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mercoledì 4 ottobre 2023

All'inizio dei tentativi di epurazione dei fascisti in Italia



Da ultimo, le nuove autorità politiche avrebbero dovuto far luce, anche attorno ai numerosi episodi di violenza realizzati nel periodo della guerra civile (8 settembre 1943- maggio 1945): con particolare riferimento alle feroci rappresaglie naziste realizzate nel centro-nord della Penisola <4, al trasferimento di civili e militari italiani nei campi di prigionia nazista (c.d. I.M.I. Internati Militari Italiani), alla sorte dei soldati del Regio Esercito, abbandonati senz'ordini alla vendetta dell'ex “fratello d'arme” tedesco <5. Numerosi aspetti oscuri riguardavano anche la lotta partigiana, nelle cui maglie vennero sovente ad innestarsi, regolamenti privati tra cittadini e scontri tra bande ideologicamente rivali, nonché l'opera di liberazione condotta dagli eserciti alleati, nel corso delle cui azioni non mancarono episodi di violenza e aggressione ai danni delle popolazioni civili dei territori di volta in volta liberati <6. Si trattava, come è evidente di incombenze imbarazzanti che difficilmente la giovane ed inesperta democrazia italiana avrebbe potuto realizzare nel breve periodo, specie se si consideri che essa era, in pari tempo, chiamata ad affrontare ulteriori prioritarie questioni: la ricostruzione del Paese distrutto dai bombardamenti, la crisi economica post-bellica, la riconversione dell'industria militare agli usi civili, la riorganizzazione, infine, dopo un vuoto durato vent'anni del pluralismo politico e culturale, operazioni alle quali avrebbe dovuto procedersi, peraltro, sotto le spinte di una popolazione che ampiamente rivendicava una maggiore giustizia sociale ed una più incisiva partecipazione alle scelte politiche del Paese.
In un simile quadro, i primi sforzi del Governo Badoglio furono indirizzati alla “defascistizzazione” dello Stato, divenuto nel corso del ventennio quasi un unicum con il Partito di Mussolini <7: con R.d.l. n. 668/1943 venne disposta, infatti, la soppressione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con R.d.l. n. 706/1943 si provvide allo scioglimento del Gran Consiglio del fascismo, infine, con R.d.l. n. 704/1943 venne liquidato il P.N.F. e le sue organizzazioni. Ulteriori provvedimenti diedero luogo all'abolizione dell'ordine corporativo e alla Camera dei Fasci e delle corporazioni. Una volta demolite le strutture del vecchio regime, con l'insediamento dei Governi ciellenisti Bonomi e Parri furono riattivate le regole del gioco democratico: vennero soppresse le antiche limitazioni alla libertà di stampa, si ristabilirono le libertà politiche e sindacali (d.lg.lgt. n. 369/1944), fu convocata (nell'attesa dell'insediamento di un nuovo Parlamento) una Consulta Nazionale, incaricata di formulare pareri sui problemi generali e i provvedimenti legislativi sottoposti dal Governo <8.
Per quanto concerne gli aspetti più dichiaratamente discriminatori del passato, con R.d.l. n. 25/1944 si provvide all'abolizione di tutti i decreti, le leggi e le singole disposizioni regolamentari in cui era fatto esplicito riferimento “all'accertamento o alla menzione della razza”, reintegrando al contempo tutti i cittadini di fede ebraica nel pieno godimento dei diritti civili e politici. Con riferimento specifico alle loro sofferenze economiche, il R.d.l. n. 26/1944 precisò, inoltre, la reintegrazione dei suddetti nei loro precedenti diritti patrimoniali <9.
Una corretta gestione del passato, non poteva prescindere, tuttavia, dalla realizzazione di una significativa opera di epurazione del personale dell'esercito, dell'amministrazione pubblica e degli organi di giustizia, nonché dalla persecuzione dei c.d. «delitti collaborazionisti» e dei più efferati crimini perpetrati durante la lunga vigenza del regime, specie nei primi tumultuosi anni della sua affermazione con la marcia del 1922. Tale ufficio rappresentava, peraltro, una delle condizioni (art. 30) specificamente imposte dai rappresentanti dell'esercito anglo-americano al momento della concessione dell'armistizio lungo dell'3 settembre 1943.
Assumendosi detto impegno, il Governo provvide, già il 28 dicembre successivo, durante il c.d. Regno del Sud, all'emanazione del D.l. n. 28/1943, per mezzo del quale si dispose l'assoggettamento a giudizio di chiunque si trovasse, al momento dell'emanazione, insignito della qualifica di squadrista, marcia su Roma, gerarca o sciarpa littorio, o avesse, in ogni caso rivestito in passato ruoli dirigenziali nel quadro organizzativo del Partito nazionale fascista, attribuendo al Consiglio dei ministri, ai consigli di amministrazione o di disciplina degli enti nazionali, nonché a commissioni di nomina prefettizia appositamente istituite, il compito di emettere la decisione e comminare la relativa sanzione. Al di là delle categorie su richiamate furono ad ogni modo considerati colpevoli gli autori di episodi configurabili come “attentato alla libertà individuale” dei cittadini.
Era evidente, in ogni caso, che, stante la divisione del Paese in due Stati in conflitto e la perdurante lotta tra bande partigiane e milizie repubblichine del Governo saloino, il provvedimento in argomento non poté conoscere puntuale attuazione, dando origine a risultati significativamente distanti da quelli auspicati.
Sulla questione dovettero intervenire, perciò, numerose ulteriori disposizioni. Sotto la vigenza dell'Esecutivo Bonomi fu adottato, in particolare il d.lg.lgt. n. 159/1944, per mezzo del quale furono inasprite le pene comminate dal precedente intervento, venne fornita più esatta indicazione dei soggetti destinatari della sanzione, si provvide ad istituire, quali organi di giudizio nelle operazioni, l'Alta Corte di giustizia, le Corti d'assise e i Tribunali militari, integrati questi ultimi, con giudici non togati appartenenti agli ambienti resistenziali. A garanzia del corretto svolgimento delle operazioni venne istituito, altresì, l'Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, organo destinato ad essere successivamente assistito da quattro Alti Commissari aggiunti, ciascuno dei quali incaricato alla supervisione di uno dei settori di intervento: punizione dei delitti, epurazione dell'amministrazione, avocazione dei profitti del regime, liquidazione dei beni fascisti <10. Il provvedimento in esame stabilì, altresì, che, avverso le sentenze, le ordinanze e i provvedimenti emessi dell'Alta Corte di giustizia non avrebbe potuto proporsi gravame in appello, ma solo il giudizio in Cassazione la valutazione dei vizi di legittimità nell'applicazione di esso. Secondo dette disposizioni si procedette all'epurazione del Senato <11, dei dipendenti militari e civili dello Stato in posizione apicale, dei vertici delle aziende di Stato e delle imprese private, specie se titolari di rapporti di fornitura o di appalto con le amministrazioni pubbliche.
Il sistema predisposto, stando al parere della più recente storiografia <12, conobbe nel complesso, un apprezzabile avvio, tale da consentire - nel caso in cui fosse stato portato effettivamente a compimento - un effettivo rinnovamento del sistema amministrativo centrale e periferico dello Stato (prefetti, podestà, dirigenti della burocrazia ministeriale), nonché una più facile rielaborazione del problematico passato da parte della generalità dei consociati.
Le operazioni in tal modo avviate dovettero subire, però, un radicale mutamento con l'approvazione del d.lg.lgt. n. 625/1945, per mezzo del quale fu disposta la soppressione dell'Alta Corte di giustizia ed il trasferimento di tutti i procedimenti allora pendenti ad una sezione speciale (rectius specializzata) delle Corti d'assise.
La magistratura ordinaria (che era riuscita nel complesso a sottrarsi alle misure di epurazione) si trovò, così, investita del non facile compito di “defascistizzare” la Pubblica amministrazione, assumendo su di sé l'incarico di comminare sanzioni penali e disciplinari a funzionari e dirigenti rei di aver assunto, nel corso della propria carriera, atteggiamenti non dissimili da quelli posti in essere da essi stessi durante il lungo interregno della dittatura fascista <13.
Nell'esercizio di tale attività, fu evidente, quindi, che i magistrati presero ad assumere atteggiamenti di maggior indulgenza rispetto a quelli fatti propri dai componenti delle precedenti commissioni d'epurazione governative, i quali, nel passato, avevano generalmente rivestito ruoli di primo piano nelle file dell'antifascismo e della guerra di liberazione partigiana.
Il frequente ricorso da parte del legislatore a clausole interpretative quali “delitto per motivi fascisti”, “atto rilevante”, “dolo”, “faziosità” consentì ai medesimi, infatti, di procedere ad interpretazioni giurisprudenziali salvifiche delle condotte poste in essere dai dirigenti e dagli impiegati della struttura amministrativa dello Stato e delle sue articolazioni, assicurando ai medesimi una generalizzata e pressoché totale impunità ogniqualvolta non fosse incontrovertibilmente dimostrato - sulla base delle risultanze istruttorie contro di essi prodotte - il ricorso ad atteggiamenti settari o faziosi (requisito esso stesso, come è evidente, suscettibile di ampia interpretazione) nell'esercizio delle funzioni per le quali erano preposti.
[NOTE]
4 L'occupazione dell'Italia da parte delle truppe naziste nel periodo compreso tra l'8 settembre 1943 ed il 2 maggio 1945 (data della resa tedesca in Italia), provocò più di diecimila vittime tra la popolazione civile. Tra l'8 settembre 1943 e l'aprile del 1945 in tutto il centro-nord si registrarono oltre 400 stragi, tra le quali gli eccidi delle Fosse Ardeatine (335 vittime) e di Marzabotto (770 vittime) furono solamente gli episodi più conosciuti. L'area dell'Appennino tosco-emiliano, data la sua posizione strategica lungo la linea Gotica, conobbe, il maggior numero di violenze: tra l'aprile e l'agosto del 1944 le stragi furono 280 e 83 i comuni interessati (tra cui Sant'Anna di Stazzema, Bardine S. Terenzo, Fivizzano, Fosdinovo, Padule di Fucecchio). Le stime più attendibili sono al momento quelle avanzate da Gerhard Schreiber secondo il quale i militari italiani giustiziati nel settembre-ottobre 1943 furono 6.800 tra Balcani, Grecia ed Egeo; 22.720 furono, invece, i partigiani “uccisi nel disprezzo delle disposizioni internazionali” e 9.180 civili i sterminati. Autori di tali esecuzioni collettive non furono soltanto i nazisti delle SS, ma anche i soldati della Wermacht e della Luftwaffe - l'aviazione militare tedesca - nonché le milizie regolari e irregolari del partito fascista inquadrate sotto le insegne della Repubblica sociale italiana. Alla base di tali stragi vi furono sicuramente: il pregiudizio nei confronti degli italiani per reazione psicologica al “tradimento” dell'8 settembre; la decisione del comando supremo della Wermacht e del feldmaresciallo Kesserling (Capo supremo delle forze armate tedesche in Italia) di difendere ad ogni costo il territorio italiano in un momento in cui la guerra all'Est era ormai perduta, il timore di un'attività partigiana che si faceva sempre più efficace e che intimoriva i giovani ed inesperti soldati provenienti direttamente dalla Hitlerjugend; la volontà di ricorrere a dimostrazioni di forza e di superiorità, legittimata con la serie di misure repressive adottate dalle autorità di occupazione.
5 L'esempio più emblematico è senza dubbio l'eccidio di Cefalonia, ma episodi analoghi ebbero a realizzarsi anche nelle altre isole greche: Lero, Coo, Rodi. Con la resa del Governo Badoglio agli anglo-americani, i soldati italiani della 33ª Divisione fanteria "Acqui" si trovarono ad assumere il ruolo di “traditori” agli occhi del co-occupante tedesco. Di fronte alla sua richiesta di disarmo, e senza più conoscere ordini dallo Stato maggiore, le truppe di stanza si trovarono a dover affrontare l'ex alleato, intenzionato a ridurli in prigionia e trasferirli in Germania. La guarnigione comandata dal generale Gandin si oppose ed aprì le ostilità contro quello che ora era diventato il nemico della fazione alleata. Ebbe inizio una sanguinosa battaglia (13-22 settembre) alla quale, in spregio a qualsiasi norma di diritto internazionale militare, l'esercito tedesco vincitore fece seguire il massacro di 4750 soldati e 341 ufficiali. Migliaia di militari furono, invece deportati su navi poi fatte saltare nell'Adriatico.
6 Tra le violenze alleate, emerse nel corso degli ultimi decenni, l'episodio certamente più emblematico è quello delle c.d. “marocchinate”, documentato in letteratura già nel 1957 dall'opera “La ciociara” di Alberto Moravia (e a cui fece seguito il più noto adattamento cinematografico di De Sica). Con tale espressione ci si riferisce all'insieme di stupri e sevizie realizzate nel basso Lazio - all'indomani della battaglia di Montecassino - dalle truppe coloniali franco-marocchine comandate dal generale Juin (c.d. Goumiers). Le vittime furono circa diecimila tra donne, uomini, bambini, anziani e religiosi. All'origine di tali violenze, delle quali era a conoscenza lo stesso generale de Gaulle, vi era un forte sentimento di rancore da parte dei francesi nei confronti degli italiani, considerati colpevoli del “coup de pugnace dans le dos” del giugno 1940. Casi di violenza analoghi si registrano anche in Sicilia, in Toscana ed in altre zone del Meridione.
7 Per un'analisi approfondita della trasformazione dello Stato italiano in senso autoritario successivamente all'affermazione del movimento fascista si rinvia all'ormai classico A. ACQUARONE, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965.
8 Per maggiori approfondimenti sul tema della transizione italiana si rinvia a U. DE SIERVO, La transizione costituzionale (1943-1946), in Diritto Pubblico, 1996; V. ONIDA, (a cura di), L'ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all'avvento della Costituzione repubblicana, 1991; A. SACCOMANNO, La transizione italiana: le costituzioni provvisorie, in L. GARLATI, T. VETTOR (a cura di), Il diritto di fronte all'infamia del diritto, cit., 397-414.
Per un quadro sulla riaffermazione dei diritti civili e politici nella neonata democrazia italiana si cfr. P. CARETTI, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, 2005
9 Come giustamente sottolinea Falconieri, la reintegrazione dei cittadini di fede ebraica nel pieno possesso dei diritti si iscrive «a pieno titolo nel percorso di rielaborazione e edificazione di una memoria condivisa che avrebbe dovuto
coinvolgere tanto le élites politiche e intellettuali quanto la popolazione italiana del dopoguerra». Cfr. S. FALCONIERI, Riparare e ricordare la legislazione antiebraica. La reviviscenza dell'istituto della discriminazione (1944-1950) in G. RESTA, V. ZENO-ZENCOVICH, Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, cit., p. 141.
10 Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo venne nominato il liberale Carlo Sforza. Ad esso si affiancarono il comunista Mauro Scoccimarro (epurazione nella Pubblica Amministrazione), il liberal-democratico Stangone (sequestro delle proprietà fasciste), il democristiano Cingolani (illeciti profitti del regime) e Mario Berlinguer del Partito Demo-laburista (persecuzione dei crimini fascisti). Le quattro commissioni per l'epurazione furono istituite,
invece, con d.lg.lgt. 198/1944 e 238/44. Per l'intera ricostruzione del processo di epurazione in Italia si rinvia ai dettagliati e completi: A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 2012, pp. 72-92; P. BARILE., U. DE SIERVO, Sanzioni contro il fascismo e il neofascismo, in Novissimo digesto italiano, Torino, 1969, pp. 541-564 e in sede storiografica a H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), Bologna, 1997, C. PAVONE, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in AA. VV., Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Torino, 1974 e M. FLORES, L'epurazione, in L'Italia dalla liberazione alla Repubblica. Atti del Convegno internazionale organizzato a Firenze il 26-28 marzo 1976 con il concorso della Regione Toscana, Milano, 1977, pp. 413-467, infine M. SALVATI, Amnistia e amnesia nell'Italia del 1946, in M. FLORES, Storia, verità, giustizia. I crimini del XX secolo, Milano, 2001, pp. 141-161.
11 L'art. 8 del d.lg.lgt. 159/1944 prevedeva all'ultimo comma la decadenza dalla loro carica vitalizia per i senatori che «con i loro voti o atti contribuirono al mantenimento del regime fascista ed a rendere possibile la guerra». Furono deferiti all'Alta Corte di giustizia 394 senatori su 408, di questi 275 furono dichiarati decaduti dalla carica. I senatori sanzionati appellandosi alla Corte di Cassazione (che riconobbe l'assoluto difetto di giurisdizione dell'Alta Corte) riuscirono ad ottenere l'annullamento dei provvedimenti irrogati. Alla fine del processo di epurazione, solo 51 furono dichiarati decaduti. Su questi punti si rinvia ancora a A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., 82.
12 Il giudizio sull'epurazione in Italia da parte della storiografia tradizionale è stato nel complesso negativo. Secondo la terminologia più corrente esso è stato definito una «farsa legale», un processo al termine del quale le élite fasciste mantennero le funzioni pubbliche tradizionali. Tale valutazione, seppur in sostanza non inveritiera, è stata però rivisitata e sfumata negli ultimi anni da magistrati come Canosa e storici come Woller, Minetti e Argenio. A parere di questi ultimi, infatti, gli sforzi per realizzare un'effettiva epurazione vi furono ed anche considerevoli. Ad una prima intensa attività delle commissioni seguì, però, un esito deludente causato dall'adozione dell'amnistia e da un'opera di interpretazione salvifica degli ex fascisti da parte della magistratura. Per un'interpretazione tradizionale del processo di epurazione si rinvia a Z. ALGARDI, Processi ai fascisti, Firenze, 1973, per le più recenti interpretazioni si veda ancora H. WOLLER, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia (1943-1946), cit.
13 La magistratura, come qualsiasi altro potere dello Stato aveva subito nel corso del ventennio una significativa opera di fascistizzazione, che si era compiuta per gradi attraverso il progressivo allontanamento degli elementi togati non allineati al regime. Nel 1925 i giudici ostili alla dittatura furono dispensati dal servizio e l'Associazione generale magistrati sciolta di diritto. I vecchi togati furono rimpiazzati con elementi più favorevoli alla dittatura, mentre i più giovani furono crebbero in un clima che finì per plasmarli completamente alle direttive del duce. Il fascismo creò anche una singolare commistione tra apparato politico-amministrativo dello Stato e funzione giudicante: il Procuratore del Re divenne, infatti, membro delle commissioni per la disposizione del confino politico ai cittadini accusati di antifascismo. Come ha sottolineato Franzinelli, infine, «molti magistrati andarono molto in discesa sul versante dell'autorità, in parte per fanatismo o per senilismo, ma soprattutto per la troppo facile convinzione che la legalità corrispondesse all'autorità: chi aveva a cuore la legalità doveva favorire l'autorità, senza star troppo a sottilizzare la qualità e la legittimazione sostanziale di chi rappresentava l'autorità». La completa fascistizzazione della magistratura trovò conferma in ogni caso nella legge sull'ordinamento giudiziario deliberata nel 1941, con cui si riservò l'accesso ai ruoli requirenti e giudicanti ai cittadini di «razza italiana», di sesso maschile, iscritti al Partito nazionale fascista.
Mirko Della Malva, Diritto e memoria storica nell'esperienza giuridica comparata: il difficile bilanciamento tra tutela della dignità delle vittime, libertà di manifestazione del pensiero, protezione della democrazia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2013-2014

sabato 30 settembre 2023

Trentin viene visto da tutti come un capo naturale e un punto di riferimento stimolante soprattutto per i giovani

6 settembre 1943: Silvio Trentin accolto trionfalmente a San Donà di Piave. E' in seconda fila e al centro. (Centro studi e ricerca Silvio Trentin, Jesolo - N. della busta/raccoglitore:1 - N. della serie: 46 - Segnature: 10.1.161; 10.1.162; R.G.E. 1247; R.G.E. 1248. Fonte: Graziano Bertola, Op. cit. infra

Dopo la caduta di Mussolini Silvio Trentin decide di rientrare in Italia ed arriva nel Veneto nei primissimi giorni del settembre 1943 con la moglie Beppa e i due figli maschi, mentre la figlia Franca resta in Francia. Il 4 settembre arrivano a Mestre per abbracciare il grande amico Camillo Matter, il giorno dopo sono a Treviso dove Trentin è intervistato dal Gazzettino <94, il giorno 6 a San Donà di Piave dove Silvio è accolto trionfalmente, ma nella seconda visita al paese natale, dopo l'8 settembre, nessuno gli apre più le porte. Da qui in poi scatta per lui la clandestinità, userà nomi diversi, si sposterà spesso e cambierà più volte domicilio: ne consegue, purtroppo, che risulta non facile ricostruire questo periodo perché le fonti biografiche sono, come in quello francese, pochissime.
Anche se la documentazione storica è molto scarsa, quel che è certo è che Trentin viene visto da tutti come un capo naturale e un punto di riferimento stimolante soprattutto per i giovani <95. In questi primissimi giorni in Italia, aderisce al Partito d'Azione e verso il 10 di settembre si ritrova, parole sue, “già praticamente investito della direzione del partito di tutto il Veneto”. <96
A Padova con Concetto Marchesi ed Egidio Meneghetti, rispettivamente rettore e professore dell'università patavina, partecipa alle sedute del Comitato di liberazione nazionale per la regione veneta (CLNRV), ha contatti con alti ufficiali militari dell'esercito per convincerli a distribuire le armi alla popolazione <97, poi è, per un mese circa, ospite a Mira della famiglia di Guglielmo Fortuni <98. Seguono parecchi incontri nel trevigiano per unificare il comando militare dei resistenti e, fra i problemi emersi, c'è anche quello di stabilire se esso, così unificato, può o meno agire indipendentemente dal comando politico, ed alla fine vince la posizione di Meneghetti e Trentin che, per evitare pericolose e anomale guerriglie "private" con altre formazioni combattenti, vogliono un comando militare solo parzialmente “autonomo” <99. Il comandante scelto è un ufficiale della marina militare italiana, di famiglia polacca e nato in Italia, Jerszy Saskulcisky ("col. Sassi") [in effetti si trattava di Jerzi Sas Kulczycki]. Nelle prime settimane in Italia, Trentin rifiutò la richiesta di Lussu di recarsi a Roma a far parte della direzione centrale del CLN <100, sentiva che doveva combattere nel Veneto dove il suo ruolo era insostituibile, tutti avevano infatti bisogno del suo prezioso consiglio e, secondo lo storico della Resistenza nel Veneto, Teodolfo Tessari, l'impulso che lui dava al movimento partigiano era decisivo.
Il comando politico del CLNRV - che aveva la sua sede centrale fino al dicembre 1943 a Padova, e poi a Venezia - era composto da Alessandro Candido per il Partito socialista, da Trentin e Meneghetti <101 per il Partito d'azione, Saggin per il Partito democratico cristiano e Marchesi per il PCI <102.
L'organo ufficiale del Pd'A di Padova, ad uscita piuttosto irregolare, porta un nome storico, "Giustizia e Libertà", ed il 1° novembre 1943 esce con lo scritto di Trentin "Appello ai Veneti guardia avanzata della nazione italiana", un saggio che punta il dito contro il fascismo, la borghesia e la monarchia che sostengono Badoglio ed è, nello stesso tempo, un accorato invito all'azione rivoluzionaria: "Ora, non vi è oggi altro luogo dove possono essere chiamati a raccolta tutti coloro che rivendicano la loro propria appartenenza ad esso (il popolo italiano) che là dove ci si batte o ci si prepara a batterci, con tutte le armi, senza più esclusione di colpi, contro l'invasore straniero ed i bastardi indigeni che, in veste di indicatori, di carcerieri, di sicari, lavorano al suo servizio. La consegna è oggi di darsi alla macchia, di raggrupparsi, di ricominciare insieme nella fraternità di una libera federazione di pionieri della nuova Italia, di armarsi, di battersi e, se occorra di morire". <103
Ai primi di novembre, sotto il falso nome di prof. Ferrari si trasferisce da Mira a Padova in casa di amici, i coniugi Monici, in via del Santo (all'odierno numero civico 123), dove il 19 novembre viene arrestato con il figlio Bruno <104, interrogati per due giorni e poi detenuti alla prigione dei Paolotti. Non avendo trovato nulla a loro carico, agli inizi di dicembre vengono rilasciati, anche forse per i problemi cardiaci di Silvio, che il 6 dicembre viene ricoverato all'ospedale "Elena di Savoia" di Treviso fino all'11 febbraio 1944 quando, a causa dei bombardamenti aerei sulla città, è trasferito in una clinica a Monastier, un comune della stessa provincia <105.
Trentin ha da poco tempo finito di stendere un abbozzo di Costituzione per l'Italia del dopoguerra, modellata su quella francese da lui stesa l'anno precedente <106. Nell'ultimo scritto "Ai lavoratori delle Venezie" - un appello in cui si ribadisce che la rivoluzione socialista e federalista sarà su scala planetaria <107 - li arringa parlando loro a nome del Partito d'azione, alla vigilia della Liberazione, affinché prendano il loro posto di combattimento nella battaglia decisiva.
Dice Trentin: "A quest'effetto il Partito d'azione pone in testa alle sue rivendicazioni rivoluzionarie lo smantellamento dello stato autoritario e monocentrico e la restituzione alla vita sociale di tutte le sue fonti pluralistiche, mediante l'attribuzione alla compagine della nazione di una assise integralmente federalistica". <108
Ma, in questo scritto, forse, il passo ideologicamente più importante sta dove Trentin afferma che con il Partito comunista c'è la stessa solidarietà e la stessa comunanza di temi e vedute che esso aveva con Giustizia e Libertà in Francia, ma, nel contempo, sottolinea anche molto fermamente le distanze ideologiche, facendone addirittura l'elenco. Nel frattempo porta avanti le relazioni iniziate in Francia con De Gaulle per raggiungere un accordo di collaborazione nella Resistenza fra Francia e Italia. <109
L'11 marzo 1944 Camillo Matter, tornato il giorno prima da Roma dov'era stato a chiedere fondi per la resistenza veneta, va a trovarlo in clinica e durante la conversazione Trentin ha una grave crisi cardiaca. Silvio morì il giorno dopo, con al capezzale la moglie Beppa e il figlio Giorgio <110. Prima di morire rifiutò i conforti religiosi. Fu sepolto due giorni dopo a San Donà di Piave, di sera, con un corteo funebre composto dalla moglie Beppa, i figli Giorgio e Bruno e l'amico Camillo Matter. Non c'era nessun altro. La polizia fascista, in un'atmosfera di sospetto, sorvegliava e, come da ordini ricevuti, non fece passare il carretto con la bara per il centro di San Donà. <111
[NOTE]
94 IL GAZZETTINO, Visita all'on. Trentin tornato in Italia dopo vent'anni, Venezia, 7 settembre 1943, p.2.
95 TRENTIN, Antifascismo e rivoluzione, p. XXXI.
96 DE LUNA G., L'esperienza di Silvio Trentin nel Partito d'azione, in AA.VV., Silvio Trentin e la Francia, p. 38.
97 Ivi, p. 41.
98 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p. 12.
99 TESSARI T., Sulle origini della resistenza militare nel Veneto. Settembre 1943-aprile 1944, Neri Pozza, Venezia, 1959, p. 17.
100 TESSARI T., Sulle origini della resistenza militare nel Veneto. Settembre 1943-aprile 1944, Neri Pozza, Venezia, 1959, p. 17.
101 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p. 13.
102 ROSENGARTEN, Silvio Trentin dall'interventismo alla resistenza, pp. 204-206.
103 TRENTIN, Appello ai veneti, guardia avanzata della nazione italiana, a cura di Paladini G., Antifascismo e rivoluzione, pp. 532-533.
104 FELTRIN FRANCESCO, Nuovi documenti su Silvio Trentin, CLEUP, Padova, 2000, pp. 7-84. L'autore espone i particolari dell'arresto e di tutto il periodo di detenzione dal 19 novembre al 2 dicembre 1943, sulla base di documenti rinvenuti presso l'Archivio di Stato di Padova.
105 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p. 14.
106 Centro studi Trentin, Jesolo, Abbozzo di un piano tendente a delineare la figura costituzionale dell'Italia, Busta 1C, Fasc.3.
107 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p. 37.
108 TRENTIN, Ai lavoratori delle Venezie, a cura di Paladini G., Antifascismo e rivoluzione, pp. 535-538.
109 VERRI, I Trentin a Mira nella Resistenza, p.40.
110 Ivi, pp. 134-136.
111 ROSENGARTEN, Silvio Trentin dall'interventismo alla resistenza, pp. 211-213.
Graziano Bertola, Silvio Trentin ed i Patti Lateranensi, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2013-2014
 
Quando Silvio Trentin <1 rientrò in Italia agli inizi di settembre del 1943 il Partito d’Azione veneto aveva quasi un anno di vita <2, essendo stato costituito nell’ottobre dell’anno precedente a Treviso nello studio dell’avvocato Leopoldo Ramanzini <3, con la presenza dei maggiori esponenti veneti (ad eccezione di Egidio Meneghetti) <4, e aveva tenuto una seconda riunione collegiale il 23 agosto, sempre del 1943, a Venezia in casa di Ranieri Da Mosto <5, con la partecipazione di rappresentanti di tutte le province venete <6. Fu costituita in quell’occasione la prima direzione regionale del partito: ne era segretario il veneziano Agostino Zanon Dal Bo <7, affiancato dall’udinese Fermo Solari <8, dal vicentino Mario Dal Pra <9, , dal padovano Giuseppe Zwirner <10, dai veneziani Luigi Martignoni <11 e Armando Gavagnin <12, dal trevigiano Bruno Visentini <13. Sul rientro di Trentin molto è stato scritto e non ritengo il caso di ritornarci <14. Quello che voglio evidenziare non è tanto il ruolo di Trentin, quanto il rapporto tra il Partito d’Azione veneto e il suo capo carismatico, rapporto durato solamente pochi mesi per la prematura morte del sandonatese. La prima riunione di azionisti veneti con la presenza di Silvio Trentin si tenne a Padova agli inizi di ottobre 1943 nell’istituto di filosofia del diritto, dove insegnava Norberto Bobbio <15. Fu affidata la segreteria regionale a Leopoldo Ramanzini <16. La parte più rilevante dell’incontro fu costituita però dall’intervento di Trentin, che espose alcune sue idee, che il resoconto di Agostino Zanon Dal Bo non esplicita (egli si limita ad annotare: «Trentin pose la proposta di dare un carattere “rivoluzionario” (era la sua espressione), al programma e all’azione del partito» <17), ma che si può supporre fossero quelle maturate nel soggiorno francese e che si possono ritrovare, tra l’altro, nei suoi interventi sul giornale «Libérer et Fédérer» <18, ma anche nei testi manoscritti da lui portati dalla Francia: "Stato Nazione Federalismo" e "Libérer et fédérer", che furono letti dagli azionisti veneti e suscitarono ampie discussioni. Ricorda Mario Dal Pra che «A Padova […] il suo manoscritto [di "Stato Nazione Federalismo"] fu oggetto di vivaci discussioni fra i compagni di fede; destò molto interesse e si pensò di stamparlo. Trentin allora lo affidò a me» <19.
Trentin, rendendosi probabilmente conto dell’impatto creato dalle sue idee, non propose, nel corso della riunione, come scrive Zanon Dal Bo, una discussione immediata su di esse, ma la nomina di un gruppo di studio, formato da Bobbio, Dal Pra e Zanon Dal Bo, per approfondirle. Purtroppo, come racconta il veneziano, esso non riuscì a lavorare, perché Mario Dal Pra fu costretto poco tempo dopo a lasciare precipitosamente Vicenza e il Veneto, per sfuggire all’arresto, rifugiandosi a Milano <20, e Zanon Dal Bo dovette allontanarsi da Venezia, riparando a Vittorio Veneto, sua città natale; non va dimenticato poi che Trentin fu arrestato il 19 novembre e Bobbio il 6 dicembre.
[NOTE]
1 Su Silvio Trentin (1885-1944) la biografia più completa è F. Rosengarten, Silvio Trentin dall’interventismo alla Resistenza, Feltrinelli, Milano 1980. La bibliografia su Trentin è troppo ampia per presumere di offrirne una sintesi. Mi limito a P. Arrighi, Silvio Trentin. Un Européen en Résistence (1919-1943), Loubatières, Porter-sur-Garonne 2007; M. Guerrato, Silvio Trentin, un democratico all’opposizione, Vangelista, Milano 1981; G. Paladini, Silvio Trentin dalla democrazia radicale al socialismo federalista (1924-1944), «Archivio veneto», CXVI, 1981, pp. 59-83; Id., “Figlio del Veneto”. Colloqui parigini su Trentin fra esilio e Resistenza, «Venetica», 3, 1985, pp. 77-92; V. Ronchi, Silvio Trentin, ricordi e pensieri 1911-1926, Canova, Treviso 1975; C. Verri, Guerra e libertà. Silvio Trentin e l’antifascismo italiano (1936-1939), XL edizioni, Roma 2011, oltre agli interventi di Norberto Bobbio: Ricordo di Silvo Trentin. Commemorazione nel decennale della liberazione, Artigrafiche Sorteni, Venezia 1955, poi come Silvio Trentin, «Il Ponte», X, 1954, pp. 702-713, poi in Italia civile. Ritratti e testimonianze, Passigli, Firenze 1986, pp. 249-266; Commemorazione di Silvio Trentin, in Atti del Convegno di studi su Silvio Trentin (Jesolo, 20 aprile 1975), Neri Pozza, Vicenza 1976, pp. 109-123. Per l’elenco dei suoi scritti rimando a S. Trentin, Scritti inediti. Testimonianze e studi, Guanda, Parma 1972, pp. 321-333.
2 Sul Partito d’azione veneto rimando a G.A. Cisotto, “Solo uomini di buona volontà”. Il Partito d’azione veneto (1942-1947), Viella, Roma 2014.
3 Leopoldo Ramanzini (1903-1987), avvocato trevigiano, nel 1945 fu nominato dal CLN prefetto di Treviso. Su di lui si vedano R. Binotto, Personaggi illustri della Marca Trevigiana. Dizionario bio-bibliografico dalle origini al 1996, Cassamarca, Treviso 1996, p. 468, e l’affettuoso ricordo di E. Opocher, Ramanzini, una vita per la libertà, «Lettera ai compagni,» XIX (7-10), 1987, p. 12.
4 Erano presenti Antonio Giuriolo da Vicenza, Luigi Martignoni e Agostino Zanon Dal Bo da Venezia, Flavio Dalle Mule da Belluno, Fermo Solari e Luigi Cosattini da Udine, Norberto Bobbio e Walter Dolcini da Padova, Leopoldo Ramanzini, Bruno Visentini, Enrico Opocher, Elio Gallina, Romolo Pellizzari da Treviso (Cisotto, “Solo uomini di buona volontà”, cit., pp. 16-18, al quale rimando anche per i riferimenti biobibliografici sui singoli esponenti). Il nazionale era rappresentato da Ugo La Malfa da Milano e da Sergio Fenoaltea da Roma (G. De Luna, Storia del Partito d’Azione 1942-1947, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 34). Si vedano pure L. Ramanzini, I partiti politici nel Trevigiano durante il 1943, in Archivio dell’Istituto veneto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea (d’ora in avanti: Aivsrec), b. 13. Relazioni al Convegno di studi sulle origini della Resistenza nel Veneto. Padova, maggio 1955; poi in R. Biondo, M. Borghi (a cura di), Giustizia e Libertà e Partito d’Azione. A Venezia e dintorni, Edizioni Nuova Dimensione, FIAP, Iveser, Portogruaro 2005, pp. 174-175; B. Visentini, Ugo La Malfa. Commemorazione tenuta a Treviso il 21 maggio 1979, s.n., Milano 1980, pp. 5-6; A. Zanon Dal Bo, Il Partito d’azione a Venezia dalle origini all’inizio della resistenza armata, in Il Partito d’Azione dalle origini all’inizio della Resistenza armata, Archivio trimestrale, Roma 1985, p. 741.
5 Ranieri Da Mosto, nato a Venezia nel 1924, è stato giornalista e responsabile della redazione veneziana della RAI (1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di G. Turcato, A. Zanon Dal Bo, Comune di Venezia, Venezia 1976, p. 551).
6 Parteciparono alla riunione: per Padova Ugo Morin, Giuseppe Zwirner Francesco Cingano, Egidio Meneghetti; per Treviso Bruno Visentini, Enrico Opocher, Leopoldo Ramanzini; per Udine Fermo Solari, Carlo Comessatti, Luciano Comessatti, Alberto Cosattini; per Vicenza Antonio Giuriolo, Mario Dal Pra, Licisco Magagnato; per Belluno Flavio Dalle Mule, Giuseppe Gerardis; per Rovigo Lino Rizzieri, Mario Degan; per Verona Giovanni Dean, Giovanni Zorzi. Venezia era «naturalmente molto rappresentata», ma Zanon Dal Bo non indica i nomi, salvo il suo e quello di Ranieri Da Mosto. Scrive sempre Zanon Dal Bo: «La riunione si concluse dando al sottoscritto l’incarico di Segretario regionale affiancato da alcuni compagni (un incarico che non sarebbe durato molto perché l’8 settembre rese problematica la mia stessa permanenza a Venezia)» (Zanon Dal Bo, Il Partito d’azione a Venezia, cit., pp. 744-745). Si veda Cisotto, “Solo uomini di buona volontà”, cit., pp. 22-23, con bio-bibliografia dei partecipanti.
7 Agostino Zanon Dal Bo (1902-1993), nato a Vittorio Veneto, fu insegnante di lettere a Venezia dal 1934 nel liceo Foscarini. Si vedano 1943-1945. Venezia nella Resistenza, cit., pp. 559-560; Zanon Dal Bo Agostino, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, VI, La Pietra Milano, 1989, p. 447; M. Isnenghi, Allievi e maestri, in Memoria resistente. La lotta partigiana a Venezia e provincia nel ricordo dei protagonisti, a cura di G. Albanese, M. Borghi, Nuova dimensione, Iveser, Portogruaro 2005, pp. 109-121.
8 Fermo Solari (1900-1988), nato a Prato Carnico (Udine), imprenditore, fu esponente di primo piano del Partito d’azione e della Resistenza. Successivamente aderì al Partito socialista, per il quale fu eletto in Parlamento. Su di lui rimando a N. Del Bianco, Fermo Solari, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991; Fermo Solari, dirigente della resistenza, uomo politico, industriale friulano, a cura di M. Tosoni, In uaite, Udine 1988; C. Rinaldi, I deputati del Friuli-Venezia Giulia a Montecitorio dal 1919 alla Costituente, Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, Trieste 1983, pp. 649-654; M. Lizzero, Fermo Solari “Somma”, «Storia contemporanea in Friuli», XVIII (19), 1988, pp. 265-270; T. Sguazzero, Le ragioni della sinistra nella prospettiva politica di Fermo Solari. Dalla Liberazione alla crisi politica degli anni Settanta, Storia contemporanea in Friuli», XXV (26), 1995, pp. 27-62; M Robiony, Solari Fermo, in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani, 3. L’età contemporanea, a cura di C. Scalon, C. Griggio, G. Bergamini, Forum, Udine 2011, cit., pp. 2187-2190; M. Puppini, Solari, Fermo, in Dizionario della Resistenza, II. Luoghi, formazioni, protagonisti, a cura di E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Einaudi, Torino 2000, pp. 645-646. Di lui ricordo in particolare L’armonia discutibile della Resistenza. Confronto tra generazioni a Udine, estate autunno 1978, La Pietra, Milano 1979.
9 Mario Dal Pra (1914-1992), vicentino, fu filosofo e storico della filosofia. Insegnò al liceo classico di Vicenza, dove ebbe come allievi Luigi Meneghello, Mario Mirri, Enrico Melen e altri giovani poi divenuti azionisti. Fuggito a Milano alla fine del 1943 per sottrarsi all’arresto, divenne uno dei dirigenti del CLNAI. Dopo la guerra rimase a Milano, dove passò ad insegnare all’Università statale. Su di lui rimando a M. Dal Pra, F. Minazzi, Ragione e storia, Rusconi, Milano 1992; F. Minazzi, Mario Dal Pra filosofo e partigiano. Sulla genesi etico-culturale di una scelta civile antifascista, «Odeo olimpico», XXV (2002-2004), Vicenza 2008, pp. 233-349; D. Borso, Uno storico militante, in M. Dal Pra, La guerra partigiana in Italia. Settembre 1943-maggio 1944, a cura di D. Borso, Giunti, Firenze 2009, pp. 21-33.
10 Giuseppe Zwirner (1904-1979), professore di matematica all’università di Padova, fu vice sindaco nell’amministrazione patavina insediata dal CLN nel 1945.
11 Luigi Martignoni (1890-1965) come ufficiale del genio navale fece la guerra di Libia e la Prima guerra mondiale, dimettendosi nel 1920. Aderì al Pd’A nel 1942; fece parte del comitato interprovinciale di Venezia dopo il 25 luglio 1943; il 14 settembre il comando tedesco di Venezia ne ordinava l’arresto e fuggì a Roma sotto falso nome; lì «si dedicò allo studio dei problemi del dopoguerra ed alla organizzazione della resistenza locale». Il 27 dicembre 1943 fu arrestato e rinchiuso nel carcere di via Tasso, da dove riuscì a fuggire il 4 gennaio dell’anno successivo (si veda [Ing. Martignoni], Roma-Via Tasso 155. Storia di una evasione, in Aivsrec, b. 13); fu membro del Comando militare regionale veneto dall’agosto 1944 fino al 7 gennaio 1945, quando fu arrestato. Dopo la guerra fu in Consiglio comunale a Venezia nelle liste del PSI.
12 Armando Gavagnin (1905-1978) fu arrestato nel 1928 per attività antifascista. Nel dopoguerra fu direttore de «Il gazzettino», consigliere comunale dal 1946 e più volte assessore del comune di Venezia. Di lui ricordo Vent’anni di resistenza al fascismo, Ricordi e testimonianze, Einaudi, Torino 1957.
13 Bruno Visentini (1914-1995), di Treviso, avvocato e docente universitario, fu esponente politico prima azionista e poi 2005; Per Bruno Visentini, a cura di C. Toria, R. Zorzi, Venezia, Marsilio 2001; F. Cingano, Bruno Visentini, «Belfagor», 2, 1999, pp. 194-202; Il gran borghese in Parlamento. Ricordo di Bruno Visentini, Fondazione della Camera dei deputati, Roma 2004.
14 Sul rientro di Trentin Rosengarten, Silvio Trentin, cit., pp. 200-203; Zanon Dal Bo, Il Partito d’azione a Venezia, cit., pp. 745-746; ora anche C. Verri (a cura di), I Trentin a Mira nella Resistenza, ANPI, Sezione di Mirano (Venezia), Mirano 2013. Un giornalista de «Il gazzettino» di Venezia si affrettava ad incontrarlo a Treviso: Visita all’on. Trentin tornato in Italia dopo vent’anni, «Il gazzettino», 7 settembre 1943.
15 Norberto Bobbio (1909-2004) era arrivato a Padova come docente di filosofia del diritto alla fine del 1940. Sul periodo padovano del filosofo torinese rimando a Norberto Bobbio. Gli anni padovani, a cura di B. Pastore, G. Zaccaria, Padova University Press, Padova 2010 e in particolare D. Fiorot, Il mio ricordo di Norberto Bobbio negli anni 1943-46, pp. 39-52 e A. Ventura, Bobbio nella Resistenza nel Veneto, pp. 27-38; D. Fiorot, Norberto Bobbio e l’Università di Padova: 1940-48, «Foedus», 8, 2004, pp. 3-11.
16 Erano presenti Silvio Trentin, Agostino Zanon Dal Bo, Norberto Bobbio, Mario Dal Pra, Leopoldo Ramanzini, Enrico Opocher ed altri, di cui non è riportato il nome (Zanon Dal Bo, Il Partito d’azione a Venezia, cit., p. 747).
17 Ibidem.
18 Si vedano ad esempio Les 3 problèmes fondamentaux de la liberté dans le monde de demain, s.d. [1942]; L’Italie à la veille de l’effondrement du fascisme, febbraio-marzo 1943; Vive la révolution italienne!, agosto 1943 (Fac similé de Libérer & Fédérer. 14 Juillet 1942-Avril-Mai 1944, Centre d’Etudes et de Documentation sur l’Emigration Italienne, Paris 1985).
19 M. Dal Pra, Prefazione, in S. Trentin, Stato - Nazione - Federalismo, La Fiaccola, Milano 1945, p. VIII.
20 Nel novembre del 1943 però Dal Pra dovette fuggire da Vicenza perché ricercato dalla polizia e si trasferì a Milano (Dal Pra, Minazzi, Ragione e storia, cit., p. 122). A Milano, a fianco di Valiani e Lombardi, con il nome di “Procopio” fu responsabile della stampa del Pd’A fino al 25 aprile 1945.
Gianni A. Cisotto, Il Partito d'Azione Veneto e Silvio Trentin in (a cura di) Fulvio Cortese, Liberare e federare. L’eredità intellettuale di Silvio Trentin, Firenze University Press, 2016
 

martedì 26 settembre 2023

Da Novara ai campi di sterminio

Pietre d’inciampo in ricordo di Amadio Jona e Giacomo Diena posate a Novara nel 2022. Fonte: Anna Cardano, art. cit. infra

Una foto e una lettera
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona[1] sono noti da sempre a chi si è occupato delle persecuzioni antiebraiche sia in ambito novarese che vercellese. Insieme a Bertie Sara Kaatz[2], ebrea nata in Polonia e residente a Novara dal 1942, la cui storia è emersa più tardi e continua a essere poco conosciuta, sono i “sommersi” arrestati in città il 19 settembre 1943, spesso dati per assassinati nella stessa data. La loro sorte dopo quel giorno è ancora parzialmente ignota. Qui vorrei aggiungere qualche tassello a questa storia, nell’ambito di una più vasta ricerca in corso, avendo come riferimento soprattutto i fondi archivistici conservati all’Archivio di Stato di Novara, in particolare quelli della Prefettura (Divisione Gabinetto), quelli dell’Archivio storico del Comune di Novara, e in misura minore quelli relativi all’ospedale psichiatrico, e poi i registri del cimitero novarese, conservati negli uffici del cimitero stesso. Alcune notizie provengono dai fondi Egeli[3] e da quelli dell’Archivio di Stato di Torino e altre informazioni utilizzate si trovano in archivi privati[4] o provengono da testimonianze orali[5].
Nel 2014 stavo effettuando una ricerca all’Archivio di Stato di Novara sul comportamento delle amministrazioni pubbliche nell’applicazione della legislazione antiebraica, finalizzata anche a un possibile utilizzo didattico con i miei studenti, quando mi è arrivata una raccomandata postale da Alzano Lombardo contenente una fotografia in bianco e nero di Giacomo Diena, al quale si poteva dunque dare un volto, riportante in calce la dedica «Al mio unico amore», la firma Giacomino e la data del 2 agosto 1931. Sul retro era timbrato il nome di uno studio fotografico molto noto a Novara, quello dei fratelli Lavatelli, e una scritta successiva a matita «moroso zia Irene». La busta ricevuta conteneva anche un foglio ingiallito, scritto a matita in tre date diverse, l’11 ottobre 1943, il 20 ottobre 1943 e il 14 novembre 1943, e piegato tre volte fino a raggiungere la dimensione di un biglietto da visita. Riportava la firma di Giacomo Diena e un breve saluto dello zio materno Amadio Jona alle sorelle novaresi. È dunque evidente che né Diena né lo zio Jona erano morti lo stesso giorno dell’arresto. Diena segnalava come indirizzo del mittente «Carceri giudiziarie Torino». I due uomini erano quindi in carcere a Torino da quasi due mesi, dopo l’arresto del 19 settembre 1943, e dal 20 ottobre non erano più riusciti ad avere notizie dei loro familiari rimasti in città, Marianna Jona, madre di Diena, e sua zia materna Dolce, neppure tramite gli amici da cui speravano aiuto. Nel testo viene citata «la cara Irene», cioè Irene Cantoni (1897-1976), la donna novarese a cui la lettera era destinata e che l’avrebbe poi conservata per tutta la vita insieme alla foto. Dallo scambio di e-mail e telefonate con il nipote di Irene, Giuseppe Cantoni, oggi residente ad Alzano Lombardo ma di origini novaresi, ho appreso che la famiglia Cantoni voleva assicurarsi della futura conservazione a Novara di quei documenti.
Con le dovute cautele che occorrono quando si ha a che fare con memorie di bambini, ho saputo che suo nonno paterno Giuseppe, da cui aveva ereditato il nome, mediatore di risi e poi titolare di una trattoria in centro città, era appunto amico del Diena, che frequentava assiduamente la loro casa di corso della Vittoria, anche per far visita ad Irene. Diena è ricordato come un signore distinto, elegante e gioviale, con il distintivo degli invalidi della prima guerra mondiale portato sempre sulla giacca. La zia paterna del mio interlocutore, Irene, si era dedicata alla famiglia, al padre e agli altri fratelli, dopo aver perso la madre in giovane età, e lavorava in casa come ombrellaia. Uno dei suoi fratelli, Aldo, azionista, si era invece trasferito nel 1936 a Bergamo, con la famiglia, e lì avrebbe poi collaborato con la Resistenza come informatore. Il piccolo Giuseppe era cresciuto in una famiglia antifascista e ricorda che sia il nonno Giuseppe che il padre Aldo, tornando per questa ragione da Bergamo, dopo l’arresto del Diena avevano cercato sue notizie. Nel dopoguerra fu poi Irene, oltre ovviamente alla Comunità israelitica di Vercelli, a chiedere notizie di Giacomo e dello zio Amadio Jona al Comitato ricerche deportati ebrei, con sede a Roma, come risulta anche dalla documentazione conservata al Yad Vashem di Gerusalemme. Sarebbero dunque stati deportati in Germania, «presumibilmente», come riportano alcuni documenti degli anni cinquanta, ma senza alcuna indicazione certa sulla loro fine. Tornerò in seguito su questo punto.
In questi decenni la figura del Diena, considerato come uno di famiglia, è stata ricordata sia dal ramo della famiglia Cantoni rimasto a vivere a Novara, che in quello trasferitosi nel Bergamasco, nelle giornate del 2 novembre, del 25 aprile, e in seguito anche del 27 gennaio, Giorno della Memoria. Dopo la morte di Irene, la foto e la lettera erano state conservate da Giuseppe Cantoni.
La famiglia Diena-Jona e il suo radicamento a Novara
La ricerca di Liliana Picciotto sugli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah rileva che essi costituiscono l’81 per cento degli ebrei presenti allora sul territorio, senza sostanziali differenze tra ebrei italiani e stranieri[6]. Perché dunque Giacomo Diena non si salvò, nonostante fosse stato invitato a mettersi in salvo la sera del 18 settembre 1943? Diverse testimonianze, come quelle di Benvenuta Treves e di Ines Muggia, ebree novaresi che riuscirono a evitare l’arresto, riportate nella bibliografia già citata e in particolare in “Novara ebraica”, ci raccontano infatti dei messaggi che furono fatti pervenire agli ebrei novaresi grazie alla moglie del ragionier Celso Muggia, a sua volta av­visata da un ristoratore novarese che aveva raccolto l’informazione del previsto rastrellamento da un fun­zionario della Questura. Celso Muggia si era già allontanato da qualche giorno da Novara, era amico del Diena e certo il messaggio era attendibile. Riferisce la figlia Ines Muggia: «La cosa che ancor oggi mi rattrista è pensare che il povero ragionier Diena non cercò nemmeno di mettersi in salvo, convinto che il suo servizio alla Patria lo avrebbe in qualche modo tutelato»[7].
Sul suo passato militare il Diena contava dunque parecchio, tanto che aveva sperato di ottenere la discriminazione prevista per gli ebrei con meriti speciali, anche se questa non era mai arrivata. Probabilmente a influire sulla scelta fu anche la sua condizione familiare: mamma e zia anziane e malandate, così come lo zio Amadio Jona che, seppure residente a Torino[8], era spesso in casa con loro. Lui stesso inoltre era claudicante: uno spostamento del nucleo familiare non era affatto semplice e d’altra parte si sentiva integrato nella città in cui abitava da decenni. Il tono della lettera inviata a Irene Cantoni dalle carceri giudiziarie di Torino ci mostra così tutta la sua disperazione [...]:
Scrivete veloci notizie per carità
E pregate per noi e ricordateci
Torino 11/10/43 XXI
Carissime mamma e zia
Nell’inviarVi il Buono per la legna da ardere che presto ne avrete bisogno, mi raccomando di non lasciarlo scadere bisogna andare tutti i primi giorni del mese a pagarle e pregare che la portino a casa. Hai pagato l’affitto di casa? Nella mia del 1o corr vi domandavo se avete già ricevuto il carbone, vi domandavo notizie della vostra salute, e vi pregavo dei saluti della casa, ma fin’ora non ho ricevuto vostre care notizie. Scrivetemi presto.
La cara Irene credo che verrà da voi, pregatela a nome mio di aiutarvi e di scrivermi. /omissis/
Irene hai fatto quanto ti pregavo nella mia del 1o corr? Spero di sì e ti ringrazio il papà come sta? /…/ Scrivimi e ricordami bacioni tuo Giacomo”, /…/.
Carissime tutte
Tralascio perché sono disperato, non mi raccapezzo più, solo vi prego di avervi cura di farvi forza e di pregare per noi qui che il Buon Dio ci faccia ritornare tra di voi al più presto possibile. /…/.
Più avanti troviamo anche un la­conico saluto dello zio Amadio, allora set­tan­tanovenne, in data 14 novembre 1943:
Care Sorelle,
Oltremodo addolorato vi mando mie buone notizie e cari saluti a tutti e baci
aff. Amadio.
Per provare a capire lo sconcerto dei due uomini, occorre risalire a decenni prima e intravvedere le speranze di una famiglia con radici nell’Astigiano (gli Jona) e nel Torinese (i Diena), che a fine Ottocento decide di trasferirsi a Novara[9].
Il primo a giungere in città il 1 marzo 1891, dopo il trasferimento da Fossano, è Amadio Jona (registrato spesso come Amedeo), nato ad Asti il 4 dicembre 1864, che si stabilisce in via dell’Archivio, alla Casa Barabino dove viveva il negoziante Neemia Jona, con la moglie, la figlia, la madre (vedova del precedente capofamiglia Abramo Jona) e una cameriera. Il gruppo, arrivato da Milano, si sposterà poi a Mantova, conferma questa della frequente mobilità e intraprendenza di queste famiglie. Ritengo opportuno addentrarmi in questi particolari per segnalare che, come ben documentato in “Novara ebraica”, la presenza di ebrei a Novara non era residuale, anche se ostacolata per varie ragioni da diffidenze delle istituzioni e della cittadinanza.
Nel foglio di famiglia appena descritto il giovane Amadio è indicato come orefice e «congiunto» degli altri Jona. Amadio sceglie di fermarsi a Novara, la sua bottega da orefice è in pieno centro, in via Omar 2, dove nelle guide commerciali della città risulta un’attività di lucidatore di argenti e preziosi; probabilmente convince sorelle, cognato e nipoti a raggiungerlo a Novara nel 1899.
[...] Tra il 1939 e il 1943 non risultano altri documenti che spieghino la ragione della mancata conclusione del provvedimento di “discriminazione” a favore del Diena e nessuna annotazione relativa a iter in corso (presente invece per altri nominativi) risulta su tutti gli elenchi di ebrei visionati. E così, pensando ingenuamente di essere in salvo, quella domenica 19 settembre 1943, il cinquantaseienne Giacomo Diena di­venta una facile preda e viene arrestato dalle forze di occupazione tedesca da pochi giorni presenti a Novara, sulla base degli elenchi di ebrei residenti in città forniti dalla Questura. Prelevato dall’abitazione di piazza Sant’Agata con lo zio Amadio, che aveva allora quasi settantanove anni, e lasciando al loro destino la madre e la zia, viene portato insieme ad altri ebrei alle scuole Morandi.
Giorgio Hasenbohler, in una testimonianza del 1983[25], riferisce che suo padre, un industriale di origini svizzere trasferitosi a Novara da tempo, che si esprimeva bene in tedesco, aveva portato beni di conforto in carcere e cercato più volte di intercedere a suo favore presso il Comando germanico[26], venendo infine minacciato di fare la stessa fine degli arrestati. L’industriale conosceva bene i Diena-Jona perché abitava al terzo piano nello stesso edificio in cui loro abitavano al primo. Giorgio Hasenbohler ricorda che i fascisti, all’inizio del 1944, avevano messo nella loro casa una squadra di torturatori, fatto per cui erano seguite altre inutili proteste di suo padre.
Tre giorni dopo, mercoledì 22 settembre 1943, un ufficiale delle Ss si presenta alla Banca popolare di Novara chiedendo di aprire le cassette di sicurezza degli arrestati. Dissuaso, tornerà il giorno successivo, ma la direzione della Banca fa in modo che l’operazione di apertura forzata avvenga alla presenza del notaio Nicolitti, che ne redige verbale[27].
Sulla rapacità apparentemente disordinata di queste razzie (contemporanee alle note stragi sui laghi d’Orta e Maggiore del settembre 1943) e sulle modalità dell’occupazione in questi primi giorni non mi soffermo. Se è vero che sono le Ss i primi carnefici di questa particolare storia, la complicità degli uffici che avevano predisposto la rete di controlli sugli ebrei è tutta italiana. Dal 30 novembre del 1943, come è noto, sarà poi la polizia italiana a occuparsi di arresti e deportazioni. Il rastrellamento novarese avviene in tempi precoci, quando i diversi compiti tra autorità d’occupazione e autorità della Rsi non sono ancora bene stabiliti.
I decreti di confisca dei beni di Giacomo Diena e Amadio Jona sono stati effettuati alcuni mesi dopo, l’11 maggio 1944 (n. 01463) e il 19 maggio 1944 (n. 01498), come risulta dal Servizio Beni ebraici[28] nel suo accertamento eseguito il 31 lu­glio 1944 relativo ai sequestri effettuati in provincia fino a quel momento. Si segnala che al Diena viene confiscata la somma di 1.536,95 lire, competenze che la banca aveva assegnato all’ex dipendente alla fine del rapporto di lavoro, oltre a qualche titolo e ai mobili (la casa era stata utilizzata dagli occupanti come di consueto durante le requisizioni). Allo zio Jona, dichiarato “benestante”, vengono sequestrati titoli, azioni e un’importante rendita annua. I due non hanno proprietà immobiliari a Novara, ma a Torino, dove Jona risulta residente, la sua casa di via San Martino subisce analoga sorte. Sconcerta il carteggio, presente tra i documenti dell’Egeli, in cui l’amministratore del condominio torinese sollecita più volte le autorità competenti a effettuare quanto di dovere rispetto all’alloggio dell’ebreo Amadio Jona.
Dopo alcuni giorni di detenzione a Novara, Giacomo e Amadio vengono dunque trasferiti alle carceri giudiziarie di Torino nelle quali sono sicuramente presenti almeno dall’11 ottobre 1943 (prima data che risulta nella lettera citata all’inizio) al 1 dicembre 1943. Quest’ultima data è attestata da un altro elenco di ebrei[29] in cui compaiono i nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona, un passaggio di consegne che segna la loro uscita dal carcere di Torino e l’invio alla deportazione. Da controlli incrociati sulle altre persone in elenco con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[30], l’ipotesi più plausibile è che i due detenuti arrestati a Novara siano stati portati a Milano, a San Vittore, in attesa della partenza dal binario 21 per Auschwitz. Dei 19 nomi elencati nella lista, ben 13 risultano partiti col convoglio n. 5 formato a Milano e Verona il 6 dicembre 1943, giunto ad Auschwitz l’11 dicembre 1943. I prigionieri in partenza da Milano erano confluiti al carcere di San Vittore da Torino e da Genova. Un altro deportato della lista torinese risulta invece partito col convoglio n. 6, formato a Milano e Verona il 30 gennaio 1944, giunto ad Auschwitz il 6 febbraio 1944. Quest’ultimo convoglio aveva raccolto prigionieri provenienti da vari centri di raccolta provinciali e dalla frontiera italo-svizzera. Entrambi i convogli, sia il n. 5 che il n. 6, viaggiavano sotto sigla Rsha. Per altri tre deportati della lista torinese, nel volume citato si parla di immatricolazione dubbia e morte in data e luogo ignoti.
Per Diena e Jona, in assenza di documenti definitivi, possiamo quindi solo ragionare per probabilità. Morti in viaggio, oppure giunti a destinazione e poi subito eliminati? Alla Comunità ebraica di Vercelli risulta la lettera del Comitato di ricerche dei deportati ebrei (istituito dall’Unione delle Comunità israelitiche italiane) datata 25 ottobre 1945, nella quale si comunica che fino a quel momento nessuna notizia era giunta sui deportati Giacomo Diena e Amadio Jona. Come già visto, nemmeno Irene Cantoni era riuscita a sapere qualcosa di certo.
I nomi di Giacomo Diena e Amadio Jona sono ora presenti su una targa scoperta il 17 gennaio 2019 a Novara a Palazzo Bellini, sede storica della Banca popolare di Novara dove il contabile lavorava[31].
 

Bertie Sara Kaatz. Fonte: Anna Cardano, art. cit. infra

Qualche notizia sulla più sommersa: Bertie Sara Kaatz
Bertie Sara Kaatz è la terza vittima della Shoah nella città di Novara, la meno conosciuta dei tre. A Novara non ci sono targhe o luoghi che ricordino la vicenda di questa giovane donna, ricostruita in “Novara ebraica”[32] qualche anno fa. Aggiungo solo qualche tassello che emerge dalle carte d’archivio, completandone i dati anagrafici nella speranza che anche Bertie sia presto ricordata a Novara. La famiglia Kaatz era arrivata a Novara da Milano, dove aveva presentato nel 1939 denuncia di appartenenza alla razza ebraica e si era stabilita in viale Roma, 8. Nei registri del Comune di Novara che aggiornano la situazione migratoria, nella settimana tra il 17 e il 24 giugno 1942 i nomi di Bertie Kaatz, nata a Breslavia (Polonia) il 26 febbraio 1912, e dei suoi genitori Ludwig Kaatz, nato a Schwerzen (Ger­mania) nel 1878, e Augusta Oppler, nata a Pleschen (Polonia) nel 1878, risultano tra i richiedenti residenza stabile a Novara. Ludwig è indicato come «senza occupazione». Per tutti e tre si precisa che sono di razza ebraica. Nella rubrica A[33] realizzata dalla Provincia di Novara sugli ebrei presenti in provincia, di cui si è detto sopra, risalente al luglio 1942, i componenti della famiglia Kaatz sono invece registrati come apolidi e benestanti. Evidentemente erano giunti in Italia per sfuggire alle persecuzioni in Polonia e forse con l’intenzione di emigrare negli Stati Uniti, dove viveva il fratello. Così sostiene Sandra Taccola[34], nipote di Margherita Rho, la portinaia del palazzo in cui abitavano. Sandra ricorda la madre di Bertie sulla sedia a rotelle, molto ammalata, e dalla nonna le furono negli anni seguenti raccontate le preoccupazioni di Bertie, che voleva trovarle una sistemazione e non partiva per questo. Essendo ebrei stranieri, avreb­bero potuto essere individuati per l’internamento e, anche se ciò non accadde, è evidente il clima di paura in cui la famiglia viveva. Tutti e tre erano iscritti alla Comunità israelitica di Vercelli.
Un’altra volta, prima dell’arresto, nel palazzo erano stati fatti dei sopralluoghi da parte dei fascisti, ma i Kaatz si erano nascosti in casa della portinaia ed erano sfuggiti ai controlli; il 19 settembre invece tutta la famiglia viene arrestata. Bertie non tornerà più.
Seguirà lo stesso percorso di Giacomo Diena e di Amadio Jona, prima alle carceri giudiziarie di Torino, dove è detenuta insieme ad altre undici donne ebree arrestate nel Torinese, nel Vercellese e a Genova nel settembre e ottobre 1943, poi trasferita al carcere di Milano, come risulta dall’elenco datato 1 dicembre 1943 predisposto per il passaggio di consegna delle detenute dal carcere giudiziario di Torino[35] a quello milanese di San Vittore. Anche in questo caso, dai controlli incrociati sulle altre donne in elenco (dieci su dodici erano cittadine italiane), con i nomi presenti ne “Il libro della memoria”[36] e con le banche dati già citate, si può concludere che molto probabilmente anche Bertie sia partita da Milano per Auschwitz il 6 dicembre 1943, col convoglio n. 5, giunto a destinazione l’11 dicembre 1943. Poi, la fine.
Di certo per i genitori la situazione precipita, nonostante trovino ospitalità presso la casa di cura dell’Ospedale mag­giore e alcune persone rimangano loro vicine. La portinaia Margherita sa­rà presente al seppellimento di Augusta Oppler il 10 dicembre 1943 al cimitero di Novara[37], insieme a Ludwig Kaatz, il quale morirà poi nell’ottobre successivo. I genitori di Bertie non furono comunque sepolti nel cimitero ebraico. Così come per Diena, il foglio di famiglia del Comune di Novara intestato ai Kaatz continuerà a rimanere attivo, come se Bertie fosse ancora viva anzi, dopo la morte di Ludwig e Augusta, è lei ad apparire intestataria del foglio stesso.
La triste vicenda di questa famiglia è emersa grazie a un carteggio postbellico tra Comunità israelitica di Vercelli e Istituto bancario San Paolo di Torino, che tentavano di prendere contatti col fratello di Bertie, Alexander Kaatz, che era stato in Italia al seguito delle truppe americane. Occorreva infatti restituirgli, in qualità di erede, i beni confiscati in precedenza alla famiglia. Il nome di Ludwig Kaatz risulta anche, appena dopo la Liberazione, in una nota[38] che il Comando dell’amministrazione alleata a Novara invia al prefetto Fornara il 21 maggio 1945, affinché vengano restituiti al più presto, agli ebrei elencati, i beni confiscati nel periodo nazifascista.
Come si vede, una lunga e terribile storia di elenchi.
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. XL, n. s., n. 2, dicembre 2020
[NOTE]
[*] Devo ringraziare per la collaborazione a queste ricerche Rossella Bottini Treves, presidente della Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco; Paolo Cirri, della Fondazione Bpn per il territorio; Chiara Mangione, Giuseppe Cantoni, Sandra Taccola, Gianni Galli, l’Archivio di Stato di Novara.
[1] Il nome di Giacomo Diena risulta sulla lapide commemorativa presente al cimitero ebraico di Vercelli; su quella del tempio ebraico appaiono i nomi di Amadio Jona e Giacomo Diena; solo recentemente (gennaio 2019) una targa con entrambi i nomi è stata apposta a Novara nel cortile interno della Banca popolare di Novara, nella sede storica di Palazzo Tornielli Bellini. I due nomi, presentati come vittime della Shoah in Italia, e dati come uccisi lo stesso giorno dell’arresto, compaiono in diverse fonti, tra cui Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), ricerca della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, Milano, Mursia, 2a ed., 2002, e www.nomidellashoah.it, mentre l’ipotesi di una loro deportazione è già contemplata nella documentazione della Comunità ebraica di Vercelli, nelle ricerche di Gisa Magenes (“Fogli sensibili”, n. 3, ottobre-dicembre 1994), che data la morte del Diena in Germania al 1 novembre 1943, nella testimonianza di Giorgio Hasenbohler (“Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983) e in www.ushmm.org. Le ricerche successive contemplano entrambe le ipotesi. In ambito vercellese, sono anche ricordati da Alberto Lovatto in Deportazione memoria comunità. Vercellesi, biellesi e valsesiani nei lager nazisti, Milano, Franco Angeli, 1998.
[2] La ricostruzione della vicenda di Bertie Sara Kaatz, iscritta alla Comunità israelitica di Vercelli, si trova in Rossella Bottini Treves - Lalla Negri, Novara ebraica. La presenza ebraica nel novarese dal Quattrocento all’età contemporanea, Novara, sn, 2005, pp. 86-93.
[3] I documenti dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare dei beni ebraici espropriati a seguito delle leggi antiebraiche del 1938 sono conservati nell’Archivio storico Intesa Sanpaolo.
[4] Archivio privato famiglia Cantoni, Alzano Lombardo (Bg), e Archivio privato famiglia Luca e Marcella Moia, Novara.
[5] Giuseppe Cantoni, conversazioni del 23 maggio 2014 e del 24 gennaio 2016; Sandra Taccola, conversazione del 21 febbraio 2019.
[6] L. Picciotto, Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1945, Torino, Einaudi, 2017, pp. 267-280.
[7] R. Bottini Treves - L. Negri, op. cit., pp. 94-97.
[8] Il motivo per cui Amadio Jona non si trova in nessun elenco di ebrei novaresi è dovuto al fatto che, dopo essere rimasto vedovo, aveva spostato la sua residenza da Novara a Torino, in una casa di proprietà in via San Martino, 10, come emerge dal fascicolo a lui intestato (Jona, Amadio, segnatura: 181 TO - GES 372 736) presente nel fondo Egeli già citato.
[9] Le notizie biografiche riportate provengono dai Fogli di famiglia intestati a Jona Amadio, Saulle Diena e poi Giacomo Diena, Archivio di Stato di Novara (d’ora in poi Asn), fondo Comune di Novara, parte III, Anagrafe, cassetta VIII, Foglio di famiglia n. 2120; fondo Comune di Novara parte antica, Reg. 64, Fogli di famiglia n. 9610; fondo Comune di Novara, bb. 1395 e 1396 sulla popolazione novarese, b. 1398, con i fascicoli nominativi degli ebrei residenti a Novara; fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.
[25] Si veda la nota 1, articolo ne “Il Corriere di Novara”, 13 ottobre 1983.
[26] Si vedano Carlo Gentile, Settembre 1943. Documenti sull’attività della Divisione Leibstandarte SS Adolf Hitler in Piemonte, in “Il presente e la storia”, n. 47, 1995, pp. 75-130, e i recenti studi dello studioso svizzero Raphael Rues.
[27] R.G.N.N. 24.016 del 1 ottobre 1943.
[28] Si veda la nota 16.
[29] Dell’elenco, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[30] L. Picciotto, Il libro della memoria, cit. Oltre ai nomi dei deportati, il libro contiene l’elenco dei trasporti alle p. 44 e seguenti.
[31] La targa è nata dalla collaborazione tra Bpn, Cral e associazione “Noi della Bpn”, Comunità ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Vco, Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola “Piero Fornara”.
[32] Si veda la nota 2.
[33] Si veda la nota 21.
[34] Si veda la nota 5.
[35] Anche di questo elenco di prigioniere, analogo a quello di Diena e Jona per i detenuti maschi, proveniente dall’Archivio del carcere di Torino, sono venuta a conoscenza grazie a Rossella Bottini Treves.
[36] Si veda la nota 30.
[37] Comune di Novara, Archivio del Cimitero, Registri dei seppellimenti, 1943 e 1944.
[38] Asn, fondo Prefettura, Divisione Gabinetto, b. 712.
Anna Cardano, I sommersi del 19 settembre 1943 a Novara. Giacomo Diena, Amadio Jona, Bertie Sara Kaatz, l'impegno - Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, 24 gennaio 2022

sabato 16 settembre 2023

A Hollywood ogni sceneggiatore scopriva subito una triste verità


Se nei film su Hollywood la star è di norma votata alla tragedia e all’autodistruzione, lo sceneggiatore è invece un personaggio spesso in balia della frustrazione artistica, del cinismo e perfino della paranoia. Lo dimostra il caso di Viale del tramonto, dove la vittima oggettiva della storia è senza dubbio Joe Gillis, lo screenwriter di terz’ordine freddato da alcuni colpi di pistola per mano della sua amante. Tuttavia, mai una volta durante il suo celebre resoconto post mortem Joe ci fa percepire in maniera melodrammatica l’ingiustizia della sua fine violenta, mentre mantiene intatto, fino all’ultimo, un atteggiamento di cinico distacco mescolato ad amarezza per il suo fallimento professionale. Del resto, per parafrase il titolo originale di un altro celebre film coevo a Viale del tramonto, In a Lonely Place (Il diritto di uccidere, 1950) di Nicholas Ray, gli sceneggiatori sembrano aver occupato un “posto solitario” all’interno dell’industria fin dai tempi in cui l’introduzione del sonoro rende necessaria la presenza costante a Hollywood di scrittori in grado di fornire sceneggiature filmabili provviste di dialogo.
Larry Ceplair e Steven Englund riassumono così le difficoltà esperite da tale categoria professionale: "A Hollywood ogni sceneggiatore - sia che stendesse le sue sceneggiature a Normandy negli uffici della Fox organizzati come un villaggio, o negli asettici e angusti locali della MGM, o nelle malconce ma comode stanze della Paramount […], o nella speciale versione del Château d’If allestita dalla Columbia - scopriva subito una triste verità e prima o poi si doveva abituare a vivere con essa: il rapporto di cui doveva tener conto non era quello tra lui, sceneggiatore, e il pubblico che andava a vedere il film, bensì tra lui e il produttore. […]. Gli scrittori erano sì incoraggiati a presentare soggetti originali ma la forma mentis dei produttori era così rigida che solo raramente uno sceneggiatore riusciva a “piazzare” più di cinque o sei soggetti originali nell’arco della sua carriera. […]. Tutto dunque ruotava sul rapporto tra lo scrittore e il suo produttore. L’impressione era che, dovunque lo sceneggiatore vagasse nel labirinto hollywoodiano, saltava fuori il produttore a sbarrargli il cammino. Era lui che si doveva affrontare e soddisfare. Perciò lo scrittore doveva imparare subito che quel che contava era l’idea che il produttore, e non lui personalmente, aveva di una buona sceneggiatura" <117.
Sebbene i film autoreferenziali spesso denuncino una deliberata assenza di verosimiglianza nel descrivere il lavoro degli sceneggiatori all’interno dello studio system (ad esempio, molte volte è passato sotto silenzio il fatto che il loro principale compito consistesse di norma solo nell’adattare materiale già selezionato dall’ufficio-soggetti, e che di rado qualcuno riuscisse a far realizzare un progetto proprio), l’abisso di potere, che davvero separava questa categoria dai produttori, è sempre posto al centro del dramma. Se Il diritto di uccidere è senz’altro poco realistico quando ci descrive il lavoro di scrittura del protagonista Dix Steele (Humphrey Bogart) come un lavoro solitario e condotto in casa propria agli orari più improbabili, non lo è, però, quando ci comunica la frustrazione che questo stesso personaggio prova essendo costretto dalla sua professione ad adattare soggetti dozzinali per lo schermo. In tal senso, la violenza fisica di Dix e la sua sospettosità paranoide (evidenti soprattutto nel rapporto con l’altro sesso) non sono solo concessioni ai canoni del genere noir in cui il film di Ray s’inscrive, ma servono a tematizzare l’incapacità del protagonista di adeguarsi al modus operandi hollywoodiano.
Come osservano ancora Ceplar ed Englund, «gli scrittori che resistettero a Hollywood impararono a fare del loro meglio con qualsiasi materiale avessero a disposizione cercando di evitare allo stesso tempo (per quanto possibile) ogni coinvolgimento del proprio io nella sceneggiatura che avevano sotto mano. In generale questo tipo di sforzo è estraneo al processo creativo, ma la sopravvivenza degli scrittori impegnati nel processo produttivo dell’industria cinematografica richiedeva questa capacità e così molti di loro impararono in un modo o nell’altro ad adattarsi» <118.
A Dix Steele quest’adattamento non riesce perché equivale per lui, psicologicamente parlando, a essere declassato dal ruolo di artista a quello di semplice funzionario di livello medio all’interno di una grossa impresa produttiva.
Successivo di soli due anni a Il diritto di uccidere, Il bruto e la bella di Vincente Minnelli esamina, almeno in parte, questioni analoghe, ma lo fa mettendo al centro della diegesi proprio il personaggio del produttore, vale a dire la figura solitamente accusata di tutti i mali degli sceneggiatori hollywoodiani. Curiosamente, qui il personaggio di Jonathan Shields (Kirk Douglas), con ogni probabilità modellato sulla biografia reale del grande producer indipendente David O. Selznick, ha molti tratti in comune con Dix: ambizione, creatività, rabbia, desiderio di rivalsa sul milieu hollywoodiano, ma anche e soprattutto la medesima difficoltà a stabilire una relazione sentimentale non contrassegnata dalla violenza e dalla manipolazione psicologica. Insomma, sebbene Dix Steele e Jonathan Shields muovano da posizioni professionali opposte (il primo non tollera le restrizioni creative dettate dal suo produttore, mentre il secondo cerca, in tutti i modi, di controllare il lavoro e perfino i sentimenti dei suoi sottoposti), i due personaggi esibiscono problematiche psicologiche davvero affini.
L’immagine di Hollywood come ambiente professionale che esige dei temperamenti particolarmente ossessivi è di antica memoria e di grande forza drammatica. Peraltro, essa non ricorre soltanto nei film ma anche nella letteratura: Gli ultimi fuochi di Francis Scott Fitzgerald, scrittore che non a caso trascorre l’ultima fase della sua vita lavorando infelicemente come sceneggiatore, e Perché corre Sammy? (What Makes Sammy Run?, 1941) di Budd Schulberg, anch’egli sceneggiatore e figlio di un magnate dell’industria, ne sono una buona dimostrazione. Tuttavia, va notato come la figura del produttore spietato non faccia la sua comparsa nel cinema autoreferenziale fino agli anni Cinquanta (nei film degli anni Trenta, come A che prezzo Hollywood ed È nata una stella, i moguls del racconto sono figure pittoresche e bizzarre, ma tutt’altro che sadiche o egocentriche). È solo nel 1952 che Il bruto e la bella inaugura questo genere di caratterizzazione psicologica, che sarà poi ripresa più e più volte nelle opere immediatamente successive. Di nuovo, notiamo come il decennio dei Cinquanta si caratterizzi per una spiccata negatività nel tratteggiare il mondo dell’industria. Le contaminazioni noir in una cornice sostanzialmente melodrammatica, l’atmosfera di soffusa paranoia, la narrazione costruita per flashback che sembra rievocare, sulla falsariga del celebre modello di Quarto potere, il senso di una detection sulle vere ragioni del protagonista, sono solo alcuni dei tanti elementi che contribuiscono all’idea di Hollywood come luogo che distrugge qualsiasi felicità personale in nome dell’ambizione, del successo e del denaro. E tuttavia, il personaggio di Shields, pur nella sua negatività, risulta troppo affascinante, creativo e titanico perché si possa parlare, anche in questo caso, di una completa demistificazione del mondo del cinema.
Siccome gli sceneggiatori erano solitamente indicati come “gli intellettuali di Hollywood” e spesso provenivano da precedenti esperienze nell’ambito della letteratura, del teatro o del giornalismo, non sorprende se la tensione tra desiderio di libertà creativa da parte del singolo e potere schiacciante e indifferenziato dell’apparato economico sia molte volte rappresentata come scontro tra questa categoria professionale e quella dei producers. Talvolta, può accadere anche che a fare le spese del potere debordante dei magnati della Hollywood classica sia il personaggio del regista. A tal proposito, si veda l’esempio di La contessa scalza, dove il regista di talento Harry Dawes (Humphrey Bogart) è costretto a una posizione di sudditanza rispetto al sadico e mediocre Kirk Edwards (Warren Stevens), che si ritrova a capo di una major unicamente per questioni ereditarie. Anche in casi simili il conflitto è solitamente descritto come quello fra un’intelligenza creativa, che ambisce a emancipare la qualità dei progetti in cui è coinvolta, e un atteggiamento invece ottuso, rigido, incapace di riconoscere il vero talento se questo rischia di mettere in discussione la sua autorità.
Un’interessante variazione sul tema - su cui ci si soffermerà più volte tanto nelle pagine dedicate al film di Ray quanto in quelle dedicate al film di Minnelli - è rappresentata da Il grande coltello di Robert Aldrich dove lo scontro si consuma tra Stanley Shriner Hoff (Rod Steiger), tipica figura di tycoon spietato fino al punto di rasentare la malattia mentale, e Charlie Castle, star hollywoodiana stanca di interpretare film mediocri, e desiderosa di tornare all’esperienza del teatro d’impegno politico da cui proviene. Oltre a spostare per una volta l’attenzione dall’immagine della star femminile a quella maschile, e in particolare alla capacità anche del divo maschio di esprimere, attraverso il corpo, un ideale di bellezza ed erotismo (Charlie non è solo una stella ma anche un sex symbol), questo film ci ricorda uno degli aspetti più controversi dell’organizzazione economica dello star system classico. Infatti, come sottolinea Mark Cerisuelo, «il film [di Aldrich] è probabilmente l’unico del filone ad insistere sull’importanza del contratto settennale che legava gli attori alla loro casa di produzione» <119.
[NOTE]
117 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema Americano 1930-1960, trad. it. Riccardo Duranti, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 15-7. (ed. or. The Inquisition in Hollywood. Politics in Film Community 1930-1960, Doubleday, Garden City, N.Y. 1980).
118 Ivi, p. 19.
119 Marc Cerisuelo, Hollywood a l’ecran. Essai de poétique historique des films: L’exemple des métafilms américains, Presses de la Sorbonne Nouvelle, Paris 2000, p. 287.
Diletta Pavesi, Poisoned Love Letters to the Movies. La contraddittoria rappresentazione di Hollywood nel cinema americano classico (1932-1962), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Ferrara, 2014

giovedì 7 settembre 2023

Tallonato da condizioni economiche precarie il Gruppo Rizzoli aveva reagito intraprendendo un continuo rilancio della propria azione imprenditoriale


La Loggia P2 aveva usufruito almeno per un decennio di una sostanziale collusione, che potrebbe essere definita culturale, con ampi settori della vita istituzionale del paese adoperandola come punto di partenza per il raggiungimento di propri obiettivi: banche, servizi segreti, ma anche Università, Procure, Pubbliche amministrazioni, Parlamento e Informazione. Allergica ad ogni forma di mediazione democratica la P2 è stata giustamente descritta come punto di riferimento e supporto a settori sociali e istituzionali che non dialogavano attraverso i canoni consueti del potere democratico. I suoi maggiori ambiti di azione, i servizi segreti, la stampa, la finanza, la politica, disegnavano una mappa estesa che certamente conferiva al fenomeno P2, come ha sottolineato Francesco Biscione, “la dignità di un importante movimento di trasformazione”. La P2 sembrava incarnare una immensa area a-partecipativa, indifferente se non refrattaria al percorso democratico; una forza che traeva la propria legittimazione da alcune trasformazioni fondamentali della realtà sociale ed economica del paese, inserendosi all’interno di un sistema produttivo squilibrato e fisiologicamente predisposto a questo coacervo di interazioni. <424
Prodromico di questa capacità di insediamento era il caso “Rizzoli-Corriere della Sera”, capitolo che la Commissione d’inchiesta inserì nel canovaccio investigativo denominato “Finanza ed Editoria”. La massiccia infiltrazione di uomini della P2 all’interno del quotidiano di Via Solferino fu evidenziata nella relazione Anselmi come l’indice più eloquente della potenza con cui l’informazione aveva influito sullo scacchiere del consenso e della partecipazione, al centro del meccanismo democratico. L'analisi dell'assetto proprietario del quotidiano milanese sembrava fugare ogni dubbio sulla “proponibilità di tesi di taglio riduttivo” della Loggia P2 e delle attività “che in essa venivano progettate e gestite da forze disparate, ma unificate dalla convergenza di interessi su situazioni determinate”. L’influenza che la Loggia P2 aveva esercitato sul “Corriere della Sera”, concludeva la relazione finale, “aveva lasciato intravedere le linee generali di un allarmante disegno generale di penetrazione e condizionamento della vita nazionale”. <425
Tuttavia la parabola del Gruppo Rizzoli racchiudeva al suo interno un intricato gomitolo di antinomie che mal si conciliava con la semplicistica ma tutt’altro che semplice interpretazione che la Commissione ne volle dare durante la stesura della relazione finale.
Ceduto alla famiglia Rizzoli dal gruppo Agnelli, Moratti e Crespi nel 1974 il Corriere della Sera contava un deficit patrimoniale di svariate decine di miliardi, unito ad un costo di esercizio previsto altrettanto oneroso di cui il Gruppo Rizzoli aveva cercato di contrastare con investimenti mirati allo sviluppo e non al taglio della spesa. In questa direzione andava l’acquisto di Telemalta, iniziativa concordata con il governo maltese per costruire una “Tv estera tutta italiana” in diretta concorrenza con la Rai per soffiarle “una buona fetta di inserzionisti pubblicitari”. <426
Seguiva l’accordo con la Democrazia Cristiana per la gestione de “Il Mattino” di Napoli, il più diffuso quotidiano del Mezzogiorno. La famiglia Rizzoli con il figlio poco più che trentenne Angelo si era presentata come il nuovo polo dell’informazione nazionale, scevra da interessi extra-editoriali, avviando una pesante opera di espansione che in pochi anni, dal 1974 al 1977, aveva effettuato interventi a sostegno di numerose testate a carattere locale e nazionale. Secondo la ricostruzione contenuta nella relazione di minoranza a firma del radicale Massimo Teodori, Angelo Rizzoli e il direttore finanziario Bruno Tassan Din, entrambi iscritti alla Loggia P2, avevano compreso che l’unica maniera per ottenere denari sufficienti a sostenere queste operazioni fosse quella “di scambiare il potere della stampa a loro disposizione con dei servizi da rendere ai partiti non solo con gli orientamenti dei giornali rizzoliani ma anche con l'acquisto di testate direttamente per i partiti o a disposizione dei partiti”. <427
Tallonato da condizioni economiche precarie il Gruppo Rizzoli aveva reagito intraprendendo un continuo rilancio della propria azione imprenditoriale, attraverso l’acquisto di giornali locali, figli di finanziarie satelliti al sistema partitico italiano. Un meccanismo che da una parte ne avrebbe dilatato il debito e dall’altra ne avrebbe ridotto l’indipendenza.
Benché la ricostruzione di Massimo Teodori avesse natura prevalentemente politica e quindi in qualche modo strumentale alla causa che il Partito radicale stava combattendo contro la “partitocrazia” italiana, vi erano alcuni dati che non potevano essere ignorati: nel giro di pochi anni, il Gruppo Rizzoli aveva acquistato “Sport Sud di Napoli, il 60% della OTE editrice de Il Piccolo di Trieste e de L’Eco di Padova, l'80% della Papiria editrice del Giornale di Sicilia, l'80% della Cima Brenta editrice dell'Alto Adige di Bolzano”. E poi ancora altri interventi erano stati effettuati con l’erogazione di finanziamenti destinati a non essere rimborsati: 1.955.406.000 solo fino al 31 Dicembre 1976 all’ Adige di Trento, la cui società editrice apparteneva alla Affidavit, finanziaria posseduta dalla Democrazia Cristiana; 4 miliardi alla EDIME di Napoli per conto della DC Affidavit; 1,5 miliardi alla SOFINIM, finanziaria del Partito Socialista per l'acquisto del Lavoro di Genova. <428. Le cifre mettevano in mostra una concentrazione editoriale tanto forte quanto in grossa crisi finanziaria. Secondo i dati Ads, il Corriere della Sera aveva nel 1977 una diffusione media di 600.000 copia su una tiratura di 702.000, il Corriere d’Informazione stampava 100.000 copie, mentre Il Mattino ne stampava 95.000 unità. <429
I radicali già nel marzo e nell’aprile del 1981 avevano chiesto con due interpellanze parlamentari di conoscere la reale situazione debitoria del Gruppo Rizzoli e se esistessero “gli estremi per la bancarotta”. In quel caso la risposta venne fornita il 7 aprile 1981 dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Piergiorgio Bressani, il quale sin dal V governo Andreotti deteneva la delega per i problemi della stampa e dell’editoria:
“Per quanto riguarda l’esposizione debitoria del Gruppo, essa risulta controllata dall’Istituto di vigilanza secondo i dati di centrale rischi costantemente aggiornati. A riguardo mi riservo di fornire al Parlamento non appena sarò posto in condizioni di farlo notizie sull’andamento relativo all’esposizione debitoria”. <430
Poche settimane dopo, la scoperta della Loggia P2 palesò la massiccia infiltrazione nella stampa, irrompendo sulla scena politica come interprete perfetta di quel “Dialogo agli inferi tra Machiaveli e Monesquieu” scritto nel secolo precedente da Marice Joly: inquinamento dell’informazione e manipolazione delle coscienze. <431
Nel più importante quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”, si era registrato un alto numero di affiliati a cominciare dal direttore Franco Di Bella, il direttore de “l’Occhio” Maurizio Costanzo, il giornalista Roberto Gervaso. La scoperta della P2 fu percepita dal paese come un trattato contro la libertà di informazione, potenziato a dismisura dal ritrovamento del famigerato “Piano di Rinascita democratica” all’Aeroporto di Fiumicino nel luglio 1981. A ribadire tale prospettiva contribuiva d’altronde l’innegabile nesso tra Angelo Rizzoli, anch’esso tra le liste P2, e Licio Gelli e documentato ad abundantiam tra le fonti in possesso della Commissione d’inchiesta. Lì vi si trovavano i “fraterni ringraziamenti” per le operazioni finanziarie concluse, “sul cui esito felice tu hai avuto un ruolo determinante”, scritti da Rizzoli al Venerabile il 20 luglio 1977. Vi erano poi gli attestati di profonda gratitudine per l’alleggerimento degli oneri finanziari del giornale, dal cui sollievo scaturiva “il necessario presupposto per affrontarli con maggiore serenità” <432. Tuttavia, già nella sua prima deposizione Angelo Rizzoli parlando dei suoi rapporti con Gelli aveva chiarito la natura esclusivamente finanziaria di tali rapporti, sottolineando che “certamente non ho mai avuto pressioni da Gelli”. E nelle successive audizioni confermava il modesto profilo politico di Gelli, una persona “scarsamente informata e scarsamente interessata alle vicende politiche”; un fanfarone che “faceva le ipotesi le più. Parlava della regina d’Olanda, del Vaticano”. <433
Secondo la ricostruzione della relazione di maggioranza invece la Loggia P2 aveva intravisto nel “Corriere della Sera” una struttura da utilizzare per il “coordinamento di tutta la stampa provinciale e locale” [...] “in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del paese”. <434
Le condizioni sembravano ideali dal momento che il Gruppo Rizzoli era gestito come azienda a carattere familiare, con esponenti non sempre all’altezza del loro ruolo imprenditoriale; in seconda battuta, risultava proprietario di un quotidiano di grandi tradizioni ma appesantito da una difficile situazione finanziaria; in ultima istanza, si trovava sotto la morsa dei finanziamenti resi necessari per l’acquisto dell'editoriale del Corriere della Sera. Lo sottolineò Alberto Cecchi, tra i membri più preparati della Commissione, impegnato a fondo nel dibattito relativo all’istituzione dell’inchiesta parlamentare sulla P2 e tra i presentatori della proposta di legge di parte comunista <435.
[NOTE]
424 Cfr. F. M. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo, Bollati-Boringhieri, Torino, 2003.
425 CP2, Relazione finale di maggioranza, 2-bis, p. 128.
426 L. Delli Colli, C’era una volta l’italietta in tv, in “la Repubblica”, 3 gennaio 1987.
427 Ibid.
428 CP2, Relazione di minoranza dell’onorevole Massimo Teodori, 2-bis/II, p. 76 e ss. . Nel più importante quotidiano
429 Dati Ads, Accertamento diffusione Stampa, Anno 1997.
430 Camera dei Deputati, Documenti, Banche Dati, Legislature precedenti, Legislatura VIII, Senato della Repubblica, Interpellanza n. Atto 2/00293, presentato dal Partito Radicale, senatore Gianfranco Spadaccia: “Al Ministro del Tesoro. Per sapere sulla situazione patrimoniale e finanziaria del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera; quale sia l’esposizione finanziaria delle banche nei rapporti con detto editore; quali garanzie siano state offerte alle banche a fronte dell’urgente e sempre crescente massa debitoria del gruppo editoriale; se non esistano già nella situazione finanziaria del Gruppo, dati i livelli raggiunti dall’indebitamento, gli estremi della bancarotta; quale iniziativa il ministro e le autorità monetarie abbiano preso o intendano prendere per evitare che l’eventuale crack finanziario del gruppo editoriale si risolva in un grave costo per lo Stato e per la collettività”.
431 Maurice Joly nel 1864 scriveva: “Nei paesi parlamentari è quasi sempre per la stampa che cadono i governi. Ebbene io vedo la possibilità di neutralizzare la stampa con la stessa stampa. Poiché il giornale è una forza così potente, il mio governo diventerà giornalista, avrò tantissimi giornali, uno per ogni partito, devoti e nascosti. Si apparterrà al mio partito senza neanche saperlo”.
432 CP2, Lettera di Angelo Rizzoli a Licio Gelli, allegata alla seconda parte del “Memoriale Gelli” e inviata alla Commissione d’inchiesta il 15 giugno 1984.
433 CP2, Resoconti stenografici, Audizione di Angelo Rizzoli, 20 gennaio 1982, 2-ter/I, p. 659; vd. anche 2-ter/III, Resoconti stenografici del 24 marzo 1982, p. 110.
434 All’interno del Piano di Rinascita Democratica era infatti possibile leggere nel capitolo relativo all’informazione: “In un secondo momento occorrerà: acquisire alcuni settimanali di battaglia; coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso un’agenzia centralizzata; coordinare molte TV via cavo con l'agenzia per la stampa locale; dissolvere la RAI-TV in nome della libertà di antenna ex art.21 Costituzione”. Il Piano completo è stato sequestrato all’Areoporto di Fiumicino nella borsa della figlia di Gelli nel luglio 1981. Si trova in CP2, Documenti citati nelle relazioni 2-quater/3, Tomo VII-bis, p. 611 e ss.
435 Camera dei Deputati, VIII Legislatura, Atti parlamentari, Disegni di legge e relazioni, documento n. 2632 d’iniziativa dei deputati Cecchi, Fracchia, Chiovini, Pochetti presentato il 2 Giugno 1981.
Lorenzo Tombaresi, Una crepa nel muro: storia politica della Commissione d'inchiesta P2 (1981-1984), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno Accademico 2014-2015
 
Molto importante fu l'operazione d’infiltrazione e di controllo del gruppo Rizzoli; la Loggia P2 intravide la possibilità di mettere in atto un’operazione inquadrata nelle previsioni del piano di rinascita democratica per quanto concerne il mondo della stampa e dell’editoria <98. In quel frangente storico il gruppo Rizzoli era, con esponenti poco capaci e scarsamente virtuosi nel ruolo imprenditoriale, gestita come azienda a carattere familiare. Un quotidiano di grandi tradizioni ma appesantito da una difficile situazione finanziaria che nel 1975, attraverso il Banco Ambrosiano, la P2 manovrò mediante un’azione di condizionamento finanziario trasformandolo in un polo aggregativo di un sempre maggior numero di testate. In contemporanea vennero effettuati interventi d’acquisizione di numerose testate a carattere locale <99 nell'ambito d’un collegamento con il Corriere della Sera e destinato a raggiungere il maggior numero di lettori ed influenzare così l'opinione pubblica. Nella vicenda si denotò la funzione puramente di facciata della famiglia Rizzoli mentre il gruppo editoriale, che utilizzò Calvi come supporto bancario sfruttando l'influenza esercitata su Angelo Rizzoli, dal 1977 venne gestito dalla coppia Gelli ed Ortolani in quasi completa autonomia. Si sviluppò da questo momento un sottile e continuo condizionamento della linea seguita dal quotidiano, caratterizzata dall'emarginazione di giornalisti scomodi, con servizi elogiativi o distruttivi ben mirati e con l'attribuzione d’incarichi importanti a persone appartenenti alla loggia.
[NOTE]
98 «E' infatti disponibile una struttura da utilizzare per il coordinamento di tutta la stampa provinciale e locale in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del paese», Licio Gelli cit. in CpiP2, Doc. XXIII n.2, p 121.
99 «Il Mattino», «Sport Sud», «Il Piccolo», «L'Eco di Padova», «Il Giornale di Sicilia», «Alto Adige», «L'Adige», «Il Lavoro».

Giacomo Fiorini, Penne di piombo: il giornalismo d’assalto di Carmine Pecorelli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012-2013 
 
Gli esempi impiegati erano molti e tutti evidenziavano che tra le ambizioni di Licio Gelli vi fosse soprattutto quella di trovare una forte presa sull’opinione pubblica attraverso forme che gli consentissero di gestire, manipolare e direzionare l’informazione italiana:
'Per questa via Gelli ha cercato di utilizzare prima la rivista “OP”, poi c’è stato il tentativo di costituire una agenzia di informazioni e poi mi pare che nella progressione dei propositi ambiziosi del personaggio ci fosse proprio il “Corriere”' <436.
La strumentalizzazione politica a cui il fenomeno piduista veniva piegato poteva essere misurata anche dalla pervicacia con cui tutti in Commissione davano per assunto che tra le pieghe del giornale milanese avesse agito una forza occulta il cui obiettivo era inceppare il meccanismo d’informazione del paese. È per evidenziare questa saldatura che il richiamo alla rivista “Osservatorio Politico”, la generica denuncia di voler “costruire una agenzia di informazioni”, così come quei tanti “mi pare che” riferiti alle ambizioni sul “Corriere della Sera”, venivano uniti in un unico sentiero accidentato da pressioni e manipolazioni piduiste. Ma tale proliferazione di riferimenti se non consentiva di spiegare un fenomeno ancora misterioso come quello piduista, rivelava anche una confusione metodologica schiacciata unicamente sulle gesta del personaggio Gelli. La lettura di un deus ex machina su cui la Commissione volle insistere, poteva essere inoltre funzionale alla legittimazione di un sé politico che si incaricasse di ricostruire storicamente quel varco di potere violato, sino ad attenuare la propria personale responsabilità.
Perché era vero che il capo della Loggia P2 conosceva il direttore della rivista “OP” Mino Pecorelli. Era una conoscenza nata dalla comune amicizia con il senatore Egidio Carenini, sottosegretario democristiano del ministero dell’Industria e del Commercio nel biennio 1974-1976, che lo stesso Gelli aveva ricordato nel 2006, quando ammise di vedere Pecorelli “tutte le settimane per una colazione: io, Mino e Carenini. Parlavamo di tutte le notizie che in quel momento potevano avere un particolare interesse. Pecorelli era una persona preziosa perché in caso di necessità avrebbe potuto aiutarci con la sua penna”. <437. Eppure Pecorelli, ucciso da mano ignota nel marzo del 1979, non aveva certo aiutato il capo della P2 “con la sua penna”. Basti pensare che dal gennaio 1979 “Osservatorio Politico” non aveva fatto altro che attaccare il Venerabile Maestro uscendo con articoli di inedita durezza. Era il caso del servizio su "Massoneria: finalmente la verità sul Venerabile della P2 - due volte partigiano". All’interno Pecorelli raccontava in esclusiva le mille vite di Gelli collaboratore dei fascisti e dei nazisti prima, doppiogiochista poi, partigiano infine. Inoltre, nell’ultima uscita di “OP” il 20 marzo 1979, Pecorelli pubblicava un dossier, La massoneria: è ancora una cosa seria quella italiana?, in cui si denunciavano “attentati, stragi, tentativi di golpe, l’ombra della massoneria ha aleggiato dappertutto: da Piazza Fontana al delitto Occorsio, dal golpe Borghese alla fuga di Sindona”438. Ma la modesta incisività con cui la Loggia di Gelli riusciva a influire sulla carta stampata sembrava suggerita anche dalle parole di Roberto Gervaso, giornalista del “Corriere della Sera”, il quale confidò proprio a Gelli che la linea del giornale non era affatto controllata dalla P2. In un post scriptum privato agli atti della Commissione d’inchiesta si era sfogato alludendo alla “cosa più importante: coperto dal Barba (Angelo Rizzoli, ndr) il vero direttore del Corriere è il radical-marxista Enzo Golino. È lui che spadroneggia nelle pagine culturali, che sono l’anima e il veleno di un giornale”. <439
Alcuni membri di commissione avevano sollevato in questo senso più di un dubbio. Come il commissario democristiano Lino Armellin il quale si domandava perché la figura di Gelli venisse presentata come quella di “una persona che intendeva influire sulla politica italiana” usando politici e informazione per manovre poco chiare al limite del golpismo, quando risultava che dentro il “Corriere della Sera” vi fossero rappresentate quasi tutte le correnti politiche ma soprattutto “una altissima percentuale di giornalisti del Corriere della Sera fosse di sinistra”. <440
Invece secondo la ricostruzione del gruppo di lavoro che si occupava del capitolo “Finanza ed Editoria” le deviazioni piduiste all’interno del “Corriere della Sera” erano state forti e costanti nel tempo. E segnatamente erano cominciate con le dimissioni del direttore Piero Ottone nel 1977 e la sua sostituzione con il piduista Franco Di Bella. Ottone si era certamente dimesso in conseguenza di una gestione eccessivamente indipendente del giornale, confermata dall’arrivo di firme autonome come Enzo Biagi e Alberto Ronchey; l’inaugurazione sulla prima del Corriere degli “scritti corsari” di Pier Paolo Pasolini; l’addio di Montanelli, firma storica del quotidiano milanese, che abbandonava in contrasto con la linea editoriale per fondare Il Giornale. Tutti segnali impercettibili per la società civile ma sirene assordanti per gli addetti ai lavori. Nel 1975 “Panorama" era arrivato addirittura a domandarsi in prima pagina: “Il Corriere è comunista?”. <441
[NOTE]
436 CP2, A. Cecchi, Resoconti stenografici, 2-ter/I, p. 708 e ss.: Alberto Cecchi aveva anche chiesto ad Angelo Rizzoli perché, dopo la trasmissione sulla P2 ideata da Mimmo Scarano, lo stesso giornalista fosse stato licenziato e se ci fosse una correlazione tra la trasmissione P2 e il licenziamento di Scarano. Alla domanda Rizzoli rispose: “No, ritengo che ci sia una relazione tra il licenziamento di Scarano e l’andamento economico del suo settore nel 1981. Noi ad un certo punto abbiamo dovuto procedere ad uno smantellamento del settore; questione di quattrini non ideologica. [...] Questa decisione nacque dal fatto che si era arrivati ad una decisione di risoluzione contestuale; dopo di che Scarano fece altre richieste e si arrivò a decidere di prendere quella strada. Ma escludo con forza che il licenziamento di Scarano sia da addebitare ad una decisione di Gelli e Ortolani anche perché se io avessi dovuto ascoltare le sfuriate di Ortolani, avrei dovuto licenziare metà dei giornalisti del Corriere”.
437 S. Neri, Parola di Venerabile, Aliberti, Reggio Emilia, 2006.
438 L’articolo si trova in CP2, Servizi segreti, eversione stragi, terrorismo, criminalità organizzata, traffico di droga, armi e petroli, Pecorelli e l’agenzia O.P., 2-quater/VII, tomo XVI, p. 387-389.
439 La lettera di Roberto Gervaso a Gelli è in CP2, Documenti citati nelle relazioni finali, 2-ter/III, Tomo V, p. 12. Sostanzialmente la lettera dietro lo sfogo tradiva la richiesta di una raccomandazione dal momento che “è bene che tutti capiscano che blandire i nemici non serve a niente. Restano nemici. Bisogna premiare gli amci. Se non vogliamo che tutto si sfasci. Scusa, caro Licio, lo sfogo. Ma qui dobbiamo fare quadrato. E non solo per salvare noi. Anche per salvare quel poco di democrazia che resta”.
440 CP2, Resoconti stenografici, Audizioni di Angelo Rizzoli, p. 711. Anche Il senatore democristiano Antonino Calarco aveva sottolineato durante l’audizione del giornalista Maurizio Costanzo, piduista e direttore del quotidiano Rizzoli “l’Occhio”, che SIPRA la Società Italia Pubblicità per Azioni, aveva avallato un contratto pubblicitario di 3 miliardi di lire per il suo giornale prima ancora che questo uscisse: “come mai una società pubblica presieduta dall’ex deputato comunista D’Amico dà 3 miliardi a scatola chiusa all’Occhio?”, CP2, Resoconti stenografici, Audizione di Maurizio Costanzo, 2 Febbraio 1982, 2-ter/2, p. 205.
441 Panorama, 25 Agosto 1975...

Lorenzo Tombaresi, Op. cit.