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domenica 6 agosto 2023

Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani


Il 1° luglio del 1944 era uno splendido sabato. All'improvviso nel cielo azzurro comparve un aereo. Qualcuno, tra i partigiani, pensò a un aviolancio - non ve ne erano ancora stati dall'inizio della Resistenza - era invece un ricognitore tedesco diretto chissà dove e non destò allarme. La giornata trascorse tranquilla. Verso sera il cielo si oscurò e nella notte un violento temporale si scatenò in valle èSusa] sradicando alberi e scoperchiando alcune baite meno protette. La notte passò serenamente nel distaccamento dei cremonesi, "nella baita illuminata da un paio di candele si levò un fievole coro che poi si irrobustì. Erano canzoni note, ma l'atmosfera era nuova, di una dolcezza infinita" <270 che i partigiani intonavano per combattere il freddo e il temporale che stavano rattristando la serata.
Verso le sette del mattino del 2 luglio si sentì un colpo di fucile seguito da una raffica di mitra. Era il segnale di allarme convenuto della 17a brigata Garibaldi. Arrivò concitato e trafelato dalla Frassa, Sauro Faleschini, cremonese diciottenne buon camminatore che "Deo" aveva voluto con sé come staffetta: "stanno venendo su, numerosi e armatissimi, tedeschi e camicie nere" <271. La "Felice Cima" stava per essere attaccata dai nazifascisti. La notizia del rastrellamento giunse presumibilmente prima ai distaccamenti stanziati all'imbocco della Valle di Rubiana, interamente occupata dalla brigata. Tra quelli c'era il distaccamento comandato da Mauro Ambrosio "Bil" di cui faceva parte Federico Del Boca. Del Boca nel suo diario, scrivendo del rastrellamento del 2 luglio, non cita il luogo dove era alloggiato il distaccamento, ma dice che era "un posto pericoloso, vicino alla strada, eravamo come l'avanguardia di tutti (…) c'erano poche casupole in parte disabitate; però aveva un belvedere magnifico, si vedeva la strada che andava al Col del Lys e, sottostante il paese di Rubiana, si dominava tutta la valle" <272.
All'alba le pattuglie del distaccamento di "Bil" portarono la notizia che ad Almese vi erano una ventina di carri armati e autoblinde che stavano per proseguire verso Rubiana. I tedeschi e i fascisti stavano risalendo la valle per effettuare il rastrellamento. Secondo la testimonianza di Del Boca giunse al loro distaccamento un partigiano appartenente ad un distaccamento stanziato sull'altro versante della valle, alle pendici della Rocca della Sella, in località Rubiana, che riferì ai partigiani di "Bil" come i nazifascisti avessero raggiunto già quella zona della valle e avessero catturato molti partigiani <273.
Quindi le truppe tedesche e quelle italiane stavano risalendo la valle da entrambi i versanti e, superiori in mezzi e armi, superarono facilmente i tentativi di contrastare la loro avanzata messi in atto dai primi distaccamenti della brigata messi a presidio della valle. Il comandante "Bil" dispose subito il distaccamento in posizione difensiva. Le armi erano poche, il distaccamento faceva affidamento su due mitragliatrici una da 7 mm e l'altra da 20 mm, sprovviste di piedistallo e di munizioni. Gli uomini di "Bil" attendevano che i fascisti e i tedeschi si avvicinassero per aprire il fuoco, "i loro elmi cominciarono a brillare sotto il sole; avanzavano lentamente a scacchiera avvicinandosi sempre più, perché prevedevano un attacco di sorpresa; intanto a noi faceva paura il modo in cui, avanzando, si allargavano; si finiva col rimanere circondati" <274.
"Bil" ordinò allora, per scongiurare l'accerchiamento dei propri uomini, come mossa difensiva, la disposizione a ferro di cavallo, tenendo così il più a lungo possibile la posizione che avrebbe permesso ai compagni delle retrovie di portare in salvo i feriti e i pochi rifornimenti di cui i partigiani disponevano. Gli uomini di "Bil" riuscirono a mantenere le posizioni per poco tempo, i nazifascisti numerosi e meglio armati avanzano inesorabilmente. A quel punto ai partigiani non rimaneva che disperdersi. Qualcuno cercò di nascondere la roba più ingombrante che si aveva dentro a delle buche scavate nei pressi del magazzino del distaccamento, gli oggetti più facilmente trasportabili i partigiani li portarono con sé. Il gruppo di "Bil" ripiegò verso il castello di Mompellano, la sede del comando della 17a brigata Garibaldi, inseguiti dai nazifascisti che, superato l'ostacolo dei primi distaccamenti, procedevano verso il Col del Lys. Durante il ripiegamento verso il colle "vedemmo su una altura un gruppo di uomini che agitavano le braccia in segno di saluto. "Sono dei nostri compagni". (…) ci avvicinammo con gran fatica, eravamo carichi, chi aveva le armi pesanti, chi le cassette di munizioni, chi i viveri; ogni tanto i nuovi compagni ci salutavano: "venite siamo della squadra di Carlo". Io l'avevo conosciuto, il nome era di battaglia; sentendolo mi sentii subito meglio, mi ricordo che lo dissi a Bil; intanto si vedevano le divise da partigiani, erano ben armati, c'erano delle mitraglie che sembravano rivolte verso di noi, altri uomini erano stesi a terra come pronti a far fuoco; ogni tanto un richiamo e persino qualche parola in torinese; arrivati ad una cinquantina di metri tutti raggruppati, all'improvviso aprirono il fuoco in massa; io che ero tra i primi fortunatamente mi trovai dietro ad una piccola sporgenza e vidi quei maledetti che si toglievano le divise da partigiani ridendo a squarciagola e sparando" <275.
Decimati dall'agguato fascista i superstiti del gruppo di "Bil" riuscirono a raggiungere Mompellato, unendosi ai gruppi di partigiani comandati da "Deo" che cercavano di difendere il comando di brigata che era posto in una buona posizione strategica, tutto intorno non vi erano alberi o rocce dietro cui proteggersi (il nome Mompellato deriva proprio da questa caratteristica morfologica), chi voleva attaccare doveva compiere l'azzardo di avanzare allo scoperto. La squadra comandata da "Bil" si pose sul fianco destro della squadra comandata da "Deo". I partigiani resistettero fino a quando i militi della Repubblica sociale utilizzarono l'artiglieria. A quel punto il primo distaccamento a ripiegare fu quello di "Deo", seguito poi dal gruppo di "Bil" entrambi diretti verso il monte Civrari, montagna rocciosa e ben riparata dall'artiglieria che continuava a sparare. La nebbia, provvidenzialmente scesa in quel momento, aiutò i partigiani nel ripiegamento, ma non tutti riuscirono a mettersi in salvo.
Quando tre giorni dopo il rastrellamento il distaccamento di "Deo" riuscì a ricomporsi mancavano all'appello i partigiani del gruppo dei fratelli Scala. Notizie confuse giungevano dai contadini circa la situazione lasciata dal rastrellamento. Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani. I garibaldini della 17a brigata Garibaldi giunti sul posto si trovarono davanti a 26 giovani compagni massacrati in modo indescrivibile. Il parroco don Stefano Mellano di Bertesseno, località nei pressi del Col del Lys, che con il parroco don Evasio Lavagno di Mompellato era giunto sul posto per dare i sacramenti alle vittime, ha scritto: "Al due luglio vi fu una strage al Col del Lys. Arrivarono vestiti da partigiani, cantando le canzoni dei partigiani, ed i partigiani nel Castello non se ne accorsero. Quando ebbero sentore del pericolo erano chiusi da tre parti: essi, quelli che fuggirono verso Bertesseno andarono nelle loro mani. Furono presi in numero di 23 dal mio versante e massacrati con le baionette e bastonate; infine li portarono sulla strada di Niquidetto e lì li fucilarono. Via i tedeschi andai con alcuni uomini e ne trovammo tre gruppi di morti giù della scarpata della strada. Gli uomini li portarono sulla strada ed il giorno cinque luglio vennero molti partigiani dai dintorni e tutti i compagni per il riconoscimento; cinque, purtroppo furono irriconoscibili. Con il parroco di Mompellato benedicemmo un pezzo di terreno secondo il rituale. Intanto giunsero le casse e ad ognuno fu posto un'ampolla con il nome oppure con i connotati, che si poterono prendere. Molti mi diedero l'indirizzo e scrissi io ai loro parroci, che avvisassero le famiglie dell'accaduto" <276.
[...] Dei ventisei partigiani trucidati sul Col del Lys solo di diciannove è stato possibile ricostruirne la carriera partigiana nella 17a brigata Garibaldi perché i loro nominativi sono presenti nel database del partigianato piemontese. Fatta eccezione per Guerrotto di cui è nota solo la data e il luogo di nascita, per i sei sovietici, dei quali si conosce solo l'onomastica, sappiamo invece che appartenevano tutti allo stesso distaccamento formatosi il 1° maggio 1944, quando una quarantina di prigionieri sovietici adibiti alla riparazione del tronco ferroviario Rivoli-Avigliana, dopo aver preso contatto con Maria Lazzaretto, suo fratello Franza e con il comandante "Alessio", decisero di passare nella 17a brigata Garibaldi. Costituirono un loro distaccamento comandato da Andrei Gretčko, ufficiale dell'esercito sovietico, e si stanziarono oltre il villaggio di Courmayan, un punto strategico di estrema importanza che conduceva al valico per la Francia, dove operavano altre formazioni partigiane. Molti erano ucraini e georgiani, alcuni di Mosca e di Leningrado. Quasi tutti erano stati fatti prigionieri sul fronte del Don. Secondo la testimonianza di Osvaldo Negarville "se ne stavano appartati, difficilmente erano loro a cercare il contatto con i distaccamenti italiani, e la cosa sulle prime ci stupì. Ma in seguito ne capimmo il motivo: non volevano forzare i tempi, non volevano pretendere la nostra fiducia senza averci dato valide prove; attendevano l'occasione per dimostrare coi fatti che erano veramente nostri fratelli di lotta" <277. I sovietici, impiegati in Val di Susa dai tedeschi prevalentemente a presidio della linea ferroviaria Torino-Modane, erano ben organizzati e soprattutto ben armati. "Alessio" parlando dei partigiani che entravano nella sua brigata ha detto che "i russi e i cecoslovacchi erano armati, i cremonesi no" <278. Circostanza confermata dalla Gobetti che passando in rivista i partigiani della brigata Gl "Stellina" ne aveva avuto una grande impressione: "i cechi se ne son venuti su senza colpo ferire, portandosi l'equipaggiamento completo, divise, armi, coperte, tende, pentolini. Qui han montato le loro tende e tengon tutto in ordine perfetto: pentolini lucidissimi, divise ben pulite, armi perfettamente forbite. Formano un gruppo a sé con un proprio capo e sono organizzati e disciplinatissimi (- Si lavano i piedi tutti i giorni, - m'ha sussurrato un nostro partigiano valsusino con accento non ho ben capito se di compianto o di ammirazione). Vedemmo anche le postazioni delle mitragliatrici, molto ben occultate" <279.
L'occasione per dimostrare tutto il loro valore militare ai partigiani sovietici della "Felice Cima" non tardò a presentarsi.
[NOTE]
270 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, cit., p. 43
271 Ibidem
272 Del Boca, Il freddo, la paura e la fame, cit., p. 76
273 Ivi, p. 108
274 Ivi, p. 109
275 Ivi, cit., p. 112
276 Giuseppe Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940 – 1945). Nelle relazioni dei parroci del 1945, Edizioni Piemme, Torino 1996, cit., p. 269
277 Galleni, I partigiani sovietici nella Resistenza italiana, cit., p. 135
278 Testimonianza di Alessio Maffiodo in, Armando Ceste e Chiara Sasso (a cura di), Mai tardi. La Resistenza in Val di Susa, Index Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Torino 1996.
279 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 167
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi "Felice Cima". Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

domenica 23 luglio 2023

Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill


Mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola italiana, gli inglesi approfittando della situazione della resa italiana, stavano studiando uno sbarco in Istria, per dare la possibilità di effettuare operazioni militari attraverso la regione e la provincia di Lubiana in direzione dell'Europa centrale. Lo sbarco avrebbe avuto non solo conseguenze militari importanti, ma anche in ambito politico, e proprio per questo motivo rappresentava un problema, perché uno sbarco in quella parte della penisola dove viveva la gran parte della minoranza italiana, poteva provocare un peggioramento delle relazioni politiche, rendendo più difficili e sfavorevoli i rapporti e i problemi ancora irrisolti fra gli jugoslavi e gli italiani dell'Istria. Inoltre, lo sbarco venne respinto da Stalin e da Roosevelt alla conferenza di Teheran, perché ritenuto di poca importanza militare, giustificando la bocciatura classificando l'operazione di scarso valore militare, nascondendo le loro preoccupazioni politiche: gli americani consideravano la zona dei Balcani e il fronte italiano era considerato un fronte secondario, a differenza della Francia, mentre per i sovietici l'obiettivo, oltre a Berlino, era anche la presa di Vienna. <14
Mentre per la resistenza slovena e croata, la notizia dell'armistizio italiano, rappresentò una sorta di miracolo: perché da una parte i soldati italiani abbandonarono le caserme, lasciando l'Istria e la provincia di Lubiana sguarnite senza dare una presenza militare seria, permettendo così l'inizio della vendetta degli slavi contro i responsabili fascisti, che si macchiarono del tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia, durante il ventennio fascista, e delle violenze perpetuate dall'esercito italiano nei Balcani durante la guerra, ad esempio la circolare 3C del generale Mario Roatta <15: questa vendetta, verrà ricordata come i massacri delle foibe. In più da quella data le forze partigiane ampliarono il loro raggio delle operazioni militari, considerando che vennero abbandonate migliaia di armi, veicoli blindati e pezzi d'artiglieria italiani, riutilizzate dalle forze partigiane (secondo quanto detto dal generale cetnico Draza Mihajlović). Oltre al materiale bellico abbandonato, diversi reparti italiani si unirono ai partigiani jugoslavi, che subito diedero un contributo significativo nella battaglia di Turjak, contro i nazionalisti sloveni. Questi reparti si unirono alla resistenza, a seguito delle voci, fatte circolare dai titini, di uno sbarco alleato in Istria, che in realtà non ci sarebbe stato, e chiesero agli italiani in zona di unirsi alle forze partigiane e di affrontare il nemico comune, i tedeschi. <16
L'OF, “Osvobodilna fronta”, in sloveno fronte di liberazione, a seguito dell'ampliamento delle loro operazioni, divulgarono, tramite una commissione composta da diversi geografi, militari, politici e storici, teorie nazionalistiche tra la popolazione slava dell'Istria, dichiarando che i territori italiani, dall'Istria fino al fiume Tagliamento, erano territori storicamente appartenuti ai croati e agli sloveni, strappati dagli italiani dopo la Prima guerra mondiale. Queste rivendicazioni non  avevano solo motivi ideologici, ma anche strategici, nel senso che, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, in previsione di un nuovo conflitto in Europa, la regione avrebbe svolto un ruolo cruciale per la difesa dello stato Jugoslavo. <17
Il Foreign Office aveva scoperto che se gli alleati avessero continuato a supportare militarmente sia le forze cetniche del governo jugoslavo in esilio a Londra, che le forze comuniste guidate da Tito, avrebbero creato due stati jugoslavi separati tra loro, provocando così una guerra civile, come avverrà nel caso della Grecia nel 1946. Pertanto, gli alleati da una parte avevano dei dubbi sulle forze cetniche guidate da Mihajlović, sospettando che collaborasse con le forze dell'Asse, ipotesi all'epoca falsa, ma che si rivelerà esatta in futuro a causa dell'abbandono del supporto degli inglesi a partire nel 1944. Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill usando la propaganda internazionale, dichiarando che il movimento comunista era l'unico che poteva fronteggiare i tedeschi e che godeva del pieno appoggio del popolo jugoslavo, anche se in realtà in quel momento, i titini non controllavano il Montenegro e la Serbia (roccaforte dei cetnici). <18
Il 28 novembre 1943, si tenne la conferenza di Teheran, per decidere sulle prossime operazioni alleate in Francia, sul fronte occidentale e sulla questione balcanica. Churchill e Stalin volevano che le forze jugoslave unissero le forze sotto un unico comando, per combattere contro i tedeschi. Secondo Churchill per cercare di trovare una tregua tra le forze partigiane, i cetnici dovevano unirsi sotto il comando di Tito e il re Pietro II doveva abdicare in favore delle forze comuniste. Stalin invece, dopo la conferenza, sollecitò i comunisti jugoslavi a prendere contatto con il governo in esilio di Šubasic, poiché l'AVNOJ (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije - Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) aveva stabilito che il re Pietro II non poteva più ritornare in patria, poiché ritenuto un traditore <19. Inoltre raccomandò ai comunisti jugoslavi di muoversi con discrezione per evitare di suscitare sospetti tra gli alleati sul nascere di un nuovo stato comunista nei Balcani. <20
Il 12 settembre 1944 re Pietro II, sotto la pressione di Churchill, esortò i serbi, croati e sloveni a riconoscere il nuovo governo sotto la guida di Tito. Il primo ministro inglese, dopo gli accordi, temeva che, non appena fosse arrivata l'Armata Rossa ai confini della Serbia, i sovietici avrebbero instaurato un regime comunista sotto la guida di Tito, per cui sospese i rifornimenti ai cetnici, nonostante la promessa di Mihajlović di continuare a combattere i tedeschi, e li indirizzò ai titini. Per questo motivo, chiese a Tito di incontrare il re per formare un nuovo governo in Jugoslavia per decidere quale sarebbe stato il nuovo sistema politico in Jugoslavia, ma Tito evitò l'incontro con il re, assicurando a Churchill che il suo sistema politico non sarebbe stato di stampo comunista. <21
Per cui, con le dimissioni del re, e con l'avanzata dell'Armata Rossa in Bulgaria e in Romania (che avevano firmato un armistizio con le forze sovietiche), Tito viaggiò segretamente in aereo, all'insaputa degli inglesi, per arrivare a Mosca per chiedere aiuti militari a Stalin e addestrare le sue truppe in modo da poter combattere efficacemente i tedeschi e cacciarli dalla Jugoslavia. Stalin approvò la richiesta <22, e il 20 ottobre 1944 l'Armata Rossa lanciò la sua terza offensiva verso l'Ungheria. In seguito divisioni sovietiche si riversarono su Belgrado e insieme alle forze titine la liberarono. Questa offensiva, l'offensiva di Belgrado, permise a Tito di stabilire il suo quartier generale nella capitale, diventando così il nuovo capo della Serbia, che insieme agli accordi diplomatici, già descritti, furono il suo primo grande successo in campo internazionale. <23 Tuttavia rimaneva la questione irrisolta della Venezia Giulia occupata.
[NOTE]
14 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
15 Rossi-Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, 2011, pp. 59-60
16 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
17 Pupo. Trieste '45. p. 42
18 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
19 Diego de Castro. Vol 1. p. 156
20 Novak, p. 96
21 Novak, pp. 97-99, ma non lo menzionò nei suoi discorsi politici al pubblico.
22 Consultare B. B. Dimitrijević and D. Savić (2011) Oklopne jedinice na Jugoslovenskom ratištu 1941-1945, Institut za savremenu istoriju, Beograd 23 Novak, p. 99
Matteo Boggian, La questione triestina 1945-1954, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2020-2021 

La crescente iniziativa dei partigiani dell'esercito di liberazione nazionale guidato da Tito e la sanguinosa guerra nazionale e civile delle diverse fazioni politiche attive in Jugoslavia, impegnate in una lotta senza quartiere al fianco o contro le forze di occupazione al fine di garantirsi una posizione di forza favorevole alla fine del conflitto, costrinsero Mussolini a dichiarare la Dalmazia, assieme al Montenegro, alla Slovenia e ai territori croati e bosniaci occupati, “zona di operazioniˮ. <187
In Dalmazia queste misure determinarono in primo luogo una selvaggia competizione per il potere tra il governatore Giuseppe Bastianini ed il generale Quirino Armellini, comandante del XVIII Corpo d'armata che si concluse a favore del primo. L'occupazione della Slovenia ebbe implicazioni cariche di conseguenze sulle sorti dei territori di confine: nella provincia di Lubiana il fascismo perseguì in un primo tempo una politica di moderazione nei confronti della popolazione civile.
Questa politica si differenziava notevolmente dalla prassi di germanizzazione violenta messa in atto dai tedeschi nella Slovenia settentrionale, in seguito alla quale circa 21.000 sloveni provenienti dalla zona di occupazione germanica si erano rifugiati nella zona italiana. Questi fatti suscitarono notevoli malumori da parte degli occupanti tedeschi della parte settentrionale della Slovenia, che dal canto loro andavano attuando un programma complessivo di germanizzazione delle aree adiacenti al confine austriaco attraverso deportazioni di massa della popolazione slovena. L'Italia venne accusata in tale frangente di aver favorito il formarsi a Lubiana del centro dell'irredentismo sloveno <188.
Lo stesso Mussolini in un primo tempo non intendeva procedere all'italianizzazione forzata della provincia: «Inizialmente le cose parvero procedere nel modo migliore. La popolazione considera il minore dei mali il fatto di essere sotto la bandiera italiana. Fu dato alla provincia uno statuto, poiché non consideriamo territorio nazionale quanto è oltre il crinale delle Alpi, salvo casi di carattere eccezionale» <189.
[...] Rispetto alla condizione in cui versava il paese, la situazione che venne a crearsi nell'area di confine fu ben diversa: qui andò dissolvendosi ogni simulacro di presenza statuale italiana; l'8 settembre non significò solo, nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell'esercito, ma anche la scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano, cosicché il carattere di cesura vi si presentò in forme assai più accentuate che nel resto d'Italia <231 .
La firma dell'armistizio provocò un'accelerazione dei processi che erano andati delineandosi già a partire dal 1942, quando l'attività partigiana aveva trasformato la parte orientale del territorio in zona di guerra: i numerosi episodi di aggressione e disarmo di gruppi di soldati da parte di unità partigiane e le preoccupate reazioni degli alti comandi rappresentano infatti un indicatore dello stato di demoralizzazione delle truppe e delle conseguenze che avrebbero potuto sortirne. In seguito alla diffusione della notizia della firma dell'armistizio, varie unità si lasciarono sopraffare da contadini croati disarmati. Ad Albona, 1200 soldati si arresero a 30 croati, tra le quali diverse donne, mentre a Pisino circa 1000 effettivi si sbandavano, dopo aver abbandonato un armamentario composto da pezzi di artiglieria, mitragliatrici e mortai <232. Altri soldati si arresero nel villaggio dell'Istria interna di Pinguente, nella provincia di Lubiana, a Trieste, a Fiume e a Pola. A Gorizia si verificò invece un tentativo di resistenza e di cooperazione con le unità partigiane che circondavano la città: gli operai dei cantieri di Monfalcone, rifornitisi di armi raccogliticce, organizzarono la divisione Proletaria, che si oppose assieme ai partigiani sloveni all'avanzata tedesca; la maggioranza dei soldati che si arrendevano vennero internati in Germania, contro le precedenti assicurazioni dei comandi tedeschi. In Istria le cose andarono diversamente: qui ebbero luogo diverse sollevazioni, sia nei centri italiani sia in quelli croati; Giovanni Paladin, nel suo La lotta clandestina di Trieste, ricostruisce nei termini seguenti il passaggio dei poteri in Istria: «I partiti politici italiani non esistevano, la vecchia classe dirigente era scomparsa da lungo tempo, gli italiani dell'Istria, pur essendo in maggioranza, non disponevano più alcuna istituzione autonoma intorno alla quale raccogliersi e resistere. La disgregazione morale e politica aveva dissociato tutti i gangli vitali della comunità italiana dell'Istria. […] Nel vuoto lasciato libero, prima dal fascismo e poi dalle autorità civili e militari, si precipitarono dopo l'8 settembre i nuclei partigiani slavi, instaurando l'ordine nuovo per mezzo dei cosiddetti «poteri popolari» senza incontrare resistenza alcuna da parte degli italiani dell' Istria. La Venezia Giulia era diventata terra di nessuno…[…]. Quel giorno finiva di fatto la sovranità italiana sull'Istria e incominciava la dominazione balcanica che sovvertiva da cima a fondo l'ordine costituito <233».
Il 13 settembre 1943 si riunì a Pisino un'assemblea del neoistituito Comitato popolare di liberazione, composto da una trentina di quadri: il Comitato proclamava l'unione dell'Istria alla «madrepatria croata»; in seguito una più ampia assemblea, a cui parteciparono anche numerosi italiani, ratificò queste decisioni. Il 20 settembre, il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia (Zavnoh), emise un decreto che dichiarava decaduti tutti i trattati e le convenzioni stipulate con l'Italia. L'Istria, la Dalmazia e le isole erano annesse ipso facto alla Croazia <234. Il proclama di Pisino era stato preceduto da numerose sommosse locali, in cui una prima rudimentale ossatura di contropotere partigiano, integrata poi da quadri comunisti provenienti dalla Croazia, aveva provveduto a disarmare le guarnigioni e le forze di polizia italiana, insediando i nuovi poteri e rafforzando le fila partigiane.
[NOTE]
187 M. Cantaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 216.
231 M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 241.
232 Ivi, p. 241 ss.
233 G. Paladin, La lotta clandestina di Trieste. Nelle drammatiche vicende del CLN della Venezia Giulia, Del Bianco, Udine 1960, p.74.
234 M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, cit., p. 211.

Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2013

martedì 4 luglio 2023

Quando il gruppo partigiano di Tiberio assumerà un rilievo e una combattività notevoli, scoppierà il dissidio con il locale CLN che era in posizione attendista

Chiavenna (SO). Fonte: Wikipedia

Il CLN di Chiavenna, prima cittadina della provincia a costituire la società operaia, è influenzata da Greppi e da Febo Zanon, socialista. Poi, via via, sorgono gli altri. A Bormio, col dr. Adolfo Flora. Svolgono funzione di collegamento e di indirizzo strategico tra il CVL (Corpo Volontari della Libertà), che invia informazioni e detta disposizioni, e le varie formazioni, non sempre, tuttavia, disposte ad accoglierle. Col tempo, i CLN si trasformano in veri e propri centri di comando locali, e tendono sempre più ad armonizzare i loro comportamenti. Due fatti appaiono determinanti nella costruzione del movimento partigiano valtellinese e valchiavennasco. In Bassa Valle, l’interessamento delle Federazioni lombarde del PCI appare decisivo. Dopo alcuni tentativi riusciti solo parzialmente, si decide d’inviare Dionisio Gambaruto (Nicola), un ufficiale d’artiglieria, con esperienze anche nei Gap milanesi. Nicola riesce ad organizzare gruppi già esistenti e a guidarli nella lotta armata. Ha inizio, fin dalla tarda primavera del ’44, una intransigente azione contro i nazifascisti, dalla quale nasceranno due Divisioni “Garibaldi”. In Val Chiavenna, Tiberio (Pietro Porchera), nell’estate, riesce ad organizzare un comando volante, distinto in tre distaccamenti. L’Alta Valle è caratterizzata fin dagli ultimi mesi del ’43 dal VAI (Volontari Armati Italiani), il primo movimento partigiano apolitico, nella primavera successiva già armato ed in grado di battersi, che influenza anche altri gruppi spontanei. La necessità di unificare i vari schieramenti, con l’ausilio dell’intervento di Ferruccio Parri presso il Comando Alleato, porta alla costituzione della 1ª Divisione Alpina “Giustizia e Libertà”, comandata da un capitano di fanteria, Giuseppe Motta (Camillo). La Divisione, nell’insieme assume, almeno a livello di vertici, un atteggiamento di attesa, spesso contraddetto dalle azioni di gruppi partigiani combattivi. L’atteggiamento viene giustificato dalla necessità assoluta, peraltro condivisa da tutti, di salvaguardare gli impianti idroelettrici. A questo punto il quadro delle varie formazioni partigiane e dei loro compiti appare abbastanza definito.  Sergio Caivano, Resistenza e Liberazione nelle nostre Valli. La Medaglia d’argento alla provincia di Sondrio onora il suo secondo Risorgimento, ANPI Lombardia 

Per quanto riguarda la situazione in altre zone del futuro Raggruppamento Divisioni Garibaldi “Lombardia”, è interessante notare l’attività iniziale della resistenza in Valchiavenna: anche in questa zona la suddivisione tra due concezioni politiche si farà sentire, con una scissione tra politica del locale CLN e quella di una successiva formazione di carattere più avanzato, comandata da Pietro Porchera [Tiberio].
Avevamo precedentemente visto che il clima democratico era particolarmente vivo in Valchiavenna anche durante gli anni del fascismo, per la situazione di relativa industrializzazione della zona e per l’esistenza di una coscienza popolare libertaria che si basava su categorie come quella degli scalpellini della zona di Novate - Mezzola, di cui si ricordano le agitazioni e gli scioperi durante il ventennio, o del proletariato chiavennese in generale che aveva sempre costituito una zona “rossa” rispetto alla “bianca” Valtellina.
Il primo sorgere delle formazioni si verifica nella primavera del 1944. Leggiamo nel verbale d’interrogatorio della GNR di Colico, a Febo Zanon, il 10 dicembre 1944 <179: "[…] nel mese di maggio del c.a. ebbi occasione di conoscere un certo Lazzarini Leone, il quale aveva creato un gruppo di ribelli nella zona di Chiavenna, gruppo che sovvenzionava regolarmente fino al rastrellamento della GNR, epoca nella quale egli prima di fuggire a Milano, mi diede l’incarico di consegnare al capobanda Bellini Luigi con le istruzioni per l’ulteriore sovvenzionamento della banda; istruzioni che mi vennero affidate in un secondo tempo, tramite alcune signorine inviatemi da Milano per conto di un certo Ricci [questo è il nome di battaglia] con il quale in seguito a richiesta ebbi occasione di conoscerlo a Milano, la prima volta in Foro Bonaparte, ed avere successivi incontri in Silvio Pellico dove, strada facendo, mi consegnava una busta chiusa indirizzata al signor Luigi Bellini dicendomi che la somma era destinata ai ribelli che agivano nella zona di Chiavenna, somma che si aggirava a seconda delle volte sulle 100000 lire. Appena ricevuto l’incarico da Milano, ritornavo a Chiavenna dove a mio mezzo recapitavo la somma al comandante del Gruppo “Giustizia e Libertà”. Non ha mai dato l’incarico a nessun’altra persona di recapitare le somme destinate alla banda, perché io stesso le portavo in località Sasso de’ Cani, sopra l’albergo Crimea, dove mi incontravo con il Bellini una volta alla settimana e precisamente ogni sabato verso le 17. Al Bellini non consegnavo tutta la somma che mi veniva consegnata dal Ricci ma, secondo le istruzioni la ripartivo in diversi gruppi che consegnavo a seconda delle necessità della banda e in proporzione alla somma che ricevevo. Il numero dei componenti della banda si aggirava sui 7/8 uomini, tenuti esclusivamente come rappresentanti del gruppo “Giustizia e Libertà”, del Comitato demo - liberale, per contrapporli all’espansione delle Brigate Garibaldine composte da uomini di diverse idee politiche ma guidate da commissari politici comunisti, anche se di nazionalità italiana".
Notiamo in questo verbale d’interrogatorio [e dobbiamo appunto ricordarci che di questo si trattava, con tutte le componenti: infatti, si trova allegato al verbale anche un certificato medico, di due giorni successivo datato 12 dicembre 1944, in cui si dichiara il tentativo di suicidio avvenuto il giorno precedente, e cioè dopo l’interrogatorio di Febo Zanon] che la situazione nella zona era basata da un lato su piccole formazioni, collegate con il CLN locale [Pench del partito comunista, Zanon di quello socialista, Greppi del partito d’azione, Corbetta del partito liberale, Ratti per la democrazia cristiana] e aderenti alle brigate G.L., per le quali lo Zanon andava a Milano a prendere i finanziamenti, precisando [in altro passo del verbale d’interrogatorio] che questi provenivano da Foro Bonaparte e cioè dalla Edison. Questo non può certo sembrare strano se pensiamo all’importante centrale di Mese della Edison e al suo interesse perciò ad avere nella zona formazioni “controllate”. É su questa base che anche qui si porrà il dissidio con le formazioni che facevano capo a Tiberio, per via appunto che i gruppi nati sin dal maggio 1944 e poi sempre esistiti, anche se assolutamente inconsistenti sul piano partigiano, hanno rappresentato una posizione o di solo controllo alla suddetta centrale, o di non attività. Quando perciò da fine luglio-inizi agosto il gruppo di Tiberio assumerà un rilievo e una combattività notevoli, scoppierà il dissidio con il locale CLN che era in posizione attendista.
In una circolare del 20 maggio 1944 dell’Ispettore Federale Silvio Cincera, del partito fascista repubblicano, al commissario federale del partito stesso, e in risposta a una comunicazione di questi che proclamava la necessità di riunire i cittadini “puri” per discutere con loro l’importanza di obbedire al bando mussoliniano in scadenza qualche giorno dopo, leggiamo <180: “Rispondo alla tua del 19 maggio 1944 che ha destato in me non poca sorpresa e meraviglia.
Premetto che ho obbedito a un ordine, che da me e dai miei collaboratori è ritenuto assurdo. Osservo, prima di tutto, che un’iniziativa del genere mi sarebbe dovuta essere notificata almeno cinque giorni prima, per invitare personalmente i capi di famiglia interessati. Ho diffuso nei caffè, nei negozi, nei cantieri, nei teatri e dovunque mi fu ordinato. Credo che un sistema ottimo avrebbe potuto essere quello di chiedere il permesso ai parroci, di cui sono ben noti i sentimenti filo-fascisti, affinché un tributo del PFR potesse persuadere [?!?!] questi buoni italiani a fare il loro dovere nei confronti della Patria! Se noi pensiamo che una piccola raffica di mitragliatrice, qualche ritiro di licenza di commercio, avrebbe dato migliori risultati, ci asteniamo dal seguire una strada errata. É arrivato il camerata maggiore Gardini, il quale ha trovato un locale ben attrezzato per ricevere i “puri”; dopo mezz’ora di attesa si sono presentate unicamente due persone, coi figli regolarmente in Svizzera. É certo, caro Rodolfo [Parmeggiani], che di questo passo noi faremo poca strada nel senso fascista. Il nostro atteggiamento di longanimità è stato interpretato come un calamento di braghe e cosa poco seria. Per dirti fino a qual punto di sfrontatezza e di spudoratezza si arriva, mi vedo sul tavolo un gruppo di domande per guardialinee telefoniche e telegrafiche, di certi individui che, non avendo obblighi militari immediati, cerca di stornare un’eventuale minaccia e di mettersi al coperto da colpi. Il camerata maggiore Gardini ci riferirà verbalmente sulla situazione che ha prospettato e che si riassume nella constatazione che la maggior parte dei renitenti alla leva si trova in Svizzera e che tutti godono di ottima salute, e che i genitori, ormai tranquilli sulla loro sorte, continuano indisturbati nei loro traffici al solo scopo… del “bene inseparabile del Re e della Patria”. Scusami lo sfogo. Ma ne ho… [indovina].”
La lettura del documento ci dà uno spaccato evidente dell’isolamento in cui si trovava il fascismo nei confronti della popolazione valtellinese. Inevitabile che di fronte a un così disastroso atteggiamento, prendesse posizione il desiderio di risolverla “fascisticamente”, tagliando i nodi “gordiani” mussolinianamente, con una “piccola raffica di mitragliatrice” [come consigliava Buffarini Guidi, “sparando nel mucchio”]. Ed è questa una constatazione importantissima ai fini della comprensione della Resistenza in generale. La lotta partigiana era combattuta “dal punto di vista delle masse popolari”, rispecchiava il loro interesse e la loro volontà di finirla col fascismo. Se la punta di diamante erano le formazioni armate, territoriali e di montagna, tuttavia queste non avrebbero potuto creare una situazione militarmente e politicamente vincente, senza l’appoggio “generale” della popolazione. La Resistenza esprimeva cioè l’interesse individuale del cittadino globale della nazione.
18.5 Poi ci sono anche i sacerdoti
É pure interessante notare quel riferimento al clero “filofascista”, in cui si denotava la rabbia del repubblicano di vedersi tradito anche in Valtellina, zona tradizionalmente cattolica, da quel Vaticano che dai patti lateranensi in poi […l’uomo inviato dalla provvidenza…] era stato un valido puntello al regime. Nello specifico, il Cincera si riferiva alle posizioni di antifascismo del clero locale, culminate [in quell’inizio di primavera] nell’arresto del parroco di Sondalo.
[NOTE]
179 Cfr. Documenti della Resistenza Valtellinese. Febo Zanon venne arrestato in seguito alla delazione di una spia, Alberto della Pedrina. Quest’ultimo, dopo la Resistenza sarà oggetto di atti d’accusa da parte dello stesso Zanon.
180 Cfr. Documenti della Resistenza Valtellinese.

Marisa Castagna, La Resistenza politico-militare sulla sponda orientale del Lario e nella Brianza Lecchese, Tesi di Laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Anno Accademico 1974-1975, tesi qui ripresa da Associazione Culturale Banlieu 

A riprova di quanto affermavo poc'anzi circa il nostro desiderio di collaborazione, sollecitai una missione del comando della 52/a. La riunione avvenne verso la metà di novembre e della nostra delegazione facevano parte oltre a Sardo, Rumina e Mosé. Io non vi partecipai perché non mi andava per il momento di mettermi ancora a discutere con gente che mi aveva definito un comunista e in quanto tale un sanguinario che non teneva conto della reazione che i fascisti con le loro rappresaglie potevano arrecare danni incalcolabili nella zona. Ma anche tale tentativo si risolse in una nuova rottura ed il C.L.N. mandò un rapporto allo stesso organismo provinciale di presunto tentativo nostro di disarmare e catturare il gruppo G.L. Tale rapporto faceva parte della ossessionante campagna denigratoria nei nostri confronti poiché non ci era mai balenata per cervello una simile ipotesi. La verità è che tale gruppo ricevette l'ordine di sciogliersi e passare in Svizzera anche armato. Zanon ai primi di dicembre venne arrestato (da un’informazione di Maio della metà del mese risulta invece che si sarebbe consegnato spontaneamente) mentre noi gli avevamo offerto protezione con eventuale accompagnamento in Svizzera, non ritenendolo in grado di affrontare la durezza della vita in montagna. E dai fascisti di Chiavenna venne trasferito all'U.P.I. di Colico, dove dopo gli interrogatori in cui aveva riferito sulla costituzione del gruppo G.L, sui finanziamenti che riceveva e da chi a Milano allo scopo di contrapporlo allo sviluppo delle brigate Garibaldi “comandate da commissari comunisti anche se italiani” tentò di svenarsi, come si seppe e come risultava da un certificato medico con prognosi di qualche giorno. Da qui venne trasferito all'infermeria del carcere di S. Vittore a Milano, dove vi rimase fino alla Liberazione [...] Facendo un passo indietro in riferimento ai dissidi ideologici tra le varie componenti della Resistenza in Valtellina fomentati dagli esponenti moderati dei C.L.N. con l’appoggio dei notabili delle formazioni dell’Alta Valtellina si verificarono anche nelle formazioni comandate da Nicola, degli attriti, che portarono alla secessione capitanata da Giumelli e Ghislanzoni, che furono gli epigoni forse anche non del tutto consapevoli del piano più vasto in atto per la tranquillità della borghesia locale. Giumelli e Ghislanzoni nel loro tentativo di organizzare un forte reparto da contrapporre a Nicola al grido di “La Valtellina ai valtellinesi” si spinsero anche in Val Chiavenna prendendo contatto con il nostro distaccamento dislocato sui monti di Verceia. Avuto sentore della cosa mi precipitavo subito in quel reparto con Rumina giungendo poco dopo l’arrivo dei due che stavano esponendo i motivi della secessione ed i programmi di contrapposizione alle formazioni Garibaldine di Nicola che egemonizzavano tutta la Bassa Valtellina da Sondrio in giù.
Pietro Porchera  (Tiberio), Testimonianza, Associazione Culturale Banlieu 

lunedì 5 giugno 2023

Il romanzo "Il Clandestino" è attento anche alla stratificazione sociale


Come Il partigiano Johnny, anche Il Clandestino <12 di Mario Tobino è un affresco della Resistenza - in particolare dei suoi inizi - in cui l'evento storico in questione non è più allontanato e demonizzato ma assunto come momento positivo del riscatto di un'umanità fino a quel momento soffocata dal regime. È il primo romanzo in cui Tobino affronta questo nodo tematico, che toccherà tangenzialmente nel racconto Una giornata con Dufenne <13 e riprenderà poi con Tre amici. <14 Opera dalla lunga gestazione <15 e dall'origine autobiografica, Il Clandestino racconta i primi passi del movimento partigiano nato nell'immaginario paese di Medusa, dietro cui si distingue Viareggio. Al centro non è più un singolo personaggio come nei romanzi fenogliani ma un'intera comunità, che rivive nell'impostazione corale di un intreccio in cui le figure centrali sono alter ego di donne e uomini realmente esistiti. Il titolo stesso guida il lettore a far attenzione non ad un solo personaggio, come per il Partigiano, ma ad un protagonista collettivo: questo fa del romanzo di Tobino una tappa evolutiva da segnalare nel percorso della narrativa sulla Resistenza.
Non ci si concentra più sulle reazioni di un individuo che si trova perso ed isolato di fronte ad un evento più grande di lui; al contrario, la voce narrante pone l'accento su un cenacolo di persone, diverse per cultura ed estrazione sociale, che si uniscono, con entusiasmo e determinazione, nella lotta contro un nemico comune.
L'abilità pittorica dello scrittore si esercita nel ritrarre una gamma di personaggi molto diversi l'uno dall'altro. Guida l'organizzazione clandestina della lotta il Summonti, giovane di estrazione borghese ma convinto comunista - è conosciuto da tutti come il “prete rosso” - spesso frenato nelle sue decisioni da un credo politico che non lo aiuta a risolvere i tanti interrogativi della guerra civile; gli fa da spalla e da contrappeso il Mosca, ingegnere lontano dalle strette di partito e votato all'impeto, all'azione. Altro intellettuale e pensatore è Gustavo Duchen, docente di filosofia altruista e riflessivo, spesso riservato, che si lascia trasportare dall'entusiasmo della lotta; come lui Marino, scrittore e poeta che rifiuta la sua torre d'avorio e si unisce al gruppo clandestino, svincolandosi così dal ruolo iniziale dell'intellettuale inetto.
Il romanzo è attento anche alla stratificazione sociale: Adriatico, umile calafato orfano dei genitori, rappresenta la voce popolare di una città votata al mare e all'attività marinara. Uno spazio è riservato all'elemento nobiliare, con Saverio - ammiraglio nostalgico del Risorgimento e degli ambienti monarchici radiato dalla Marina per discorsi sovversivi - e l'amante Nelly, contessa civettuola e apparentemente superficiale, accompagnati dal loro entourage. Non mancano i rappresentanti della parte avversa: i fascisti bastonatori di Medusa, il podestà e i repubblichini.
Con pochi tratti descrittivi o sfruttando episodi salienti, la voce narrante sa mantenere tutti i personaggi su uno stesso livello di approfondimento caratteriale, tanto che risulta impossibile individuare un protagonista che svetti sugli altri. Il romanzo, inoltre, si apre grazie all'ampio respiro del narratore onnisciente ad abbracciare l'intera collettività che in esso si agita.
Si deve ammettere certo che il romanzo di Tobino è popolato da personaggi così calati nel loro ruolo, così solidali gli uni con gli altri e decisi nelle loro azioni da risultare irreali: la determinazione priva di qualsiasi paura, l'indomito coraggio che li smuove, l'universale accordo nato tra loro rasenta un ideale che difficilmente può essere creduto possibile. Nel mondo di Tobino, i buoni e i cattivi, i valorosi e gli opportunisti sono divisi con l'accetta, senza chiaroscuri.
La coralità del romanzo coinvolge anche la cittadina di Medusa con le sue vie, il mare e il territorio circostante, tanto che può essere considerata una protagonista alla pari degli altri. Apre il primo capitolo, infatti, la descrizione della città, con le sue passioni e i suoi difetti, che reagisce al messaggio radio del 25 luglio allo stesso modo di una persona, in carne ed ossa: "A questi messaggi Medusa, come avvenne in tutte le città d'Italia, si risvegliò, immediatamente fu dimenticata la stagione balneare; Piazza Grande riebbe tutti i suoi diritti. Medusa oltre la celebrità balneare è giustamente nota per essere sensibile alla politica, per partecipare agli impeti ribelli e anarchici della regione dove è situata. Forse è il rischio del mare e il duro lavoro dei calafati che la sospinge a generose intemperanze; e la frequenza con gli oziosi bagnanti estivi oltre a donare ai medusiani il senso dell'ingiustizia sociale obbliga a constatare come la ricchezza di rado si accompagna alla virtù". <16
Lungo il romanzo, la voce narrante getta spesso uno sguardo alle sorti della cittadina, inerme spettatrice e vittima delle scelte umane. Ecco come la città è descritta, attraverso gli occhi di Anselmo, dopo l'arresto di alcuni componenti del gruppo clandestino. Medusa è come morta, privata dell'impeto della sua gioventù di ribelli: " 'Li hanno arrestati! Chi è stato? Da chi è partito, che gli faranno?' e rientrando in casa Anselmo ebbe la sensazione che la città fosse stata dissanguata, orbata della sua linfa gentile, ignobili mani l'avessero profanata, udì nella testa un brusio di pensieri, uno sciame che vola caldo nel sole". <17
Ulteriore esempio è la descrizione della città dopo la partenza degli antifascisti del gruppo clandestino, decisi a creare una formazione in montagna. Qui si legge chiaramente l'importanza che l'uomo riveste nel dare vita e storia allo spazio. Denudata dalle ruberie dei tedeschi e priva dei suoi combattenti, la città resta indifesa, quasi stupita di quel vuoto: "Laggiù Medusa era rimasta sola, senza neppure un cittadino. Chi poi per caso straordinario ci capitò raccontava che era immersa in un silenzio, uno stupore; lungo i marciapiedi erano cresciute delle erbe, dei ramoscelli. Se si percorrevano in bicicletta le strade risuonava netto e quasi pauroso il fruscio delle gomme, il ticchettio della ruota libera. Tutte le porte delle case erano aperte, c'entrava l'aria, la luce, il buio. Quando si alzava il libeccio le porte sbattevano. Sulla spiaggia si erano formate le dune, i pesci arrivavano indisturbati alla riva. I tedeschi avevano fatto crollare tutti i campanili delle chiese, anche il più antico, quello di Santa Rosalia; i rottami giacevano su un lato". <18
La città vive, quindi, nei suoi abitanti: privata di essi, risulta un corpo vuoto, inerte. Ambientato per la più parte in una città marittima, di marinai e calafati, raramente nel romanzo si intravede l'ambiente, collinare o montuoso, tipico dei racconti partigiani. Nelle poche pagine in cui questo avviene, anche il paesaggio naturale, come la città, assume connotati e sentimenti umani, razionali, e porta l'impronta della comunità che vi si muove: elemento, questo, che differenzia molto Tobino da Fenoglio, per il quale la natura è invece una forza indipendente dall'uomo, che agisce su di lui inducendolo ad assumere comportamenti ferini, fino alla completa disumanizzazione.
Nel Clandestino la montagna, per esempio, è sempre collegata all'immagine della famiglia di Duchen, che lì vive; il prato scelto per il lancio è detto «il prato della Teresa», <19 e come il prato anche la caverna individuata per nascondere la merce ha un nome: la caverna «della Scimmia Pelosa». <20 La grotta stessa è descritta con termini più adatti ad illustrare un'abitazione o uno spazio antropizzato piuttosto che un luogo scavato dalla natura dentro al cuore della montagna: "Gli parve di essere tornati ragazzi, quando la prima volta si ascolta la descrizione della casa dell'orco. Si entrava nella caverna per un varco, giusto la misura di un uomo. Al di là c'era un atrio di pochi passi; dirimpetto iniziava un cunicolo, un corto e stretto corridoio. Per percorrerlo si scontrava nelle gibbosità delle pareti. Al di là si apriva il salone, un largo; la volta in certi punti era schiacciata, in altri era nera d'ombra come un camino, tanto era alta. In terra si scontrava in sassi aguzzi. Un uccello notturno cominciò a stridere e a volare; quando era investito dalla luce delle lampade gli si vedeva il ventre color topo, tumido. Il salone era largo numerosi metri". <21
È la presenza dell'individuo, quindi, ad essere preponderante e non la forza vitale della natura. Anche quando non è antropico, l'ambiente perde i suoi attributi naturali per assumere sentimenti tipicamente umani. Ciò rende ancora più evidente che il romanzo ha al suo centro la coralità di un gruppo variegato di uomini e donne, i quali animano spazio e tempo con i loro progetti, errori e traguardi.
Il racconto si snoda tra i primi tentativi di organizzazione del gruppo, gli iniziali fallimenti causati dall'eccessivo impeto, il trasferimento inconcludente a Saltocchio, il ritorno in città. Dall'altra parte, si vedono anche i movimenti dei repubblichini, ma sono descritti in trasparenza, come se questi ultimi fossero già dati per perdenti, votati al fallimento ancora prima che la lotta inizi. L'azione dei partigiani, per quanto alle prime armi, e l'entusiasmo positivo che li sostiene, sono invece centrali: la prima operazione ben riuscita è la bomba innescata al Balipedio di Medusa, deposito dei proiettili dell'esercito italiano.
In seguito, il gruppo si attiva per stabilire un contatto con gli Alleati, avvalendosi del coraggio di Rosa - dietro di lei si nasconde la medaglia al valore militare Vera Vassalle - che attraverserà le linee e tornerà a Medusa con una radio e con le istruzioni per poterla utilizzare.
[NOTE]
12 MARIO TOBINO, Il Clandestino, Milano, Mondadori, 1962, da cui citerò.
13 M. TOBINO, Una giornata con Dufenne, Milano, Bompiani, 1968.
14 M. TOBINO, Tre amici, Milano, Mondadori, 1988.
15 L'introduzione di Paola Italia all'edizione del 2013 (PAOLA ITALIA, Introduzione, in M. TOBINO, Il Clandestino, Milano, Mondadori, 2013, pp. VII-XX) ricostruisce le tappe di stesura del romanzo, mostrando che l'autore ne accarezzava l'idea già all'indomani della Liberazione.
16 M. TOBINO, Il clandestino, cit., p. 13.
17 Ivi, p. 501.
18 Ivi, p. 558.
19 Ivi, p. 311.
20 Ivi, p. 313.
21 Ibid.
Sara Lorenzetti, Narrativa e resistenza: "invenzione" della letteratura e testimonianza della storia, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” - Vercelli, Anno Accademico 2014/2015

domenica 28 maggio 2023

La banda partigiana di Beltrami non è politicizzata


A Novara Gino Vermicelli cerca dei contatti comunisti e arriva tramite vari informatori a Romagnano, presso lo studio di un avvocato, dove si riunisce il Fronte Nazionale dei cinque partiti antifascisti, l’embrione del CLN.
Lentamente riprende i contatti con i compagni di Borgomanero, Omegna, Gravellona; in questo periodo egli conosce Gaspare Pajetta, che diventerà suo grande amico. L’8 settembre è per tutti una doccia fredda: il CLN è costretto a spostarsi a Meina per sfuggire ai Tedeschi che hanno velocemente occupato Novara. Gino e Gaspare rimangono in città per riorganizzare la federazione del partito: nascosti in un deposito di vernici scrivono e stampano “La Lotta” <33, un periodico fondato da loro che continuò ad esistere fino al 1961. Presto vengono raggiunti da Pietro Flecchia, un confinato comunista biellese che pretende di assumere la direzione della federazione. Gino viene così “retrocesso” a responsabile militare: il suo compito diventa organizzare la Resistenza. Il nuovo incarico affidatogli lo porta a Borgosesia, dove conosce Cino Moscatelli, personaggio di spicco che, d’accordo con l’ex-podestà della città, raccoglie armi e sbandati per organizzare la guerriglia; non rimane però con lui a causa di alcuni problemi sorti tra Vermicelli e gli altri combattenti.
Gino decide di raggiungere l’altro gruppo partigiano della zona, quello del “capitano” Filippo Maria Beltrami, ma è coinvolto in una trappola tesa dai fascisti. Viene infatti catturato insieme al commissario politico di Beltrami: fortunatamente entrambi sono presto liberati grazie ad uno scambio di prigionieri. La decisione finale di Gino, che da questo momento sarà Edoardo, è salire in montagna con Beltrami, che l’ha salvato. Così egli sale a Campello Monti, dove ritrova l’amico Pajetta, che si era già unito al gruppo del “capitano”. Questa non è una banda “politicizzata”: Beltrami, essendo un ex ufficiale, adotta ancora la mentalità e i modi di fare tipici del regio esercito, con le sue gerarchie e i suoi cerimoniali; Gino e Gaspare organizzano comunque una cellula comunista all’interno del gruppo.
Purtroppo la banda viene presto decimata durante una sanguinosa battaglia avvenuta a Megolo [nd.r.: Frazione di Pieve Vergonte (provincia del Verbano-Cusio-Ossola)], il 13 febbraio 1944: Gino sopravvive per miracolo, ma l’amico Pajetta e Beltrami soccombono. “Edoardo” torna così a Rimella da Moscatelli, dove, ritrovati altri sopravvissuti alla battaglia di Megolo, si forma un nuovo distaccamento, che viene mandato in Val d’Ossola.
Vermicelli ottiene l’incarico di commissario politico per questo nuovo gruppo. La figura del commissario politico è fondamentale per tutte le formazioni partigiane, dalla più piccola, il battaglione, alla più numerosa, la divisione: affianca in ogni decisione il comandante, e si occupa della politicizzazione dei volontari, cioè deve insegnare loro l’etica del partigiano, i valori e i comportamenti da seguire in battaglia e nei confronti della popolazione che vive nelle montagne. Vermicelli cerca sempre, durante gli anni da partigiano, di comportarsi in modo eticamente irreprensibile, per dare il buon esempio ai giovani.
Il continuo afflusso di volontari, conseguente all’emissione dei bandi Graziani per l’arruolamento forzato, trasforma il distaccamento in battaglione; arriva anche il nuovo comandante, che deve affiancare Vermicelli al comando: Andrea Cascella. Il gruppo si disloca un po’ in Ossola, un po’ in Val Formazza e un po’ in Val Antigorio. I rastrellamenti operati dai Tedeschi sono abbastanza frequenti, per cui i partigiani devono essere spesso in movimento, per evitare di essere individuati. In poco tempo il battaglione diventa divisione, e “Edoardo” ottiene dal CLN l’incarico di vice-commissario.
La liberazione dell’Ossola, che avviene tra il 9 e il 10 settembre 1944 e a cui contribuisce anche Vermicelli, è un fatto spontaneo, non stabilito a tavolino da nessun comando superiore. I vari fortini nazifascisti dislocati un po’ ovunque nella valle sono attaccati quasi simultaneamente da vari gruppi partigiani, comunisti o autonomi, e facilmente occupati. I Tedeschi abbandonano Villadossola, dove c’è il comando tedesco, senza nemmeno aprire il fuoco, lasciando il posto ai partigiani, che prendono in mano il governo della valle, costituendo la Giunta provvisoria di governo dell’Ossola. Vermicelli però rifiuta di partecipare alla gestione della zona: secondo lui il controllo del territorio deve essere lasciato agli abitanti, poiché il compito dei partigiani è solo quello di liberare le zone occupate, non di governarle.
La mancanza di aiuti materiali e di assistenza da parte degli Alleati fa presto fallire questo tentativo di governo democratico, che dura soltanto 43 giorni, dal 10 settembre al 23 ottobre 1944: un nuovo attacco tedesco partito da Gravellona respinge di nuovo i partigiani, che sono costretti ad abbandonare Domodossola.
Dopo la sconfitta, Vermicelli contribuisce a riorganizzare la divisione; i vari distaccamenti ottengono lanci e aiuti dal CLN per affrontare l’inverno alle porte, e riescono ad attuare piccole operazioni di guerriglia, per poter controllare le centrali elettriche della Val Antigorio.
33 “La Lotta”, Novara (1947-1961).
Sara Lorenzetti, Gino Vermicelli tra Resistenza e scrittura, Tesi di laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, Anno accademico 2006-2007 

[...] "Un bel dì mi venne il fregolo/di fermarmi in quel di Megolo!”. Così inizia così la canzone scritta dal Capitano Filippo Maria Beltrami dopo la faticosa traversata invernale dei suoi partigiani dopo l'abbandono della Valstrona alla fine di gennaio 1944. Non tutti gli uomini, dei quasi trecento che costituivano la "Brigata Patrioti Valstrona", arrivarono nella frazione di Pieve Vergonte: una sessantina se ne andò deponendo le armi; un gruppo sbagliò sentiero e paese; alcuni abbandonarono la formazione durante il tragitto; altri furono inseguiti e impegnati in combattimento. A Megolo, col Capitano, giunsero soltanto una quarantina di uomini. Il componimento, scritto dopo una cena all'albergo del Ramo Secco, risente di quelle disavventure. Nelle due settimane in cui si fermò a Megolo, Beltrami attese per ricostituire la formazione, allontanandosi soltanto per effettuare un attacco alla casermetta di Vogogna. La posizione non era certo favorevole, oltre che facilmente individuabile era poco adatta ad un combattimento. All'alba del 13 febbraio del 1944 i reparti delle SS, appoggiati da una compagnia di repubblichini, giungono a Pieve Vergonte con l'intento di stroncare la Resistenza partigiana. Sorpresi nel sonno, due giovani vengono catturati e torturati ma non riveleranno nulla. Saranno fucilati accanto all'osteria del paese. Intanto i 53 partigiani del Capitano Filippo Maria Beltrami, avvisati del rastrellamento, si preparano a resistere sulle balze del Cortavolo a Megolo contro più di cinquecento nazi-fascisti perfettamente armati. L'armamentario dei partigiani è misero: una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti. La nebbia dà loro una mano, celandoli sino al momento in cui i nazi-fascisti sono a tiro. La battaglia sarà lunga e cruenta vivendo fasi alterne: i partigiani non si arrendono anzi, riescono anche a costringere i nazi-fascisti a un disordinato ritiro. Ma le forze in campo sono troppo impari. Nell'abitato di Megolo il momento più tragico della battaglia, è una strage. Cade il capitano Beltrami e due giovani combattenti che si spingono in suo aiuto: lo studente 17enne Gaspare Pajetta e Antonio Di Dio, 20 anni, ufficiale di carriera unitosi alla Resistenza dopo l'8 settembre. Quella battaglia segnò l'apice e contemporaneamente la fine della "Brigata Patrioti Valstrona". Caddero combattendo Filippo Maria Beltrami "Il Capitano", Carlo Antibo, Giovanni Bressani Bassano, Aldo Carletti, Gianni Citterio, Angelo Clavena, Bartolomeo Creola, Antonio Di Dio, Emilio Gorla, Paolo Marino, Gaspare Pajetta ed Elio Toninelli. Nel piccolo cimitero di Megolo sono ancora sepolti Gaspare Pajetta e lo studente Aldo Carletti che con lui, da Torino, s'era arruolato nella "banda" Beltrami e vi era morto al fianco, quella mattina, poco dopo le otto. Qui hanno voluto essere sepolti i genitori di Gaspare Pajetta e anche i due fratelli, Giuliano e Giancarlo.
Marco Travaglini, Val Grande, Memoria resistente: la Val Grande e Megolo, 26 ottobre 2022

La battaglia di Megolo fu uno degli episodi più eroici della Resistenza. Il 13 febbraio 1944, alle prime luci dell’alba, reparti delle SS, appoggiati da una compagnia della GNR, invasero la piccola frazione di Pieve Vergonte, con l’intento di stroncare la Resistenza dei ribelli che operavano in quel luogo. Due giovani partigiani, che riposavano in attesa di raggiungere i loro distaccamenti, furono sorpresi nel sonno e catturati. Trascinati davanti al comandante delle SS furono a lungo e invano torturati, non fecero alcuna rivelazione. Alla fine, ormai quasi in fin di vita, furono fucilati nella piazzetta a lato dell’osteria del paese.
Avvertiti del rastrellamento in corso, i partigiani della valle, al comando del Capitano Filippo Maria Beltrami, architetto, 36 anni,  medaglia d’Oro al Valor Militare, si disposero a resistere: erano 53 uomini con una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti contro più di cinquecento nazi-fascisti armati di tutto punto, con un cannoncino, due mortai, tre mitragliatrici, fucili mitragliatori e mitra.
Mentre la nebbia di disperdeva e i raggi del sole iniziavano a illuminare il nuovo giorno, i partigiani osservavano in silenzio l’avanzare della colonna nemica. Era necessario attendere che i nazi-fascisti giungessero a tiro, per non sprecare le munizioni. I tedeschi avanzavano su tre linee distanziate fra loro di qualche metro, i fascisti avanzavano sulle due ali. Finalmente il Capitano diede il segnale e i partigiani iniziarono a sparare. Fu una battaglia lunga e cruenta, con fasi alterne. Più volte il fuoco dei partigiani costrinse gli avversari a ripiegare, ma sempre essi si riconpattavano e tornavano all’attacco. L’ unica arma pesante dei partigiani s’inceppò e dovette essere abbandonata, uno dei due mitragliatori fu raggiunto da un colpo di mortaio. Con le poche munizioni rimaste non potevano più resistere a lungo. Il Capitano respinse per la seconda volta l’invito ad arrendersi. Era necessario attaccare il nemico e i partigiani balzarono all’assalto. Sorpresi dall’azione i nazi-fascisti iniziarono a ritirarsi disordinatamente, inseguiti dai ribelli. L’azione terminò nell’abitato di Megolo, dove gli inseguitori furono falcidiati dalle mitragliatrici dei rinforzi giunti dall’Ossola in appoggio dei nazisti. Cadde anche il capitano Beltrami, mentre cercava di riorganizzare i suoi uomini, e caddero, mentre cercavano generosamente di soccorrerlo, Gaspare Pajetta, studente torinese di 17 anni e Antonio Di Dio, di 20 anni, un ufficiale di carriera che dopo l’8 settembre si era unito alla Resistenza.
Un fascista, raggiunto Beltrami, fece scempio del suo corpo con un pugnale.
Il Cap. Simon, invece, riconoscendo la generosità, il valore, il coraggio, la nobiltà dei sentimenti dell’eroico comandante partigiano gli fece tributare gli onori militari da un reparto di SS.
Redazione, La battaglia di Megolo, ANPI Como, 15 maggio 2013

domenica 14 maggio 2023

La zona della Brianza Lecchese ha avuto una storia resistenziale difficile


In questa località denominata Gera, nella primavera del 1944, alcuni partigiani cominciarono a radunarsi alla spicciolata, sotto la guida del capitano Giacinto Lazzarini. Vennero ospitati nel cascinale della famiglia Garibaldi, la cui dimora fu spesso rifugio di Ebrei e perseguitati, prima dell'espatrio nella vicina Svizzera. Pian piano il numero dei partigiani aumentò fino ad assumere le caratteristiche di una formazione dedita ad azioni di disturbo e sabotaggio.
All'alba del 7 ottobre del 1944, sotto una pioggia battente, un commando fascista delle brigate nere, forse a causa di una delazione, sorprese nel sonno dodici partigiani rifugiati nel cascinale. Quattro di loro: Giacomo Albertoli, Alfredo Carignani, Pietro Stalivieri e Carlo Tappella furono fucilati sul posto e i loro corpi lasciati per alcuni giorni sul terreno. Gli otto partigiani superstiti vennero fatti sfilare a mani alzate per le vie di Voldomino e poi fino a Brissago Valtravaglia dove, presso il cimitero, altri cinque vennero fucilati: Giampiero Albertoli, Dante Girani, Flavio Fornara, Luigi Perazzoli, Sergio Lozio. Infine, nello stesso giorno, ultima tappa per i superstiti, l'ippodromo delle Bettole di Varese dove vennero fucilati Elvio Copelli, Evaristo Trentin e Luigi Ghiringhelli.
Il capitano Lazzarini sfuggì alla cattura, mentre la moglie Angela Bianchi, ospite della famiglia Garibaldi, subì in carcere interrogatori e intimidazioni.
Si ricordano in questo luogo altri tre partigiani della Formazione Lazzarini, caduti in imboscate o scontri a fuoco: Domenico Pagliolico, Alfredo Aime, Franco Buffoni [...]
Redazione, I Martiri della Gera, ANPI Sezione di Luino


Non mi sarei mai occupato di Giacinto Lazzarini se non avessi scoperto Gino Prinetti, un giovane militare figlio di una nobile famiglia che cade in combattimento con le brigate valsesiane di Cino Moscatelli. Prinetti è un giovane ventenne, figlio di una famiglia della nobiltà legata ai Savoia, che dopo l’otto settembre si rifugia in Svizzera e poi decide di rientrare in Italia con Edgardo Sogno e si ferma a combattere con i garibaldini. Cade in combattimento e gli è concessa una Medaglia d’Oro alla Memoria. Era nativo di Merate <1, sonnacchiosa cittadina brianzola, dove c’è ancora una villa padronale dei Prinetti. Inseguendo la sua storia scopro che nella piccola città ci sono una sala della Resistenza e un museo dedicato alla Formazione Militare Giacinto Lazzarini. Prinetti e gli altri partigiani locali, un gruppo della 104a brigata Garibaldi G. Citterio, sono relegati sulle pareti esterne e nel sottoscala, la sala è piena di manufatti militari, armi, un paracadute, una radio ricevente, un manichino con una strana divisa, una vetrinetta in cui fa bellavista la Spilla di Göring, del partito nazista, di dubbia provenienza e autenticità. C’è anche un corposo fondo, alcuni faldoni, di documenti che ha lasciato il Lazzarini.
Il 7 ottobre 1944, due compagnie della Scuola Allievi Ufficiali della Gnr di Varese, fra cui la IV, detta “Compagnia del Terrore”, sotto il comando dell’Upi, sono dirottate nel Luinese, con l’obiettivo di sorprendere la banda “Lazzarini”. I partigiani, sorpresi verso le 7.30 nel sonno, in una piccola stalla a pochi metri dalla cascina della “Gera”, sono diciotto. Il diciannovesimo, ferito, è ospitato in casa dei signori Baggiolini, proprietari del fondo. Giunge nel frattempo sul posto il colonnello Enrico Bassani, comandante della Scuola Allievi Ufficiali della Gnr, lasciando al sottotenente Carlo Rizzi dell’Upi la facoltà di soprassedere alla fucilazione “per quegli elementi che potevano interessare”. Dodici fra i partigiani catturati, sono fucilati, ma in località diverse. Alla “Gera”, base della “Lazzarini”, i fucilati sono quattro: Sergio Lozzo, Alfredo Carignani, Flavio Fornari e Pietro Stalliviere. A Brissago Valtravaglia i partigiani passati per le armi, al grido “Viva l’Italia libera”, sono cinque: Giacomo Albertoli, Carlo Di Marzio, Dante Girani, Carlo Tappella e Gianpiero Albertoli. Alle Bettole di Varese, presso l’ippodromo, i fascisti fucilano i tre partigiani più giovani: Elvio Coppelli, venti anni, Evaristo Trentini, ventitré e Luigi Ghiringhelli, di venti anni, abbandonando i loro corpi sul prato per due giorni, come monito alla popolazione. A costituire il plotone di esecuzione sono gli Allievi ufficiali della Gnr. Gli altri sette partigiani sono fatti prigionieri e trattenuti all’Upi di via Dante. Vengono fermate anche quattro donne, quasi tutte del luogo: Maria e Rosa Garibaldi, di Valdomino, Dolores Bodini, una sfollata, e la moglie del Lazzarini, Angela Bianchi. La cascina “Gera” dei coniugi Garibaldi è data alle fiamme, l’annessa casa colonica razziata di mobili, suppellettili, animali e generi alimentari <2.
Giacinto Lazzarini non era presente, si era allontanato con altri membri della banda. Il Capitano Lazzarini <3 nel 1990 donò una serie di documenti al comune di Merate (LC), l’anno successivo il comune della città costituì «Il Museo storico “G. Lazzarini” […] dopo che la moglie del colonnello Giacinto Lazzarini di Muralto donò all’Amministrazione comunale l’archivio del marito» <4.
Questo personaggio è presente in una molteplicità di racconti resistenziali con una ben precisa caratteristica, dopo la tragica conclusione della sua banda nella zona di Luino, la fonte delle notizie sulle sue gesta è solo uno: lui.
Quanto m’interessa ora è ragionare sul perché, sulle ragioni, che hanno reso possibile che i suoi racconti prendessero piede financo a diventare un emblema della Resistenza locale nel Meratese, una sala di un museo della Resistenza a suo nome, un volume che declama le sue gesta; ma anche essere inserito nello Yad Vashem come giusto tra le nazioni. Nel 1976 gli è stata data la cittadinanza onoraria di Merate con la motivazione che la città ha rischiato di essere rasa al suolo dai bombardamenti alleati ed è salvata dal suo provvidenziale intervento. Mi è successo di imbattermi in racconti e testimonianze dove l’iperbole delle vicende trascendeva la realtà degli eventi, fatti successi in altri luoghi riportati nei dintorni di Vimercate e Morbegno; si trattava però in genere di una memorialistica che aveva subito il procedere del tempo, episodi inseriti in racconti più vasti che potevano, a ben vedere, essere considerati un’elaborazione senza predeterminazione. Il muoversi di Lazzarini è diverso, c’è dell’ingegno nei suoi racconti, quasi una capacità innata di rispondere ai desiderata di chi lo ascolta, ma c’è anche una superficialità di chi utilizza quanto lui afferma e che mi lascia quantomeno stupito. Può apparire irrilevante, ma il Lazzarini passa tranquillamente dall’essere capitano all’essere colonnello, già questo dovrebbe bastare per mettere in guardia chi utilizza i suoi documenti. Mi si può obiettare che la storiografia è colma di racconti che zoppicano e che i millantatori non ci sono solo nell’ambiente resistenziale ma che coprono l’esperienza umana senza necessariamente prediligerne una condizione. Chi ha frequentato l’ambiente dell’alpinismo non può far altro che sorridere un poco di fronte a questo ragionamento, basterebbe ricordare la polemica in merito alla traversata in solitaria della Hielo Continental di Giuliano Giongo <5. Il problema dei racconti di Lazzarini si pone, però in un modo etico diverso, qui siamo dentro le vicende di una guerra, per alcuni versi civile, che lascia una scia di sangue e che interviene nella modifica dei rapporti comunitari.
Quando dopo alcuni mesi dalla vicenda di Gera di Valdomino (VA) si presenta a Lecco accompagnato da Riccardo Cassin, afferma che il suo compito è ora, fino alla fine del conflitto, quello di coordinare i collegamenti tra i partigiani dell'Alto Lario, di Lecco e della Brianza con le Forze Alleate e di monitorare la presenza e i movimenti delle truppe tedesche.
Se si considera veritiera quest’affermazione, considerando che il suo nome non appare in nessun documento <6, il passo successivo dovrebbe essere quello della riscrittura della storia degli ultimi mesi della Resistenza in questi luoghi: resta sul terreno la difficoltà di far convivere la figura di Lazzarini con i documenti che abbiamo a disposizione.
La zona della Brianza Lecchese, in altre parole il territorio che dalla periferia di Monza va verso i laghi brianzoli di Annone e Oggiono avendo come confine verso la bergamasca il fiume Adda e la stessa Lecco, ha avuto una storia resistenziale difficile. Una capillare presenza degli occupanti tedeschi, la diffusione di un numero consistente di piccole e medie aziende controllate dal RuK (Rüstung und Kriegsproduktion), la mancanza di una tradizione di conflitti operai, l’oggettiva difficoltà geografica di mantenere attive consistenti bande partigiane farà si che i gruppi che si organizzano in questa zona e che poi realizzeranno alla 104a brigata Garibaldi G. Citterio andranno a Milano ad eseguire alcune azioni.
L’altra funzione che questa zona geografica riuscirà a garantire sarà un luogo di occultamento per partigiani, disertori o renitenti alla leva che sono in procinto di salire in montagna o sono in fuga dai rastrellamenti. Non trascurabile sarà anche la funzione di zona da cui partiranno le vettovaglie o i denari per le brigate di montagna. Questo stato delle cose si scontrerà a fine guerra con la necessità nel contribuire alla narrazione di un popolo alla macchia che combatte il fascismo e della funzione che avrà questo combattere come lavacro della ventennale onta fascista. Da questa necessità prenderà vita un racconto che rivendicherà momenti di combattimento collettivi o personali. Il primo troverà nella mandellese Giulia Zucchi la sua musa con un libro di memorie pubblicato alle soglie del secondo millennio; i secondi avranno i loro momenti nelle poche memorie che verranno pubblicate nel Lecchese. La memoria racconterà di Gap e Sap che nascono a ridosso dell’8 settembre e che dalla metà dell’ottobre 1943 saranno operanti le brigate in montagna. Un volume riguardante la 104a brigata G. Citterio sconta l’appiattimento sul racconto retorico della Resistenza <7. La lotta politica che si svilupperà dopo il 1948, non solo tra i partiti di sinistra e le variegate destre ma anche tra il Pci e il Psi, opererà in modo tale che saranno solo le sinistre, e più precisamente il Pci a gestire la memoria della Resistenza locale <8. Questo stato di cose farà sì che un meritorio tentativo fatto da Franco Catalano tra la metà degli anni sessanta del secolo scorso e il decennio successivo, sarà cassato e il lavoro disperso in mille rivoli <9. Nella zona di Merate-Missaglia poi la situazione si presenta ancor più dirompente: qui il presidio meratese della Brigata Nera Cesare Rodini è comandato dal professor Giuseppe Gaidoni, preside delle scuole superiori, la piccola borghesia locale è fascista e non ha subito alcuno sbandamento dopo l’otto settembre. Nel mandamento di Missaglia a comandare il presidio della Gnr è Luigi Formigoni che si renderà compartecipe della fucilazione di quattro partigiani, Natale Beretta, Nazzaro Vitali, Mario Villa, Gabriele Colombo, il 3 gennaio 1945. Nel marzo del 1945 poi, a Merate s’istallerà il comando del Osttürkische Waffenverband der SS con una forza di 4.000 uomini distribuiti tra il Lecchese e il Bergamasco <10. All’insurrezione questo comando non si arrende ai partigiani ma assieme a loro forma delle pattuglie - armate!- miste per il controllo dell’ordine pubblico fino all’arrivo degli alleati. La sbornia per il fascismo nel mondo che aveva riempito le piazzette dei paesini brianzoli finisce nella triste considerazione che i tedeschi e i loro alleati si arrendono solo ad americani e inglesi: succede a Merate ma anche a Mandello del Lario, dove proprio Lazzarini, conosciuto come Athatos-Fulvio, responsabile di una missione dell’Oss, rischia di svelare il proprio bluff. Si è fatto passare per americano e quando i tedeschi chiedono la presenza di un ufficiale alleato per definire la resa, i mandellesi vanno a cercare lui. Riuscirà a sottrarsi con una delle sue grandi capacità inventive. La condizione pre-1945, combattenti per la causa fascista, difficilmente poteva essere sbandierata nel 1945-1946 e così la condizione che si genera successivamente: prigionieri, resistenti a volte riluttanti, occupati da un alleato e liberati da un altro, deve trovare una qualche risoluzione tra le macerie della guerra perduta. Chi la Resistenza l’ha combattuta, può certo recriminare sul dopo, sulle disillusioni e sulla quasi vergogna che alcuni si sentiranno addossata d’essere stato partigiano, ma in cuor suo ha fatto quanto era corretto per ridare e ridarsi dignità, forse prima a se stesso che alla comunità nazionale. Gli altri una qualche identità resistenziale dovranno in qualche modo crearsela. Nella zona Lecco-Brianza Lecchese, le difficoltà elevano a gesto onorevole anche dare un bicchier d’acqua al renitente, al disertore e al partigiano: non c’era nessun ordine o comando da soddisfare se non la propria dignità. Questo dovrebbe bastare, ma non è così, ci si sente inferiori, incapaci di aver affrontato qualcosa di più radicale: nasce un senso d’inadeguatezza. Perché qui non ci si trova senza le case perché bombardate, a Lecco bombardano la ditta Fiocchi e i binari ferroviari, a Merate il vicino ponte sul fiume Adda. Non sono passate le divisioni tedesche in ritirata come sull’Appennino o i militi criminali della Tagliamento; in un paese del Meratese, quando a fine ottobre 1944 si allontana la conclusione della guerra, tutti i renitenti e i disertori si consegneranno e nessuno subisce il carcere o la deportazione, nulla impedisce che lo stesso succeda nei paesi vicini <11. Una volta finita la guerra, passato qualche anno, non ci si può consolare con i caduti partigiani a Milano o con quelli rientrati dalle brigate liguri o comasche, dalla dura esperienza della Jugoslavia o con il ricordo di qualche caduto nei campi di concentramento. Anzi, queste realtà costringerebbero a fare i conti con quanto è successo e della lontananza dalla retorica tradizionale, e allora meglio il silenzio. Val la pena ricordare che la fucilazione di quattro partigiani, il 3 gennaio 1945 a Valaperta di Casatenovo, diventa di pubblico dominio quando Umberto Bossi, segretario della Lega Lombarda, coinvolge il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni perché figlio di Luigi, uno dei presenti alla fucilazione dei quattro. Ci vorranno anni per ricordare Antonio Bonfanti morto a Mauthausen e ancora, qualche anno per riprendere la memoria di Gino Prinetti, mentre sono ancora nell’oblio tre partigiani fucilati a Pusiano: Giuseppe Viganò, Innocente Valassi e Stefano Lanfranconi [..]
[NOTE]
1 Cfr. GABRIELE FONTANA, MASSIMO FUMAGALLI, Gino Prinetti e gli altri caduti e resistenti Merate 1920-1945, Ass. Culturale Banlieue, 2015; ANGELO BORGHI, La storia che non c'è osservazioni sulla Resistenza e sulla Liberazione nel Meratese, «Archivi di Lecco e della provincia rivista di storia e cultura del territorio» a cura dell'Associazione Giuseppe Bovara di Lecco. N. S., a. 27, n. 1 (gen.-mar. 2004), Cattaneo, Oggiono 2004; ANSELMO LUIGI BRAMBILLA, ALBERTO MAGNI, Partigiani tra Adda e Brianza Antifascismo e Resistenza nel Meratese storia della 104^ Brigata S.A.P. Citterio, cit.
2 http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=5045. La località della strage è Luino, Brissago, Varese, in data 7 ottobre 1944. CLAUDIO MACCHI, Antifascismo e Resistenza in Provincia di Varese, Tomo I e Tomo II, Macchione, Varese 2016.
3 Domenico Lazzarini si autonomina capitano o colonnello, non si comprende in base a quali considerazioni. Non ha gradi militari quando si trova citato in documenti pubblici. Nel Registro matricolare del Distretto militare di Milano, è soldato di leva in congedo illimitato perché rivedibile nel tardo 1941. Nel 1982 gli verrà consentito di fregiarsi del titolo onorifico di Tenente. Per ulteriori notizie si rimanda al sito: www.55rosselli.it
4 https://www.memoranea.it/luoghi/lombardia-lc-merate-museo-storico-lazzarini. Ultima visualizzazione 18 luglio 2018.
5 Ancor oggi si può leggere su http://www.barrabes.com/actualidad/noticias/1-1165/hielo-continentalpatagonico-tierra-viento.html questo paragrafo: «El italiano Giuliano Giongo reclamó, con una tienda muy ligera y 35 kilos de carga total, haber sido el primero en cruzar el Hielo Continental en solitario, aunque su logro (que incluía unas cuantas contradicciones e imprecisiones) fue discutido, entre otros, por un polemista nato: Walter Bonatti». Ultima visualizzazione 18 luglio 2018.
6 Ultimamente, la presenza in rete dei documenti delle Brigate Garibaldi e del Partito Comunista Italiano Direzione Nord da parte della Fondazione Gramsci di Roma ha tolto anche l’alibi della difficoltà della consultazione.
7 Cfr. A. BRAMBILLA, E. MAGNI, Partigiani fra Adda e Brianza. Antifascismo e Resistenza nel Meratese. Storia della 104^ Brigata S.A.P. “Citterio”, Cattaneo, Oggiono-Lecco 2005.
8 Va dato merito a Silvio Puccio di aver, per così dire, gettato il sasso nello stagno con il suo volume "Una Resistenza" edito in Lecco da Stefanoni nel 1965.
9 La ricostruzione del lavoro di Franco Catalano è presente nel sito: www.55rosselli.it
10 G. FONTANA, M. FUMAGALLI, Gino Prinetti e gli altri caduti e resistenti Merate 1920-1945, cit., p. 14-15.
Gabriele Fontana e Massimo Fumagalli, La Storia, la politica, la memoria: il caso G.D. Lazzarini, responsabile della Unione Nazionale dei resistenti autonomi e delle delegazioni per l’Italia della Resistenza estera, Associazione Culturale Banlieu

martedì 25 aprile 2023

Gli ultimi scontri armati e le ritorsioni naziste sui civili nell’area ovest della Val di Nievole

Pescia (PT). Fonte: mapio.net

Dopo aver colpito il 23 agosto del '44 nell'area del padule di Fucecchio, le operazioni dell'esercito tedesco, temendo, da quando l'armata britannica si era sganciata per dirigersi a Pesaro, una imminente avanzata degli americani nel territorio della Val di Nievole, si concentrarono a nord-ovest della piana tra Pescia e Collodi e lungo la via di fuga nell'area collinare da Vellano a Pietrabuona, San Quirico, Medicina, Sorana, Malocchio e Prunetta.
Nella zona di Malocchio nel Comune di Buggiano il 24 novembre del '43 vi era stato un grande rastrellamento tedesco con diversi civili trasferiti temporaneamente alle carceri di Pistoia a seguito dell'uccisione, in date diverse, di due noti fascisti. Si trattava del pesciatino Romolo Del Sole fucilato da ignoti antifascisti in località Le Carde, di Orlandi Gherardo detto 'Crispino' ritenuto complice dell'uccisione di due giovani avvenuta a Malocchio ai tempi del primo squadrismo nel lontano 29 settembre 1922.
Come viene rievocato da Amleto Spicciani <71, accadde che il 5 settembre '44, mentre la città di Pescia veniva devastata dai genieri tedeschi in ritirata e si vedevano le brutali impiccagioni di civili lungo il fiume, una pattuglia di tedeschi e di militi repubblichini si mosse verso Malocchio per attuare una operazione di rappresaglia e di cattura dei soldati angloamericani che da mesi avevano trovato rifugio e protezione in quella zona. Si trattava di alcuni prigionieri inglesi fuggiti dai campi di concentramento di Lucca e di due piloti americani di un aereo alleato precipitato in località La Serra.
Dopo aver catturato Gino Ricciarelli e aver trovato nella casa di Stefano Lavorini un fucile dimenticato dai partigiani, i tedeschi uccisero sul colpo Mazzino Gigli che usciva dal bosco scambiato, solo per questo, per un partigiano. Uccisero poi, fuori della loro casa, Lida Menni e Laura Lavorini che aveva in bracco il figlio Aldo rimasto ferito al pari di Gina Papini e dell'anziana Bruna Lavorini. La generosa accoglienza ai prigionieri alleati portò la piccola frazione collinare a subire questa ultima violenza.
Ad ovest di Borgo a Buggiano, nella zona di Pescia, sporadici scontri fin dal mese di luglio avevano acuito la tensione delle truppe tedesche dopo l'uccisione di un loro soldato, avvenuta il giorno 21 a Vellano, ad opera di un partigiano. Il giorno 24 sulla via per Pietrabuona, a seguito di un lancio di bombe a mano all'interno di una cartiera che i tedeschi stavano perlustrando, un altro soldato tedesco era rimasto ucciso ed un terzo, gravemente ferito, all'indomani era morto all'ospedale di Pescia.
Questo stillicidio di assalti partigiani e di vittime tra le proprie file, come era prevedibile, acuì il desiderio di ritorsioni da parte dei tedeschi che intensificarono le loro perlustrazioni nell'intera area collinare della cosiddetta 'Svizzera pesciatina' per cui il 17 agosto a Vellano si ebbero altri due morti per parte nel corso di un violento scontro a fuoco tra tedeschi e partigiani. Il vescovo diocesano monsignor Simonetti, che aveva chiesto clemenza verso la popolazione civile direttamente presso Kesselring, nei giorni in cui, fino a metà luglio, questi stava a Monsummano, si rivolse ai parroci della Val di Nievole.
Il suo messaggio invitava i sacerdoti a capo delle varie parrocchie affinché dicessero a “quei ragazzi dei boschi”, cioè ai partigiani, di stare molto attenti a quello che facevano dal momento che i manifesti affissi dal Comando tedesco avvertivano che per ogni soldato tedesco ucciso dieci italiani sarebbero a loro volta stati fucilati. Ma ormai si era giunti alla resa dei conti tra l'ansia di cacciare i tedeschi e la ferocia con la quale questi difendevano palmo a palmo la loro ritirata. La via di fuga verso La Lima e l'Abetone per attestarsi sulla Linea Gotica era divenuto il più tormentato passaggio e obiettivo da dover raggiungere.
Tra il 17 e il 19 agosto era poi accaduto il caso di San Quirico. Due ufficiali tedeschi in località La Piana, mentre accompagnavano a casa un fascista che, sapendosi ricercato dai partigiani, aveva chiesto protezione a quegli ufficiali germanici, vennero uccisi da un gruppo di disertori tedeschi. Questo episodio avrebbe dato luogo ad una sanguinosa ritorsione che di seguito riferiamo nella testimonianza del sacerdote Vincenzo Del Chiaro costretto a presenziare alla fucilazione di venti persone.
«La sera del 17 agosto '44 in casa degli eredi di Eufisio Quilici di Pariana, casa posta in San Quirico, località La Piana, abitata da Salvatore Altiero sfollato da Livorno, si teneva una cena tra i dirigenti della Todt alla quale prendevano parte anche gli ufficiali tedeschi Flozet Iacchin, Fopp Fleinz e Cinbet Wichert, dei quali i primi due rimarranno uccisi nelle circostanze di cui appresso.
Nel frattempo, persone dal fare sospetto si aggiravano nei pressi della casa di Edoardo Consani nella quale, sfollato da Pescia, abitava Nello Scoti, repubblichino inviso ai partigiani e sospetto di possedere una radio trasmittente al servizio dei tedeschi della quale i partigiani volevano impossessarsi. Due ufficiali tedeschi si dissero disposti ad accompagnarlo fino a casa.
Lungo la strada che conduce ad Aramo, giunti nei pressi della casa del Consani, incontrarono sei tedeschi che, pur vestendo ancora la divisa militare, avevano disertato e si erano uniti ai partigiani che stavano nel paese di Medicina. Erano accompagnati da Roberto Darini e da un francese; il gruppo era invece capitanato dal ben noto Franz. Gli ufficiali tedeschi intimarono l'alt e dissero: 'Voi essere partigiani'. No, rispose Franz, 'noi camerati'.
Alla richiesta di documenti, Franz estrasse una pistola, mentre teneva quella d'ordinanza nella fodera, e fece fuoco contro i due ufficiali che non fecero in tempo a difendersi dal fulmineo gesto. Uno dei due morì sul colpo e l'altro appena raggiunto l'ospedale di Pescia. La mattina del 19 agosto il paese di San Quirico fu raggiunto da un reparto tedesco che lo circondò affinché nessun uomo tra quegli validi, che comunque si erano allontanati fin dal giorno precedente, ne uscisse fuori.
Il paese venne saccheggiato e poi messo a ferro e fuoco; 50 furono le case distrutte, 19 quelle incendiate, le altre danneggiate. Contemporaneamente l'ufficiale ordinò al pievano di far preparare nel cimitero una fossa capace di contenere 20 cadaveri mentre un altro reparto in prossimità di Pietrabuona fermava sulla via Mammianese un gruppo di 47 persone che, dopo essere state rastrellate e condotte alla Lima per eseguire fortificazioni sulla Linea Gotica, erano state mandate indietro perché risultate non idonee a quel lavoro. Tra queste vi era un solo residente del posto. Ne vennero scelti a caso 20 e avviati a San Quirico dove vennero fucilati in quattro gruppi davanti alla fossa comune». <72
Questo episodio si distingue per la sua tragicità che vede soldati tedeschi (disertori) che uccidono altri soldati tedeschi e quella di una rappresaglia nella quale morirono ben due decine di civili - tra i quali di abitanti della zona di Pescia, dove erano stati uccisi in località La Piana due ufficiali, ve ne era uno solo - civili che erano da poco tornati liberi dato che gli stessi tedeschi li avevano rimandati a casa, perché non più necessari al lavoro in corso sulla Linea Gotica.
Un assassinio a sangue freddo, perché fuori da ogni logica di rappresaglia per precedenti attacchi subiti dai tedeschi, fu invece quello compiuto il 14 settembre nel cimitero di Vellano dove una donna, Giuseppina Sansoni, venne uccisa da soldati tedeschi di passaggio mentre era china a pregare sulla tomba del figlio Vittorio, partigiano ammazzato giorni prima al ponte di Sorana. Brutale assassinio fu anche quello di due giovani donne livornesi, Iris Stiavelli e Miriam Cardini, mutilate e gettate in una fogna a Pietrabuona da un manipolo di soldati tedeschi “senza onore” mentre stavano risalendo la collina verso settentrione.
Nella sua rievocazione, Giorgio Calamari ricorda molti altri episodi accaduti nell'area pesciatina che portarono al sacrificio di cento e più vittime civili molte delle quali nell'imminenza della ritirata dei tedeschi, ma anche altri episodi precedenti come quella di impiccati, nella zona centrale del paese, appesi ai rami degli alberi lungo il fiume Pescia. Vittime di pattuglie tedesche in transito verso la Lima erano state il 5 settembre anche due donne a Malocchio e altri tre giovani alla Serra.
Il 6 settembre molte case di Pescia vennero minate da genieri tedeschi per ostacolare l'imminente avanzata degli Alleati. Nella circostanza rimasero uccisi i coniugi Orsucci e le vedove Magnani con le loro giovani figlie. Il 7 settembre a Collodi vennero giustiziati tre partigiani livornesi che operavano nella zona di Villa Basilica. Persino l'8 settembre, mentre Pescia veniva liberata dagli Alleati, una pattuglia tedesca tra Ponte di Sorana e Ponte a Coscia fucilava due giovani partigiani sorpresi armati mentre tornavano da una missione.
Nello stesso giorno altri soldati tedeschi sparavano e uccidevano tre uomini mentre cercavano di sottrarsi alla cattura. Infine in località Medicina venivano ammazzati due partigiani, Elio Mari e Foro Lenci. L'8 settembre Pescia fu finalmente liberata, ma i tedeschi, annidati sulla collina e non paghi del sangue che avevano fatto versare a decine di innocenti, nei giorni 12 e 13 continuarono a cannoneggiare il centro di Pescia causando ulteriori 14 vittime. <73
[NOTE]
71 Amleto Spicciani (don), Il 5 settembre 1944 a Malocchio di Buggiano, Stampria Vannini, Buggiano, 2008.
72 Vincenzo Del Chiaro, (don) Le tragiche giornate di San Quirico in Valleriana, in Memorie di guerra, Stamperia Benedetti, Pescia, 1944, trascitto in www. digilander/sanquiricoinvalleriana/eccidio.
73 Giuseppe Calamari, In memoria delle vittime pesciatine della barbaria nazifascista, Stamperia Benedetti, Pescia, 1945. Dino Birindelli, Pescia 1944. Tre giorni di settembre, Stamperia Benedetti, Pescia, 1984.
Vasco Ferretti, La resistenza nel pistoiese e nell'area tosco-emiliana (1943-1945). Rivisitazione e compendio di una terribile guerra di liberazione, guerra civile e guerra ai civili, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, giugno 2018