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domenica 16 ottobre 2022

Dove era operante una compagine di partigiani comandata da Vittò

Una vista su Taggia (IM) e, a sinistra, su Castellaro. Foto: Eraldo Bigi

Con la Repubblica di Salò si formarono le Brigate Nere [n.d.r.: a quella data per la RSI era attiva la G.N.R., non ancora le Brigate Nere, perlomeno intese in senso con questa denominazione ufficiale] che sparsero il terrore in gran parte d’Italia. Intanto nel novembre 1943 fui chiamato alle armi. Essendo della leva di mare dovevo presentarmi a Vercelli il 20 novembre per essere arruolato nella Decima Mas e inviato in Germania per un periodo d’istruzione: Così era scritto nella cartolina precetto, ma non avevo ancora compiuto 19 anni ed era molto difficile prendere delle decisioni. Avevo molte amicizie fra gli antifascisti e questi mi consigliarono di non partire: unitamente ad altri commilitoni, anche loro chiamati alle armi, decidemmo di nasconderci sui monti che sovrastavano la nostra città. Così abbiamo fatto: ci siamo rifugiati in una casetta di proprietà di uno dei compagni di ventura. Ci portavano da mangiare i nostri parenti con grave rischio per tutti, per cui subito dopo Natale nel gennaio 1944, avuta notizia che sui monti sopra Sanremo si andava costituendo le prime formazioni partigiane, abbiamo deciso di raggiungere quelle località per unirci a quei gruppi combattenti. Eravamo armati con armi recuperate, quando dopo l’8 settembre, i militari avevano abbandonato le caserme, molte delle quali dislocate proprio a Taggia, zona limitrofa al confine di stato. Abbiamo deciso di abbandonare il nostro precario rifugio e siamo partiti per Baiardo (piccolo paese di 900 abitanti sito nell’entroterra di Sanremo). La strada era lunga una quarantina di km, compiendo il seguente percorso: Taggia - Badalucco - Ciabaudo - Vignai - Baiardo, senza mai percorrere le strade carrozzabili passando sempre lungo i boschi limitrofi alle strade principali. Arrivati a Baiardo avevamo già i nomi dei compagni di quella località, che ci hanno ospitato nei loro casolari, uno fra tutti “Garibaldi” [Giuseppe Gaminera] come nome di battaglia. Lungo il percorso siamo stati aiutati e rifocillati dai contadini di quelle borgate che dobbiamo ringraziare per sempre. Dopo alcuni giorni i compagni di Baiardo ci hanno accompagnato a Carmo Langan a 1727 metri di altitudine, dove era operante una compagine di partigiani comandata da “Vittò” (Vittorio Guglielmo), vecchio comunista reduce dalla guerra di Spagna insieme al compagno Longo. E lì incominciai la vera vita da partigiano, assumendo il nome di battaglia “Tarzan”. Intanto continuavano ad arrivare molti giovani e altri meno giovani, militari che l’8 settembre avevano disertato ed erano ricercati dalle Brigate Nere. Mentre si andavano delineando le vere formazioni partigiane. Noi facevamo parte della 1a Zona Liguria, che andava dai confini della Francia all’inizio della Provincia di Savona, ed eravamo inseriti nella 2a Divisione Felice Cascione. Felice Cascione era un medico di Imperia, infatti, il suo nome di battaglia era “u Meigu”. E’ stato uno dei primi partigiani della provincia ed è stato catturato dai nazi-fascisti e fucilato ad Alto piccolo paese sulle alture di Albenga. Cascione fra l’altro aveva scritto la canzone fischia il vento. Intanto la formazione di “Vittò” diventava Brigata formata da tre distaccamenti, io ero nominato comandante di uno di questi distaccamenti e dislocato in una località sita fra Baiardo e Castel Vittorio
[...] Intanto sulle alture di Taggia si era costituito un battaglione di partigiani, chiamato battaglione Luigi Nuvoloni, che era il nome di un caduto in combattimento originario di un paese della valle Argentina. Detto battaglione era costituito in gran parte da partigiani di Taggia e località limitrofe ed era comandato da un vecchio socialista che si chiamava Simi di cognome, col nome di battaglia “Gori”; era molto anziano e cagionevole di salute. Poiché questo battaglione faceva parte della brigata “Vittò” mi chiamò e mi invitò a raggiungere quel battaglione e ad assumere la carica di commissario: in effetti poiché “Gori” era sempre indisposto dovevo portare avanti quella formazione come comandante e come commissario. Intanto eravamo giunti ai primi giorni del 1945 e sapendo che gli Inglesi dovevano fare un lancio di armi e di viveri per le formazioni della 1a zona Liguria ed esattamente sul Mongioie 2600 m. di altitudine, mi fu ordinato di raggiungere tale località poiché conoscevo già il percorso, raggiunsi di nuovo Piaggia e più avanti Viozene provincia di Cuneo, dove ci accampammo in vecchi casolari di pastori, da Viozene al Mongioie la strada era abbastanza breve. In attesa dei lanci abbiamo fatto diverse imboscate sulla strada statale n° 28 che da Imperia porta a Pieve di Teco, Colle di Nava, Ormea, Garessio, Ceva e avanti fino a Torino. Durante uno di questi attacchi abbiamo dovuto ritirarci precipitosamente per non essere sopraffatti dai nazi-fascisti sul Pizzo di Ormea a m. 2475 sul livello del mare dove abbiamo bivaccato all’aperto tutta la notte. Rientrati a Viozene, dopo qualche giorno, seguendo le istruzioni di radio Londra, nella notte stabilita abbiamo acceso dei falò su una spianata alle falde del Mongioie. Tutto si è svolto nella massima semplicità, i lanci si sono svolti regolarmente, abbiamo ricevuto armi e viveri col consueto cioccolato. Armi e viveri sono stati divisi con le formazioni partigiane operanti nella zona fra la provincia di Cuneo e quella di Imperia. Intanto siamo arrivati ad Aprile del 1945, i Tedeschi e le Brigate Nere consapevoli della disfatta, pressati dalle forze alleate e dalle nostre formazioni, si ritiravano verso il nord dell’Italia con la speranza di raggiungere la Germania, molti di loro sono caduti e molti altri fatti prigionieri. Noi abbiamo avuto l’ordine di portarci sulle alture sopra Taggia e Sanremo, durante il trasferimento che è durato alcuni giorni, siamo stati attaccati dai Tedeschi in fuga con raffiche di mitragliatrice, anche se sparavano da molto lontano e disordinatamente, una pallottola ha ferito alla gamba il Comandante Gori che non ha avuto la sveltezza di gettarsi a terra.
Ormai i Tedeschi e i fascisti erano in fuga. Noi abbiamo proseguito la nostra marcia verso Taggia e Sanremo portando a spalle su di una barella improvvisata il Comandante Gori che era stato medicato alla meglio. Si trattava di una ferita lieve, arrivati a Sanremo, è stato ricoverato nel locale Ospedale. Intanto siamo arrivati prima a Taggia e poi a Sanremo, era il 25 aprile 1945, contemporaneamente sono arrivate le truppe alleate e insieme abbiamo presidiato quelle città ormai abbandonate dai nazi-fascisti. Dalla vicina Francia sono arrivate anche delle truppe francesi formate da soldati di colore Senegalesi questi, dopo qualche giorno sono rientrati in Francia. Dopo i festeggiamenti per la vittoria sul nazifascismo, siamo rimasti a presidiare la città con le truppe alleate, fin quando il Comitato di Liberazione che si era costituito, dopo avere regolarmente registrato le nostre generalità e le formazioni in cui avevamo operato, ci ha messo in libertà e siamo rientrati nelle nostre famiglie.
Gio Batta Basso (Tarzan)
Chiara Salvini, Ricordi di un partigiano, Nel delirio non ero mai sola, 29 luglio 2012


Chissà se lassù da qualche parte

sventoleranno le bandiere rosse,

se ci sarà quel mondo di fratelli

che hai sognato nelle gelide

veglie di partigiano.

Come in un film

della Resistenza spagnola

hai fatto saltare

il ponte della vita

e ancora una volta

hai opposto il tuo sdegnoso rifiuto

ad una realtà vile e cialtrona.

Non così avremmo voluto lasciarci.

Tutti insieme

avremmo voluto sfidare con te

la morte

che fa il nido negli angoli bui

della nostra anima

Nelle piazze, sulle strade faticose

delle montagne,

nel gelo degli inverni infiniti

non saresti mai morto.

Non posso che cantarti,

disperata e triste

per la tua bella vita perduta.

Voglio cantarti,

smarrita e triste

contro la morte assassina

per far vivere il tuo ricordo.

Donatella D’Imporzano, In memoria di Vittò, capo partigiano

Chiara Salvini, Vittò, poesia di Donatella D’Imporzano, Nel delirio non ero mai sola, 29 luglio 2012

giovedì 6 ottobre 2022

Il governo americano aveva già predisposto dei piani di possibile intervento militare in Italia


1.1 Il Sifar, il primo servizio segreto della Repubblica
Il primo servizio segreto della Repubblica, per i motivi sopracitati, poté nascere soltanto dopo l’esito delle elezioni dell’aprile del 1948, che sancì la sconfitta del Partito Comunista e aprì la strada alla Nato. Fino a quel momento, l’Oss (Office of Strategic Service) e successivamente la Cia (Central Intelligence Agency) avevano ritenuto opportuno operare sul territorio italiano in prima persona.
Il Sim, ossia il servizio segreto militare di epoca fascista, che stava cercando di far valere la propria identità antifascista all’insegna della discontinuità col vecchio regime (come gran parte degli apparati dello Stato), nel 1945 dovette affrontare il cosiddetto “scandalo Roatta” <7. L’ex capo del Sim negli anni Trenta, il generale Mario Roatta, il quale era sotto processo per la mancata difesa di Roma e per l’omicidio dei fratelli Rosselli oltre che accusato dal governo jugoslavo di crimini di guerra, era stato aiutato dal SIM a fuggire dal suo luogo di detenzione, per trovare asilo nella Spagna franchista. Lo scandalo scatenò un’ondata di sdegno pubblico, che sfociò in importanti moti di piazza animati dalla sinistra. Per placare gli animi, all’ufficio venne semplicemente cambiato nome (pratica che, come si vedrà, verrà riutilizzata in futuro) e, dopo un anno, venne ufficialmente sciolto. Rimase in piedi soltanto l’ufficio “I” (un modesto ufficio d’informazione militare che esisteva, tra scioglimenti e rifondazioni, dal 1865 <8), che si occupò principalmente di distribuire sussidi ai decorati di guerra. Fu soltanto nell’ottobre del 1948, sei mesi dopo le prime elezioni politiche, che il generale Giovanni Carlo Re venne messo a capo di questo ufficio; e fu soltanto il 30 marzo 1949 che Re venne incaricato, con una circolare del ministro repubblicano Pacciardi, di potenziare l’ufficio e riformarlo, ma sempre sulla linea del vecchio Sim. Infine, dopo la firma del patto Nato in aprile, il primo di settembre del 1949 nasceva ufficialmente il Sifar (Servizio Informazioni Forze Armate) <9. Alla stessa data vennero istituiti i Servizi informazioni operative e Situazioni (Sios), che “avrebbero dovuto operare esclusivamente nel campo tecnico-militare di ciascuna forza armata, ma sui quali peseranno, negli anni successivi, le stesse ombre e gli stessi sospetti che si addentreranno sul Sifar e sul Sid” <10.
La contiguità con la stipulazione del patto del Nord Atlantico (ratificato in parlamento il primo di agosto 1949) e la sua relativa Organizzazione è l’elemento da tenere in maggiore considerazione. All’interno della vasta rete di alleanze degli Stati Uniti (Nato, Cento, Seato, Patto di Colombo, ecc.), anche la Nato agiva per mantenere lo status quo politico nei paesi aderenti, ma scelse di tenere segreta questa finalità per le ovvie proteste che avrebbero presentato i partiti comunisti italiano e francese. <11
Il governo americano aveva già predisposto dei piani di possibile intervento militare in Italia. Nel documento 'Foreign Relations of the United States' (1948) del National Security Council, la sezione dedicate all’Italia prevedeva che, nell’ipotesi di una vittoria elettorale del Pci, bisognasse “iniziare una pianificazione militare congiunta con azioni selezionate” e che si dovesse “fornire ai clandestini anticomunisti italiani assistenza finanziaria e militare”; ancora più significativo il passo: “un efficace appoggio degli USA può incoraggiare elementi non comunisti in Italia a fare un ultimo vigoroso sforzo, anche a rischio di una guerra civile, per prevenire il consolidarsi del controllo comunista”. <12
“Per prevenire”: infatti, nonostante il risultato rassicurante delle elezioni, le direttive degli Usa sull’Italia non cambiarono affatto di orientamento; al contrario, le misure furono sempre più intensificate, dato il progressivo aumento dei consensi che il Pci registrò in ogni tornata elettorale per ancora trent’anni. In un’altra riunione del National Security Council, del 5 gennaio 1951, era stato previsto un piano per “dispiegare forze in Sicilia o Sardegna o in entrambe le isole, col consenso del governo italiano, in forze sufficienti a occupare queste isole contro l’opposizione comunista indigena”, direttiva approvata da Truman l’11 gennaio <13.
Si possono qui intravedere le origini del progetto Gladio <14. Il documento, consultabile dal 1985, è tuttavia coperto da omissis nelle parti più delicate; in un passo, che riteniamo significativo, si dice che: “[…] nel caso che [il governo italiano] cessi di mostrare determinazione a opporsi alle minacce comuniste interne ed esterne, gli USA dovrebbero iniziare misure [omissis] … progettate per impedire la dominazione comunista e per ravvivare la determinazione italiana di opporsi al comunismo”. <15
Il “ravvivare la determinazione”, con il senno di poi, ci può far ritenere che si potesse già trattare di iniziative in linea con quella che poi verrà chiamata “guerra psicologica” (v. cap. 3).
Per completare il quadro delle relazioni tra il Sifar e gli apparati di intelligence americani e la massima fedeltà dimostrata dal primo verso i secondi, menzioniamo la funzione dell’ente del dipartimento di difesa americano National Security Agency (NSA), un’agenzia specializzata nello spionaggio delle telecomunicazioni; questa struttura governativa allestì un “pool internazionale delle informazioni”, comprendente i servizi segreti di molti paesi alleati degli americani. La rete di collaborazione, che era sostanzialmente un insieme di patti firmati dai servizi segreti per conto dei governi, funzionava a senso unico, c’era in sostanza una gerarchia per la quale il cosiddetto primo firmatario (appunto, il Nsa) e i secondi firmatari (il GCHQ per la Gran Bretagna, il CBNRC per il Canada e il DSD per Australia e Nuova Zelanda) avevano l’obbligo di scambiarsi tutte le informazioni senza restrizioni; mentre i terzi firmatari (tra cui il Sifar per l’Italia) erano semplicemente tenuti a inviare materiale al primo e ai secondi, in un rapporto impari.
Un ex agente del NSA rivelò nel 1972 il funzionamento di questa catena: “I terzi firmatari non ricevono quasi nulla da noi, mentre noi riceviamo quasi tutto da loro. In pratica è un trattato a senso unico. Noi lo violiamo anche con i secondi firmatari, sorvegliando costantemente le loro vie di comunicazione.” <16
Dopo il generale Re, il Sifar passò per degli anni di gestione “apparentemente incolore”, sotto la guida del gen. Umberto Broccoli e del gen. Ettore Musco. Il salto di qualità nella attività del Sifar cominciò negli ultimi giorni del 1955, con la nomina a capo del servizio del generale Giovanni De Lorenzo, una personalità che diventerà di importanza centrale e che ritroveremo più avanti all’interno del presente studio. Il generale De Lorenzo ricevette questa nomina anche in virtù dei suoi meriti nella guerra resistenziale, probabilmente veritieri ma sicuramente molto gonfiati dal momento che gli vennero assegnate numerose decorazioni senza motivazioni esaustive <17. Il De Lutiis definisce questi meriti “assai presunti” <18. Di fatti, la sua nomina viene favorita piuttosto dal benestare dell’ambasciatrice statunitense in Italia Claire Booth Luce; gli americani ritenevano che un uomo come De Lorenzo avrebbe potuto sorvegliare l’operato del neoeletto presidente della Repubblica Gronchi, “in odore di sinistrismo”. A conferma della reputazione che il generale aveva in seno agli apparati di difesa statunitensi, c’è il fatto che il primo ordine che gli viene impartito, una volta alla guida del Sifar, dal comando generale delle forze armate statunitensi è quello di rispettare gli obiettivi del piano permanente di offensiva anticomunista chiamato 'Demagnetize', che aveva come obbiettivo prioritario quello di limitare “forze, risorse, influenza, nei governi e nei sindacati italiani e francesi” e del quale “i governi italiano e francese non devono essere a conoscenza, essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale” <19.
Ad ogni modo, l’irresistibile scalata del generale ai vertici occulti dello Stato comincia proprio durante i suoi anni al Sifar, ma prenderà una svolta decisiva negli anni a seguire. L’argomento verrà approfondito nel cap. 2.3, I dossier di De Lorenzo.
[NOTE]
7 Cfr. Giuseppe De Lutiis, storia dei servizi segreti in Italia, Editori riuniti cap. Lo scandalo Sim
8 Cfr. Giuseppe De Lutiis, op. cit., cap. Gli esordi
9 Giuseppe De Lutiis, op. cit., pg. 38
10 Ibidem, pg. 39
11 Ibidem, pg. 40
12 Ibidem, pg. 41
13 Citata in G. De Lutiis, op. cit., pg. 41
14 Per Gladio, tra la vasta letteratura in proposito, rimandiamo a …
15 Citato in G. De Lutiis, op. cit., pg 42
16 Cfr. Marco Sassano, SID e partito americano, Padova, Marsilio, 1975, p. 47; Citato in G. De Lutiis, op. cit., pg .43
17 Cfr G. De Lutiis, op. cit., cap. De Lorenzo, la schedatura generalizzata
18 G. De Lutiis, op. cit., pg. 54
19 Joint Chief of Staff, Memorandum, 14 maggio 1952. documento citato in R. Faenza, Il Malaffare, p. 313
Claudio Molinari, I servizi segreti in Italia verso la strategia della tensione (1948-1969), Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2020/2021

martedì 13 settembre 2022

Si giunse così a dare nuovo impulso alla persecuzione dei criminali fascisti grazie all’istituzione delle Corti di assise straordinarie, le Cas



Con il 25 luglio del 1943, in Italia, si apre una nuova fase politica dopo un ventennio di dittatura. Il Gran Consiglio del Fascismo, in una seduta estremamente tesa, sfiducia a maggioranza il Duce, Benito Mussolini. Hans Woeller, bene racconta il clima di quei momenti <3, quando alle 22:45 di sera, ora in cui viene ufficializzata pubblicamente la sfiducia a Mussolini, scoppia un vero e proprio “terremoto”: la gente per le strade è festante e aggredisce i simboli tangibili del regime (i monumenti e altri manufatti), anche se in alcune città, come a Milano, si procede all’aggressione caotica ai rappresentanti del regime che arrivano sotto tiro. Mussolini si presenta dal re per rassegnare nelle sue mani, come dal vigente Statuto Albertino, le proprie dimissioni e da questi viene fatto arrestare. Il Generale Badoglio è il nuovo Primo Ministro che già il 27 luglio decreta lo scioglimento del partito fascista e la soppressione del Gran Consiglio del Fascismo. Ma di perseguitare gli ex fascisti ancora non se ne parla. In realtà, l’obiettivo principale di Badoglio è di uscire da una guerra tanto rovinosa quanto violenta a fianco degli alleati tedeschi senza preoccuparsi eccessivamente delle epurazioni, anche se qualcosa venne fatto, come l’arresto avvenuto a fine agosto 1943 di alcuni esponenti di spicco del partito fascista al fine di evitare un complotto antigovernativo; ma questa è un’altra cosa rispetto all’epurazione per aver commesso crimini fascisti o per aver collaborato con essi. I primi veri interventi sono svolti in Sicilia dall’Amgot (Allied Military Government of Occupaid Territory) che altro non è che un organismo amministrativo espressione del governo alleato che intanto si estende alla Sicilia e che, nelle intenzioni di Churchill, avrebbe dovuto fare piazza pulita del regime mussoliniano e dell’alleanza dell’Asse, ma seppur occupandosi dell’epurazione non era assolutamente diretto a licenziamenti indiscriminati e di massa. Per gli alleati, insomma, era necessario cacciare i responsabili della grave situazione italiana e tutto si sarebbe ricomposto.
Il Governo Militare Alleato procedette così allo scioglimento del PNF e dei sindacati ad esso collegati, proibendo qualsiasi forma di manifestazione di natura fascista; parallelamente si procedette all’arresto dei fascisti considerati pericolosi. Si proseguì poi, non senza difficoltà, alla sostituzione di amministratori e funzionari collusi con il vecchio regime.
L’8 settembre del 1943 veniva firmato l’armistizio tra il governo italiano, rappresentato da Badoglio, e gli alleati anglo-americani. I tedeschi invadono Roma e il re scappa a Brindisi, creando le premesse di quello che sarà il Regno del Sud. Mussolini, il 12 settembre, viene liberato dai tedeschi presso il Gran Sasso, dove era detenuto, e di lì a poco darà vita nel nord Italia alla Repubblica Sociale Italiana che durerà fino all’aprile del 1945 e farà “epurazione” a modo suo, quando, a ottobre del 1943, creerà un Tribunale Speciale Straordinario per punire con pene capitali chi aveva votato contro il dittatore nella seduta del 25 luglio (vittime illustri saranno il generale de Bono e Galeazzo Ciano, fucilati di lì a poco a Verona).
Intanto, al Sud, con l’estendersi del controllo anglo-americano a Napoli, la defascistizzazione prosegue con l’epurazione delle istituzioni scolastiche e delle università e con l’epurazione degli enti locali; anzi, per garantire una maggiore efficacia alle politiche alleate viene creata la Allied Control Commission (Acc) con funzioni operative. Invece nelle zone sotto il controllo del governo Badoglio, molto frequentemente, i fascisti erano tornati al potere o perlomeno esercitavano poteri ufficiosi ancora rilevanti senza che il legittimo governo potesse operare se non per sedare le rivolte di cittadini disperati dal ritorno ad una sorta di status quo. Così si dovette ripartire quasi da zero nel campo dell’epurazione. Nonostante non ritenesse il problema di prioritaria importanza, Badoglio, provvide con un ordinanza ad epurare le forze dell’ordine (ottobre 1943) anche se non pensò mai di estendere l’epurazione alla pubblica amministrazione. Nel novembre del 1944, Badoglio, giunge a catalogare, dopo molteplici pressioni politiche, quattro tipi di fascisti: “Del primo gruppo, considerato relativamente inoffensivo, facevano parte gli iscritti al partito da lungo tempo e magari di alto rango che tuttavia si erano sempre comportati abbastanza degnamente e che quindi non andavano annoverati tra i profittatori e gli sfruttatori di regime; certo, dovevano perdere i loro privilegi ma non era necessario sottoporli a misure coercitive. Un analogo riguardo, invece, non bisognava dimostrare nei confronti dei componenti il secondo gruppo, nei confronti, cioè, di quei fascisti che non solo avevano ricoperto cariche pubbliche, ma “sono stati fautori di favoritismi, scorrettezze amministrative, abusi, violenze contro non fascisti ecc…” e che quindi andavano arrestati come del resto gli appartenenti al terzo gruppo, vale a dire gli attivisti e i fascisti della prima ora. Badoglio, infine, considerava particolarmente pericolosi i fascisti del quarto gruppo, cioè quegli “individui che, pur non appartenendo in primo piano alla vita politica, hanno sempre aiutato sottomano i gerarchi con tutti i mezzi specialmente illeciti, per ottenere protezione e favori”; essi sono - continuava Badoglio - “i vermi più luridi del letamaio fascista (…) che occorre ricercare, scoprire e colpire inflessibilmente”. <4 Quest’ultimi, i più deleteri per il paese, andavano perseguiti. Il risultato di questa valutazione sarebbe stato un Regio Decreto del 9 dicembre 1943, “Defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato degli enti locali e parastatali, degli enti comunque sottoposti a vigilanza e tutela dello Stato e delle aziende private esercenti pubblici servizi o di interesse nazionale”, sintesi di tutte le direttive in materia emanate fino a quel momento. Lo scopo della defascistizzazione degli enti statali era evidente.
All’atto dell’applicazione però tale decreto non si mostrò particolarmente gradito a coloro che dovevano applicarlo, poiché non chiariva i molti dubbi procedurali legati alla sua applicazione; fu così che venne rallentato e boicottato. Questa situazione si sarebbe protratta fino all’aprile 1944, quando il governo sostenuto da una nuova coalizione di partiti, tra cui socialisti e azionisti, diede vita ad un nuovo esecutivo che nel maggio 1944 allargò grazie a un nuovo decreto, la platea dei punibili anche a coloro che avevano organizzato e diretto la marcia su Roma, gli squadristi autori di violenze, gli autori del colpo di stato del 3 gennaio 1925 e a chi aveva mantenuto in vita il fascismo con atti rilevanti. Per la prima volta si prendeva in considerazione la “lesione della fedeltà e dell’onore militare per fatti commessi dopo l’8 settembre 1943”. Il ministro Sforza, appena insediato, dovette agire in materia di epurazione colpendo anche banchieri ed ex prefetti.
E ci avviciniamo alla liberazione di Roma. Il Mercuri <5 sottolinea moltissimo le responsabilità della figura del maresciallo Badoglio che più di ogni altra cosa si sarebbe preoccupato di smantellare le strutture politiche del defunto regime con lo scopo solamente che queste non collidessero con il nuovo corso italiano e non per senso di giustizia verso il popolo italiano, indicando con i primi provvedimenti del suo Governo le direttrici di un colpo di stato regio che nel regno del Sud. Infatti, al crollo del fascismo, in assenza di tentativi di rivolta, accadde lo scioglimento del PNF, del Grande Consiglio del Fascismo, del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, della Camera dei fasci e delle Corporazioni, all’incorporamento della MVSN nel Regio esercito e all’arresto di alcuni gerarchi come misura di sicurezza. Chi non fuggì in Germania si affrettò a professarsi leale al nuovo corso politico e manifestando fiducia nel Re si mise a disposizione della patria.
E così si giunge alla liberazione di Roma avvenuta ad opera delle forze alleate il 4 giugno 1944 che, come era avvenuto dieci mesi prima, passa da una esplosione di gioia, all’accanimento esasperato contro i simboli del regime. Si forma un nuovo governo che scalza quello reazionario di Badoglio, presieduto da Ivanoe Bonomi, figura di spicco dell’antifascismo italiano. Il passo, rispetto al governo precedente, cambia poiché ora la compagine parlamentare è composta da azionisti, socialisti, comunisti e dai partiti moderati borghesi, molto poco disposti ad entrare a compromessi con gli ex fascisti. Il 27 luglio 1944 viene controfirmato dal Luogotenente del Regno ritornato a Roma, Umberto di Savoia, dopo la provvida abdicazione di Vittorio Emanuele III, il Decreto Luogotenenziale 159: potremmo definirlo come fa il Woeller la Magna Charta dell’epurazione politica <6. In esso furono accorpate tutte le precedenti “sanzioni contro il fascismo”. In materia penale si prevedeva una responsabilità di livello costituzionale per gli atti che avevano favorito l’avvento del regime fascista compromettendo la sicurezza e l’ordinamento dello stato. Per i membri del governo fascista e i gerarchi “colpevoli di annullare le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del paese” si prevedevano pene dall’ergastolo alla pena di morte. I giudizi sulla colpevolezza erano demandati ad un’Alta Corte di Giustizia presieduta da un presidente e composta da otto membri di nomina del Consiglio dei Ministri tra gli alti magistrati dello stato (nomine difficilissime da fare, perché o i magistrati erano compromessi col precedente regime, o erano prossimi alla pensione, o proprio non volevano saperne di addossarsi responsabilità così grandi <7). Inoltre, erano considerati colpevoli di altri delitti commessi “per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo” gli organizzatori di squadre fasciste colpevoli di violenze e devastazioni, coloro che avevano diretto la insurrezione del 28 ottobre 1922, coloro che avevano promosso e diretto il colpo di stato del 3 gennaio 1925, e chiunque avesse contribuito con atti delittuosi commessi “per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo”.
Questi casi appena citati erano sottoposti al giudizio della magistratura ordinaria. Era inoltre prevista la sospensione temporanea dai pubblici uffici o dall’esercizio dei diritti politici nonché l’assegnazione a colonie agricole o a case di lavoro fino a dieci anni per coloro che, avvalendosi della situazione politica creata dal fascismo o per motivi fascisti avevano compiuto fatti di particolare gravità che, pur non configurando gli estremi di reato, fossero apparsi “contrari a norme di rettitudine o di probità politica”. Accanto alle norme penali che colpivano le responsabilità nell’avvento e nel sostegno del regime fascista, si introdusse anche il concetto di collaborazionismo con l’occupante tedesco. In materia di epurazione si prevedeva la dispensa del servizio in ragione della qualifica ricoperta; questo valeva per gli squadristi, per i partecipanti alla marcia su Roma, per gli insigniti di sciarpa littorio, per i sansepolcristi e per i fascisti ante marcia e gli ufficiali della Milizia Volontari Sicurezza Nazionale, con la possibilità di applicare misure disciplinari meno gravi per chi non si era comportato in modo settario o intemperante. In caso di indebiti avanzamenti di carriera per titoli fascisti, era prevista la retrocessione alla posizione precedente anziché procedere al licenziamento.
Vi era poi un titolo che si occupava dell’avocazione dei profitti di regime che prevedeva che gli arricchimenti patrimoniali avvenuti dopo il 28 ottobre del 1922 da chi aveva ricoperto cariche pubbliche o politiche fasciste avrebbero dovuto essere stati avocati.
Nel complesso per la prima volta ci si trovava di fronte ad una legge organica ed esaustiva, almeno nelle intenzioni.
E qui si potrebbe aprire una riflessione su un fenomeno che Claudio Pavone affronta nel saggio sulla “continuità dello Stato nell’Italia 1943-‘45” <8. Molto sinteticamente l’autore pone l’accento su due piani distinti ai quali, a mio parere, ne va aggiunto un terzo. Vi è infatti un tema della continuità inteso in senso ristretto e formale, come rottura o meno della legalità costituzionale e di una legalità nell’ambito del Regno, ancora esistente, della Repubblica, che vi sarà tra pochissimo. Un secondo livello è poi quello legato all’apparato e organizzazione e il complesso di istituzioni che il fascismo chiamò “parastato” e che venne lasciata in eredità al postfascismo. Aggiungiamo qui un terzo elemento di discontinuità che andrà a rallentare significativamente la macchina burocratica e altri non è se non ciò che consegue alla suddivisione italiana in tre zone di influenza: legislazione in materia di epurazione efficace nelle zone amministrate dagli alleati, inefficienza della legislazione epurativa nella zona in mano alla monarchia nel regno del sud, per finire con la zona corrispondente alla ex RSI che vedrà un accavallarsi di normative, con prevalenza di quelle alleate, se non altro più pratiche.
Vi è poi il tema dell’epurazione spontanea che si cerca di soppiantare con questa normativa [...]
Infine, l’epurazione giudiziaria, concentrata più che altro tra l’estate e l’autunno 1944. Questa la situazione al momento della pubblicazione della nuova legge. E l’attività dell’Alto Commissariato diede i suoi frutti: all’inizio di ottobre del 1944 l’organismo in questione aveva sottoposto ad indagine 6000 persone con 3500 deferimenti alle 61 commissioni costituite e 650 proposte di sospensione con 167 licenziamenti effettivi <10 solo nei Ministeri e nelle altre amministrazioni centrali dello Stato. E alla fine dell’anno, con le dimissioni dell’Alto Commissario, Scoccimarro, i numeri erano ancora più importanti: l’Alto Commissario e la stessa amministrazione pubblica avevano segnalato ben 16000 persone e per 3600 di questi si era finalmente giunti a un giudizio di primo grado da parte delle commissioni con 600 rimozioni e 1400 sanzioni meno pesanti <11. Vi è una rinnovata spinta a procedere contro i rei di atti criminali e di collaborazionismo durante il regime. Un esempio per tutti è il processo che si svolge a Roma il 20-21 settembre 1944 contro l’ex capo della polizia Pietro Caruso: l’accusa mossa era quella di aver preso parte ai rastrellamenti tedeschi o di averli personalmente organizzati, di collaborazione con la Gestapo e le SS. Ma l’accusa di maggior peso lo vedeva responsabile della collaborazione con i tedeschi nel redigere la lista di 335 persone detenute che verranno poi massacrate, nella primavera del 1944, alle Fosse Ardeatine, per rappresaglia contro l’attentato di via Rasella a Roma, che era costato la vita a 35 soldati tedeschi. La corte, nell’applicazione del decreto del 27 luglio, comminò una pena capitale che sembrò più un verdetto “contro l’intero fenomeno del collaborazionismo” <12.
Il contesto politico, nel frattempo, stava mutando nuovamente con la virata dei partiti moderati verso destra e con la convinzione sempre più forte di democristiani e liberali di un effettivo pericolo di rivoluzione socialista in Italia. Era il momento, per i politici, di cambiare registro. A suffragare quanto detto arriva un’inaspettata svolta del comunista Togliatti che già verso la fine del 1944, pur rimanendo fermo nella sua convinzione di una epurazione politica severa, passa a più miti consigli rispetto alla epurazione giudiziaria, constatando una parziale paralisi del paese che non poteva durare ancora per molto senza creare danni irreparabili. Nella primavera del 1945 questo era il sentimento prevalente nella classe politica italiana anche se nessuno pensava di rendere pubbliche queste riflessioni. Di fatto, però, la tendenza a un disimpegno dal terreno si faceva sentire in seno all’Alto Commissariato che a dicembre del 1944 aveva visto i suoi componenti dimissionari. L’Istituzione perse progressivamente significato fino a svuotarsene, e nei primi mesi del 1945 non si ebbero eventi significativi sul fronte epurazione. Poi, nella notte del 5 marzo 1945 fuggì dal carcere un criminale di guerra, il Generale Mario Roatta; questo evento sollevò indignazione generale e sospetti, da parte dei partiti della sinistra, di complicità tra governativi di destra, forze dell’ordine ed ex fascisti. Si giunse così a dare nuovo impulso alla persecuzione dei criminali fascisti grazie all’istituzione delle Corti di assise straordinarie, le CAS, che, con D. Lgs. L. 22 aprile 1945 n. 142, vennero istituite presso i capoluoghi di provincia con competenza a giudicare chi, dopo l’8 settembre 1943, si fosse macchiato di delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione con i tedeschi e di aiuto o assistenza ad essi prestato. Era considerato pertanto colpevole: 1) chi avesse ricoperto cariche di ministro o sottosegretario di stato o cariche direttive del PFR; 2) Presidenti o membri del tribunale speciale per la difesa dello stato o altri tribunali straordinari istituiti dal governo fascista repubblicano; 3) capi di provincia o segretari o commissari federali o cariche equivalenti; 4) direttori di giornali politici; 5) ufficiali superiori in formazioni di camicie nere con funzioni politiche o militari. In parallelo, inoltre, vengono emanati il D. Lgs. Lgt. 26 aprile del 1945 n. 195 che stabilisce sanzioni penali per l’attività fascista nell’Italia liberata (il 25 aprile il CLNAI aveva proclamato la insurrezione del nord Italia contro i tedeschi occupanti), e il D. Lgs. Lgt. 26 aprile 1945 n. 149 che stabiliva sanzioni a carico dei fascisti particolarmente pericolosi e prevedeva interdizioni dai pubblici uffici e privazione dei diritti politici per chi aveva compiuto atti particolarmente gravi mosso da motivi fascisti pur non essendo configurabili come reati. Le sanzioni erano applicate da commissioni provinciali presiedute da tre membri. Molto spesso però nell’Italia liberata al Nord, venivano applicate le Ordinanze generali dell’American Military Government (in particolare la 35) che prevedeva una autodichiarazione scritta, su modelli predisposti dall’AMG, del proprio passato politico e militare e che le Commissioni di epurazione aziendali applicavano regolarmente. Tale ordinanza agiva similmente alle leggi italiane, colpendo le varie categorie di fascisti (sciarpa littorio, marcia su Roma…), trasferendo alle commissioni di epurazione provinciali il potere, dopo avere visionato le schede personali e le prove accusatorie, di sospendere dal lavoro il soggetto sotto giudizio. Era previsto anche un ricorso da effettuarsi da parte dell’epurato nel termine perentorio di 10 giorni dalla comunicazione della sentenza. Dunque, come si evince da questa ultima normativa, erano previsti provvedimenti penali per i crimini, e sanzioni amministrative per le “colpe minori”: due aspetti, il penale e l’amministrativo, che viaggiavano su binari differenti se pure paralleli. Le CAS durano poco.
[NOTE]
3 Hans Woeller, I conti con il fascismo - l’epurazione in Italia. 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 1977, pagg. 19 e seguenti.
4 Hans Woeller, op. cit, pag 111.
5 Lamberto Mercuri, l’epurazione in Italia. 1943-1948, Cuneo, ed. l'Arciere, 1988, pagg.9 e segg.
6 Hans Woeller, op. cit. pag. 193.
7 Cfr., a cura di Giovanni Focardi e Cecilia Nubola, Nei Tribunali - Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2016.
8 Claudio Pavone, Rivista di Storia Contemporanea, Sulla continuità dello Stato, fascicolo 2 anno 1974, Torino, Loescher, pagg. 172-205.
10 Dalla relazione di Upjhon davanti all’Advisory Council for Italy, 6 ottobre 1944.
11 Rapporto conclusivo di Scoccimarro, 3 gennaio 1945.
12 Hans Woeller, op. cit. pag 255.

Fabio Fignani, L’epurazione in Veneto. Alcuni casi di studio, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016

domenica 31 luglio 2022

Siamo stati costretti a questa tragica decisione dal sopravvenire di un imponente rastrellamento


Liberato due giorni dopo l’annuncio dell’armistizio, su decisione del direttore del carcere, in quanto “detenuto politico”, ritorna a casa ed è protagonista di una fondamentale fase di transizione dell’organizzazione comunista: il passaggio alla lotta armata. Argante Bocchio diventa partigiano, prendendo il nome di battaglia “Massimo”, ed è inviato in valle Sessera, nel Biellese orientale, presso il distaccamento “Pisacane”, comandato da “Gemisto”, nome di battaglia di Francesco Moranino <8.
[...] “Massimo” è protagonista di una serie di episodi salienti che posso qui, per esigenze di brevità, solo citare. Innanzitutto, la costituzione, tra la fine di dicembre del 1943 e il mese di gennaio del 1944, della cosiddetta repubblica di Postua <9: per circa tre settimane il territorio postuese si trova sotto il controllo partigiano, assumendo le caratteristiche di una vera e propria “zona libera”. Oltre al controllo del territorio esercitato dal distaccamento “Pisacane”, nella vallata vicino, sopra Coggiola, anche il distaccamento “Matteotti” è padrone del campo, per cui si può affermare che i partigiani controllino, sia pur per breve tempo, un territorio molto vasto, dalla valle Sessera a quella del Ponzone, abitato da qualche migliaio di persone, la stragrande maggioranza delle quali lavorano nell’industria tessile. Gemisto è il capo indiscusso ed è punto di riferimento per tutti: tiene frequentemente comizi di fronte alle fabbriche in appoggio alle richieste operaie e riscuote l’ammirazione e la fiducia della popolazione. Dopo vent’anni di silenzio imposto dal regime, emerge finalmente la voce di un antifascista alla testa di una forza già sufficientemente armata. Per gli operai della zona si crea una situazione inaspettata: i fascisti, pur essendosi riorganizzati nella Repubblica di Salò, sono concentrati a Vercelli e a Biella, nelle vallate di montagna del Biellese orientale si riassapora la libertà.
Il 25 gennaio 1944, però, capita quello che i partigiani si aspettano da tempo: ritornano, in forze, i fascisti. I partigiani li affrontano con le armi, ma sono costretti a ritirarsi e a tornare sulle montagne intorno a Postua.
Poiché la situazione è insostenibile, Gemisto prende la decisione di trasferire il distaccamento a Noveis, ma quando i fascisti avviano il grande rastrellamento del febbraio ’44, è inevitabile dividere gli uomini in tre gruppi, uno dei quali viene affidato a Massimo. Seguono per lui e i compagni mesi difficili, durante i quali viene devastata la casa di famiglia e sono arrestati i genitori, con la madre trattenuta in detenzione per oltre due mesi; il gruppo è costretto a spostarsi più volte dalla zona di Mezzana alla Serra e viceversa e in questi frangenti si viene a sapere dell’imboscata di Curino, avvenuta l’8 maggio, in cui Gemisto è gravemente ferito e nove partigiani sono uccisi.
Grazie all’aiuto della popolazione, nel frattempo, il campo base di Mezzana si rafforza, diventando anche un centro di reclutamento di nuovi partigiani. Nella seconda metà di maggio il distaccamento si ricongiunge a Postua. Il bilancio del primo inverno è molto pesante <10: dei venticinque iniziali sono rimasti solo una dozzina di partigiani. La popolazione ha pagato il prezzo delle rappresaglie, dei rastrellamenti, degli arresti e degli incendi. Ma la Resistenza continua e si deve ora provvedere all’addestramento dei nuovi arrivati. Con la liberazione di Roma (4 giugno 1944) e l’apertura (6 giugno) del secondo fronte con lo sbarco in Normandia, la situazione cambia totalmente e gli eventi subiscono un’accelerazione. I tedeschi, infatti, sono costretti a prendere forze dal fronte antipartigiano per portarle frettolosamente in Francia. Per il distaccamento partigiano iniziano i «dieci giorni che cambiano la faccia del Biellese orientale». La ritirata dei tedeschi obbliga i fascisti a smantellare i due grossi presidi di fondovalle, Borgosesia e Pray. Da un giorno all’altro i partigiani assumono il controllo del territorio compreso tra Borgosesia, Valle Mosso e Buronzo, in prossimità dell’autostrada Milano-Torino. La gente scende in piazza, li accoglie e li riconosce come le nuove autorità e da parte loro i partigiani esercitano le proprie capacità di governo e riorganizzano le file. Approfittando della pausa militare della zona libera, il distaccamento “Pisacane” si evolve sul piano militare: diventa battaglione, poi la 50a brigata “Garibaldi”, intitolata a Edis Valle. Gemisto ne rimane il comandante militare;
“Carlo” (Silvio Bertona) diventa il commissario politico; vengono nominati “Danda” (Annibale Giachetti) come vicecomandante e Massimo come vicecommissario.
L’esperienza della zona libera finisce ai primi di luglio: i partigiani si trovano a combattere in poco tempo due grosse battaglie, a Crevacuore e a Noveis. Con la prima tentano di bloccare le operazioni di rastrellamento, riuscendo a resistere solo due giorni; nella seconda si difendono meglio grazie alla collaborazione di partigiani delle formazioni di Moscatelli dotati di una mitragliatrice, piazzata in un buon punto sotto il monte Barone; sono però costretti a pagare il prezzo della cattura di sette uomini, che vengono fucilati.
L’estate del 1944 continua turbolenta, ma a fine agosto appaiono evidenti le difficoltà di tedeschi e fascisti nel mantenere il controllo del territorio libero dai “ribelli”.
[...] Alle difficoltà dell’approvvigionamento si aggiunge quella anche più grave della sicurezza delle formazioni dalle infiltrazioni di spie. È proprio in questo contesto che si verifica la tragica vicenda per cui saranno chiamati a processo Gemisto, Massimo e altri partigiani dopo la Liberazione. Il 26 novembre ’44, nei pressi di Portula, sono fucilati, dai partigiani di Gemisto, Emanuele Strasserra, Giovanni Scimone, Sergio Santucci, Mario Francesconi ed Ezio Campasso; i primi due sono agenti al servizio della Oss, l’organizzazione militare segreta americana <13, gli altri tre sono partigiani vercellesi, vicini agli ambienti di “Giustizia e libertà”. Qualche tempo dopo, il 9 gennaio ’45, a Flecchia, frazione di Pray, sono uccise anche le mogli del Santucci e del Francesconi, rispettivamente Maria Dau e Maria Martinelli. Nel dopoguerra la magistratura apre un’indagine sui due episodi che porta all’incriminazione di Moranino, all’epoca parlamentare e inizialmente protetto dall’immunità, ed altri, tra cui Bocchio e Bertona, contro i quali viene emesso un mandato di cattura il 10 maggio 1949, ineseguito per irreperibilità.
[...] Non si è trattato di un normale procedimento giudiziario, perché ovviamente sul banco degli imputati sembra finita la Resistenza biellese e non solo. Bocchio, nel raccontare la vicenda, insiste sui sospetti derivati da alcuni episodi in cui sono stati coinvolti i tre vercellesi, in particolare un lancio di armi in una zona che hanno detto essere da loro controllata, ma che era vicinissima alla città e ai nazifascisti. «Nemmeno un bambino avrebbe organizzato un lancio simile vicino ad una zona dove non c’era un presidio, bensì una presenza militare tedesca e fascista considerevole», commenta. Il lancio ha luogo: arrivano due apparecchi inglesi e lasciano cadere le armi alla periferia di Vercelli, lungo le rive del Sesia. Mezz’ora dopo arrivano i fascisti e recuperano tutto. La cosa insospettisce, come anche il millantato passaggio di un intero reparto fascista alla causa partigiana e l’assenza di contatti tra i due genovesi e la missione alleata “Cherokee” <14. Si fa strada la convinzione che si tratti di spie. Prosegue Massimo: «Sollecitati dalle notizie provenienti dalla rete clandestina di Vercelli e dall’atteggiamento ambiguo dei sedicenti partigiani, che giravano liberamente in città, senza alcun apparente timore di essere arrestati, a differenza degli altri antifascisti, con l’accordo del Comando di Zona biellese e del tenente inglese Pat <15, giustiziamo i due ex tenenti, i tre che li seguivano e le mogli dei due che, da settimane, stavano in valle Sessera. Siamo stati costretti a questa tragica decisione dal sopravvenire di un imponente rastrellamento e dall’impossibilità di portarci dietro prigionieri nei nostri trasferimenti». La versione dei fatti di Massimo, riportata in termini sintetici, non risolve i molti interrogativi che incombono ancora oggi sulla tragica vicenda, meritevole di ben altra attenzione storica di quella che si ripromette l’articolo. Ai fini del nostro racconto, infatti, ci limitiamo a prendere atto delle conseguenze personali che l’inchiesta avrà per Massimo.
Riprendendo la storia della sua guerra partigiana, arriviamo al grande lancio del 26 dicembre 1944, organizzato in accordo con la missione inglese “Cherokee” e chiamato scherzosamente il “Santo Stefano dei miracoli”. Grazie ad esso, i partigiani sono finalmente decentemente armati, soprattutto di “sten”, mitragliette inadatte a una battaglia sul campo, ma efficaci per atti di guerriglia.
Poco dopo, il 6 gennaio 1945, inizia un nuovo imponente rastrellamento <16, messo in atto dai tedeschi e dai fascisti concentrati a Vercelli e a Biella. I partigiani decidono di spostare la 50a brigata che già opera in pianura ancora più a sud; la 110a brigata, con Massimo, occupa la Baraggia vercellese; la terza, la 109a brigata, forte di almeno centocinquanta uomini - la decisione più coraggiosa - cammina per giorni e giorni dalle montagne del Biellese al Monferrato, oltre il Po. L’operazione viene affidata al capitano Giberto.
La Liberazione e la latitanza in Italia
A marzo del ’45, i partigiani si preparano per l’atto finale. Gli Alleati stanno sfondando la Linea gotica e stanno avanzando anche russi e francesi. L’attacco degli Alleati ha successo. La XII divisione ha affrontato bene l’urto del grande rastrellamento. Ha subito delle perdite, ma il grosso della formazione si è salvato. Dal Comando della Zona biellese si propone una riorganizzazione degli incarichi: a Gemisto, fino ad ora comandante militare, in previsione del passaggio dalla guerra alla libertà si chiede di passare al ruolo di commissario politico; dopo una breve discussione, la proposta è accettata. Come nuovo comandante militare, si propone “Quinto” (Quinto Antonietti). Massimo da vicecommissario politico diventa vicecomandante militare, Giberto diventa capo di stato maggiore.
Nel mese di aprile si definisce il piano insurrezionale. La Linea gotica viene definitivamente sfondata con ventitré divisioni e gli Alleati contano anche su quanto possono fare i partigiani. Il compito dei partigiani delle formazioni biellesi è quello di controllare la ferrovia e l’autostrada Torino-Milano. Gli angloamericani sanno che i tedeschi si ritireranno da Genova e utilizzeranno tutti i mezzi per raggiungere Milano e Trieste e da lì mettersi in salvo in Austria. Il piano dei partigiani è denominato E27 <17, con gli obiettivi dell’eliminazione dei presidi repubblichini di Valle Mosso e Cossato, della difesa delle fabbriche, dell’occupazione di Biella e Vercelli.
Scatta anche l’appello del Cln all’insurrezione popolare, che prevede la messa in moto di tutta la rete clandestina, nonostante l’avviso contrario degli Alleati, che vogliono evitare una deriva troppo politicizzata degli eventi. Il rapporto con la locale missione si fa più difficile. Anche nel Cln, organo interpartitico composito, non tutti sono d’accordo sull’insurrezione popolare; prevale tuttavia l’opinione favorevole. Gli obiettivi primari sono, come si è detto, la liberazione del Biellese orientale e la resa del presidio repubblichino di Valle Mosso, che resiste a tre attacchi partigiani, prima di concordare la resa, con l’intervento di Quinto, Massimo e un imprenditore tessile che fa da mediatore. Dopo due giorni di trattative i fascisti sono condotti in un improvvisato campo di concentramento a Trivero. Liberato il Biellese orientale, si punta su Vercelli, città che ancora pullula di militari fascisti e tedeschi, dotati di armi pesanti. I partigiani dispongono le forze e si avviano verso la destinazione [...]
[NOTE]
8 Nel gennaio del 1944 si costituirà poi la 2a brigata d’assalto “Garibaldi”, composta da sette distaccamenti tra cui il “Pisacane”, in cui opera Argante Bocchio. Il “Pisacane”, assunto il nome di battaglione, diventerà, alla fine di giugno del 1944, a seguito dell’aumento dei suoi uomini, 50a brigata “Nedo” in ricordo del comandante Piero Pajetta. Nel novembre 1944 la 50a brigata “Nedo” si trasformerà nella XII divisione “Nedo” operante nel Biellese orientale, mentre nel Biellese occidentale opererà la V divisione “Piero Maffei”. Cfr. C. DELLAVALLE, op. cit., pp. 115; 147; 180; GIANNI FURIA - LUIGI SPINA - ANGELO TOGNA (a cura di), 60 anni di vita della Federazione biellese e valsesiana del Pci attraverso i suoi congressi, Biella, Federazione biellese e valsesiana del Pci, 1984, e Rapporti inglesi sulla Liberazione, in PIETRO SECCHIA - FILIPPO FRASSATI, La Resistenza e gli alleati, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 428.
9 Cfr. anche A. BOCCHIO, 25 gennaio 1944: cade il “governo” partigiano di Postua, in “l’impegno”, a. III, n. 4, dicembre 1983.
10 Sui rastrellamenti compiuti nel tentativo di sradicare le bande partigiane, cfr. SANTO PELI, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004, pp. 59-60. Cfr. anche A. BOCCHIO, Il distaccamento di Gemisto nel dramma del primo inverno, in “l’impegno”, a. IV, n. 2, giugno 1984.
13 L’Oss (Office of Strategic Services) è il servizio segreto americano, che ha sede per l’Europa a Berna, alle dipendenze di Allen Dulles. Si veda GIORGIO CANDELORO, Storia dell’Italia moderna, vol. X, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 260 e MASSIMO RENDINA, Dizionario della Resistenza italiana, Roma, Editori Riuniti, 1995, pp. 110-111.
14 Sul ruolo della missione “Cherokee”, cfr. ANELLO POMA - GIANNI PERONA, La Resistenza nel Biellese, Parma, Guanda, 1972, pp. 298-302.
15 Patrick Amoore è indicato da Bocchio come “tenente”, ma in realtà è capitano e membro della missione di ufficiali britannici denominata “Cherokee”.
16 Cfr. anche A. BOCCHIO, Popolazione e partigiani del Biellese orientale nel rastrellamento del gennaio-febbraio 1945, in “l’impegno”, a. V, n. 1, marzo 1985.
17 Vedi A. POMA - G. PERONA, op. cit., pp. 401-402
.
Benedetta Carnaghi, Argante Bocchio. Una storia del Novecento in "l’impegno", n. 2, dicembre 2011, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia

giovedì 26 maggio 2022

Il comandante partigiano Renato

Otello Pighin sottotenente del 9° reggimento artiglieria Brennero (Arch. Pighin - Bortolin) - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

La Resistenza padovana fu invece incentrata e organizzata soprattutto all'interno dell'università della città, o comunque da personalità legate al mondo accademico, tanto che all'università di Padova, unica in Italia, venne assegnata nel dopoguerra la medaglia d'oro al valore militare. Nei giorni seguenti l'armistizio Silvio Trentin, (già professore a Ca' Foscari), Concetto Marchesi e Egidio Meneghetti, rispettivamente rettore e prorettore dell'università patavina, organizzano il Cln Veneto (dotato anche di una sua propria pubblicazione, ”Fratelli d' Italia”) che aveva la sua sede a Padova nel palazzo Papafava.
Oltre all'università operano anche altri protagonisti. Il partito comunista aveva insediato a Padova la delegazione triveneta delle brigate “Garibaldi”; squadre di Giustizia e Libertà, guidate dall'ingegnere Otello Pighin, si dedicavano ad attentati e sabotaggi a fabbriche e mezzi di comunicazione. Arrivarono anche ad incendiare la sede, in uno studio dell'università, del giornale studentesco fascista “Il bò”.
A Padova operava anche la banda fascista chiamata “Carità“(dal nome di Mario Carità). Dopo un trascorso in Toscana, la banda scelse come sua sede il Palazzo Giusti, continuando nel tentativo di indebolire la Resistenza, tramite frequenti torture e uccisioni.
Francesco Corniani, Un marinaio in montagna. Storia di Bruno Viola e dell’eccidio di Malga Zonta, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari, Venezia, Anno accademico 2009-2010

Il prof. Egidio Meneghetti dopo la Liberazione (Arch. CASREC unipd) - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

L'ingegnere Otello Pighin e don Giovanni Apolloni, professore di matematica al Seminario Maggiore e al Liceo Barbarigo di Padova, furono tra i primi organizzatori della Resistenza nel Veneto; fin dal gennaio 1944, Padova divenne teatro di azioni dinamitarde che, se non recavano danni sostanziali, infliggevano ai nazifascisti pesanti colpi sul piano psicologico. In particolare, durante la notte tra il 6 e il 7 febbraio 1944, in occasione dell'anniversario della rivoluzione studentesca antiaustriaca dell'8 febbraio 1848, Otello Pighin, Corrado Lubian, Guido Billanovich e lo studente Gianfranco De Bosio entrarono al Bò' con l'aiuto di un bidello, seminarono per tutte le aule migliaia di volantini inneggianti alla rivolta, posero una bomba ad orologeria nello studio del direttore del giornale universitario “Il Bo'”, di ispirazione fascista, ricoprirono le pareti di scale e segreteria di scritte “fuori i tedeschi! viva Marchesi! rivoltatevi! ricordatevi di Matteotti! per una università libera! ricordiamo don Minzoni!”. L'esplosione dell'ordigno, programmata per l'8 febbraio, venne tuttavia coperta dalle esplosioni dovute al pesante bombardamento che subì Padova; durato più ore, provocò 200 morti. Il 7 gennaio 1945, Otello Pighin cadde in una imboscata, ferito e catturato, sottoposto a torture, fu fucilato dalla banda Carità. Il 20 marzo anche Corrado Lubian, che l'aveva sostituito, cadde in un tranello e venne ucciso. Gianfranco De Bosio, successivamente affermato regista, traspose le vicende alle quali aveva partecipato in un film; “Il terrorista” del 1963. (cfr. Padova nel 1943. Dalla crisi del regime fascista alla Resistenza, a cura di Giuliano Lenci e Giorgio Segato, Il Poligrafo, Padova 1996, pag. 270 e Pierantonio Gios, Un vescovo tra nazifascisti e partigiani. Mons. Carlo Agostini vescovo di Padova (25 luglio 1943- 2 maggio 1945), Istituto per la storia ecclesiastica padovana, Padova 1986, pagg. 54 e 55).
(a cura di) Francesco Tessarolo, È questa l'ora … diario di Lino Camonico Martire bassanese della Resistenza (7 ottobre 1943 - agosto 1944), Attilio Fraccaro editore, 2011

Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

La mattina del 10 gennaio 1945 il custode del cimitero di Abano trovò, abbandonato presso il camposanto, un cadavere nudo e insanguinato. Dalle prime indagini e dal “Verbale di visita a cadavere di sconosciuto”, redatto nel pomeriggio dello stesso giorno dall’ufficiale di stato civile del comune, assistito dall’ufficiale sanitario, risultò che il cadavere era quello di una persona di sesso maschile “deceduta per ferite d’arma da fuoco all’Albergo Trieste, sede dell’Ospedale Germanico n° 12462”, “di corporatura media, statura sui 170 centimetri, capelli castani, barba rasa, baffi castani, completamente privo d’indumenti e di documenti di identificazione, dell’apparente età di anni 40”.
La notizia si diffuse rapidamente e presto si venne a sapere che il corpo che, restituito in modo così barbaro e pietosamente sepolto in una fossa senza nome, era quello dell’ingegner Otello Pighin, assistente alla facoltà di Ingegneria, ma soprattutto uno dei più audaci e abili comandanti partigiani, notissimo in tutto il Veneto col nome di battaglia di “Renato”. Pighin era stato gravemente ferito il 7 gennaio 1945 a Padova in un agguato organizzato dai fascisti della “banda Carità” con la collaborazione di un traditore, torturato mentre era in fin di vita e infine spirato il 9 gennaio nelle mani dei tedeschi.
A Pighin l’università di Padova deve una delle pagine più luminose dei suoi ottocento anni di storia. Nato a Lusia (Rovigo) nel 1912 e laureato in ingegneria meccanica a Padova nel 1939, come i migliori tra i giovani cresciuti nel ventennio della dittatura aveva maturato la sua coscienza politica grazie alla guerra, combattuta da sottotenente di complemento del 9° reggimento artiglieria Brennero. Partecipò nel giugno del 1940 alla breve e fallimentare campagna sul fronte occidentale contro la Francia, e pochi mesi dopo fu mandato a combattere sul fronte greco-albanese, dove soffrì le tragiche conseguenze dell’impreparazione dell’esercito italiano.
Pighin fu rimpatriato per malattia in agosto 1941 e dopo lunga degenza ospedaliera fu posto in congedo assoluto in aprile 1942 e iscritto nel ruolo d’onore degli ufficiali inabili al servizio per invalidità di guerra.
Il 16 agosto 1943 fu nominato assistente supplente presso l’Istituto di Macchine della Facoltà d’Ingegneria per l’anno accademico 1943-44. Nei pochi mesi in cui poté prestare servizio, prima di doversi allontanare precipitosamente dall’Istituto, il 30 dicembre 1943, per sfuggire all’arresto della Feldgendarmerie, si dimostrò “assistente capace e solerte”, come disse il prof. Egidio Meneghetti (1892-1961), principale animatore della Resistenza in Veneto, nell’orazione funebre tenuta il 29 maggio 1945 a Palazzo Bo.
Dopo l’8 settembre 1943 e la fuga del Re e degli inetti comandanti dell’esercito, a Padova il rettore dell’università Concetto Marchesi (1878-1957) e il pro-rettore Egidio Meneghetti dettero vita al Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto (C.L.N.R.V.), da cui derivò il C.L.N. provinciale di Padova. Il manifesto di Marchesi, largamente diffuso in tutto il Veneto, fu il primo documento della guerra dichiarata ai nazifascisti e l’invito a dare inizio alla lotta.
Nella sua decisione di aderire alla resistenza Pighin trovò ispirazione e appoggio in Adolfo Zamboni (1891-1960), grande decorato della guerra 1915-1918 e maggiore di complemento dell’esercito, avversario dichiarato del regime fin dal suo inizio e promotore a Padova del Partito d’Azione, cui anche Pighin aderì. Zamboni e Pighin, animati da grande amore per la patria e spinti da un forte senso del dovere di stampo mazziniano, fecero proprie le esortazioni del grande patriota ottocentesco, evidenziandole anche nella testata de “il Maglio”, il giornale dei giovani del Partito d’Azione di cui Pighin fu promotore, redattore e diffusore.
Essi sapevano di poter contare effettivamente su pochi uomini, ma “puri e decisi”, e solo successivamente, dopo aver sparso il seme, su una più larga adesione popolare. Perciò il tipo di lotta contro fascisti e tedeschi che Pighin condusse brillantemente per più di un anno a capo di piccoli gruppi mobilissimi di audaci patrioti si ispirò ai metodi mazziniani della “guerra d’insurrezione per bande”, la guerra del popolo “invincibile e indistruttibile”, che costringe il nemico a una guerra insolita, insidiosa e logorante, spingendolo senza scampo alla disfatta.
Come armi Pighin, da esperto ufficiale d’artiglieria e ingegnere, scelse gli esplosivi e le miscele incendiarie, preparate nei laboratori universitari o nelle cantine di case bombardate, che, “per salvare la Patria, dovevano lacerare le carni della Patria stessa”. Le prime ampolle di fosforo Pighin le provò nel lavandino della stanza dello studente Gianfranco de Bosio al Pensionato “Antonianum”. Poi andarono insieme a lanciarle nel retro dell’ultimo camion di una autocolonna militare tedesca mentre entrava nella grande autorimessa della Wermacht, facendo divampare un incendio che distrusse una quantità di veicoli.
L’altra arma prediletta da Pighin fu il ciclostile, con cui imprimeva su manifestini e giornali “le parole della ribellione, dell’incitamento, dello sdegno, della rivolta”, come disse Meneghetti al suo funerale.
Incurante dei rischi mortali e della allettante taglia di un milione di lire, enorme per quel tempo, messa dalle autorità sulla sua testa, “Renato” si muoveva impavido per la città, solo leggermente travisato con abiti dimessi e grandi occhiali cerchiati “che smorzavano la fredda audacia degli occhi azzurri”. Quando Lina Geremia, la sua eroica moglie, fu arrestata in aprile 1944, fu tanto audace da farle visita nel vecchio e tetro carcere dei Paolotti, spacciandosi per lontano parente.
Fin dall’inizio Pighin seppe affratellare nella lotta studenti e cittadini. Tre giovani di Voltabarozzo, due studenti e un operaio, già uniti idealmente, furono tra i primissimi ad unirsi a lui. I nuclei divennero squadre, che si moltiplicarono col passare dei mesi diventando battaglioni, alcuni con carattere di piccole formazioni militari permanenti, fino a costituire la famosa Brigata Guastatori Giustizia e Libertà, che fu intitolata a Silvio Trentin (1885-1944), il grande antifascista e federalista arrestato a Padova il 19 novembre 1943 e morto il 12 marzo 1944: la brigata “universitaria” prediletta dal prof. Meneghetti.
La Brigata contava tra i suoi componenti anche dei sacerdoti: don Giovanni Apolloni, insegnante del collegio Barbarigo, che per mesi fu carcerato e torturato dalla “Banda Carità”; don Francesco Frasson, amministratore del Seminario; i Benedettini del monastero di S. Giustina padre Angelo Marincich e padre Stefano Graiff. Altri religiosi resero generosi e preziosissimi servigi: il padre abate di S. Giustina Timoteo Campi, padre Carlo Messori, padre Mariano Girotto, don Pietro Costa, don Luigi Panarotto e tanti altri.
Padova era allora il cuore di una regione strategicamente importantissima: a Luvigliano aveva sede il comando della X Armata tedesca; ad Abano quello della Luftwaffe; a Recoaro a fine settembre 1944 il maresciallo Kesselring trasferì il comando supremo tedesco in Italia; a Montemerlo era installata la centrale telefonica per l’intera Alta Italia.
Una delle prime azioni di “Renato” ebbe luogo il 17 novembre 1943, requisendo a Padova, rivoltella alla mano e con un solo compagno, 450 cappotti militari, che servirono per equipaggiare i partigiani della costituenda Brigata Giustizia e Libertà “Italia Libera”, legata al Partito d’Azione, che Lodovico Todesco (1914-1944), laureando in Medicina, stava costituendo sul Grappa a Campocroce. Poco dopo organizzò a Noale il sequestro di 23 quintali di tritolo. Molte armi gli furono fornite da carabinieri simpatizzanti.
Nei primi mesi Pighin si occupò anche del salvataggio dei moltissimi militari britannici e del Commonwealth fuggiti dai campi di prigionia del Padovano dopo l’8 settembre 1943 e braccati dai nazifascisti. Alcuni di loro furono avviati in montagna, dove combatterono con i partigiani. Molti furono protetti, nutriti e avviati verso Sud; molti altri furono aiutati a raggiungere la salvezza in Svizzera, spesso supportati da un’organizzazione di giovani coraggiosi guidati da padre Placido Cortese e Armando Romani con le tre sorelle Martini. Con l’aiuto dei carabinieri che collaboravano con lui, Pighin fece mettere al sicuro in Valrovina, sopra Bassano, anche alcuni gli ebrei padovani.
Sul finire dell’anno all’Istituto di Macchine giunse voce che l’ing. Pighin esercitasse attività politica e fosse ricercato dalla polizia. La mattina del 30 dicembre 1943 Pighin scampò all’arresto allontanandosi dall’Istituto poco prima che due funzionari della Felgendarmerie si presentassero per cercarlo. Così i poliziotti arrestarono sua moglie Lina, che si trovava casualmente in Istituto, la fecero salire sulla loro vettura e si fecero accompagnare nella sua abitazione per ricercare delle armi che sospettavano vi fossero nascoste.
Nel gennaio 1944 “Renato” avviò azioni intimidatorie contro alcune fabbriche che producevano per i tedeschi. La sfida ai nazifascisti fu lanciata proprio nel cuore dell’Ateneo, alla vigilia dell’8 febbraio 1944: due squadre, composte per lo più da studenti, distrussero con una bomba la redazione del giornale Il Bò, organo del Gruppo Universitario Fascista (G.U.F.). Nei giorni seguenti furono lanciati nelle vie cittadine i volantini con l’appello alla rivolta del prof. Concetto Marchesi, il Rettore Magnifico costretto a rifugiarsi in Svizzera.
Nei mesi successivi Pighin e i suoi uomini si dedicarono con efficienza a una straordinaria campagna di attentati, sabotaggi alle linee ferroviarie e telefoniche e ai ponti stradali che misero seriamente in difficoltà gli occupanti nazifascisti. “Renato” però non volle mai che si facessero esecuzioni sommarie di nemici, ma si limitò a beffarli e a ridicolizzarli. In aprile 1944 grande effetto psicologico ebbe l’uso del fosforo in fialette con cui per parecchie sere furono spruzzate e incendiate le divise di una ventina di ufficiali fascisti, i quali agitandosi in preda al panico si coprirono di ridicolo davanti ai cittadini.
Parte del supporto logistico veniva della “Fra.Ma.”, l’organizzazione così denominata dalle iniziali dei cognomi dei professori Ezio Franceschini e Concetto Marchesi; con loro collaboravano l’industriale padovano Giorgio Diena (1897-1960), titolare della fabbrica Zedapa, che per la sua attività fu deportato a Dachau, e la sorella Wanda Diena Scimone.
Il 12 aprile 1944 Pighin, da tempo sospettato, fu arrestato e condotto alla caserma Mussolini, nel vecchio collegio Pratense di fronte al Santo, da cui riuscì subito a fuggire, rifugiandosi nel pensionato universitario “Antonianum”, retto dai Gesuiti.
Alle speranze dell’estate, quando la guerra di liberazione pareva ormai vicina alla vittoriosa conclusione, seguì la più amara delusione, quando l’offensiva sferrata a fine agosto 1944 dall’8a armata britannica e dalla 5a armata statunitense si infranse contro le fortificazioni della Linea Gotica che si stendevano da Massa a Pesaro. I tedeschi in ripiegamento dal Centro Italia e i fascisti al loro seguito si addensarono nel Veneto, scatenando “le più atroci furie della più atroce guerra”, come scrisse Meneghetti esortando i Veneti alla “prova suprema”.
Quando il C.L.N. venne in possesso dei piani segreti con cui i tedeschi intendevano devastare il Veneto con estese distruzioni e vasti allagamenti per fare della regione la loro estrema linea di resistenza all’avanzata delle forze angloamericane, l’ing. Pighin venne designato come comandante della piazza di Padova col compito di operare alle spalle dei tedeschi con un ridotto contingente di giovani audaci.
Intanto nei primi giorni di novembre 1944 giunse a Padova e si insediò a palazzo Giusti in via S. Francesco uno dei più feroci organi repressivi della R.S.I.: il Reparto Servizi Speciali, alle dipendenze delle SS-SD tedesche, comandato dal maggiore Mario Carità (1904-1945). Adottando senza alcuno scrupolo i metodi nazisti, in breve la famigerata “Banda Carità” causò perdite disastrose per il C.L.N., non per merito di abilità investigative particolari, ma per effetto del disprezzo di ogni legge, dell’impiego di spie, delatori e traditori e soprattutto dell’uso sistematico della tortura. Carità usava volentieri i suoi forti pugni da pugilatore, ma prediligeva il crudele supplizio dell’elettricità, che provocava dolori tremendi nelle parti più delicate del corpo senza sporcare le mani dei torturatori.
A Natale del 1944 l’ing. Pighin, sentendosi sempre più braccato, dovette ancora una volta cambiare abitazione e si trasferì in una casa dell’Arcella, il quartiere più bombardato. Calmo e instancabile come sempre, il comandante “Renato” lavorava nella stanza adibita a tipografia clandestina, tra molte armi e pacchi di sigarette sequestrate da distribuire ai suoi compagni. Nella stanza accanto la moglie Lina, laureata in Medicina, che non si era mai voluta allontanare dal marito, stirava serenamente e la figlioletta Elena giocava vivacissima.
l 7 gennaio 1945 fu il giorno più funesto per la Resistenza veneta. Quel giorno, alle ore 17.30, Pighin fu attirato sotto i portici di via Rogati, presso il ponte Barbarigo, da Mario Santoro, alias “Capitano Castelli” e poi “Leonida”: un partigiano azionista che, a seguito della cattura, aveva ceduto alle sevizie e si era trasformato in zelante traditore. Si trattava di un agguato: nel gelido imbrunire Pighin venne ferito a morte dal sergente Corradeschi del “Reparto speciale AK Padova”, il quale pochi giorni dopo ricevette in nome del Führer la Croce di ferro di seconda classe.
Contemporaneamente i principali membri del C.L.N. regionale, traditi anch’essi da Santoro, vennero arrestati nella clinica oculistica Palmieri, dove si erano riuniti, e trascinati nel covo della “Banda Carità”.
Giunto a Palazzo Giusti Meneghetti vide Pighin agonizzante con “intorno alla barella insanguinata, la turba oscena dei sicari che insultavano, torturavano, inquisivano”, mentre “la sola risposta del morente erano due dolci nomi [della moglie e della figlioletta, ndr], continuamente ripetuti: ‘Lina… Elena… Lina… Elena…’”.
Gli altri componenti della Brigata, prontamente avvertiti della retata, dovettero darsi alla fuga nella neve alta mezzo metro, disperdendosi per la città in cerca di rifugi sicuri. La Brigata “Trentin” si riorganizzò a stento, ma a febbraio riprese le attività e fu tra le formazioni protagoniste dell’insurrezione, che a Padova avvenne tra il 26 e il 28 aprile 1945. Di essa fecero parte 495 partigiani combattenti e 188 patrioti, tra i quali le donne erano una cinquantina. I caduti furono 21, i feriti 10, i prigionieri e gli internati 42. Entrambi i comandanti della Brigata che erano succeduti a Otello Pighin, Corrado Lubian e Sergio Fraccalanza, caddero anch’essi in azione.
[...] Alla memoria di Otello Pighin fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare; la stessa altissima decorazione fu conferita all’università di Padova e da allora fregia il suo antico gonfalone, cui spetta l’onore, per questo motivo, di sfilare alla testa del corteo nelle cerimonie. Alla storia dell’ing. Pighin, che era stato il suo comandante, si ispirò nel 1963 il regista Gianfranco de Bosio per la sua sceneggiatura e regia del film intitolato provocatoriamente “Il Terrorista”, con Gian Maria Volontè nella parte di “Renato”. [...]
Adolfo Zamboni Jr, Il comandante «Renato», Il Bo Live - Università di Padova, 25 aprile 2020                     

Il maggiore Mario Carità (al centro), comandante del Reparto Servizi Speciali - Fonte: Adolfo Zamboni Jr, art.cit. infra

Le formazioni azioniste nella Resistenza veneta occupano, per quantità, il secondo posto dopo quelle guidate dal Partito comunista: a Padova si formano, con la direzione di Meneghetti e attraverso suoi fidati collaboratori, gruppi di sabotatori, guidati da Otello Pighin, il mitico “Renato”, che sarebbe stato ucciso nella grande retata del gennaio 1945
[...] La direzione azionista della Resistenza dura fino al gennaio 1945. Il ciclo di arresti iniziato in settembre con Giuseppe Calore e Elvio Del Piero, proseguito con la retata di novembre che decapita il Triumvirato insurrezionale, la Federazione provinciale e l’Intendenza regionale del Partito comunista culmina con gli arresti di gennaio, favoriti anche dalle rivelazioni di un azionista, Mario Santoro, fino a quel momento stretto collaboratore di Meneghetti <25. Pighin viene colpito a morte per strada, Meneghetti, Ponti e altri vengono presi nella clinica privata del professor Palmieri, e portati, con don Apolloni, Attilio Casilli, Adolfo Zamboni, Luigi Marziano, Gianni Dogo, Aldo Cestari a palazzo Giusti, nelle mani della “banda Carità” <26.
[NOTE]
25 Cfr. C. Saonara, Nelle mani del nemico. la caduta del Cln regionale veneto, in Istituto veneto per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Annale XXIIXXIV, cit., pp. 127-160.
26 Sulla “banda Carità” vedi R. Caporale, La “Banda carità”. Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-45), Lucca 2005: sugli arresti padovani, cfr. C. Saonara, Egidio Meneghetti, cit., pp. 115 e ss.
Chiara Saonara, Meneghetti, Giuriolo e gli altri: il PdA nel Veneto in (a cura di) Renato Camurrri, Antonio Giuriolo e il «partito della democrazia», Istrevi, 2008

sabato 22 gennaio 2022

Le formazioni clandestine comuniste pagavano fra tutte il prezzo più doloroso



Ester Lombardo e Giovanni Artieri [n.d.r.>: il marito] lasciarono Milano già all'inizio del 1943 <523 e si trasferirono ad Amalfi, «nel clima di aranci e limoni, nella vista del mare stupendo» <524, dove avevano preso in affitto Villa Lone. Ester già conosceva la costiera amalfitana: a Capri ed Amalfi era stata diverse volte in villeggiatura e, nella primavera del 1942, vi aveva trascorso la convalescenza dopo un lungo periodo di febbri <525. La casa di Milano <526 venne affidata alle cure di una segretaria e presto sgomberata da mobili, tappeti, oggetti e libri, portati al sicuro nel piccolo castello di un amico, a Miasino, sul lago d'Orta, dove potevano essere custoditi da un guardiano. Un altro amico, Raffaele Vuolo, offrì ad Artieri una casa a Roma <527, usata spesso dai due giornalisti per brevi soggiorni. Artieri vi alloggiò quando doveva raggiungere la capitale per consultarsi con Alfredo Signoretti, che fino al luglio del 1943 diresse «La Stampa» <528, e, in seguito, ci abitò durante i nove mesi dell'occupazione tedesca di Roma.
Il luglio del 1943 segnò certamente una svolta nella vita politica del Paese e nella vita quotidiana e professionale di Ester Lombardo, che dopo ventuno anni era ormai costretta a chiudere le pubblicazioni di "Vita Femminile".
Fin dai mesi precedenti si intravedeva per l'Italia un futuro incerto: «Nell'autunno del '42 - scrive Giaime Pintor - due grandi avvenimenti militari, il fallimento dell'offensiva tedesca in Russia, culminata nella battaglia di Stalingrado, e lo sbarco angloamericano nell'Africa francese del Nord col successivo crollo del fronte africano dell'Asse, avevano dato la sensazione che la guerra fosse perduta per la Germania. Da quel momento l'azione di sganciamento della monarchia dal fascismo acquistò un moto progressivo. [...] Fu facile convincersi che l'enorme maggioranza del popolo avrebbe accolto come una liberazione qualunque gesto contro il fascismo e che tutti gli elementi politici, dai conservatori ai comunisti, avrebbero sostenuto chi se ne fosse fatto l'iniziatore. [...] Vittorio Emanuele riuscì ad attirare nel gioco i capi del fascismo dissidente e provocò il voto di sfiducia del Gran Consiglio» <529. Il 25 luglio Mussolini, arrestato, non era più a capo del governo: «l'Italia di Mussolini si era disfatta in un giorno come una facciata di cartapesta» <530. Iniziarono i quarantacinque giorni di Pietro Badoglio: si istituì un governo di tipo militare fino all'8 settembre 1943, quando il Maresciallo rese noto l'armistizio firmato con gli Alleati il 3 settembre. Seguirono quelli che Giovanni Artieri definisce «i nove lunghi mesi» o «i nove mesi della prigionia di Roma», l'occupazione tedesca di Roma che ebbe termine il 4 giugno del 1944 con l'arrivo delle truppe americane guidate dal generale Clark <531.
Nonostante la disponibilità della villa ad Amalfi, nei mesi di giugno e luglio, sia Ester Lombardo che Giovanni Artieri erano a Roma, probabilmente per lavoro. Il clima era teso:
"La Resistenza, albeggiante prima del 25 luglio e dell'8 settembre 1943, riusciva a mantenere in angoscioso stato d'allarme i nazisti. Specialmente con la propalazione di voci e allarmi. Ricordo una notte di fine giugno che fummo svegliati, Ester e io, da colpi furiosi alla porta e da grida: «Fuggite, fuggite che tra poco il quartiere Savoia salterà in aria. È stato già incendiato l'aeroporto del Littorio». Riconobbi le voci di chi, complici i portinai della zona, andava spargendo quel terrore. Dissi a mia moglie, fortemente perplessa: «Non è niente. So di che si tratta. Andiamo a letto. Non accadrà nulla». Non accadde nulla <532.
Non così invece il 19 luglio quando, il giorno seguente l'incontro tra Hitler e Mussolini a Feltre, Roma fu bombardata e i due furono testimoni di quell'avvenimento:
"Erano le 11 del mattino, stavo dinanzi lo specchio radendomi. il viale Regina Margherita, tra la piazza Quadrata e la via Nomentana, è strada larga, popolare, parallela a un quartiere signorile di architetture neo-barocche intitolato al Coppedè, suo autore. Oltre la Nomentana (nel 1943) è già periferia, nella zona del grande cimitero del Verano, della basilica di San Lorenzo, dei quartieri popolari, dei depositi tramviari, delle reti ferroviarie di approccio alla Stazione centrale. È qui che le informazioni alleate supponevano l'acquartieramento dei carri armati tedeschi, dei loro depositi di munizioni, delle loro caserme. Erano informazioni sbagliate che tuttavia portarono a quel bombardamento massiccio dell'intero anello periferico della capitale, durato due ore, dalle 11 alle 13 del pomeriggio, effettuato da 180 Liberator. La sera avanti ero a cena con Ester a casa di Eduardo De Filippo. Sonò l'allarme e cominciò un fuoco di artiglieria. Negli intervalli si udiva il ronzio di un solo apparecchio: un ricognitore, evidentemente, venuto a fotografare i siti della difesa antiaerea, indicata dai lampi delle cannonate. Eduardo disse: «Domani verranno in massa». Era stato buon profeta. Ai primi fragori andai nella camera di Ester. Erano troppo vicini perché non si potesse pensare che tra qualche istante una bomba non cadesse a polverizzarci tutti. Sedetti sul letto. Ci abbracciammo senza dirci ch'era consolante, dopo tutto, poter morire insieme. Nulla avvenne. Ridemmo guardandoci. Le bombe cadevano, ma sentivamo di esserne fuori. Anzi, andai a lavarmi, a insaponare il volto, a radermi. A picco, dalla mia finestra, vedevo i fuochi della difesa; grevi nuvole nere salivano da poco distante. I bombardieri battevano gli edifici del Policlinico ove si sapeva la sede del comando tedesco. Mi misi a contare le ondate degli attacchi. Nove. Colpite le stazioni ferroviarie di San Lorenzo, del Prenestino; gli aeroporti del Littorio, di Ciampino, quasi crollata la basilica di San Lorenzo, danneggiato il cimitero del Verano. Quella tetra festa durò, l'ho detto, due ore circa, durante le quali continuai (vestito e raso) a conversare con Ester, preparandoci per andar fuori a colazione, in un ristorante del centro. E ciò (ancora, a ripensarci, mi stupisce) senza più badare alle bombe all'intorno, mirate sui siti militari e, dunque, su obiettivi ammessi dalla convenzione che (si diceva) fosse intervenuta tra il Vaticano e la Wehrmacht sulla demilitarizzazione della capitale... Rimaneva il fatto dell'indifesa Roma, posta dinanzi alla realtà della guerra. Subito la patina di indifferenza è scomparsa dal volto della città e la povera gente è affiorata con i suoi materassi sdruciti, i suoi miseri letti, le stoviglie e le grame mobilie sui tricicli, i carretti, per le vie, a porre il suo colore disperato e umano nell'aria frivola e scempia della Roma gerarchica e godereccia" <533.
Il 23 erano ancora a Roma dove si respirava un clima teso per il rapido evolversi degli eventi:
"Sul corso Umberto incontrai Armando Curcio e Eduardo De Filippo. Eduardo, osservando il traffico della strada, l'aria grigia e carica attorno ai volti e alle cose, disse come per ispirazione: «Forse tra poco si proclamerà lo stadio d'assedio». Si parlava d'un consiglio della Corona per quella sera stessa, 23. Si sapeva della imminente convocazione del Gran Consiglio a richiesta d'un gruppo di componenti tra i quali Dino Grandi, Federzoni, Bottai e, persino, Galeazzo Ciano... Mi avvertirono di gravi e risolutivi avvenimenti, con la probabile eliminazione della dittatura di Mussolini. Credetti a metà a questa notizia" <534.
Ester Lombardo e Giovanni Artieri partirono il giorno seguente per Amalfi, fu qui che appresero la notizia della caduta di Mussolini e qui, sempre presso Villa Lone, rimase la giornalista fino alla liberazione di Roma:
"Giudicai mio dovere mettere al sicuro Ester nella nostra casa di Amalfi e, dunque, lasciare Roma; pensavo di ritornarvi, come avvenne, anche perché «La Stampa», il mio giornale, mi pregava di non allontanarmi in vista di non precisabili (o facilmente precisabili) avvenimenti" <535.
Dunque Artieri già il 29 luglio, convocato da «La Stampa», era di nuovo a Roma e inseguiva «i grandi fatti e il loro svolgersi» tra «la fine del fascismo, l'arresto di Mussolini, l'avvento della dittatura militare di Badoglio e le sue incongruenze ed errori, la complessa tragicommedia della dichiarazione di armistizio e la cinematografica avventura romana dei due diplomatici, l'americano e l'inglese (il generale Maxwell Taylor e il colonnello T. Gardiner)» <536. Nonostante le sempre maggiori difficoltà negli spostamenti, egli riuscì a tornare varie volte ad Amalfi: «Pensavo imminente - scrive - l'invasione, con i suoi pericoli e incognite da dividere con la mia cara» <537. Dalla costiera amalfitana si sentivano e si vedevano le incursioni aeree alleate sul territorio di Salerno. Si stava già preparando lo sbarco anfibio nel Golfo, operazione con cui gli alti comandi Alleati intendevano costituire una base per avanzare poi verso Napoli. Lo sbarco avvenne il 9 settembre, il giorno seguente alla proclamazione dell'armistizio <538.
Il 2 settembre Giovanni Artieri tornò a Roma e qui rimase «intrappolato», lontano da Ester, fino alla liberazione della città <539. Nella capitale erano anche Lea Lombardo e Italo Minunni, rispettivamente sorella e cognato di Ester. Fu proprio Italo Minunni <540, anch'egli giornalista, che arruolò di autorità Giovanni Artieri nel Partito democratico del lavoro di Ivanoe Bonomi <541. Con questo partito, che non ebbe un forte seguito popolare, entrò a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) insieme ad un esiguo gruppo di notabili prefascisti e si guadagnò in tal modo gli attestati della milizia nella Resistenza durante i nove mesi dell'occupazione romana, attestati che risultarono poi necessari per rientrare nel mondo del giornalismo. «La Stampa», attiva durante la Repubblica sociale italiana non poteva rinascere ma, già dal maggio 1945, Artieri fu chiamato a lavorare all'"Opinione" <542, diretta da Franco Antonicelli, capo del Cln del Piemonte <543.
Egli, pur sperando in una rapida liberazione, ricorda il tempo dell'occupazione di Roma comunque come fecondo:
"La scarsa possibilità di promuovere azioni nella stretta ferrea della sorveglianza nazista induceva a scivolare in una vita di pura evasione. Si trovava un correttivo nel lavoro organizzativo dei partiti: troppi, pullulanti, spesso velleitari... Ma, ripeto, esisteva unanimità tra tutte le forze della Resistenza: la «mia» casa di viale Regina Margherita, risultante non abitata dal suo proprietario ... fu per un certo tempo il punto di convegno dei comitati centrali e delle direzioni democristiana, comunista, del Partito d'azione, di quello demolaburista. Ospitò prigionieri evasi, comunisti ricercati (ne ricordo uno, Vittorio Viviani)... Ricordo ancora, ospite clandestino di quella casa, Armando Curcio, commediografo, editore; e ricordo i consigli e gruppi liberali: sullo sfondo appare il volto pallido e pensoso di Mario Pannuzio... Altri ospiti temporanei miei furono Eduardo e Peppino De Filippo, sottrattisi al bando emanato dal governo della Repubblica sociale che convocava al Nord i rappresentanti delle maggiori compagnie teatrali. Talvolta io ero ospite di Eduardo; talaltra io in un altro appartamento comprato dalla signora De Filippo, la prima moglie di Eduardo, la cara e bella Dodò, come la chiamava il marito. Quasi sempre, sfidando ogni regola di prudenza, ci si riuniva a pranzo o a cena: Eduardo e Peppino, io, Armando Curcio, il Carloni, marito di Titina De Filippo, e un giornalista napoletano, F.C., che noi, di sicuro, sapevamo essere spia dei tedeschi e dei neofascisti, ma che per una specie di insuperabile inibizione costituita da un complesso sentimento di affetto, di ammirazione, di ricordi napoletani, di timori, di inferiority complex e via dicendo non ci denunciò mai e noi, ciecamente, credevamo, sapevamo che mai e poi mai ci avrebbe denunciati" <544.
Giovanni Artieri visse infatti i nove mesi dell'occupazione in uno stato di clandestinità, poiché aveva ignorato gli ordini di Alessandro Pavolini, il quale, nominato segretario provvisorio del neonato Partito Fascista Repubblicano, aveva emanato l'ordine per i giornalisti di raggiungere le sedi dei loro sindacati e passare ai comandi del Ministero repubblicano <545. Così Artieri venne controllato dai tedeschi, anche se, per la sua iscrizione al Pnf <546 e perché poco aperto al dissenso, non rischiò seriamente di essere arrestato:
"Le formazioni clandestine comuniste pagavano fra tutte il prezzo più doloroso... A noi la polizia ci ritiene innocui o cerca di non vedere o di non guardare attentamente. Siamo, finché non si travalichino certi gradi di attività cospirativa, nel settore «italiano» della sorveglianza; là dove i comunisti sono oggetto delle premure di gran lunga più zelanti della polizia tedesca e perciò si tengono alla larga da chi non appartiene, sicuramente, alle loro fila" <547.
Durante l'occupazione di Roma, Ester Lombardo continuò a vivere ad Amalfi dove «dette la sua opera all'organizzazione degli Alleati a Capri, ad Amalfi e a Positano» <548. È difficile capire cosa si intenda con questa affermazione, ma sicuramente Ester Lombardo era ben inserita nel contesto, poteva godere di diverse amicizie, come quella con il sindaco di Capri, Peppino Brindisi, o con lo scrittore Edwin Cerio <549.
Subito dopo la liberazione di Roma, Giovanni Artieri «corse al sud» a cercare Ester, con una Balilla comprata per l'occasione insieme ad alcune latte di benzina. Non la trovò ad Amalfi, dove Villa Lone era stata requisita da Badoglio, per se e per il suo seguito, ma a Positano: "Ester la trovai a Positano, inserita come housekeeper, cioè come padrona di casa, nella spicciola burocrazia dell'alto comando britannico e badava all'ospitalità di tre vecchi colonnelli, dirigendo il personale locale addetto ai servizi. Ester aveva detto e vantato di avere il marito nella clandestinità romana, e fu orgogliosa di presentarmi ai suoi ospiti che m'accolsero cordialmente non prima di aver attentamente esaminato i miei titoli di appartenenza alla Resistenza e consultato elenchi ove (con incredibile precisione) erano segnati i nomi dei giornalisti aderenti alla Repubblica di Mussolini" <550.
L'offensiva alleata su Roma, iniziata il 12 maggio 1944, aveva portato alla sua liberazione il 4 giugno <551. Quasi un intero anno mancava alla resa dei tedeschi a Milano. Dunque, seppur ripristinati i collegamenti e i servizi ferroviari tra Roma e il sud, rimaneva ancora difficile per Artieri riprendere i contatti con «La Stampa», a Torino, al di là della Linea Gotica. Più semplice, come infatti fece, spostarsi tra il sud e Roma, dove la nascita di nuove testate creava la necessità di impiego di provati giornalisti. Caduta la Repubblica Sociale, fu possibile per lui tornare al Nord, alla sua casa di Milano, e riprendere i contatti con «La Stampa». Era la metà di maggio del 1945 e quel viaggio venne condiviso con Enrico Mattei, che raggiungeva Torino per ripresentarsi alla «Gazzetta del Popolo» <552. Come detto, «La Stampa» non poteva rinascere, ma Artieri iniziò a lavorare all'"Opinione". Il mese seguente arrivò a Milano anche Ester Lombardo. Probabilmente nel 1946 entrambi torneranno a Roma: Giovanni Artieri terminava l'esperienza all'"Opinione", Ester Lombardo iniziava l'avventura politica.
[NOTE]
523 Giovanni Artieri scrive infatti: «Il diario di Amalfi comincia il 1° gennaio 1943 a Lone, un venerdì di vento furioso e pioggia», G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 404. Il diario non è stato pubblicato ed è conservato da Paolo Cacace.
524 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 403.
525 "Fra otto giorni partirò per Capri. Ho ancora un poco di febbre; ormai sono quattro mesi e mezzo e non ne posso più. Spero che Capri mi faccia entrare definitivamente in convalescenza, anticamera della guarigione", Lettera di Ester Lombardo a Celso Luciano Capo di Gabinetto di S.E. il Ministro della Cultura Popolare, Milano, 3 giugno 1942, in ACS, MCP, Gabinetto, Archivio generale - affari generali 1926-1944, b. 99, fasc. 593 "Vita femminile". Lombardo Ester (1935-1942), c. 12. Si vedano anche Lettera di Ester Lombardo a Celso Luciano Capo di Gabinetto di S.E. il Ministro della Cultura Popolare, Milano, 29 aprile 1942, in ACS, MCP, Gabinetto, Archivio generale - affari generali 1926-1944, b. 99, fasc. 593 "Vita femminile". Lombardo Ester (1935-1942), c. 27; G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 231-237 e 403-404. Ester Lombardo aveva dato a Capri e alla costiera amalfitana visibilità anche attraverso le pagine di «Vita femminile», si vedano ad esempio: E. Lombardo, L’isola dei naufraghi, in «Vita femminile», 15 aprile-15 maggio 1923, pp. 24-27, qui meritano attenzione alcune righe scritte quasi vent'anni prima del suo "ritiro" amalfitano: «I deragliati dalle rotaie ordinarie dell'esistenza, i più vari falliti della vita approdano a Capri. [...] Attori grandi e piccoli di rivolgimenti politici andati a male naufragano su questo scoglio melodioso del Tirreno, attratti da qualche Sirena ancora superstite dai tempi di Ulisse», la cit. è a p. 24; A. Viviani, Passeggiate romantiche: Capri, in «Vita femminile», 1 luglio 1929, pp. 12-13 ; L. Minunni, I principi di Piemonte alle regate e al ballo a Capri, in «Vita femminile», agosto 1932, pp. 10-11; L. Minunni, Capri sulla tela. [Ezelino] Briante, giovane pittore ottocentista, in «Vita femminile», ottobre 1932, p. 42; A. Cesareo, Marina di Capri, in «Vita femminile», 15 agosto-15 settembre 1934, pp. 10-13.
526 Viale Regina Elena (oggi viale Tunisia).
527 Presso viale Regina Margherita.
528 Tutte le informazioni sono tratte dal capitolo Avvisaglie della crisi in G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 403-410.
529 G. Pintor, L'ora del riscatto. 25 luglio 1943, Castelvecchi, Roma, 2013, pp. 13-14 e 24. Saggio scritto da Giaime Pintor a Napoli nell'ottobre 1943 e pubblicato postumo in «Quaderni italiani», IV, New York, 1944.
530 Ivi, p. 24.
531 Si veda a proposito Istituto romano per la storia d'Italia dal fascismo alla Resistenza (a cura di), Roma durante l'occupazione nazifascista. Percorsi di ricerca, Franco Angeli, Milano, 2009.
532 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 411.
533 Ivi, pp. 412-413. Giovanni Artieri, sbagliando, colloca questo evento il 20 luglio. Roma, invece, fu bombardata il 19 luglio da aerei americani decollati dalle basi del Nord Africa. Per ogni approfondimento si rimanda a M. Carli, U. Gentiloni Silveri, Bombardare Roma. Gli alleati e la «città aperta» (1940-1944), Il Mulino, Bologna, 2007, in particolare pp. 101-148.
534 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 414.
535 Ivi, p. 423.
536 Ivi, p. 418.
537 Ivi, p. 425.
538 Su Salerno e l'operazione Avalanche si vedano S. Alinovi, L'amministrazione civica di Salerno dalla caduta del fascismo alla giunta del Comitato di Liberazione Nazionale, in AA.VV, Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla Repubblica (1943-1946), Guida, Napoli, 1986, pp. 193-210; A. Sole, Salerno e gli alleati, in R. Dentoni Litta (a cura di), Schegge di storia. Salerno e l'operazione Avalanche. Documenti, diari, memorie, testimonianze, Archivio di Stato di Salerno, Fisciano, 2014, pp. 279-294. Si vedano anche P. De Marco, L'occupazione alleata a Napoli, in N. Gallerano (a cura di), L'altro dopoguerra. Roma e il sud 1943-1945, Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 261-273; G. D'Agostino, Napoli: governo e amministrazione della città dalla caduta del fascismo all'avvento della Repubblica (1943-1946), in N. Gallerano (a cura di), L'altro dopoguerra, cit., pp. 407-422.
539 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 418.
540 Italo Minunni era anch'egli giornalista di stampo nazionalista, economista, volontario in Libia, mutilato di una gamba durante la prima Guerra Mondiale, alto funzionario della Confindustria, partigiano monarchico. Fu arrestato durante l'occupazione tedesca di Roma insieme ad Alberto Bergamini dalla polizia neofascista di Pietro Caruso poiché indiziato di cospirazione antifascista e di ricostituzione del partito della Democrazia del Lavoro. Era in carcere a Regina Coeli durante l'attentato di via Rasella ed era stato inserito nella lista dei 330 che i tedeschi avrebbero fucilato alle Fosse Ardeatine. Fu poi cancellato dalla lista quando l'ufficiale tedesco, venuto a prelevare i prigionieri, ordinò: «Abbiamo bisogno di uomini interi». Dopo la liberazione evase dal carcere. Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 462-469 e 504-505.
541 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 464. Sul Partito democratico del lavoro si veda L. D'Angelo, Fra liberalismo e socialismo: il Partito democratico del lavoro, in F. Grassi Orsini, G. Nicolosi (a cura di), I liberali italiani dall'antifascismo alla Repubblica, vol. I, Rubettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 159-173.
542 Anche il quotidiano «L'Opinione» aveva sede a Torino. Nato nel 1846, aveva chiuso le pubblicazioni nel 1900. Nel 1945 venne rifondato ma durò solo un anno.
543 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 540-549.
544 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 464-466. Su Mario Pannuzio e i liberali si veda A. Cardini, Il liberalismo di Mario Pannuzio, in F. Grassi Orsini, G. Nicolosi (a cura di), I liberali italiani dall'antifascismo alla Repubblica, cit., pp. 611-646.
545 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 476.
546 Giovanni Artieri si era iscritto al Pnf nel 1927, si veda Appunto della polizia politica, Napoli, 24 marzo 1933, in ACS, MI, DGPS, Divisione polizia politica, b. 48, fasc. 54 Artieri Giovanni, c. 4. Bisogna però tenere conto del fatto che in pratica l'iscrizione al sindacato fascista divenne per i giornalisti, proprio da quell'anno, una condizione indispensabile quanto l'iscrizione all'albo per poter esercitare la propria professione. Sull'argomento si veda G. Fabre, L' elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino,1998.
547 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 478 e 482.
548 Ivi, p. 484.
549 Edwin Cerio scrisse anche alcune novelle per «Vita femminile», si veda ad esempio E. Cerio, Concorrenza sleale, in «Vita femminile», luglio-agosto 1935, pp. 50-51. Inoltre sullo scrittore Ester Lombardo pubblicò un articolo: L. Minunni, Intervista con Cerio, il poeta-mago di Capri, in «Vita femminile», settembre 1932, pp. 26-28. Ester Lombardo e Giovanni Artieri frequentarono anche altre personalità molto conosciute a Capri, come l'archeologo Amedeo Maiuri e lo scrittore e giornalista Curzio Malaparte. Le relazioni con queste persone sono approfondite in diverse pagine di G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit.
550 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 535, per approfondimenti si veda l'intero paragrafo Alla ricerca di Ester, pp. 534-539.
551 Per un quadro approfondito sulle azioni militari e diplomatiche che portarono alla liberazione di Roma si faccia riferimento a M. Carli, U. Gentiloni Silveri, Bombardare Roma, cit., pp. 203-237. Si veda anche A. Di Stefano, U. Gentiloni Silveri, S. Palermo (a cura di), Roma 4 giugno 1944. La liberazione a colori, Palombi, Roma, 2011.
552 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 535-537.

Caterina Breda, Biografia intellettuale di Ester Lombardo: giornalista, scrittrice, attivista politica tra fascismo e Repubblica, Tesi di laurea dottorale, Università degli Studi Roma Tre, Anno Accademico 2016-2017