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sabato 14 luglio 2012

Bordighera, Unione Culturale Democratica...


Rivedo infine di persona L., cui dedicai tempo fa un breve, amichevole ritratto. Parliamo anche di Guido Seborga. Il che mi suscita l'esigenza di riportare, per stralci, altre considerazioni, dedicate all'artista in questione dal nipote, Claudio Panella. 

Le metto qui di seguito:
Va sottolineato come i dibattiti, pubblici e privati, promossi da Seborga a Bordighera abbiano formato profondamente intere generazioni: alle diverse iniziative già messe in atto se ne aggiunse una nuova quando, alla fine degli anni '50, il giovane Giorgio Loreti e altri suoi colleghi chiesero aiuto anche a Seborga per la fondazione dell'Unione Culturale Democratica. Lo stesso nome del "circolo" fu suggerito da Seborga, che era stato tra i fondatori più impegnati dell'Unione Culturale a Torino e forse voleva così portar bene all'iniziativa. L'Unione ha un primo nucleo nel 1958 a Vallecrosia, ma solo nel 1960 promuove un convegno diretto da Guido Seborga dal tema "Perché leggi?" a Ventimiglia, iniziando attività regolari e la pubblicazione de "Il giornale" come Unione Culturale Edmondo De Amicis. La sede fu trovata a Bordighera in un sotterraneo sull'Aurelia, denominato "la Buca". Nel programma si dichiarava il desiderio di mettersi "alla testa delle forze giovanili d'avanguardia che intendono un rinnovamento in senso democratico e sociale dell'attuale situazione italiana e internazionale" .
Oltre alla pubblicazione del giornale, il circolo organizzava incontri e attività culturali. Alcune erano di formazione interna, come ad esempio le lezioni su Tommaso Moro e Tommaso Campanella tenute da Loreti nel dicembre del 1960, o quella di Enzo Maiolino su Cézanne. Altre si tenevano invece al Palazzo del Parco di Bordighera ed erano di maggiore rilevanza, come le mostre sui campi di sterminio nazisti e sulla Resistenza italiana o lo storico Convegno sull'Obiezione di Coscienza, che fu il primo in Italia, nel 1962, con interventi di Guido Seborga ed Aldo Capitini.
Dal 30 dicembre del 1960 "Il Giornale" è firmato Unione Culturale Democratica, viene meno il riferimento a De Amicis, ed è riformulato un programma più dettagliato.

E già a N., altro amico di gioventù - al quale talora accenno qui sul blog - ancora impegnato e lontano da anni dalla nostra zona, cui per forza di cose torna sporadicamente, avevo destato esigenza di approfondimento in merito, informandolo che Giorgio Loreti aveva da poco riavviato l'attività dell'Unione Culturale Democratica di Bordighera (IM), di cui fu Presidente il professore Raffaello Monti.
La rivista dell'Unione Culturale Democratica fu quindi il banco di prova, il primo spazio libero per molti dei giovani, bordigotti e non, che poi si dedicarono alla scrittura, alla pittura, alla politica. Fin dai primi numeri vi scrissero con Giorgio Loreti, Beppe Maiolino, Angelo Oliva e in una delle sue poche uscite di questo tipo Francesco Biamonti. 

Sto procedendo con nette selezioni, perché almeno ad una persona operosa in quei tempi, Angelo Oliva, vorrei, sempre in attesa di raccogliere più adeguate memorie, dedicare un piccolo, ma degno pensiero.
Nel 1961, riuscirà (Seborga) a far ricominciare il premio "Cinque Bettole", dopo un anno di sospensione, riservandolo agli under 25 per  farlo ricrescere in quella "francescana povertà" che lo caratterizzava. E vi sarà coinvolto nuovamente Biamonti, facendo parte (con presidente Seborga) della giuria che premierà il ventunenne Angelo Oliva per il racconto.
Ad Angelo Oliva, sulla cui figura chiedo spesso testimonianze a Giorgio Loreti, abbiamo sovente pensato io e N.
È stato uno splendido compagno e un autentico amico, di cui ci mancheranno anche l'ironia, i momenti di buon umore, la confidenza e la sensibilità umana.
Mi permetto di riportare, come ho appena fatto qui sopra, su Angelo Oliva le parole conclusive di un articolo a lui dedicato nel 2004, poco dopo la sua prematura morte, da Giorgio Napolitano, di cui fu a lungo collaboratore. E gli anni giovanili di Angelo Oliva dovrebbero, non solo a mio avviso, essere indagati di più.

martedì 10 luglio 2012

Una ricerca scolastica del 1927 sui funerali della Regina Margherita

 
Sorvolo qualsivoglia considerazione di ordine storico sulla figura, tutt'altro che un modello per spiriti progressisti, di Margherita di Savoia, morta a Bordighera (IM) nel gennaio del 1926, proprio perché - mi pare - è sufficiente sottolineare che la gentildonna in questione aveva ricevuto proprio nella sua villa di Bordighera, alla vigilia della cosiddetta Marcia su Roma, più precisamente il 18 ottobre 1922, alcuni dei quadrumviri (Balbo, De Bono e De Vecchi) dell'insorgente fascismo.



Ma ad una composizione scolastica, realizzata nella città in cui morì e dedicata ai complessi funerali di Stato di colei che fu la prima regina d'Italia, dedico volentieri alcune parole.


 
Non solo perché fu realizzata all'epoca dal padre dell'amico Giulio Rigotti, che mi ha concesso in visione quel vecchio quaderno, interamente destinato al tema.


Come si dovrebbe vedere qui sopra, una ricerca completata o presentata il 28 novembre 1927.



Ma perché, credo, sia fatto raro la conservazione in famiglia di un documento scolastico così datato.



Ed anche perché, nonostante i limiti di questa digitalizzazione, aspetto su cui poi torno, da quelle pagine pure emergono tratti storici di costume e di ambientazione, specie locali.

Come si sarà ben notato, ho proceduto a diverse forme di riproduzione, ritagliando talora dalla scannerizzazione del singolo foglio una semplice immagine con relativa didascalia.



La fragilità di quel quaderno mi ha consigliato, nonostante il parere contrario di Giulio, di procedere a fotopiarlo in modo parziale. Nell'operazione si staccano dalla cucitura centrale, purtroppo, le singole pagine. Ma anche questa é storia, direi. La selezione qui visibile, aggiungerei ancora, dovrebbe risultare sufficientemente significativa in ordine a quanto sopra ho accennato.

domenica 8 luglio 2012

Sguazzare felici in acqua dolce


Già qualche giorno addietro a Torri di Ventimiglia (IM) ho visto sguazzare nel torrente Bevera, a ridosso di una bella spiaggetta da me opportunamente non inquadrata, una bella famigliola. Peccato, tuttavia, che quel corso d'acqua qualche chilometro più a valle, avvicinandosi alla confluenza nel Roia, attraversi poi una zona ampiamente compromessa dall'uomo.


Ripresa con la solita foschia estiva dall'alto di Colla Bassa, frazione di Airole, la media Valle del Bevera, che passa anche da Sospel, presenta un indubbio fascino, arricchito da memorie storiche di antica - ormai, per fortuna dell'ambiente, desueta - via di passaggio.


Scendendo da Colla Bassa verso Airole, il cui abitato nella soprastante fotografia rimane nascosto in fondo a sinistra dal crinale della collina, si sentivano nell'aria voci gioiose di bambini.


Ci voleva poco a immaginare che si trattava di giovani virgulti, felici di fare il bagno nel fiume Roia. In qualche adatta pozza, di cui negli anni mi hanno ripetutamente parlato amici del luogo.


Sì, dall'alto una di queste conche l'ho individuata, ma non si trattava di quella da cui mi sembrava provenissero quelle liete grida, probabilmente amplificate dal fatto che la statale del Col di Tenda - parzialmente visibile nello scatto - in quel punto adesso é dismessa (e interrotta più in giù a causa di continue frane), rimpiazzata da qualche anno per lungo tratto da un sistema di gallerie: senza frastuono di traffico veicolare, insomma. Mi sono trattenuto a lungo in osservazione, contagiato da quel tripudio allegro. Ne ho tratto profitto per riprendere molti scorci di valle, ma, nascosti dal fogliame, quei bambini - le cui immagini, comunque, non avrei pubblicato - non li ho visti.


Dalle nostre parti, invero, per le nuotate in acqua dolce é più noto il rio Barbaira con i suoi laghetti a monte di Rocchetta Nervina, su cui ho sentito negli anni racconti affascinanti, di sicuro tali anche perché attraversano diverse generazioni.


Pure nel torrente Nervia - e in almeno un altro suo piccolo affluente - sussistono punti abituali per i bagni. Né vorrei, in questo rapido excursus, trascurare le Terme di Pigna, al confine, o in parte, se ricordo bene, nel territorio della sovrastante Castelvittorio.

Ma da ieri mi rimane impresso nella memoria soprattutto quel trillo allegro dei bimbi a mollo nelle acque sotto Airole!



mercoledì 4 luglio 2012

Ventimiglia, Scoglio Alto, ancora

Forse questa immagine non consente una lettura agevole della soprastante dicitura originale.
Ma si accenna allo Scoglio Alto di Ventimiglia (IM), che si vede in tutta la sua arcana maestosità nella soprastante riproduzione di una cartolina d'epoca. Aggiungo subito che tutte le digitalizzazioni qui pubblicate sono opera di Andrea Niloni, che intendo ringraziare per la sua gentile disponibilità.

Torno al punto iniziale. La prima fotografia inquadra la rovina dello Scoglio Alto (Scögliu Autu) esistente in loco ancora nel 1950. La scritta apposta ci rammenta questo e l'anno e il mese della caduta rovinosa di quel vecchio, superbo, vero simbolo di Ventimiglia, il febbraio 1917 (il giorno 17, ce lo aggiungo io). 
Mi piace pensare che possa avere visto anch'io quei ruderi: in famiglia mi si dice che é possibile. Adesso che so che si sono conservati colà a lungo, mi rammarico che non si sia fatto nulla per lasciarceli: sarebbero stati una testimonianza importante! 
Questa fotografia risale al 1912, dunque, pochi anni prima di quel triste crollo.

Sono tutte immagini, per meglio dire, tipi di angolatura di ripresa dello Scoglio, per me inedite. Anche se molte, di tipo diverso, a campo più lungo, o molto più ravvicinato, circolano da tempo, come ho pure accennato altra volta.
Tutta la zona era un dono prezioso della natura, tenuta come ce la lasciarono gli antichi. Compresi gli Scoglietti, che ben pochi ormai ricorderanno di avere visto nel loro selvaggio splendore, documentato in particolare sullo sfondo a destra della terza fotografia!

Ed oggi, aspetto - eufemisticamente! - molto opinabile di cui ho già detto in altra occasione, lo stato dei luoghi in questione risulta più o meno - dato che i lavori di costruzione del porto turistico sono andati avanti rispetto al momento in cui fu fatto - quello dello scatto che precede.

domenica 1 luglio 2012

L'orientalista svizzero che abbracciò l'Islam

Fonte: Wikipedia



Johann Ludwig Burckhardt (Losanna, 24 novembre 1784 - Il Cairo, 15 ottobre 1817) è stato un viaggiatore e orientalista svizzero, noto anche con il nome francese di Jean Louis (da lui preferito) e con quello inglese di John Lewis.

Di origini basilesi, la famiglia, dopo la rivoluzione francese del 1789, fuggì in Germania e Austria. Compiuti gli studi universitari a Lipsia e Gottinga, per i suoi sentimenti anti-francesi Burckhardt dovette nel 1806 emigrare ancora, a Londra.   

Nel 1809 ottenne l'appoggio della African Association per il suo progetto di scoprire le fonti del fiume Niger.
Travestito da mercante arabo, con lo pseudonimo Sheikh Ibrahim Ibn Abdallah, Burckhardt si fermò dapprima ad Aleppo in Siria per conoscere l'Islam (religione che abbracciò) e perfezionare l'araboche aveva studiato, insieme ad altre materie signifiucative per i suoi scopi, in Inghilterra. In Siria tradusse il romanzo Robinson Crusoe in arabo. Divenne grande conoscitore del Corano e del diritto islamico, tanto da essere spesso coinvolto nel dirimere questioni religiose dagli stessi indigeni. Nei due anni trascorsi in Siria Burckhardt fece numerosi viaggi, visitando Palmira, Damasco e il Libano.

Il 22 agosto 1812 si imbattè, probabilmente primo europeo da secoli, nella stupenda Petra, a suo tempo capitale dei Nabatei.

Con l'intenzione di rinvenire finalmente le fonti del Niger, partì poi per il Cairo, dove però non riuscì a trovare carovane che lo conducessero verso ovest. Risalì allora il Nilo e vide nel 1813 il tempio di Abu Simbel.

Nel 1814 fu a Gedda per svolgere il rituale pellegrinaggio alla città santa della Mecca. Si spinse poi verso l'altra città santa di Medina, dove rimase  fino ad aprile 1815, a causa di attacchi di febbre dovuti a parassiti. Nella primavera del 1816, dopo il suo ritorno al Cairo, fece ancora un viaggio per esplorare la penisola del Sinai.

In attesa di ritornare in Europa, Burckhardt ebbe una ricaduta e morì il 15 ottobre 1817. Secondo i suoi desideri fu inumato in un cimitero islamico sotto nome arabo.
I suoi scritti, raccolti in 350 volumi, e la sua collezione di 800 manoscritti orientali rimasero in eredità all'Università di Cambridge.

A questo link su Cultura-Barocca si possono, peraltro, leggere, digitalizzate, alcune delle sue memorie di viaggio in Arabia, così come pubblicate in italiano nel 1844 - a cura dell'illustre geografo Marmocchi - dall'editore Giachetti di Prato.


martedì 26 giugno 2012

Il profumo delle jacarande

Quest'anno mi sono fatto cogliere alquanto impreparato dalla fioritura delle jacarande. Sono già avvolte dal delizioso, originale profumo che, pur permanendo per mesi, nel mio empirismo é sintomo anzitutto della caduta di quei petali che non rimangono a lungo sui rami.
Mi sono dimenticato di chiedere conferma o lumi su questi particolari circa una settimana fa all'amico giardiniere, che, fermatosi per parlare con me di tutt'altro, equivocando, mi redarguiva bonariamente per le mie pregresse disattenzioni a questo albero, mentre io in effetti mi rammaricavo a quella data di non avere ancora fatto fotografie in proposito. Del resto, diverse persone di questa zona di Riviera Ligure, pur dotate di pregevoli giardini, mi hanno confermato di essersi accorte da poco dell'attecchimento dalle nostre parti di quelle belle piante esotiche.
E a volte le jacarande più spettacolari sono situate in terreni privati, quindi, non agevoli da ammirare da vicino. Scorgendone per la prima volta - le scoperte in tal senso sono continue - una da lontano - una vera nuvola di colore! - in un paesino dell'entroterra, un altro amico me ne voleva precisare il nome in palissandri, termine che pur conoscevo ma che non torna usuale nelle conversazioni correnti.
Ne riportavo un'altra informazione con la quale coglievo di sorpresa l'amico giardiniere, rivisto, sempre per caso, l'altro ieri. Che quelle piante erano state introdotte a pochi chilometri dal mare già prima della seconda guerra mondiale (inesorabilmente falcidiate dal gelo di inverni più rigidi di altri: dal che deduco una continua ripiantumazione di nuovi esemplari).
Mentre la jacaranda dell'ultima immagine é stata proprio collocata anni fa dall'amico giardiniere, che lamenta oggi trascuratezza in merito da parte del Comune di Bordighera.

venerdì 22 giugno 2012

Sul Barbaira


Ancora da adolescente, perché, per ormai perse ragioni, anche le tante mie scampagnate in bicicletta lungo la Val Nervia non ebbero mai una deviazione verso quel borgo, Rocchetta Nervina (IM), situata nella laterale del rio Barbaira - poco sopra Dolceacqua -, rappresentava per me un arcano mistero, nonostante la conoscenza di tante persone del posto, che visitavano spesso casa nostra, distante solo una dozzina di chilometri, o che ebbi per compagni, se non di classe, quantomeno di istituto.


Alle piccole cose spesso si ritorna. Infatti. Chiedevo ieri sera al mio amico, autore del sito Cultura-Barocca, qualche delucidazione su un affresco del locale Oratorio. Ho avuto conferma che tramanda un importante episodio di storia medievale di Rocchetta Nervina. La conversazione, come quasi sempre accade,  scivola sullo scambio di qualche aneddoto. A me, per associazione di idee, allora torna in mente che mi sono avvicinato a quel borgo per la prima volta in occasione di un personale esperimento di viaggio in motorino: senonché, ormai vicino a quell'abitato, rimasi in panne, da cui non avrei proprio saputo trarmi, se l'autista - pietoso - dell'autobus di linea, parcheggiato vicino a dove ero stato costretto a fermarmi, non mi avesse spiegato che avevo inavvertitamente interrotto... l'alimentazione dell'olio e non avesse, poi, direttamente provveduto a rimediare all'inconveniente. Dopo di che mi affrettai a tornare indietro ancora senza visitare Rocchetta Nervina.


Già vedendo questa porta, che nella mia memoria era quella anni fa di una stalla, mi sono ricordato di un aspetto di pregressa civiltà materiale. La mia famiglia si rifornì a lungo da un contadino del luogo di un delizioso olio d'oliva. Ed anche, per un primo periodo, di legna da ardere, perché quelli erano i tempi. Alle provviste della stufa della nonna materna in Bordighera (IM), quel signore contribuì, invero, più a lungo. Solo che, ancora alla svolta degli anni '60 del secolo scorso, prima di dotarsi di furgoncino, quel signore, con cui poi tante volte scambiai saluti e impressioni in paese, faceva i suoi trasporti con un carretto trainato da un mulo.


Uno scorcio della Chiesa Parrocchiale e di una piazzetta mi riportano alla storia di Rocchetta Nervina. E al   pallone elastico, sport tipico - se non erro - del Basso Piemonte e delle Valli dell'Imperiese, di cui spesso avevo sentito parlare con toni da saga arcaica, ma che là avevo visto infine praticare se non altro a titolo amatoriale.
E sul torrente Barbaira ci sono a monte altri ponti antichi, come quello di Pau', dove inizia il tratto consigliato di canyoning, attività che infine ha preso piede da quelle parti. 
Ma questo é solo un accenno di un discorso che merita a mio avviso di essere ripreso, perché, tra angoli di natura circostante e tipico abitato medievale, Rocchetta Nervina, al netto di sempre opinabili ricordi personali, presenta molte altre cose di cui scrivere.


martedì 19 giugno 2012

Nicolaas Witsen, erudito e viaggiatore olandese del Seicento

Mappa dell'attuale Siberia, realizzata nel 1690 da Witsen - Fonte: Wikipedia

Di Nicolaas Witsen (1641-1717), o Nicolaes Witzen, olandese, Jules Verne tramanda che aveva percorso la Tartaria orientale e settentrionale, riportandone un racconto di viaggio pubblicato nel 1692 in olandese e mai tradotto in altra lingua.

Fonte: auction.catawiki.cn
Fonte: aste.catawiki.it
Fonte: Wikipedia
Verne aggiunge che, nonostante due ristampe (1705-1785), altre opere più curiose e più complete destarono nel 1700 l'attenzione degli europei in materia.
Fonte: Wikimedia
Questa immagine di uno sciamano della Siberia, stesa di mano dallo stesso Witsen, testimonia già da sola, credo, il rilievo del suo lavoro.
Fonte: Wikipedia
Witsen in un ritratto del 1701, di Peter Schenck.

In effetti, Witsen, notevole erudito, ebbe una vita intensa e interessante, non facile da riassumere.

Fu tredici volte, dal 1682 al 1702, borgomastro di Amsterdam, come già era stato il padre. Verso la fine del XVII secolo fu anche uno dei Direttori della Compagnia Olandese delle Indie Orientali. Già da giovane era stato in Inghilterra, entrando in relazione con i figli di Cromwell. Nel 1664 e nel 1665 fu ambasciatore in Russia o Moscovia, come si diceva allora. E ne scrisse una sorta di diario. Subito dopo viaggiò in Italia, in Francia e di nuovo in Inghilterra.

Fonte: veiling.catawiki.nl
Sull'Estremo Oriente Witsen realizzò un compendio di documenti importanti, anche medievali.

Fonte: Wikipedia
Witsen si occupò inoltre di costruzioni navali, tanto é vero che a lui si devono le migliori conoscenze sui navigli olandesi dell'epoca. E per costruire la moderna flotta russa, Pietro il Grande fu anche tributario delle competenze di questo personaggio, conosciuto nel suo soggiorno ad Amsterdam. Con Witsen lo zar rimase in contatto sino alla morte dello studioso olandese, in occasione della quale disse di avere perso un grande amico.

Witsen fu in rapporto con molti pensatori e scienziati dell'epoca, tra cui Liebniz.

Fu un teorico della coltivazione del caffé, di cui propugnò l'introduzione in diverse lande.
Ebbe una collezione di più di millecinquecento disegni di piante, quasi tutte della zona del capo in Sudafrica, nota come Codex Vitsenii e passata di mano in mano a diversi successivi studiosi.

Ricoprì ulteriori, importanti ruoli pubblici.

Ma quello che si ricorda soprattutto di lui é quella carta della Siberia, stesa nel 1690.

Diverse pubblicazioni, tra cui non poteva mancarne una di uno storiografo russo, sono state dedicate negli ultimi anni, in modo più o meno completo, alla multiforme attività di Witsen.



venerdì 15 giugno 2012

Sfogliando qualche vecchio "Albo dell'Intrepido"


Non credo, visto che é riportata sulla copertina, che sia necessario trascriva la data di questo "Albo dell'Intrepido".


Il medesimo nella quarta riporta esempi di comicità dell'epoca. Di "Pedrito El Drito" ho trovato qualche tempo fa una sorta di antologia in ristampa anastatica. "Arturo e Zoe" comparivano negli anni '50 anche su "Il Monello". Forse - ma la mia memoria in merito difetta - queste vignette, ed altre dello stesso tenore - penso a "Tarzanetto" - si alternavano anche sul fumetto gemello più famoso, "intrepido", cui altre volte ho fatto cenno.


Riporto a titolo di esempio qualche illustrazione di un'avventura nei Caraibi, comparsa nel numero del 14 aprile 1953 del periodico in questione.

Ho parlato più volte di fumetti, sostanzialmente di quel periodo, che coincide con la mia infanzia. Specie di "intrepido", come ricordavo prima. Mi arrivano in proposito ancora commenti, a volte via email. L'argomento, dunque, interessa. Personalmente, mi capita di riscontrarlo anche in conversazioni con amici e conoscenti.



Da ultimo, come possono attestare le immagini da me selezionate in "Albo dell'Intrepido" del 9 luglio 1963, la rivista, arricchendosi oltrettutto - al pari di "intrepido" e "Il Monello" - di altre rubriche, aveva abbandonato il criterio dell'avventura, iniziata e conclusa nel singolo numero. Giova anche ricordare che l'uso del colore era l'eccezione e non la regola.

Anche l'"Albo dell'Intrepido" faceva parte di quella schiera di fumetti anni '50, che rimandano alla storia del costume, per via dei contenuti interessanti e spesso di rilievo informativo, nonché dei bei disegni, ma anche perché per tante famiglie rappresentavano un costo non sostenibile, per altre fattori diseducativi. Ne conseguiva, del resto, la diffusa pratica di prestiti e scambi, tutti aspetti, insieme ad altri, che talora tornano alla memoria di chi ha vissuto quei periodi.

Le immagini sopra pubblicate derivano dalla collezione dell'amico Bruno Calatroni di Vallecrosia (IM).

lunedì 11 giugno 2012

La novella Zenobia


Lady Hesther Lucy Stanhope (1776-1839) è stata una nobile viaggiatrice e avventuriera britannica, divenuta famosa per le incredibili vicende della sua vita in Medio Oriente. Una terra straordinaria che da fine '700 e primi '800 cominciò a rivelare ai suoi primi esploratori scientifici  il suo fascino leggendario e lo splendore dei suoi reperti archeologici. 

Fonte: Wikimedia

Lady Stanhope, infatti, fu proclamata - novella Zenobia -  regina di Palmira, l'antica Tadmor, da alcune tribù di beduini e divenne una sorta di profetessa tra le comunità druse. 

La "Revue des Deux Mondes" nel 1845 la descrisse come "regina di Tadmor, maga, profetessa, patriarca, capo arabo, morta nel 1839 sotto il tetto del suo palazzo sgangherato e in rovina a Djîhoun, in Libano". 

Era figlia dello scienziato Charles Stanhope, III conte di Stanhope, e di Hester Pitt, sorella del primo ministro britannico, William Pitt il giovane, grande nemico di Napoleone. Fu a capo - usanze dell'epoca! - della casata dello zio, scapolo: già questo capitolo della sua esistenza sarebbe significativo e da esplorare bene in sede storica. 

"Giovane, bella e ricca", secondo la descrizione di Lamartine in "Le Voyage en Orient", che riportò con linguaggio icastico anche gli episodi più incredibili di devozione alla donna da parte di tribù del Medio Oriente, Lady Stanhope viaggiò in Europa a partire dal 1806, prima di visitare il Medio Oriente. Qualche fonte insinua a seguito di una delusione d'amore. E partì con un amante. In genere si pensa che non contrasse matrimonio - d'altronde l'età l'aveva superata! - per spirito ribelle. 



In Asia, dove pervenne dopo avere attraversato un Egitto ancora in rovina per la guerra condotta poco prima da Bonaparte, ebbe come tappe principali Gerusalemme, Damasco, Aleppo, Homs ( vale a dire l'antica Emesa in Siria, celebre per il culto solare del Dio El Gabal) e in particolare Baalbeck (l'antica Eliopoli o "città del sole"), siti dei quali in quel periodo altri viaggiatori, tra cui il Robinson, lasciarono inusitate testimonianze. E forse fu la prima persona a essere autorizzata dai pubblici poteri turchi a compiere scavi archeologici.

Lady Stanhope fu in corrispondenza con Lamartine, al quale raccontò della sua fede, una miscela di cristianesimo e di tradizioni orientali. Questa sorta di sincretismo venne poi dibattuto dal famoso poeta con un celebre visitatore della donna, il Visconte di Marcellus che le dedicò un intero capitolo delle sue "Rimembranze intorno all'Oriente". 

Ha ispirato produzioni letterarie, tra cui il personaggio di Althestane Orlof nel romanzo di Pierre Benoît La Châtelaine du Liban (1924). 

Scrisse le sue memorie, pubblicate in inglese poco dopo la sua morte: meriterebbero invero una edizione critica in italiano, per comprendere meglio lo spirito di libertà e di avventura di questa donna, che seppe resistere alle feroci reprimende del mondo perbene del suo tempo.


giovedì 7 giugno 2012

Quella Bordighera di Guido Seborga


Le linee più generali dei ricordi cui tra breve pervengo mi erano già state tratteggiate da alcuni amici più di quarant'anni fa, ma non rammento di aver raccolto in quel periodo testimonianze in proposito, rese dai protagonisti, quelli che allora conoscevo. Capita di recente che, da una mia curiosità su di un aspetto, in diversi mi facciano un quadro più preciso di quegli eventi. Soprattutto, avviene che io vada a leggere una testimonianza del nipote di Guido Seborga, Claudio Panella, da cui, intanto, attingo, per stralci:
Fin dagli anni '50 Bordighera è stato un centro culturale decisamente animato, e Guido Seborga passava spesso le sue giornate nei caffè del centro, intrattenendosi con coloro che diverranno i suoi compagni di una vita. Nei locali ormai scomparsi del Gran Caffè della Stazione, o del Caffè Giglio sull'Aurelia, poi del bar Chez Louis di C.so Italia (davanti all'allora sede del P.S.I), si è incontrata e formata più di una generazione di artisti liguri: oltre a quella di Seborga e dei pittori Balbo e Maiolino, che all'inizio degli anni '50 fondarono i premi delle "Cinque Bettole" per la pittura e per la letteratura, passando libri e stimoli a scrittori come Sanguineti e Biamonti, quella più giovane di Giorgio Loreti e Angelo Oliva, che insieme a Seborga scoprirono i poeti francesi, i surrealisti, gli esistenzialisti e la politica. Tutti i nomi sopra citati, e non solo, furono variamente influenzati dall'azione continua di formazione e incitamento all'organizzazione giovanile che Seborga portò avanti nella Bordighera di quegli anni. Nel 1956 Seborga, che già conosceva Francesco Biamonti e faceva parte della giuria delle "Cinque Bettole", lo indusse a parteciparvi con la speranza che si mettesse in luce ... Seborga citava "le pagine scritte da certi giovani come Oliva, Lanteri, Loreti, per non dire del romanzo "Colpo di grazia" di Biamonti, dimostrano ampiamente che un clima di ricerca intellettuale i migliori giovani hanno saputo creare"
E di Guido Seborga, forse, in questa occasione, può essere sufficiente citare, dalla stessa fonte cui sono partito, Edoardo Sanguineti:
Bordighera è legata al mio entrare nella conoscenza della scrittura, per esempio. Ecco, mi sedevo in un caffè, la mattina, e lì, lontano dalla confusione di oggi, leggevo, imparavo. Vi conobbi Guido Hess, un romanziere torinese … il quale aveva pubblicato qualcosa col proprio nome e, in seguito, con quello di Guido Seborga. Ebbe un momento di fama e poi fu ingiustamente dimenticato. Di lui ricordo un primo romanzo (si era nei primi anni '50) e un altro in versi. Era un personaggio singolare, una sorta di sperimentalista "ante litteram". Passeggiavamo sul lungomare di Bordighera e chiacchieravamo. Fu uno dei miei primi punti di riferimento culturale e mi fece conoscere Antonin Artaud, di cui mi prestò "Héliogabale".
Il racconto di Claudio Panella, va da sé, é maggiormente articolato e complesso. Cercherò di darne ancora conto, confidando di procedere, allora, a integrazioni augurabilmente suggeritemi dagli amici, che hanno vissuto quei momenti.

Fotografia di Bordighera.Amore.Mio/Facebook



martedì 5 giugno 2012

Perinaldo, tante storie da raccontare


A Perinaldo vi sono monumenti di grande rilievo artistico e storico.


Come anche la casa natale del grande astronomo Gian Domenico Cassini.


Quello soprastante é uno scorcio del paese, che si allunga ancora in altura a destra per chi guarda, così come può apparire per chi vi arriva dal mare, una volta inoltratosi da Vallecrosia per la valle del torrente Verbone. Dall'altra parte del poggio sono visibili, se non incombono nuvole o foschia, alcune belle cime delle Alpi Marittime, che si affacciano sulla provincia di Imperia, e oltre.
Perinaldo mi pare emblematico di tante vicende che riguardano centri dell'entroterra. Forse é un'impressione molto soggettiva, dovuta a miei repentini ritorni di memoria.
Trame risalenti al Medio Evo sono molto comuni man mano che ci si allontana dal litorale della Riviera dei Fiori. E Perinaldo rientra in pieno in questo schema. Avvicinandosi ai giorni nostri, spiccano nel mio vissuto, anche grazie a cose udite nel tempo da abitanti del posto, cooperazione sociale, intenso commercio di legname ai primi del secolo scorso, suonatori d'antan, antifascismo, notevole emigrazione nella vicina Francia (con persone che non vollero perdere la cittadinanza nel borgo, cui tornavano puntualmente per le elezioni e al culmine dell'estate, quando rendevano caratteristiche le conversazioni all'ombra dei platani o assistendo alle sagre popolari), squisito olio d'oliva, altre leccornie, cui si aggiunge oggi l'attenzione prestata a un particolare tipo di carciofo, la coltivazione dei fiori, specie, anni fa, gran belle rose. E tanto altro ancora, tra cui un soggiorno di Napoleone.
Tante storie da raccontare, allora. Meglio selezionare, se l'ispirazione assiste, e renderne, in prosieguo, conto, una alla volta.




venerdì 1 giugno 2012

Suor Juana Inés de la Cruz


Come recita anche Wikipedia, da cui ho tratto la presente fotografia di un suo ritratto fatto nel 1750 da Miguel Cabrera, Juana Inés de la Cruz, nata Juana Inés de Asbaje y Ramírez de Santillana (San Miguel Nepantla, 2 dicembre 1648 o, secondo altri, 12 novembre 1651 - Città del Messico, 17 aprile 1695), è stata una religiosa e una famosa poetessa messicana.
Figlia illeggittima di un nobile spagnolo e di una donna analfabeta, la quale é, però, in grado di dirigere una masseria e che nel 1655 vive con un altro uomo, Juana già a tre anni, con la complicità di una sorella maggiore e di una maestra, impara a leggere all'insaputa della madre.
Vorrebbe tentare di proseguire gli studi, sino all'Università, travestita da ragazzo, cosa impossibile e molto pericolosa a quel tempo. La madre, ormai ben convinta della bontà delle aspirazioni della figlia, la manda dalla sorella a Città del Messico, dove la fornita biblioteca del defunto nonno svolge una funzione fondamentale nella preparazione di Juana.
Risulta difficile, da qui in avanti, riassumere la sua pur breve vita, tanto ricca di avvenimenti importanti quanto é straordinaria la sua personalità, nella quale prevale un temerario, per l'epoca e l'ambiente, spirito libero.
Sostanzialmente autodidatta, presentata nel 1664 alla nuova Corte dalla zia, entra nel gruppo delle dame della Viceregina, dove viene accreditata del titolo di "amatissima". Compone versi, dedicati alla grande nobile, molto apprezzati anche dal Viceré, che riconosce in varie occasioni il talento della fanciulla.
Nel 1667, tuttavia, Juana abbandona la Corte ed entra in convento. Da parte degli studiosi si ritiene prevalente in questa scelta una motivazione di ordine pratico, perché imminente un possibile cambio di Viceré. Senonché, Juana, che pur in quel Messico potrebbe, ancorché figlia illeggittima, contrarre, come fanno invero due sue sorelle, matrimonio, lascia scritto che non sente attrazione per tale istituto, ma, anzi, cerca con l'opzione messa in atto la tranquillità necessaria per dedicarsi alla sua intensa attività intellettuale.
Sarebbe interessante entrare in molti particolari, quali aspetti del costume e del diritto, specifici allora in quell'area geografica. Ancor più la corposa produzione lirica di Juana, che le assicura subito grande fama. Intenso anche il suo rapporto con una nuova Viceregina. Siamo nel Barocco. Juana si occupa anche di teatro, ma il vescovo, memore dell'avversione pontificia di quegli anni per qualsivoglia forma di coinvolgimento femminile in materia, già da questo presupposto inizia a covare rancore verso Juana.
Il fatto é che Juana difende, come può, senza giri di parole e non celandosi dietro pseudonimi, la dignità della donna, soprattutto rivendicando il diritto ad un'istruzione paritetica a quella maschile. 
Molto significativi, allora, i seguenti versi di Juana:

"Stolti uomini che accusate
la donna senza ragione,
ignari di esser cagione
delle colpe che le date;
(...)
Io molti argomenti fondo
contro le vostre arroganze,
ché unite in promessa e istanze
l’inferno, la carne e il mondo".

Infine, quel vescovo, sfruttando diversi fattori, non ultimo l'ennesimo avvicendamento di governatori, e taluni inevitabili errori della donna, riduce, anche mediante umiliante confessione, Juana al silenzio e alla rinuncia ai suoi amatissimi studi, non senza aver prima espropriato e venduto suoi beni, come biblioteca e strumenti musicali: era stata, infatti, agitata l'accusa di eresia, a quel tempo sul serio temibile.
Juana muore di peste il 17 aprile 1695, dopo essersi prodigata per altre consorelle colpite dallo stesso morbo.
Mi sembra, infine, molto significativo che Octavio Paz, in "Suor Juana Inés de la Cruz o le insidie della fede", abbia voluto dedicare la sua meditata attenzione alla figura di questa donna, su cui, forse é opportuno tornare.