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martedì 23 agosto 2022

Trattasi di una comune bomba a mano tipo Balilla

Roma: Corso Vittorio Emanuele II. Fonte: mapio.net

L'assimilazione verso la scelta legalitaria prospettata dalla nascita del MSI per lo più spense i fuochi dei Fasci d'azione rivoluzionaria. “Già alla fine del 1947 - ha scritto Mario Tedeschi - solo pochissimi elementi, non più organizzati ma collegati sulla base di rapporti personali, restavano ancora fermi su quelle che erano diventate pian piano posizioni di natura puramente estetica” <87. La sigla FAR infatti ricomparirà nelle cronache cittadine soltanto nell'ottobre del 1948, in occasione dell'anniversario della marcia su Roma.
"Mentre la Polizia era intenta a rastrellare fascisti in Corso Vittorio, quattro bombe-carta sono state fatte esplodere dal MSI a Porta Pia, a P. Ungheria, a P. Flaminia [sic] e sotto la Galleria Colonna. Le bombe, esplodendo, hanno diffuso manifestini dei FAR (fasci di azione rivoluzionaria) di cui da tanto tempo non sentivamo più parlare. Il testo dei manifestini somiglia assai a una predica […]" <88.
Il rastrellamento cui accenna l'articolo de «l'Unità» era seguito al malriuscito tentativo di tre neofascisti, nella mattinata di quel 28 ottobre, di affiggere dal “fatidico balcone [di Palazzo Venezia] un tricolore con in mezzo disegnato a inchiostro un fascio repubblichino” <89. Per l'affissione e le esplosioni delle bombe carta la Questura arrestò e denunciò una dozzina di persone <90.
Quelle dei FAR tuttavia non erano le uniche micce della città. Tra il dicembre del 1947 e il gennaio del 1948, infatti, Roma fu teatro di cinque attentati tutti perpetrati dallo stesso gruppo che appare essere per lo più scollegato dal resto del contesto neofascista romano.
Il 25 novembre '47, verso le dieci di sera “un giovane dall'apparente età di 16 anni <91 lanciò una bomba a mano di tipo SRCM contro il palazzo di via IV novembre dove aveva sede la tipografia che stampava «l'Unità» e l'«Avanti», allontanandosi poi a bordo di una macchina scura. La bomba esplose sul marciapiede a mezzo metro dal portone, provocando la rottura di una vetrata" <92.
L'indomani su «l'Unità» il governo veniva rabbiosamente accusato di acquiescenza: “È chiaro che i neo fascisti si fanno forti dell'impunità e della compiacente tolleranza del governo. E l'attentato di ieri sera, compiuto a pochi giorni di distanza dall'approvazione della legge per la difesa della Repubblica, assume un evidente carattere di sfida e di provocazione” <93.
Meno di un mese dopo, il 19 dicembre, poco dopo le nove di sera, veniva lanciata un'altra bomba all'ingresso della sezione “Italia” del PCI in via Catanzaro. “Le caratteristiche di questo ennesimo criminale attentato - viene fatto notare ancora da «l'Unità» - sono identiche a quelle dell'ultimo, compiuto contro la nostra tipografia, e dimostrano l'esistenza dì una organizzazione clandestina che si prefigge lo scopo di colpire sistematicamente le sedi dei partiti democratici” <94.
La dinamica dell'attentato, in effetti, è estremamente simile, come si legge nel rapporto stilato la sera stessa dalla Questura:
"svolte le prime indagini, è risultato che nell'ora anzidetta un'automobile, secondo alcuni testimoni, tipo Augusta, ma della quale non sono state rilevate altre caratteristiche, proveniente da via Padova traversava lentamente via Catanzaro diretta via Belluno, rallentando ancor più la marcia all'altezza della sezione comunista. Intanto un individuo, dall'apparenza giovanile, che indossava un trence [sic], ignorasi se sia disceso dalla macchina o già in sosta nei pressi della sede comunista si arrampicava sulla ringhiera antistante l'ingresso di questa, lanciando la bomba. Subito dopo, mentre la macchina accelerava la corsa costui si aggrappava allo sportello sinistro della vettura, dileguandosi con essa verso via Belluno. […] Non si hanno a lamentare danni alle persone. Trattasi di una comune bomba a mano tipo Balilla. Disposte attivissime indagini. Sul posto si sono recati anche l'On. D'Onofrio e il Dr. Natoli segretario della federazione comunista" <95.
L'esplosione mandò in frantumi i vetri della porta della sezione e di una finestra dell'appartamento al piano superiore e provocò la caduta di un metro di cornicione all'interno della sezione <96. Cinque giorni dopo venne identificato il modello dell'auto ma non la targa <97.
La sequenza di attentati si protrasse dunque anche nell'anno nuovo. Nella notte tra il 12 ed il 13 gennaio una carica di tritolo detonò nei pressi di una finestra della sezione Mazzini del PCI in via Monte Zebio, distruggendo la finestra stessa e mandando in pezzi i vetri delle finestre circostanti nel raggio di circa quindici metri. Un ordigno “di scarsa potenzialità” osservava il commissario capo del commissariato di P.S. Piazza d'Armi, posto unicamente a scopo dimostrativo, anche in considerazione del fatto che la sezione era chiusa <98. Due settimane dopo, nella notte tra il 26 ed il 27 gennaio, un altro ordigno a basso potenziale esplose sotto la porta di accesso della sezione “Saverio Tunetti” del Partito Socialista Italiano in via Tiepolo, al quartiere Flaminio, scardinando la porta e infrangendo i vetri della sezione e delle finestre attigue per un raggio di circa cinquanta metri <99. Ancora, nella notte tra il 13 ed il 14 febbraio un ciclista lanciò una bomba, di maggiore potenza rispetto alle due precedenti, nel giardino circostante la sede nazionale dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia (ANPI) in via Savoia.
" Impiegato ANPI - comunicò la Questura - che ivi pernotta Zelli Giuseppe […], che si era appartato in lavori di ufficio aveva modo di notare fumo nel cortile e raccolto involucro circa 600 grammi dal quale sprigionava miccia accesa, lo lanciava per strada, preoccupandosi con gesto lodevole di correre fuori at avvertire pericolo ai passanti rimasti sconosciuti, coadiuvato in ciò da guardia notturna Ficini Benedetto fu Leopoldo nato a Subiaco il 22-8-1893. Dopo circa quattro minuti verificavansi esplosione sul margine esterno del marciapiede frantumando lo stesso e molti vetri abitazioni circostanti. Nessun danno alle persone. Nei pressi sede veniva rinvenuta qualche cartolina raffigurante militare con mitra et elmetto con la scritta “SAM - GC Barbarigo - Buon sangue non mente” " <100.
Nel giro di un mese la Questura, rafforzando il suo convincimento di un'unica organizzazione a monte di questa sequela di attentati, orientò le indagini verso “una combriccola di individui dall'attività sospetta” di stanza nei rioni Ponte e Sant'Eustachio, che si aggirava attorno all'ex Colonnello della milizia, per breve tempo Questore di Forlì durante la RSI, Riccardo Voltarelli <101. Il dirigente dell'ufficio politico della Questura di Roma Tommaso Audiffred spiegò in proposito che
"L'Ufficio politico teneva d'occhio il Voltarelli a causa del passato politico; l'idea che egli, e le persone che lo frequentavano, potessero sapere qualche cosa [degli attentati] alle sedi dei Partiti di Sinistra, non aveva una base sicura e concreta, ma cominciò a consolidarsi quando dai servizi normali di vigilanza nei confronti del Voltarelli, emerse che il suo atteggiamento era molto equivoco […]" <102.
L'ex questore di Forlì, nativo della provincia di Catania (1895), era noto all'ufficio politico per essere uno dei dirigenti del Movimento anticomunista rivoluzionario italiano (MACRI) <103, costituito clandestinamente nella seconda metà del 1946 e rimasto per lo più inerte fino al dicembre 1947. Nell'estate dell'anno successivo, pur mantenendo l'acronimo, l'associazione aveva mutato nome in Movimento di azione cristiana per la ricostruzione italiana al fine di assumere una veste legale, e ne venne stabilita la sede presso il convento degli agostiniani, in piazza S. Agostino. Presidente e vicepresidente ne erano, riferisce sempre il dirigente dell'ufficio politico, i generali, entrambi massoni, Fulgenzio Dall'Ora e Giuseppe Pieche, che tuttavia comunicarono le dimissioni dalle loro cariche sociali nel novembre 1947. "Fino a quell'epoca, continua Audiffred, animatore del movimento sarebbe stato padre Prisco, rettore del convento di S. Agostino, sede che sempre in quel periodo il MACRI abbandonò per mancanza di fondi. Ciò nonostante non è risultato che Voltarelli abbia intrapreso quei due mesi di fuoco per “mandato dei dirigenti del MACRI […] sta di fatto però che egli ha svolto una attività nell'orbita del MACRI, servendosi di uomini che a questo erano iscritti” <104.
Tra il 10 e il 15 di marzo, dunque, sei (di nove) membri della “combriccola di individui dall'attività sospetta” vennero arrestati: il 10 Domenico Palladino, Marcello Carini e lo stesso Voltarelli, il 12 Angelo Lispi e Saverio Capogreco, il 13 Cesare Monti, il 15 Luigi Arione. Il 5 maggio verrà arrestato Aldo Baroni mentre Cristoforo Marullo non sarà arrestato (verrà poi assolto per insufficienza di prove) <105. Al gruppo vennero attribuiti tutti e cinque gli attentati, giacché “sebbene si sia riusciti ad accertare in modo inequivocabile solo alcune precise loro responsabilità, non si ha dubbio date le modalità di esecuzione riscontrate in altri attentati congeneri, che essi siano di loro opera” <106. Durante gli interrogatori, infatti, gli arrestati confessarono la responsabilità degli attentati alle sezioni del PCI di via Catanzaro e di via Monte Zebio, entrambi organizzati da Voltarelli e compiuti il primo da Barone, Capogreco, Lispi e Palladino, il secondo dal solo Voltarelli <107.
Diversamente da quanto osservato nel caso dei FAR (e dei gruppi di persone che vi si avvicinarono, anche per poco), questo gruppo riunitosi attorno a Voltarelli appare decisamente disomogeneo sia sotto l'aspetto anagrafico, sia, conseguentemente, sotto quello della condivisione di esperienze nella RSI, sia ancora da un punto di vista di appartenenza politica. Si può infatti notare che i cinque confessi esecutori degli attentati alle due sezioni del PCI avevano cinque età diverse, e tra il più giovane ed il più anziano vi erano ventisette anni di differenza. I soli ad aver militato insieme nei corpi della RSI risultano essere Palladino e Carini nella GNR nel veronese <108 e la stessa formazione del gruppo sembra essere abbastanza casuale; Lispi ad esempio confessò di aver conosciuto Voltarelli, Palladino e Capogreco nella sede dell'Associazione Nazionale Arditi d'Italia nell'autunno 1947 <109. Quanto all'identità politica si noti che Marullo, l'unico fra gli imputati ad essere assolto per insufficienza di prove, avrebbe avuto un ruolo di collegamento tra il MACRI e “le squadre d'azione che erano state costituite in seno al Movimento Monarchico” <110.
Elementi di un certo interesse si rilevano invece nei primi interrogatori di Voltarelli (che poi ritratterà sistematicamente), in cui spavaldamente sostenne essere nelle sue intenzioni la formazione di una “organizzazione terroristica a sistema cellulare del tipo slavo e allo scopo organizzavo singoli attentati contro sedi comuniste, per addestrare gli uomini ad una maggiore e più grande impresa. Tale impresa consisteva nella distruzione della nuova sede del P.C.I. di via delle Botteghe Oscure” <111. Un proposito ai limiti del delirio di onnipotenza, anche in considerazione del fatto che gli attentati realmente compiuti avevano evidentemente uno scopo meramente dimostrativo. Al riguardo, è anche interessante l'opinione di Salvatore Immè, commissario della Pubblica Sicurezza presso la Squadra politica della Questura, laddove rileva che lo scopo della campagna di Voltarelli fosse “quello di dimostrare ai partiti di sinistra esistere ancora una forza capace di fronteggiarli se fossero passati all'azione diretta” <112, il che rappresenterebbe, oltre al generico anticomunismo, il vero dato politico espresso dal gruppo: un dato fortemente conservatore, tutt'altro che rivoluzionario. Ciò che appare mancare del tutto, e l'assenza di elementi di coesione interna ne è un aspetto, è proprio quell'urgenza identitaria che s'è vista invece nel caso dei FAR, la condizione morale e psicologica dell'azione clandestina; non è un caso che la banda di Voltarelli, che ha compiuto azioni ben più rumorose di quanto non abbiano fatto i FAR, sia svanita del tutto dalla memoria neofascista.
[NOTE]
87 M. Tedeschi, Fascisti dopo Mussolini, cit., p. 163.
88 Una povera pazza fermata dalla P.S. mentre accende un cero al “salmone”, in «l'Unità», 29/10/1948.
89 Ibidem.
90 Cfr. ACS, MI, GAB (1950-1952), b. 18, fasc. “Roma. Omicidio di Billi Achille (del MSI) (6.4.1949)”, rapporto della Questura di Roma n. 0596643/UP, cit. Gli arrestati furono Antonio Grande, Famiano Capotondi e Luciano La Face (condannati a cinque mesi e venti giorni di reclusione); Giovanni Inzani, Giorgio Luparini, Gastone Proietti, Gabriele Fusco, Augusto Procesi, Giannangelo De Merulis e Giuseppe Berti (condannati a quattro mesi e venti giorni); Salvatore Vancati e Luigi Capotorti, cui venne concesso il perdono giudiziale in quanto minorenni.
91 ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, rapporto della Questura di Roma n. 064048/UP, Esplosione bomba via IV Novembre, Roma, 26/11/1947, ff. 83-84.
92 Cfr. ibidem e ACS, MI, GAB (1947), b. 2, fasc. “Roma. Incidenti (III fascicolo)”, fonogramma della tenenza dei carabinieri S. Lorenzo in Lucina n. 50/255, Roma, 25/11/1947
93 L'attentato all'Unità e all'Avanti,in «l'Unità», 26/11/1947. Il riferimento normativo è alla legge 11 novembre 1947, n. 1317, “Modificazioni al codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato”.
94 Una bomba lanciata contro la Sezione P.C.I. del quartiere Italia, in «l'Unità», 20/12/1947. Va rilevato che un mese prima, il 21 novembre (due giorni dopo le bombe contro «l'Unità»), nello stesso quartiere Italia erano state lanciate due bombe, a un quarto d'ora di distanza l'una dall'altra, contro le sezioni della Democrazia cristiana di via Ravenna e dell'Uomo qualunque di via Giovanni da Procida. Cfr. Due bombe al quartiere Italia nelle sedi democristiana e U.Q., in in «l'Unità», 21/11/1947.
95 ACS, MI, GAB (1947), b. 2, fasc. “Roma. Incidenti (III fascicolo)”, fonogramma della Questura di Roma n. 208490/Gab., 19/12/1947.
96 Cfr. anche ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, , Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, fonogramma del commissariato di P.S. Porta Pia n. 06448, 20/12/1947, f. 100.
97 Cfr. ivi, rapporto del commissariato di P.S. Porta Pia [protocollo illeggibile], 25/12/1947, ff. 101-102.
98 Cfr. ivi, rapporto del commissariato di P.S. Piazza d'Armi n. 0277/Gab., Esplosione di ordigno presso la Sezione del P.C.I. a via Monte Zebio n. 9, Roma, 19/1/1948, f. 93. Cfr. anche ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), s. fasc. “Sezione partito comunista di Monte Zebio. Esplosione ordigno”, fonogramma della Questura di Roma n. 5442/Gab., 13/1/1948.
99 ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), s.fasc. “Sezione Partito Socialista di via Tiepolo. Esplosione ordigno”, fonogramma della tenenza dei Carabinieri Flaminio, n. 5442/Gab., 27/1/1948 e fonogramma della Questura di Roma n. 13540/01000/UP, 27/1/1948.
100 ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), s.fasc. “Roma. Attentato alla sede dell'ANPI”, fonogramma della Questura di Roma n. 23396/Gab., 14/2/1948.
101 ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), rapporto della Questura di Roma n. 053748/UP, Attentati terroristici compiuti nella Capitale, 12/3/1948.
102 ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, Verbale di istruzione sommaria, 5/4/1948, ff. 139-140.
103 Parlato ha sciolto l'acronimo in “Movimento anticomunista reduci italiani”, sigla di cui tuttavia non si è trovata altra traccia. Cfr. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini, cit., p. 265.
104 Ibidem. È opportuno sottolineare come questa descrizione fatta agli inquirenti dal dirigente l'ufficio politico della Questura coincida nel dettaglio con quella pubblicata da «l'Unità» più di venti giorni prima. Cfr. Un questore repubblichino e un prete a capo della banda di terroristi fascisti, in «l'Unità», 13/3/1948. Il generale dei carabinieri Giuseppe Pieche è stato, secondo lo studioso dell'intelligence italiana De Lutiis, “la figura che più di ogni altro rappresenta emblematicamente, con la propria carriera, la continuità dei servizi segreti dal periodo fascista alle strutture civili di sicurezza del Ministero dell'Interno del dopoguerra […]. Capo della terza sezione del Sim dal 1932 al 1936, nel 1937 coordinò gli aiuti militari italiani all'esercito franchista. Fu poi incaricato da Mussolini di svolgere un controllo discreto e riservato dei gerarchi e delle loro personali strutture occulte. […] con il primo governo De Gasperi, Pieche fu richiamato in servizio dal ministro degli interni Scelba, che gli affidò l'incarico di Direttore Generale dei servizi antincendi, carica solo apparentemente di secondo piano”. G. De Lutiis, Storia dei servizi: guerra fredda, stragismo, depistaggi, in Storia, sicurezza e libertà costituzionali. La vicenda dei servizi segreti italiani, Atti del convegno del 23/24 marzo 2007, Casa memoria di Brescia, Brescia, 2008, pp. 25-39. La citazione è alle pp. 29-30.
105 Cfr. ACS, MI, GAB (1948), b. 15, fasc. “Roma. Agitazioni e incidenti (fascicolo I), rapporto della Questura di Roma n. 053748/UP, Attentati terroristici compiuti nella Capitale, 22/3/1948.
106 Ibidem.
107 I componenti del commando furono condannati il 26/7/1948 rispettivamente: Voltarelli a 3 anni di reclusione, Palladino, Lispi e Capogreco a 2 anni e 6 mesi, Baroni a 1 anno e 8 mesi, Carini, Monti e Arione a 1 anno e 4 mesi. La sentenza sarà poi confermata in appello il 26/2/1949. Cfr. ASR, Tribunale Penale (1948), b. 8, Voltarelli+7, 9/19 registro Sentenze, 26/2/1949, ff. 1-21.
108 Cfr. ivi, verbale di interrogatorio di Domenico Palladino, 11/3/1948, f. 41 e verbale di interrogatorio di Marcello Carini, 16/3/1948, f. 53.
109 Cfr. ivi, verbale di interrogatorio di Angelo Lispi, 12/3/1948, f. 46.
110 Ivi, verbale di interrogatorio di Riccardo Voltarelli, 15/3/1948, f. 35.
111 Ivi, verbale di interrogatorio di Riccardo Voltarelli, 15/3/1948, f. 35.
112 Ivi, verbale di istruzione sommaria, 6/4/1948, f. 146.
Carlo Costa, "Credere, disobbedire, combattere". Il Neofascismo a Roma dai FAR ai NAR (1944-1982), Tesi di Dottorato, Università degli studi della Tuscia - Viterbo, 2014

venerdì 19 agosto 2022

I coniugi Sverzut si prestano al recapito della corrispondenza a sovversivi

Parigi: nell'XI arrondissement. Fonte: Wikipedia

Altro membro della Milice du XI arr. di cui mi è stato possibile ritrovare un certo numero di informazioni è Fausto Sverzut, che dopo la liberazione di Parigi fece parte del CILN, sezione dell'XI arr. come tesoriere aggiunto. Lo Sverzut fu una persona che assunse un atteggiamento ostile al regime fascista e militò attivamente per il partito comunista in Italia. Espatriato poi in Francia continuò a professare le sue idee politiche senza però aderire ad un movimento politico né sindacale negli anni precedenti la II guerra mondiale. Durante il periodo dell'occupazione prestò aiuto alla resistenza ma senza compiere in prima persona azioni armate contro l'occupante fino al mese della Liberazione.
Fausto Sverzut era nato nel 1909 a Cervignano del Friuli in provincia di Udine. Figlio di una famiglia di sentimenti antifascisti, il padre professava idee comuniste mentre il fratello Giovanni era iscritto al partito socialista unitario, emigrò insieme al padre in Romania. Tornato in seguito a vivere in Italia, fu responsabile della ricostituzione del gruppo clandestino comunista di Monfalcone e fu anche il coordinatore delle attività delle varie cellule della zona. In seguito a denuncia <522 venne condannato al carcere per avere ricostituito la disciolta cellula comunista. Tuttavia nell'agosto del 1928 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, ne ordinò la scarcerazione, dichiarando “non luogo a procedere”. <523
Richiamato alle armi nel 1929, prestò servizio militare in qualità di allievo fuochista artificiere nella Regia Marina. Imbarcato a bordo della R.N. Trento, di ritorno da un viaggio a Buenos Aires fu trovato dal comandante in possesso di manifestini sovversivi stampati alla macchia. Venne così trasferito sul Regio Posamine Fasana, ancorato nel porto di La Spezia, e “anche su questa nave lo Sverzut manifestò facendo quasi esplicita professione, di nutrire idee comuniste e sentimenti di avversione pel Regime e pel Governo nazionale.”. <524 Sottoposto quindi ad una più attenta vigilanza, la polizia si riservava di prendere provvedimenti contro di lui non appena avesse finito gli obblighi di leva, ma durante una breve licenza, lo Sverzut espatriò clandestinamente e raggiunse la Francia. Pertanto con sentenza contumaciale del 5 dicembre 1930 del Tribunale militare Marittimo di La Spezia, venne condannato a 5 anni di reclusione militare ed alla perdita di ogni diritto in quanto uomo di marina verso lo Stato. Su disposizioni del Prefetto di Udine, venne iscritto nel bollettino delle ricerche e nella rubrica di frontiera nel 1931 col la dicitura: “Comunista colpito da mandato di cattura per diserzione”.
Nel gennaio 1933 in un lettera indirizzata alla famiglia, e intercettata dall'UPI del Comando della 58 legione della M.V.S.N., lo Sverzut, dopo aver parlato dei suoi problemi di salute, descrisse le sue idee politiche di militante comunista fiducioso nella futura «rivoluzione proletaria» e nel declino del mondo capitalista. “(...) Per il momento non posso lamentarmi che di un malessere generale pur non condannandomi a letto. Faccio di tutto per curarmi e così prolungare la mia salute tanto contaminata che forse io non ne comprendo la gravità. Una sola cosa mi dà fiducia e speranza aiutandomi così a sopportare tutto, la rivoluzione proletaria in tutto il mondo e il comunismo vincitore. Avendo fiducia nella rivoluzione penso pure che curarmi potrò un giorno in qualche angolo d'Italia al sole e all'aria pura. Penso che non lontano sarà il giorno in cui si realizzerà quello che come le cento e cinquanta milioni di senza lavoro e operai occupati con salari di fame pensano e non invano guardando la realizzazione del socialismo in U.R.S.S. e il declino del mondo capitalista. <525 Non posso fare a meno di dirti il soggetto delle mie idee pur non sapendo che ti possono urtare i sentimenti che certo non corrispondono ai miei. Saluti.”. <526
Il 25 giugno 1933 venne arrestato a Parigi mentre incitava alle porte di una fabbrica gli operai a mettersi in sciopero. Nell'informativa della fonte fiduciaria si legge che “(...) Al momento dell'arresto si è dichiarato anarchico e fuggito dall'Italia perché disertore.”. In seguito a questo avvenimento, la polizia francese ne dispose quindi l'allontanamento dalla Francia facendolo accompagnare alla frontiera del Belgio.
Tuttavia nel 1935 era ancora a Parigi, e come annotava un informatore del Ministero degli Interni continuava a professare i suoi sentimenti comunisti ed antifascisti, senza esplicare attività politica degna di particolar rilievo. Per un periodo la residenza dello Sverzut era in Passage du Genie presso l'hotel-ristorante Mazzocchi, luogo di ritrovo per gli antifascisti italiani dell'XII arr. e della Parigi nord-est, in seguito ad accertamenti fatti eseguire dalla polizia italiana, risultò che si faceva recapitare la posta presso il Mazzocchi ma che non abitava in quell'hotel.
Dalla lettura di un'altra lettera che lo Sverzut spedì al padre nel 1937 alla quale la polizia fascista non dette corso, si apprende che era riuscito a regolarizzare la sua posizione in Francia ottenendo i documenti per il soggiorno “(…) incomincio per dirti che la vita per me qui in Francia è divenuta un poco migliore di quella che era qualche anno fa. Sono riuscito a regolarizzarmi con le carte», che si era sposato con la cittadina francese Margherita Baumer, nata a Parigi il 2.08.1909, che risiedeva insieme a lei nell'XI arr., al n. 96 del Boulevard Charonne, e che avevano un bambino di nome Michel nato nel 1936. La Baumer, per aver frequentazioni con il 'disertore' Sverzut fu seguita e interrogata a Parigi già nel 1933, <527 così si legge in un Telegramma della regia ambasciata d'Italia al Ministero dell'Interno, del 5 maggio 1933, essa dichiarò di non avere nessuna informazione sul suo conto, al Casellario venne anche aperto un fascicolo a suo nome per gli anni 1933-1938.
In una nota del Ministero degli Esteri, del 31.10.1938, è comunicato al Ministero degli Interni che i coniugi Sverzut si prestano al recapito della corrispondenza a sovversivi ed esplicano attività antifascista. Queste considerazioni del Ministero degli esteri nascono in seguito al sequestro di una lettera di Bacchi Giovanni, emigrato a Parigi, e indirizzata a Domenica Trieste, nella quale viene messo come indirizzo del mittente quello di Margherita Baumer. In questa lettera, il Bacchi, schedato come comunista presso il CPC, parla della condizione degli stranieri dopo i provvedimenti adottati nel 1938 dal Governo Daladier e delle sue difficoltà a Parigi, in quanto espulso, privo di documenti in regola, senza lavoro e costretto a vivere nell'illegalità. <528
Dopo il 1938, le ultime informazioni che si ricavano dal fascicolo personale del CPC sullo Sverzut riguardano l'anno 1943, quando lo stesso richiese il rilascio del passaporto con visto per espatrio poiché doveva recarsi in Italia per urgenti motivi familiari. Il Ministero degli Interni si espresse favorevolmente il 24 agosto “Si prega di disporre la rettifica del provvedimento d'iscrizione del predetto nel Bollettino delle Ricerche analogamente a quella ora richiesta da questo Ministero per la rubrica di frontiera e cioè col provvedimento da 'segnalare e vigilare'”, tuttavia fu il Ministero degli Esteri ad esprimere parere contrario, il 20 settembre, poiché il mandato di cattura per diserzione a carico dello Sverzut era ancora eseguibile. Inoltre nel 1943 è data notizia della sua presenza a Parigi dove risiede al n. 27 della rue Alexandre Dumas, nell'XI arr.
Riguardo al periodo dell'occupazione nazista di Parigi, le uniche informazioni che ho potuto trovare sono quelle contenute nelle attestazioni sulla sua attività di resistenza presenti nel Fondo Maffini. All'archivio della Préfecture de Police hanno un fascicolo a suo nome, in quanto venne arrestato il 20 maggio del 1944 a Parigi, tuttavia non m'è stato possibile consultare il fascicolo: mi è stato solo comunicato la data di arresto dello Sverzut, il 22.04.1944 e il numero del fascicolo (7737). Dalle due attestazioni, rilasciate da Maffini, nel 1968 e nel 1977, risulta che lo Sverzut, che è nella lista dei Garibaldini dell'XI arr., era entrato nella resistenza, Front National, nel maggio del 1942 ed
era incaricato, dall'organizzazione clandestina MOI, di occuparsi del reclutamento di resistenti, della propaganda e della distribuzione della stampa clandestina; distribuì i giornali "Italie Libre" e "Front National" e volantini che incitavano al sollevamento e alle azioni armate contro l'occupante.
Dopo il 9 settembre 1943 il suo domicilio servì ad ospitare alcuni soldati italiani della IV armata che si erano rifiutati di servire sotto il comando tedesco, e i resistenti che dovevano compiere una missione. Inoltre la sua casa servì da nascondiglio per armi e munizioni. Venne arrestato e internato alla prigione della Santé il 14 aprile 1944 e venne liberato dai resistenti delle F.F.I. il 17 agosto 1944. Purtroppo non è specificato nelle due attestazioni il motivo dell'arresto, né mi è stato specificato presso l'Archivio della Prefettura. Una volta rilasciato, fece parte, in qualità di sergente, della Milice du XI e collaborò alla confezione di bombe Molotov alla Mairie dell'XI, prese parte a dei combattimenti, costruì le barricate della rue des Immeubles e della rue Montreuil il 22 e 23 agosto, come al recupero di armi. Il 25 agosto prese parte alla cattura dei soldati tedeschi che occupavano la Caserma Prince Eugène. In seguito fece parte del Comité local du XI “Italie Libre”, in rue de Montreil, sezione del Movimento Italie Libre” ex Comité italien de Liberation national, in rue de Babylon. <529 Dopo la II guerra mondiale in Francia, è rimasto a lungo a vivere a Parigi per poi tornare a vivere in Italia.
[NOTE]
522 La Regia Prefettura di Trieste con lettera in data 1 giugno 1929, trasmette copia della denunzia inoltrata l'8 settembre 1927 al Tribunale Militare di Trieste contro il Quarantotto Mario ed altri otto giovani comunisti. “Da detto
rapporto si rileva quanto segue: che la mattina del 7 ottobre 1927 circa alle ore 9,00 un contadino si accorse che in una boscaglia sita presso la Bargellina scoperse un gruppo di giovani comunisti che si riunivano colà
clandestinamente. Subito il contadino Colsutti Giuseppe denunziò il fatto a quel Comando della SVSS il quale subito dispose per accerchiare gli adunati e procedere al loro fermo. Fu così possibile fermare i comunisti sotto elencati e
identificati. Silvestri Giovanni, Belbianco Eugenio, Marega Ferdinando, Sverzut Fausto, Buttignon Volmaro, Sellan Egidio, Budicin Antonio, Quarantotto Mario, Buttignon Bruno. Gli arrestati sono stati portati alle carceri mandamentali dove sono stati denunziati a quell'autorità giudiziaria.” in CPC; fascicolo ad nomen Sverzut Fausto, b. 4991.
523 Cfr. L. Patat, Fra carcere e confino: gli antifascisti dell'isontino e della Bassa Friulana davanti al Tribunale speciale, Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale Leopoldo Gasparini, Gradisca d'Isonzo, 2006,
pp. 158-160.
524 Informativa della Prefettura di Udine al Consolato di Parigi, del 20 febbraio 1931 in ACS, CPC, fascicolo Fausto Sverzut, b. 4991.
525 Lettera datata 24 gennaio 1933. Ivi.
526 Ivi, Lettera del 24.01.1933.
527 Telegramma Regia Ambasciata d'Italia al Ministero Interno (CPC), del 5 maggio 1933; ACS, CPC, f. Sverzut Fausto, b. 4991.
528 Dalla lettera “(…) Felicissimo nel sentire che state tutti bene, in quanto a me si può dire le stesse da un solo atto e cioè salute tutto il resto abbastanza male. Credo sarete a conoscenza attraverso i giornali quali sono le nuove leggi emanate dal governo Daladier concernenti gli stranieri, e in special modo contro gli espulsi. Ora io in qualità di espulso mi trovo in condizioni di dover vivere illegalmente, perché l'art. 11 di detta legge dice che gli espulsi che verranno presi verranno condotti alla frontiera d'origine e che solamente se il colpito potrà dimostrare che si trova impossibilitato di essere rimpatriato gli verrà assegnato un domicilio forzato e cioè (domicilio coatto). Allora pensate un po' voi in quale condizione poco piacevole mi trovo, così pure detto governo ha creato la legge della percentuale degli stranieri sul lavoro e cioè il 10% così la possibilità di lavorare è difficile per coloro che sono in regola con le carte, immaginate quali sono le difficoltà per me. Con questo non è il caso di disperare, tanto lo sapete bene che io sono temprato a tutte le temperature, ma però non avrei mai pensato che un governo che si dice di Fronte Popolare non tollerasse i veri amici della democrazia. In questa mia vi prego tanto di voler spedirmi quel documento che vi ho lasciato il giorno della mia partenza, perché detto libretto solamente potrà salvarmi in più prego parlare con mia sorella e domandargli tutti gli altri documenti concernenti la mia politicità. (…) ”. Citazione da copia di lettera proveniente dalla Francia, Parigi, XI, rue Merceaur, diretta alla Sig.ra Domenica Sbisà, Trieste, 11/06/1938; Ivi.
529 APP, dossier Darno Maffini, n. 466081/77W184, Documento del 20 novembre 1945.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013

mercoledì 4 maggio 2022

Buranello acconsente di fare il gappista «per disciplina»


Il Partito comunista era l’unico [a Genova], seguito in ciò dal Partito d’azione, ad essere riuscito a conservare una seppur embrionale struttura organizzativa; il tutto all’interno del mondo operaio che, agli occhi dei giovani e imprudenti cospiratori, appariva invece inerme e sfiduciato. Gli studenti non potevano credere che i pericolosissimi comunisti descritti dalla propaganda del regime fossero quegli stessi lavoratori spossati dalla fatica e obbedienti alla disciplina di fabbrica; non riuscivano del tutto a capacitarsi di questi militanti, che non conservavano nemmeno un elenco degli iscritti e che sembravano limitare ogni attività alla raccolta delle quote del soccorso rosso.
Così come per gli altri dissidenti, anche per i comunisti era ormai impossibile uscire dal chiuso delle cellule e delle amicizie fidate: a ogni tentativo, seppur minimo, di portare la lotta dal gruppetto clandestino all’azione di massa, rispondeva immediatamente la reazione poliziesca. Ogni movimento più esteso era stroncato sul nascere, colpendo quadri difficili da sostituire. Con un’organizzazione quasi interamente smantellata dalla polizia e con i dirigenti all’estero, in galera o al confino, i comunisti erano del tutto assenti dalla vita pubblica, con l’ovvia esclusione delle scritte sovversive, che mani anonime facevano in genere comparire negli ambienti frequentati da operai. Solo con il crollo del fascismo il partito avrebbe ripreso vitalità, sebbene in forme affatto clandestine.
Anima del gruppo degli studenti nonché loro principale ispiratore era Giacomo Buranello, all’epoca poco più che ventenne. Universitario iscritto al biennio di Ingegneria, in lui si incontravano un’intelligenza decisamente al di sopra della norma e una solida e vasta cultura. Gli erano peculiari uno spirito di sacrificio e una forza di volontà non comuni, senza alcun dubbio determinati dal contesto di provenienza, ossia dall’essere cresciuto in una famiglia operaia del ponente cittadino di disagiate condizioni economiche. Dopo una prima infatuazione per gli ideali del Risorgimento italiano, Buranello aveva aderito al Partito comunista <58.
Non bisogna inoltre dimenticare che il gruppo di ventenni in cui Buranello si sarebbe presto affermato come leader era andato formandosi al di fuori di qualsiasi contatto con la dirigenza del Partito, mentre solo in un secondo momento questi ragazzi avrebbero cercato tra i lavoratori dell’industria vecchi militanti e nuovi adepti. Il piccolo movimento capeggiato da Buranello, benché assolutamente degno di nota, era tuttavia solo uno tra le decine di raggruppamenti giovanili antifascisti che erano andati costituendosi nella prima metà del 1942 e che tendevano a ricreare dal basso un tipo di dissidenza che si richiamava direttamente al comunismo, al socialismo, al rivoluzionarismo socialista o liberale <59.
[NOTE]
58 Numerose e interessanti le notizie desumibili sulla breve vita di Giacomo Buranello che, dopo l’arresto dell’11 ottobre 1942 e la liberazione del 29 agosto 1943, sarebbe divenuto a Genova il comandante del primo nucleo dei Gruppi di azione patriottica (Gap). Catturato il 2 marzo 1944, venne fucilato il giorno seguente; gli venne conferita la Medaglia d’oro al Valor militare (N. Simonelli, Giacomo Buranello: primo comandante dei Gap di Genova, Ghiron, Genova, 1977; e inoltre Calegari, Comunisti e partigiani, op. cit., pp. 7-60; F. Gimelli, La Resistenza armata, in Tonizzi, Battifora, Genova 1943-1945, op. cit., pp. 111-142).
59 Per citare due tra gli esempi più significativi, tra il gennaio e il giugno 1942 venne fondato a Perugia il Movimento universitario rivoluzionario italiano (Muri), da parte di alcuni studenti universitari e medi; quasi contemporaneamente a Cesena una ventina di diciottenni diede vita alla Giovane internazionale. Cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. IV, La fine del fascismo dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi, Torino, 1976, pp. 84-91.
Paola Pesci, La famiglia Lazagna tra antifascismo e Resistenza, Storia e Memoria, n. 5, 2015, Ilsrec, Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea


Fonte: Patria Indipendente

Fonte: Patria Indipendente

L’esempio più efficace per descrivere questi primi gappisti è sicuramente Giacomo Buranello, studente in Ingegneria all’università di Genova, che, nonostante la giovane età, aveva già conosciuto le galere fasciste per la sua attività sovversiva durante il regime. Buranello venne scelto dai vertici del Pci proprio per la sua spregiudicatezza che si spingeva fino ai limiti dell’incoscienza. Per il suo atteggiamento audace generò tensioni tra i vecchi militanti genovesi che lo consideravano un “avventurista”, ma Buranello si dimostrò la persona adatta per dare il via alle azioni gappiste in un contesto dove mancava l’apporto logistico necessario: non si disponeva di armi - che andavano assolutamente strappate ai nemici -, di bombe e di uomini, ma al contempo era necessario che qualcuno si sacrificasse e desse il via alla lotta uccidendo fascisti, indipendentemente dal ruolo ricoperto, generando in loro la paura di un nemico invisibile. La prima azione militare di rilievo, organizzata dal primo gruppo di Gap comandato da Buranello, venne compiuta a Sampierdarena alle ore 18 del 28 ottobre 1943, quando fu colpito a morte il capo manipolo della Milizia fascista <29.
Quella che possiamo definire “prima generazione gappista” pagò un prezzo altissimo per la propria partecipazione alla guerra di Resistenza: i pochi che riuscirono a sfuggire alle torture e alle fucilazioni dovettero riparare in montagna da ricercati, con taglie pesanti sulle loro teste. Sulla testa di Buranello pendeva, già nel gennaio del 1944, una taglia da un milione di lire e, per questo, venne fatto allontanare da Genova, tornò poi in città alla fine di febbraio per partecipare allo sciopero generale ma fu catturato il 2 marzo: venne fucilato dopo aver subito pesanti torture all’alba del giorno successivo.
29 Cfr. N. Simonelli, Giacomo Buranello, primo comandante dei Gap di Genova, De Ferrari, Genova 2002.
Mariachiara Conti, Resistere in città: i Gruppi di azione patriottica, alcune linee di ricerca in Fronte e fronte interno. Le guerre in età contemporanea. II. La seconda guerra mondiale e altri conflitti, Percorsi Storici - Rivista di storia contemporanea, 3 (2015)


A Genova, dopo il dissolvimento del primo nucleo di Giacomo Buranello, l’organizzazione gappista, agli ordini di Germano Jori <137, tra il maggio e il giugno 1944, realizza un numero consistente di azioni, tra cui la bomba esplosa al cinema Odeon con la quale, il 15 maggio, vengono eliminati 5 soldati tedeschi <138. Le catture e le cadute subite nel luglio 1944, che coinvolgono lo stesso Jori, conducono, però, al tracollo dell’intera struttura. In un rapporto del 14 agosto 1944, Remo Scappini afferma che l’organizzazione gappista genovese:
"È quasi inesistente come tale. A Genova dopo gli arresti l’organizzazione ha subito così duri colpi che ci ha indotto ad allontanare tutti i vecchi membri […] Siamo molto deboli in questo campo" <139.
La condizione dei GAP resta deficitaria anche nei mesi seguenti, dato che Scappini, in un’informativa del 19 marzo 1945, in riferimento alle operazioni compiute dalle varie strutture armate del PCI, non fa alcun accenno al gappismo:
"A questo elevamento morale e rinvigorimento dello spirito di lotta specialmente degli operai e impiegati industriali […] hanno molto contribuito le azioni partigiane, specialmente quelle effettuate nelle province di Genova e di Savona, le azioni delle Sap e l’intensa agitazione e propaganda delle organizzazioni del Partito" <140.
[...] Giacomo Buranello nasce nel comune veneziano di Meolo il 17 marzo 1921. La madre, Domenica Bondi, proviene da una famiglia toscana di condizione agiata, la qual cosa le permette di portare avanti gli studi fino alle scuole superiori. Una volta caduto in disgrazia, il nucleo familiare Bondi si sposta a Genova con la speranza di trovare una migliore sistemazione economica. È qui che Domenica conosce Giuseppe Buranello, un contadino di origine veneta che ha lasciato i luoghi natii al fine di cercare lavoro in una grande città industriale. I due si sposano e Domenica, rimasta incinta, in attesa che Giuseppe trovi un’occupazione a Genova, decide di affrontare la gravidanza dai parenti del marito a Meolo. Quando Giuseppe viene assunto alle fonderie dello stabilimento Ansaldo, la moglie e il neonato si trasferiscono con lui in un’abitazione sita in via Leone Pancaldo, nel quartiere di Sampierdarena. È in questo «piccolo mondo abitato esclusivamente da famiglie operaie e da poverissima gente» <290 che Giacomo trascorre la sua infanzia.
Egli, fin da piccolo, si dimostra dotato di intelligenza e predisposizione allo studio. Alle scuole elementari risulta sempre il migliore della classe, pur dovendo lasciare il primo posto al figlio del podestà <291 o della famiglia benestante di turno. Decisivo per la sua formazione è l’incontro, in quarta e quinta elementare, con l’insegnante Antonio Rossi, antifascista, il quale «fu soprattutto un maestro di vita» <292. Tra i due nasce un rapporto di stima reciproca, «proseguito durante l’adolescenza e la giovinezza di Buranello e sfociato in un sodalizio intellettuale e politico» <293. Giacomo assorbe con precocità e vivo interesse gli insegnamenti del maestro. Rossi propone a Buranello, divenuto suo ex scolaro, consigli di lettura e discussioni su varie tematiche. A testimonianza dell’impatto avuto negli anni da Rossi sul suo sviluppo culturale e umano, queste sono le parole scritte nell’agosto 1939 da Giacomo al vecchio docente:
"Lei è per me il Maestro per eccellenza: dai Suoi due anni di insegnamento, vorrei dire di apostolato, ho attinto quelle prime idee, soprattutto quei sentimenti fondamentali che non si mutano e che creano l’uomo e il cittadino. Dalle sue lezioni ardenti su Mazzini, che io ricordo come se fossero di ieri, ho appreso l’amore della libertà e il culto della dignità umana, quei sentimenti che danno uno scopo alla vita e moltiplicano le energie degli individui intenti a realizzarle. Non abbandonerò questi sentimenti, qualunque sia la strada che io seguirò in futuro" <294.
Terminate le scuole elementari nel 1931, Buranello viene iscritto all’istituto tecnico Vittorio Emanuele III. Anche qui Giacomo, malgrado la sua preparazione e gli ottimi risultati conseguiti, si vede scavalcato, per quel che concerne il merito scolastico, da compagni provenienti da famiglie abbienti. È l’inizio di un processo che lo porta ad acquisire una progressiva consapevolezza della sua condizione sociale di figlio di operaio e a sviluppare una «spiccata avversità nei confronti di chi aveva condizioni agiate e di conseguenza di privilegio» e un «forte senso critico nei confronti delle autorità» <295.
Buranello inizia a frequentare nell’autunno 1935 il liceo scientifico Gian Domenico Cassini. Malgrado questo genere di studi, propedeutico alle facoltà universitarie di medicina e ingegneria, sia solitamente precluso a ragazzi di bassa estrazione sociale, la madre Domenica, dotata di grande personalità e di una notevole influenza su Giacomo, «avendo perfettamente compreso le attitudini del figlio, non ebbe dubbi ad indirizzarlo verso uno studio che gli permettesse, accedendo poi all’Università, di far valere tutta la propria intelligenza» <296.
A partire dal terzo anno di liceo, la cucina di casa Buranello, con il favore di Domenica, diventa luogo di ritrovo di un gruppetto di giovani di Sampierdarena. Si tratta di amici di Giacomo di vecchia data, tra cui Walter Fillak, Giambattista Vignolo, Ottavio Galeazzo e Orfeo Lazzaretti, i quali sono mossi da un «comune interesse per la lettura, lo studio e per la conversazione» <297:
"Dalle iniziali discussioni letterarie e filosofiche, passeranno ben presto ad esprimersi con molta chiarezza e senso critico sugli avvenimenti politici. […] Da questi giovani studiosi verrà intentato, sul piano intellettuale, con un enorme sforzo, un lungo processo alle strutture del fascismo" <298.
Dal confronto tra i membri del gruppo emerge una «estraneità alle sollecitazioni e alla cultura del fascismo» <299:
"Non accettavamo i rituali. Ci si ribellava. Non andavamo alle riunioni. Trovavamo giustificazioni per non far parte di quello che allora era considerato l’atteggiamento giusto, confacente. Forse tutto ciò dipende dalla predisposizione di ciascuno di noi verso l’accettazione o meno. Per noi l’accettazione era il fascismo. Ribellarsi era rifiutare il fascismo <300. Tutto è stato quando sono cominciate le nostre letture; i libri che ci piacevano. Lì abbiamo capito che il fascismo era tutto il contrario. C’era anche una certa predisposizione all’indisciplina, a non accettare le adunate e una scuola che ti trattava come un bambino dell’asilo. C’era un rifiuto… Il rifiuto ci accomunava e nello stesso tempo ci apriva a cose diverse da quelle che ci proponeva il fascismo" <301.
Giacomo ritiene il fascismo «un’enorme macchina fondata sulla paura di “perdere il posto”», che «si frantumerà inevitabilmente» <302 una volta dato l’esempio. Dal suo diario, steso tra 1937 e 1939, per quanto condizionato dal «pensiero posteritatis» che induce chi scrive ad una «falsa sincerità caratteristica anche delle autobiografie ritenute più schiette» <303, emerge in lui una disposizione al sacrificio, di sapore risorgimentale e mazziniano:
"[…] ho concluso che occorre sacrificarsi; che il sangue dei martiri segna la strada più sicura alle Idee, che il nostro Risorgimento era fatto meritorio già dopo i primi tentativi falliti e soffocati nel sangue. Dissi che occorre mantenersi liberi da nuova famiglia perché la nostra eventuale morte debba lasciare il minor lutto possibile: niente moglie niente figli. Che occorre trasformare il pensiero e i sentimenti in azione: questo si fa sacrificandosi. Ma prima di giungere al sacrificio supremo bisogna prepararsi perché tale sacrificio possa effettuarsi ed abbia la maggior efficacia" <304.
Si tratta di «una visione eroica dell’impegno personale, che gli anni matureranno, attenuandone gli aspetti più letterari e i toni retorici, e che resterà sino alla fine un aspetto peculiare della sua milizia» <305.
Conseguita la maturità scientifica nell’estate del 1939, Giacomo inizia l’università. Insieme a Fillak e a Lazzaretti, frequenta il primo anno del biennio di ingegneria, comune al ramo di chimica industriale, scelto dagli amici, e a quello di elettrotecnica, selezionato da lui. Le nuove conoscenze strette in ambito universitario portano all’entrata nel gruppo, facente capo a Buranello, di nuovi studenti, quali Luciano Codignola, Arnaldo Minnicelli, Tommaso Catanzaro e Goffredo Villa <306.
In tutti gli appartenenti del raggruppamento vi è la necessità di dare una svolta organizzativa agli incontri, di «trasformare il proprio antifascismo teorico in attività pratica» <307. Giacomo sceglie di iniziare da semplici azioni di propaganda volte a «recuperare la classe operaia dal suo lungo sonno» <308. Nella classe operaia, infatti, egli vede il potenziale rivoluzionario in grado di abbattere il fascismo:
"Senza la lotta attiva delle masse lavoratrici, senza l’esperienza combattiva operaia, il fascismo non sarebbe mai caduto. Ma dovrà essere lo studioso […] a mettersi al servizio degli oppressi. L’intellettuale dovrà muoversi per primo. È il suo privilegio culturale che lo obbliga ad essere avanguardia. Egli, l’intellettuale, conoscendo meglio d’ogni altro l’efficacia contenuta nel movimento e nell’azione, dovrà agire pensando di compiere un atto pedagogico, educativo nei confronti delle masse" <309.
Sulla base di questa logica, l’attività viene avviata in direzione della classe operaia genovese nelle zone di Sampierdarena, Cornigliano, Sestri Ponente e Rivarolo. Attraverso queste iniziative propagandistiche, Buranello si propone «conseguenze politiche precise per una prossima organizzazione comunista» <310. Per il gruppo di studenti, il comunismo:
"[…] rappresentava il coronamento di storie familiari, locali. Gli studenti erano approdati al comunismo per una inquietudine frutto di una somma di fattori dove carattere, sensibilità, condizione familiare, un maestro elementare e un eccesso di letture avevano avuto, sia pure in dosi diverse per ognuno, il loro peso" <311.
Il primo contatto comunista per Buranello avviene all’inizio del 1940, attraverso un colloquio, preparatogli dal maestro Antonio Rossi, con Emilio Guerra <312, ferroviere di Sampierdarena. Ciò rappresenta per Giacomo l’inizio di una serie di incontri e collegamenti con militanti operai di varie fabbriche e del porto di Genova.
Il 1° marzo 1941 Buranello viene chiamato a prestare servizio militare. Destinato a Bologna, vi trascorre 5 mesi, ossia la durata del corso per specialisti marconisti. Conseguita la specializzazione, viene trasferito momentaneamente a Chiavari, in attesa di essere inviato a Pavia per partecipare ad un corso preparatorio per allievi ufficiali di completamento. Classificatosi tra i primi del corso, ha la possibilità di scegliere una sede che lo avvicini maggiormente a casa. Così, nel febbraio 1942, è nuovamente a Chiavari, sottotenente di completamento presso il 15° Reggimento Genio. Favorito dalla vicinanza con Genova, Giacomo riprende la sua attività politica alla testa della neonata organizzazione clandestina comunista, che continua ad espandersi a macchia d’olio, sviluppandosi, oltre che in Liguria, anche in direzione di Alessandria e Torino.
Nel maggio 1942 viene costituito un Comitato centrale di cui entrano a far parte Buranello, Walter Fillak, Giambattista Vignolo e Ottavio Galeazzo per il gruppo degli studenti, mentre tra gli operai vengono scelti Emilio Guerra, l’ex ferroviere Edgardo Pinetti per i suoi contatti con il centro della città e la val Bisagno, il falegname Cesare Bussoli per quelli con la Riviera di Levante e Raffaello Paoletti <313, in quanto responsabile del gruppo operante in val Polcevera. Scopo del Comitato è «formare un’organizzazione centralizzata che dia unità e forza al Partito nella Provincia di Genova e nelle zone contigue» <314.
[...] Questo organismo, che rappresenta a Genova «l’ultimo progetto cospirativo comunista vissuto in città prima della caduta del fascismo» <317, viene smembrato dagli arresti dell’11 ottobre 1942.
Nel giorno fissato da Buranello con l’architetto Giuseppe Bianchini <318, rappresentante di un altro gruppo comunista operante nel centro della città di Genova, per concludere le modalità di fusione dei due raggruppamenti, l’organizzazione di Giacomo, sotto indagine da diversi mesi, cade vittima di una vasta operazione di polizia che porta alla cattura della quasi totalità dei suoi membri dirigenti.
Buranello, essendo ancora in servizio militare, viene incarcerato nelle prigioni del 15° Reggimento di Chiavari, salvo poi essere trasferito nel carcere genovese di Marassi e, in seguito, in quello di Apuania. Trovatosi a Roma, nel carcere di Regina Coeli, in attesa di essere giudicato dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, al momento della destituzione di Mussolini, Giacomo viene rimesso in libertà il 29 agosto 1943.
Tornato a casa, egli viene inserito ufficialmente nell’organico del PCI genovese, di cui uomo forte è ora Raffaele Pieragostini <319. Quest’ultimo, «consapevole della singolarità delle loro posizioni e della difficoltà di controllarne politicamente l’azione» <320, decide di utilizzare Giacomo Buranello e Walter Fillak in ruoli operativi e non in «un impiego che valorizzasse le caratteristiche intellettuali o la loro collocazione universitaria» <321:
"[…] non ci si fermò ad interrogarsi sulla migliore collocazione di un quadro né sul ruolo che potevano assumere militanti della caratura di un Buranello o di un Fillak. […] si decise che Fillak e Buranello sarebbero andati a lanciare bombe. Specialmente non avrebbero assunto ruoli di direzione politica che restavano riservati al partito di Ventotene" <322.
Quando gli viene comunicata la scelta di impiegarlo, in virtù dei suoi trascorsi nell’esercito, come comandante dei futuri GAP, Giacomo non vuole accettare. Infine, acconsente di fare il gappista «per disciplina» <323, pur non riuscendo a tenere nascosta, nel corso dei mesi, «una ribellione intima (che rigettava in continuazione) al ruolo che si trovava a svolgere e che certo non identificava con l’indole del proprio essere» <324:
"Buranello avrebbe preferito fare, data l’attività svolta precedentemente, un lavoro di coordinamento politico specialmente in settori come l’Università, con gruppi di studiosi e studenti, mantenere contatti in ambienti in cui avrebbe potuto esprimere la sua personalità ed esplicare una funzione dirigente" <325.
Ciononostante, verso la metà di ottobre si forma a Genova il primo nucleo dei GAP, composto da Buranello, Fillak, Andrea Scano <326, Angelo Scala <327, Balilla Grillotti <328 e Germano Jori. La loro prima azione militare di rilievo viene compiuta il 28 ottobre 1943 a Sampierdarena, con l’uccisione del capo manipolo della MVSN Manlio Oddone.
A seguito della già accennata retata fascista del 31 dicembre 1943, che, anche nei giorni successivi, è causa di arresti e trasferimenti in montagna, gli unici gappisti rimasti attivi a Genova nel mese di gennaio sono Buranello e Scano, i quali portano a termine due iniziative: la prima, realizzata il 13, in via XX Settembre, riguarda l’abbattimento, tramite colpi di pistola da distanza ravvicinata, di due ufficiali tedeschi; la seconda consiste nel lancio di alcune bombe a mano contro la casa del fascio di Sampierdarena in data 15 gennaio.
Dopodiché, anche loro ricevono l’ordine di Remo Scappini, divenuto responsabile del PCI a Genova e in Liguria, di allontanarsi dalla città e di portarsi in montagna.
A Buranello viene assegnato il comando del 1° distaccamento della 3ª brigata Liguria, operante nella zona del monte Tobbio. Si tratta di un ruolo che ricopre per breve tempo, per il fatto che, in vista dello sciopero generale programmato per l’inizio di marzo 1944, egli viene richiamato a Genova, insieme a Walter Fillak, allo scopo di sostenere, attraverso azioni di sabotaggio, i manifestanti in lotta nelle fabbriche.
Così, Giacomo torna a Sampierdarena la sera del 28 febbraio. L’ampia mobilitazione di forze tedesche e fasciste in conseguenza del proclamato sciopero, unitamente al riscontro di un’assoluta mancanza di partecipazione della classe operaia ad esso, però, porta ad un immediato contrordine: Buranello viene intimato a non eseguire interventi armati in città e a fare ritorno al più presto alla sua formazione partigiana. Egli, tuttavia, malgrado la precarietà della situazione, decide di non tornare in montagna, bensì di «organizzare alcune azioni che avessero ridato fiducia agli operai per la lotta» <329:
"Quando mi dissero che Buranello, nella situazione in cui si trovava Genova, non voleva ritornare in montagna, pensai che egli rimaneva coerente con se stesso fino all’ultimo. Buranello aveva fretta di bruciare le tappe. Il suo entusiasmo nel perseguire una giusta causa gli fece perdere di vista anche le elementari norme di condotta dell’attività clandestina. Nel suo fervido pensiero […] forse ripudiava le lentezze, i compromessi in attesa che maturassero gli altri. Ed ancora, le raccomandazioni di compagni anziani alla prudenza. Per tutto questo penso fu spinto, in quel clima drammatico, ad agire" <330.
La mattina del 2 marzo, durante un appuntamento al bar Delucchi mirato ad ottenere documenti di identità falsi per la sua permanenza a Genova, Giacomo viene catturato e portato in questura, dove subisce interrogatori e torture. Su ordine del questore Arturo Bigoni, viene convocata per la sera stessa una riunione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI <331, i cui componenti decretano la pena di morte a Buranello mediante fucilazione alla schiena.
La sentenza viene eseguita, all’alba del 3 marzo 1944, sull’altura del Forte San Giuliano.
[NOTE]
137 Germano Jori (1904-1944). In carcere dal 1933 al 1937, fu comandante dei GAP genovesi dopo la morte di Giacomo Buranello. Il 13 luglio 1944, identificato in un bar di Sampierdarena, fu ucciso mentre tentava di sottrarsi alla
cattura, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 27-06-2019.
138 L’attentato fu seguito, il 19 maggio, dalla rappresaglia del passo del Turchino, con la fucilazione di 59 detenuti, prelevati dal carcere di Marassi.
139 Remo Scappini (Giovanni), Rapporto dalla Liguria del 14-08-1944, in Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione 1943-1945, cit., p. 481.
140 Remo Scappini (Giovanni), Informazioni dalla Liguria del 19-03-1945, in Ibid., p. 975.
290 Nicola Simonelli, Giacomo Buranello. Primo comandante dei GAP di Genova, De Ferrari, Genova 2002, p. 15.
291 Il podestà, nel corso del regime fascista, fu, con la soppressione della carica di sindaco, l’organo monocratico a capo del governo di un comune.
292 Testimonianza di Domenica Bondi, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 18.
293 Pietro Rossi, Giacomo Buranello, i Gap, la violenza e la moralità nella Resistenza: analisi e riflessioni, in «Storia e memoria», 2005, 2, pp. 212-213.
294 Lettera di Buranello ad Antonio Rossi del 12-08-1939, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., pp. 42-43.
295 Testimonianza di Orfeo Lazzaretti, in Ibid., p. 20.
296 Ibid., p. 26.
297 Ibid., p. 34.
298 Ivi.
299 Manlio Calegari, Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945, Selene, Milano 2001, p. 22.
300 Testimonianza di Ottavio Galeazzo, in Ibid., p. 38.
301 Testimonianza di Orfeo Lazzaretti, in Ivi.
302 Mariella Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in «Storia e memoria», 1994, 2, p. 86.
303 Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in Ibid., p. 81.
304 Del Lungo, Il diario di Giacomo Buranello, in Ibid., p. 86.
305 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 33.
306 Goffredo Villa (1922-1944). Comunista, entrò a far parte del gruppo di studenti di Buranello e Fillak. Arrestato, riacquistò la libertà in seguito alla caduta del fascismo. Fu membro dei GAP genovesi e, in seguito, partigiano. Venne fucilato al Forte San Giuliano il 29 luglio 1944, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
307 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 49.
308 Ibid., p. 50.
309 Ivi.
310 Ibid., p. 52.
311 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 31.
312 Emilio Guerra (1906-1944). Ferroviere comunista, fatto prigioniero nel corso della Resistenza, fu tra coloro che persero la vita, mediante fucilazione, nella strage del Turchino del 19 maggio 1944, in Simonelli, Giacomo Buranello,
cit., p. 58.
313 Raffaello Paoletti, nato nel 1910, comunista. Dichiaratosi contrario all’organizzazione centralizzata pensata da Buranello, il 27 settembre 1942 fu espulso dal Comitato centrale di cui faceva parte. Malgrado l’allontanamento,
anch’egli finì nell’elenco degli arrestati di ottobre, in Calegari, Comunisti e partigiani, cit., pp. 61-62.
314 Atto costitutivo dell’organizzazione, in Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 109.
317 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 67.
318 Giuseppe Bianchini (1894-1951). Aderì al PCd’I dal 1921, fu tra i primi dirigenti della sezione genovese del partito. Nel corso della Resistenza divenne segretario del Triumvirato insurrezionale della Liguria, in Donne e Uomini della
Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
319 Raffaele Pieragostini (1899-1945). Aderì al PCd’I nel 1922. Fu arrestato nel 1927 e condannato a 5 anni. Scarcerato, lasciò l’Italia, in accordo con il partito, continuando a svolgere attività politica in Francia, Unione Sovietica e
Spagna. Fu arrestato in Francia nel 1942 e condotto in Italia, riottenendo la libertà dal carcere di San Gimignano nell’agosto 1943. Venne chiamato a dirigere il PCI a Genova. Fu vice comandante militare del CLN della Liguria, in
AA. VV., Ear, vol. IV, cit., p.587.
320 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 74.
321 Calegari, Comunisti e partigiani, cit., p. 139.
322 Ivi. Con partito di Ventotene si intende il gruppo di dirigenti e quadri di partito che, a seguito della liberazione dall’isola omonima, assunse la guida dell’organizzazione comunista in Italia.
323 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 74.
324 Ibid., p. 78.
325 Ibid., p. 74.
326 Andrea Scano (1911-1980). Accorso volontario in Spagna per combattere nelle Brigate internazionali, nel 1939 finì nei campi di internamento francesi. Consegnato nel 1941 alle autorità fasciste italiane, fu confinato a Ventotene. Nel
corso della Resistenza, fu gappista a Genova e partigiano nell’alessandrino, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
327 Angelo Scala (1908-1974). Comunista, fece parte dei GAP genovesi. Con il nome di battaglia «Battista» nel novembre 1944 divenne comandante della Brigata Volante Balilla, squadra di punta dotata di grande mobilità, operante tra
Bolzaneto, la val Polcevera e Genova, in Wikipedia, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
328 Balilla Grillotti (1902-1944). Operaio comunista, operò nei GAP di Genova. Catturato il 19 luglio 1944 e processato dieci giorni dopo, fu condannato a morte e fucilato, in Donne e Uomini della Resistenza, ad nomen, consultato il 29-06-2019.
329 Simonelli, Giacomo Buranello, cit., p. 94.
330 Testimonianza di Remo Scappini, in Ibid., p. 95.
331 Fu un tribunale straordinario della Repubblica Sociale Italiana, istituito nel dicembre 1943 ed erede del disciolto Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Gabriele Aggradevole, Biografie gappiste. Riflessioni sulla narrazione e sulla legittimazione della violenza resistenziale, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018-2019


Era uno studente bravissimo, Giacomo Buranello. Il capo dei Gap genovesi, fucilato il 3 marzo 1944 quando ancora non aveva compiuto 23 anni, ai ragazzi più giovani che avevano scelto di seguirlo dopo l’8 settembre, ripeteva sempre l’insegnamento mazziniano: “studiate, studiate sempre”, come ricorda Giordano Bruschi, il partigiano “Giotto” che, diciottenne, fu tra loro.
E a cent’anni dalla nascita - era nato il 27 marzo 1921 - decine di docenti della Scuola Politecnica dell’Università di Genova, insieme al centro di Documentazione Logos hanno infatti promosso una richiesta per il conferimento della Laurea alla Memoria a Buranello - a cui già negli anni 70 era stata intitolata l’Aula Magna della Facoltà di Ingegneria - e il Consiglio della Scuola Politecnica ha approvato all’unanimità la proposta, trasmettendola ora ai vertici dell’Ateneo a cui spetta la decisione di attribuire il titolo [...]
Donatella Alfonso, Giacomo Buranello, una laurea alla memoria, Patria Indipendente, 27 marzo 2021

mercoledì 23 marzo 2022

La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti


Alla metà del 1943 i militanti del PCd’I erano dunque in procinto di intraprendere il passaggio in Italia a lungo atteso. Il ritorno di molti dei comunisti italiani desiderosi di combattere il fascismo avvenne tramite un percorso sulle Alpi trovato da Amerigo Clocchiatti e Domenico Tomat, i primi ad averlo utilizzato nel ’42 per rientrare e prendere contatto con Massola. Le principali informazioni in proposito provengono dall’autobiografia di Clocchiatti, friulano cresciuto a poca distanza dal fronte della prima guerra mondiale, espatriato prima in Francia e poi in Belgio senza che il Cpc riuscisse a registrare i suoi spostamenti in maniera esaustiva. Tracciare un percorso sulle montagne evitando i controlli alla frontiera non fu un’impresa facile, e costò ai due incaricati, e alla guida Giulio Albini, faticose scalate tra rocce gelate. Si partiva da Saint-Martin-Vésubie e si saliva su per il monte Clapier, già oltre la frontiera, ma non si trovava un sentiero per scendere; alla fine Albini mise a punto il tragitto ripiegando attorno al monte e giungendo a Tetto Coletta, dove la casa di una contadina serviva da base di approdo per scendere a Vernante, da cui si prendeva il treno per Torino. Grazie a questo tragitto rientrarono Negarville e Roasio nel gennaio ’43 e Novella e Amendola in aprile, in questo modo “tutto il Centro estero [era stato] trasferito in Italia, per costituire nel paese un Centro interno di direzione politica e organizzativa”. Così, nell’ottica dei comunisti italiani, le peregrinazioni, la Spagna, gli arresti e la Resistenza francese furono importanti esperienze di vita e di lotta, trascorse però in attesa del ritorno e della guerra contro il fascismo, anelata e preparata per vent’anni tra le asprezze della vita quotidiana in terra straniera.
[...] I fuoriusciti rientrati costituirono la prima componente per la strutturazione della Resistenza italiana, nell’estate’ 43 in attesa di ricongiungersi con la seconda, gli esponenti del PCI incarcerati o confinati in Italia.
La terza componente furono invece le giovani generazioni che entrarono nel partito negli ultimi anni del fascismo o nelle prime fasi della Resistenza <1. I giovani avvicinatisi alle idee o ai gruppi comunisti che andavano creandosi in Italia già prima della caduta del fascismo provenivano da classi sociali differenti, ma avevano spesso alle spalle un clima antifascista. In particolare a Torino e Milano le fabbriche e i quartieri operai costituirono un fertile retroterra per la nuova generazione antifascista, dalla quale sarebbero emersi anche i principali gappisti. Non mancarono però fra i neocomunisti, e tra i terroristi urbani, giovani intellettuali o studenti. Ne sono un esempio il gruppo romano, in cui spiccano i nomi di Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice, Mario Licata e Pietro Ingrao, e i giovani antifascisti della Normale di Pisa, come Alessandro Natta e Mario Spinella; ma anche, Giovanni Giolitti, Matteo Sandretti, Ennio Carando e Ludovico Geymonat, che gravitavano a Torino attorno alla casa editrice Einaudi. Gli ultimi due insegnavano inoltre nello stesso liceo di Cesare Pavese, che conosceva Luigi Capriolo, membro del PCI, cui presentò il giovanissimo ufficiale Giaime Pintor. Alcuni di loro furono confinati negli ultimi anni trenta o all’inizio della guerra, e ricevettero a Ventotene l’educazione comunista. Le carceri e il confino furono infatti per i comunisti luoghi di studio e dibattito interno, in cui i nuovi antifascisti della fine degli anni ’30 vennero a contatto con i vecchi, personalità del calibro di Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e Gerolamo Li Causi.
A livello internazionale, la metà del ’43 fu la fase che decretò il trionfo dell’unità e dei fronti nazionali. A Casablanca Churchill, Roosevelt e Stalin avevano stabilito l’obiettivo della resa incondizionata per i nemici sconfitti e avevano concordato per giugno lo sbarco in Sicilia. Stalin teneva inoltre all’apertura del fronte decisivo in Francia e, a differenza degli altri due, era disposto a riconoscere il CFLN di De Gaulle e Giraud. In questo clima di grande alleanza, si colloca lo scioglimento del Komintern, deciso dal presidium il 15 maggio e reso pubblico il 22. La mossa serviva a ottenere la fiducia degli anglo-americani ma anche a garantire l’autonomia dei partiti comunisti nella conduzione delle guerre di liberazione nazionale in corso. Resta invariato anche con lo scioglimento dell’Internazionale comunista il fatto che “l’egemonia dell’Urss sul movimento comunista internazionale […] è indiscussa”; “la convinzione che Stalin resti il capo dei lavoratori, il capo del comunismo internazionale, si esprime in tutti i modi e i dirigenti dei massimi partiti comunisti […] sono quadri formatisi sotto la sua direzione e influenza diretta” <2. Il PCI si apprestava dunque ad avviare la guerra partigiana sulle basi unitarie già accettate a Tolosa nel ’41, e ribadite nel marzo ‘43 a Lione da Saragat, Lussu, Dozza e Amendola, poco prima del rientro di quest’ultimo in Italia. La necessità di ribadire l’unità era data non solo dall’avvicinarsi della guerra in Italia, ma anche dal bisogno di rinsaldare tale intento, messo in dubbio dal ritorno di Emilio Lussu. Egli era appena rientrato dagli Stati Uniti, dove gravitava attorno alla Mazzini Society, animata da fuoriusciti antifascisti, che attribuivano un ruolo preponderante agli anglo-americani nel rovesciamento del fascismo e non vedevano di buon occhio l’alleanza coi comunisti. Rientrato in Francia, aderì però alla linea di Tolosa secondo cui la liberazione nazionale sarebbe dovuta partire dall’interno, grazie alla collaborazione con socialisti e comunisti, di cui Trentin fu il più strenuo sostenitore tra le file di GL.
Il 3 marzo 1943 a Lione nacque dunque lo schieramento che avrebbe costituito la sinistra della Resistenza italiana e che si sarebbe congiunto con la destra nel corso dei 45 giorni. Il verbale ufficiale della riunione infatti, dopo aver ribadito gli obiettivi di Tolosa, rivolgeva a tutti gli italiani, “anche se non condividono integralmente il loro programma di ricostruzione del paese, un appello all’unione e all’azione per la pace, l’indipendenza e la libertà, e dichiara[va] che il presente accordo è aperto a tutti i partiti e movimenti che ne accettano lo spirito” <3.
La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti, soprattutto per la prudenza di Massola, ansioso di salvaguardare la cautela con cui aveva portato avanti il lavoro dal ’41. Nel settembre ’42 egli aveva ricevuto da Clocchiatti, appena rientrato, la prima lettera dal Centro Estero e si erano verificati dei contrasti a causa di iniziative propagandistiche di quest’ultimo, come il lancio di volantini, che Massola reputava premature. Ad ogni modo, nel giugno ’43 egli inviò un telegramma a Togliatti, tramite la Francia, aggiornandolo sui progressi degli ultimi mesi. Comunicava il proprio approdo in Italia nell’agosto ’41, l’arresto di Rigoletto Martini in Jugoslavia, la condanna a 24 anni di reclusione da parte del Tribunale Speciale e la sua successiva morte nel carcere di Civitavecchia nel giugno del ’42. Informava poi dell’avvio del lavoro di propaganda tramite la stampa clandestina, in particolare della comparsa dell’Unità, un numero al mese da giugno a novembre ’42 e due numeri al mese a partire dal dicembre ’42. L’approdo in Italia di Primo e Secondo, che dovrebbero essere Roasio e Novella, aveva inoltre permesso nel maggio la costituzione del Centro Interno, alla cui direzione partecipavano, oltre allo scrivente e ai due compagni citati, Roveda, Negarville, Amendola e Rina Piccolato <4. Nonostante per la formazione dei GAP bisogni ancora attendere l’autunno ’43, già nel maggio venne fatta consegnare ai dirigenti provinciali una circolare segretissima (da distruggere dopo la lettura), firmata dalla segreteria del PCI, che prescriveva:
“I patrioti italiani hanno il dovere di organizzarsi e rispondere. In questa lotta tutti i mezzi sono buoni, compresa la lotta armata. Alla violenza bisogna opporre la violenza, alle bande amate fasciste bisogna opporre i Gruppi d’azione dei patrioti, capaci di stroncare la violenza fascista colla lotta armata. […] L’esperienza internazionale della lotta armata contro l’oppressore tedesco e i traditori del proprio paese (la lotta dei patrioti jugoslavi, greci, francesi ecc) dimostra che la formazione e l’armamento di questi Gruppi di patrioti non può avvenire in modo spontaneo. Questa esperienza dimostra pure che la forza organizzatrice e dirigenti dei gruppi armati di patrioti, in tutti i paesi, è il Partito comunista.” <5
Roasio, autore per conto del partito, nella circolare spiega che doveva trattarsi di costituire “piccoli gruppi (GAP) nei primi tempi composti di soli compagni e portarli alla lotta armata, e poi, poco a poco, nella lotta allargare la loro cerchia, il loro numero, attirare i migliori e più combattivi elementi del popolo e riuscire così a organizzare un potente movimento armato di patrioti.” <6. Si prescriveva dunque ai dirigenti locali di incaricare un compagno di fiducia della formazione di questi gruppi di tre uomini, i cui membri dovevano essere scelti non “per spirito di disciplina, ma per la loro spontanea volontà” e dovevano interrompere qualsiasi legame o partecipazione alle attività di partito. Non è scritto nel documento, ma intuibile ed ammesso esplicitamente da Roasio, che la struttura dei Gap “rifletteva grossomodo quella dei FTP, di cui facevano già parte numerosi nostri compagni” <7. Nelle stesse settimane infatti quadri e militanti di base venivano richiamati dalla Francia e rientravano in Italia attraverso le Alpi o con documenti falsi; coloro che scelsero questa via avevano dunque conservato una polarità italiana, a maggior ragione coloro che avevano ormai una famiglia in Francia o vi tornarono dopo la guerra. Alcuni tra i più giovani invece, come abbiamo visto, avevano ereditato dalla famiglia italiana la tendenza politica, ma la propria esperienza personale li aveva condotti a riorientarla in senso francese.
Coloro che decisero di tornare, per combattere il fascismo in Italia, nell’estate 1943 erano nel pieno del lavoro necessario a riprendere contatto con la base di partito, i quadri prendevano appuntamento con vecchi comunisti e ne istruivano di nuovi, oltre ad allacciare i rapporti con le organizzazioni antifasciste di vari indirizzi. Le basi per il fronte nazionale all’interno furono però reputate ancora troppo fragili e nel pieno di tale riorganizzazione il Gran Consiglio del fascismo decretò la caduta di Mussolini. Il 26 luglio fu redatto il primo appello firmato dal Gruppo di ricostituzione liberale, il Partito democratico cristiano, il Partito comunista italiano, il Movimento per l’unità proletaria per la repubblica socialista, il Partito socialista italiano e il Partito d’azione. Quest’ultimo era stato fondato a Roma il 4 giugno 1942 e vi sarebbero confluiti i maggiori esponenti di Giustizia e Libertà. Si disponeva la nascita di un Comitato d’unità delle opposizioni antifasciste che richiedeva la liquidazione delle strutture del regime e la formazione di un governo che fosse espressione delle classi popolari.
Intanto, abolite le corporazioni, era in corso la ristrutturazione dei sindacati, di competenza di una commissione in cui furono nominati tra gli altri il socialista Bruno Buozzi e il comunista Giovanni Roveda. La nomina fu oggetto di critiche da Mosca, di un’intromissione del PCF e di un dibattito interno alla direzione neocostituita, che richiese una dichiarazione pubblica in cui Roveda chiarisse che l’accettazione di tale ruolo non significava sostegno politico al governo monarchico. Il nodo del contendere era costituito dal fatto che il nuovo governo moderato e la monarchia cercassero di limitare il ruolo delle masse nella transizione istituzionale post 25 luglio, dunque Roveda, in qualità di commissario sindacale, era accusato di collusione nel “soffocare il movimento di scioperi a Torino” <8. Lampredi fu inoltre latore di una lettera del PCF alla direzione italiana in cui si sosteneva che una subordinazione dei comunisti italiani al governo Badoglio avrebbe indebolito il movimento insurrezionale antinazista anche oltre i confini della penisola. Secondo il partito francese infatti, “gli alleati vedevano nel maresciallo una sorta di nuovo Darlan che operava in altre condizioni per soffocare il movimento popolare” <9. Il PCF aggiungeva poi che la questione “ci preoccupa particolarmente perché noi dobbiamo fare i conti anche in Francia con la possibile utilizzazione di nuovi Darlan e non ci sono altri modi di impedirlo che di sviluppare al massimo il movimento di massa”. Aldo Lampredi, in un biglietto del ’73 archiviato assieme alla corrispondenza non poté affermare con certezza che gli estratti delle lettere venissero effettivamente dalla Casa, “è scritto così. Però credo che debba ritenersi cosa vera perché come risulta dalla mia lettera prendo in seria considerazione il loro contenuto” <10.
Ad ogni modo, il 13 agosto i commissari della federazione sindacale chiarirono che la loro funzione aveva “uno stretto carattere sindacale, che non implica nessuna corresponsabilità politica”11. Si apriva già a questo punto il dilemma della posizione da tenere in relazione a Badoglio, in qualità di capo del governo riconosciuto dagli Alleati, che si sarebbe risolta solo al ritorno di Togliatti. Per il momento le forze antifasciste italiane decisero di adottare la linea della pressione sul governo per la pace separata, senza scatenare un movimento preinsurrezzionale, per il quale reputarono di non essere pronte. Alla metà di agosto una delle principali rivendicazioni degli antifascisti nei confronti di Badoglio riguardava la liberazione di carcerati e confinati. Il 31 luglio si era infatti costituito un comitato direttivo dei confinati a Ventotene che chiedeva la liberazione immediata e il ripristino dei collegamenti con la terraferma.
La questione si risolse quando, ai primi di agosto, Buozzi, Roveda e Grandi si recarono da Badoglio, minacciando un appello allo sciopero generale se non avesse emesso gli ordini di scarcerazione; “contro la minaccia dello sciopero generale il Maresciallo si scagliò violentemente ma dopo tre ore di discussione finì per cedere” <12.
Così tra il 19 e il 23 agosto detenuti e confinati furono liberati, restarono in carcere solo Emilio Sereni e Italo Nicoletto, consegnati all’Italia il 24 luglio e condannati dal Tribunale speciale rispettivamente a 18 e 10 anni. Sarebbero evasi dalle carceri Nuove di Torino l'8 agosto 1944.
Dunque alla fine di agosto, mentre erano in corso le trattative per l’armistizio, i bombardamenti sulle città italiane e una serie di scioperi contro la guerra, il PCd’I poteva compiere la saldatura tra le due proprie componenti storiche, i rientrati dall’esilio e i liberati dal confino. Il 29 agosto si tenne a Roma la riunione che costituì la direzione di partito, nelle persone di Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi, Roasio, Massola, Roveda, Novella, Negarville e Amendola. A Roma restarono Scoccimarro, Novella, Amendola, Roveda, Negarville e Longo, che premerà però per raggiungere Secchia, Massola, Roasio e Li Causi a Milano, da dove in caso di occupazione sarebbe stata diretta la lotta armata.
Il giorno successivo infatti Longo stilava un “promemoria sulla necessità urgente di organizzare la difesa nazionale contro l’occupazione e la minaccia di colpi di mano da parte dei tedeschi” <13. Il giorno stesso il PSI e il Pd’A accoglievano la mozione, dando vita a un comando militare tripartito composto da Luigi Longo, Sandro Pertini e Bruno Bauer. Il Comitato Centrale stilò inoltre il 2 settembre un appello alla difesa nazionale che concludeva:
“L’Italia deve, in un virile proposito di resistenza e di lotta, ritrovare la sua unità morale spezzata dal fascismo, e conquistarsi, attraverso la sua riscossa nazionale, il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni per collaborare con esse al riassetto dell’Europa e del mondo” <14.
La formula venne ripresa pressoché identica nella deliberazione del Comitato delle opposizioni, che il 9 settembre si costituiva in Comitato di liberazione nazionale:
“Nel momento in cui il nazismo tenta di istaurare a Roma ed in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza, e per conquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni” <15.
[NOTE]
1 P. Spriano, “Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin e la guerra”, op.cit. pag. 338.
2 P. Spriano, “La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata”, op.cit., pag. 206
3 Fondazione Gramsci, APC, marzo 1943, “Unità d’azione per la pace e la libertà”, dichiarazione congiunta Pci, Psiup, Gl, marzo 1943
4 Fondazione Gramsci, APC, settembre 1943, relazione in francese indirizzata a Togliatti relativa alla formazione di un fronte nazionale antifascista in Italia e informazioni riguardo ad alcuni dirigenti del Pci a firma Quinto
5 Fondazione Gramsci, APC, maggio 1943, Circolare riservata della Segreteria del partito comunista italiano riguardo alla necessità di istituire Gruppi d’azione dei patrioti.
6 Ibidem.
7 Antonio Roasio, “Figlio della classe operaia”, Vangelista editore, Milano 1977, pag.206.
8 Fondazione Gramsci, APC, Estratto di una lettera da Mosca, 6/9/1943. 9 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, lettera del PCF alla direzione del Pci in merito alle polemiche tra i due partiti, 23 sett.1943.
10 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, 1 sett.1973.
11 Il comunismo italiano durante la seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 192.
12 Giovanni Roveda, “Precisazioni”, in Rinascita a. IX, n 7-8, luglio-agosto 1952, pag.441.
13 Testo completo in Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 194-195
14 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 197.
15 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag.198.
Elisa Pareo, "Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019

domenica 19 dicembre 2021

Nel 1957 Bianciardi viene licenziato dalla Feltrinelli ‘per scarso rendimento’


Dopo l’8 settembre 1943 e il conseguente sfaldarsi delle file dell’esercito italiano all’indomani dell’armistizio, Luciano Bianciardi si aggrega, in qualità di interprete, a un reparto di soldati inglesi; viene trasferito a Forlì, poi torna finalmente a Grosseto. Nel novembre dello stesso anno, deciso a continuare gli studi universitari, viene ammesso alla Scuola Normale di Pisa, in seguito a un concorso bandito per settanta tra reduci e partigiani. Successivamente, nell’autunno del ’45, si iscrive al Partito d’Azione, un’esperienza molto importante, rivelatrice di quella che agli occhi di Bianciardi è una profonda necessità per la politica: vale a dire lasciarsi guidare dagli intellettuali, tratto questo inscritto nella storia del partito. Bianciardi ricorda così quell’esperienza politica:
"Io mi ero iscritto […] al Partito d’azione; il qual partito non è facile ora dire che cosa sia stato, anche perché fu forse molte, troppe cose. Mi pare […] di poter dire che fu un altro tentativo di governo (l’ultimo?) della piccola borghesia intellettuale. Cadde per le contraddizioni interne e per la incapacità ormai accertata del nostro ceto, privo di contatti con gli strati operai e quindi largamente disposto a tutti gli sterili intellettualismi ed alla costruzione gratuita di problemi astratti".
Quando il Partito d’Azione si scioglie, nel 1947, Bianciardi rimane profondamente deluso.
Nel febbraio del 1948 si laurea discutendo con Guido Calogero una tesi dal titolo: "Il problema del conoscere nel pensiero di John Dewey". Nell’aprile dello stesso anno sposa Adria Belardi, contro il volere di sua madre, che voleva per il figlio una laureata e non la semplice figlia di una cappellaia; nell’ottobre del 1949 nasce il primogenito di Luciano, Ettore. La paternità a ventisette anni tocca corde profonde nell’uomo Bianciardi, come rivela un altro brano di "Nascita di uomini democratici":
"Venne anche mio padre, quel giorno, accanto alla nuova culla, e parlammo della nostra vita, e di quella nuova vita che era nata ora. Dovemmo concludere che avevamo fallito, lui ed io, e forse anche suo padre, se c’erano state due guerre mondiali con tanti morti, e la miseria e la fame, e così scarsa sicurezza di vita e di lavoro e di libertà per gli uomini del mondo. Io conclusi che non doveva più accadere tutto questo, che non volevo che mio figlio, come me e come mio padre, rischiasse un giorno di morire o di uccidere, di soffrire la fame o di finire in carcere per avere idee sue, libere. Non potevo neppure più rinunciare ad avere fiducia nel mio mondo e nei miei simili, chiudermi in un bel giardinetto umanistico e di ozio incredulo, soddisfatto dell’aforisma che al mondo non c’è nulla di vero. Dovevo scegliere, la presenza di mio figlio me lo imponeva, non potevo neppure pensare di risolvere il problema individualmente, o di rimandarlo a più tardi, cercare, al momento buono, di truffare l’Ufficio leva, o creare per mio figlio una situazione di privilegio, far di lui ‘il primo della classe’, come aveva voluto mia madre. Non ci sarà soluzione sicura per mio figlio se non sarà sicura anche per tutti i bambini del mondo, anche questo mi pareva abbastanza chiaro... non basta essere soli col proprio lavoro e con la propria miseria, ci vuole anche un figlio per desiderare l’avvenire e lavorare a costruirlo".
Dopo aver insegnato per qualche anno inglese in una scuola media, Bianciardi diventa professore di storia e filosofia nello stesso liceo che aveva frequentato come studente; nel 1951 accetta l’incarico di direttore della locale Biblioteca Chelliana, semidistrutta dai bombardamenti e dall’alluvione del 1946, dando avvio all’iniziativa del Bibliobus, un furgone carico di libri della biblioteca che viaggia per la campagna grossetana, andando a raggiungere anche gli abitanti dei paesi più isolati.
Bianciardi ricorderà sempre il periodo grossetano come quello più felice della sua vita e in effetti la sua vivacità, l’energia e l’entusiasmo che lo animano sono evidenti.
Sono questi gli anni nei quali si occupa attivamente di un cineclub, organizza cicli di conferenze e dibattiti insieme a Carlo Cassola, - che in quel periodo si era trasferito a Grosseto e insegnava nello stesso liceo di Bianciardi - e partecipa alla creazione del “Movimento di Unità Popolare”.
Nel 1953, un anno importante per Bianciardi, s’impegna concretamente in politica, legando il suo nome alla breve ma estremamente significativa esperienza della creazione del Movimento di Unità Popolare, “cartello elettorale” costituitosi il 18 aprile 1953 dalla confluenza “di due movimenti: il Movimento di autonomia socialista (Mas) e l’Unione di rinascita repubblicana (Urr) […] a seguito delle scissioni che avevano assottigliato il fianco sinistro rispettivamente del Partito Socialdemocratico (Psdi) e del Partito Repubblicano italiano (Pri) […] con il contributo del movimento di Giustizia e Libertà, ricostituito da Carlo Cassola nel grossetano” (Colozza).
Bianciardi, molto legato all’amico scrittore Cassola, collaborò con lui a questa breve ma significativa esperienza politica, nata per contrastare l’approvazione della cosiddetta ‘legge truffa.’ 
Come è noto, la finalità che questo cartello elettorale si diede, venne raggiunta: "L’esito della battaglia elettorale di Movimento di Unità Popolare (Up) fu vittorioso, nel senso che Up vide coronato l’obiettivo per cui era sorta: impedire che la maggioranza centrista ottenesse il 50% + 1 dei suffragi ed avesse quindi diritto al premio di due terzi dei seggi parlamentari previsto dalla nuova legge. Peraltro, ciò non deve indurre a pensare che il ruolo di Up sia stato decisivo nell’economia del risultato". (Colozza 1)
L’esperienza, al di là del suo effettivo contributo elettorale, è, come accennavo, importante perché fa ben comprendere come Bianciardi concepisca, fin dalla giovane età, il ruolo dell’intellettuale in intima connessione con l’impegno sociale e, ove necessario, direttamente politico: ogni tentazione di rinchiudersi in una torre d’avorio, dove occuparsi esclusivamente di disincarnate questioni intellettuali, disinteressandosi della vita politica e sociale, gli è pertanto del tutto estranea. La vicenda del Movimento di Unità Popolare viene infatti “generalmente associata a quella del Partito d’azione, di cui essa per certi versi rappresentò una riedizione”, così scrive Giovanni De Luna in Storia del Partito d’Azione 1942-1947. E, a corroborare questo aspetto del pensiero di Bianciardi, va messo in rilievo il nome che l’amico Cassola scelse per il movimento nel grossetano: Giustizia e Libertà, il nome del movimento antifascista fondato a Parigi dai fratelli Rosselli nell’agosto del 1929, di cui il Partito d’azione fu poi il principale erede politico. Come si vede, il cerchio si stringe e rivela la propria unità di ispirazione ideale.
Nei primi anni Cinquanta un ex collega di università di Bianciardi, Umberto Comi, assume la direzione della Gazzetta di Livorno e gli affida la cura di una rubrica intitolata “Incontri Provinciali”. Nello stesso periodo Bianciardi inizia a collaborare anche con altre testate: Belfagor, l’Avanti; nel 1953, inizia a scrivere per II Mondo mentre nel ’54, avvia la collaborazione con II Contemporaneo. Il 1954 è l’anno in cui Bianciardi, insieme a Carlo Cassola, scrive per l’Avanti un’inchiesta sulle condizioni di vita dei minatori. Con il già citato Bibliobus, i due scrittori si recano spesso a Ribolla, un piccolo agglomerato costituito dalle case dei minatori nei pressi di Grosseto. Bianciardi prende molto a cuore la condizione dei minatori: si informa sulle loro condizioni di lavoro, li intervista, ne scrive le biografie e ne diventa amico. Il 4 maggio 1954 salta in aria uno dei pozzi della miniera di Ribolla per un’esplosione di grisù uccidendo 43 persone: questa tragedia porterà Bianciardi alla decisione definitiva di partire per Milano. Quando il poeta Antonello Trombadori gli chiede se sia disponibile a partecipare alla costituzione di una nuova casa editrice, la Feltrinelli a Milano, Bianciardi accetta subito e parte frettolosamente per il capoluogo lombardo.
Nell’aprile del successivo 1955 gli nasce la figlia Luciana.
Inizia a collaborare a Nuovi Argomenti e l’Unità, nel frattempo lo raggiunge a Milano Maria Jatosti, che sarà la sua compagna per più di quindici anni e nel 1958 gli darà il terzo figlio, Marcello.
Nel 1956, insieme a Carlo Cassola, pubblica presso Laterza I minatori della Maremma, il libro inchiesta sulle condizioni di vita dei minatori, che porta avanti con ben altro respiro e maggiore ambizione gli articoli sul medesimo argomento scritti nel 1954 per le colonne de l’Avanti.
Contemporaneamente, comincia a lavorare a Cinema Nuovo, la rivista diretta da Guido Aristarco e finanziata dall’editore Feltrinelli, ma dopo un breve, infelice periodo di collaborazione con Aristarco, passa alla redazione della casa editrice vera e propria. Qui gli viene offerta la traduzione de Il flagello della svastica di Lord Russell, il secondo titolo pubblicato dalla neonata casa editrice Feltrinelli, che Bianciardi traduce in pochi mesi; è questo l’inizio della sua carriera di traduttore, che continuerà fino alla morte e che Bianciardi chiamerà “il mio diuturno battonaggio, carte su carte di ribaltatura”.
Nel 1957 Bianciardi viene licenziato dalla Feltrinelli ‘per scarso rendimento’: scrive in una lettera del febbraio 1958 all’amico Terrosi, “E mi licenziarono soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile”.
Feltrinelli gli garantisce però che continuerà ad affidargli lavori di traduzione e in fondo per Bianciardi è una liberazione: niente orari da rispettare e soprattutto niente ipocrisie inutili.
“La verità è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici: gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera, e riesce, non so come, a dare l’impressione, fallace, di star lavorando. Si prendono persino l’esaurimento nervoso.” 
Parallelamente al lavoro di traduzione, Bianciardi pensa a una cosa tutta sua, una sorta di autobiografia: realizza così II lavoro culturale, pubblicato da Feltrinelli nello stesso anno. Nel luglio del 1959, a Chianciano, in dieci giorni di ‘vacanza traduttoria’, Bianciardi scrive L’integrazione, pubblicato da Bompiani l’anno seguente. Bianciardi continua il lavoro di traduzione e si riserva soltanto la domenica per scrivere cose sue: nasce così Da Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille, pubblicata sempre dai tipi di Feltrinelli nel 1960, una prova narrativa che definisco importante per il piglio franco e vigoroso con cui si abbandona al puro piacere della narrazione, che segue le vicende della spedizione dei Mille dalla partenza da Quarto fino al momento in cui Garibaldi, l’amatissimo eroe del libro, abbandona il campo all’esercito dei Savoia. Traduce entusiasticamente entrambi i Tropici di Miller e scrive quello che diventerà il suo capolavoro: La vita agra.

Ilaria Muzzi, Il dilemma del prigioniero. Luciano Bianciardi e il disincanto del moderno, A dissertation submitted to the Graduate Faculty in Comparative Literature in partial fulfillment of the requirements for the degree of Doctor of Philosophy, The City University of New York, 2016, qui ripresa da academicworks.cuny.edu