioni economiche, amministrative, situazione comuni post-liberazione, ordine pubblico, epurazione”, Rapporto riservato del questore di Forlì, 25 aprile 1945. È difficile, quando non impossibile, per le forze dell’ordine, distinguere fra atti di violenza politica e di criminalità comune; lo scenario romagnolo di quegli anni è ricostruito in Patrizia Dogliani, Romagna, periferia e crocevia d’Europa, in Carlo De Maria, Patrizia Dogliani, Romagna 1946. Comuni e società alla prova delle urne, Bologna, Clueb, 2007, pp. 36-49.
37 Andrea Mariuzzo, Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana (1945-1953), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, p. 125.
38 Istituto storico di Parma, Fondo Lotta di Liberazione, b. 2, Volantino a firma Democrazia cristiana, novembre 1945.
39 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, volantino con data 1946.
40 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, volantino dal titolo Lavoratore, tu devi ragionare!.
41 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera anonima datata 28 ottobre 1945.
42 Affamatori del Popolo, in «Il Dovere. Periodico della consociazione circondariale riminese del Partito repubblicano italiano», 10 agosto 1946.
Andrea Montanari, Il Pci e le altre forze politiche: temi e problemi nel lungo dopoguerra in (a cura di) Carlo De Maria, Storia del PCI in Emilia-Romagna. Welfare, lavoro, cultura, autonomie (1945-1991), Collana "OttocentoDuemila", Italia-Europa-Mondo, 9, Bologna, Bologna University Press, 2022, testo qui ripreso da Clionet - Associazione di ricerca storica e promozione culturale