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mercoledì 2 febbraio 2022

I partigiani italiani e francesi ed i patti di Saretto

Saretto in una vecchia cartolina - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Gli accordi sottoscritti a Saretto, in Val Maira, il 30 maggio 1944, furono approdo della complessa sequenza di iniziative di alcuni partigiani di rilevante preparazione  culturale e di rigoroso impegno politico per l'avvento della libertà  democratica. Va ricordato e posto in evidenza, in via preliminare, che a ideare, avviare e preparare nei dettagli l'inizio dei colloqui infine sfociati nell'intesa furono partigiani italiani, ai quali non sfuggiva la disparità di posizione dalla quale avrebbero preso le mosse qualsiasi confronto diretto italo-francese e che tuttavia non rinunziarono a priori a imboccare la via della ricerca di accordi nella lotta di liberazione, mirando a obiettivi politici in una visione di respiro europeo, che richiama l'attenzione dello storico per acume e lungimiranza, non disgiunta da solido pragmatismo.
Ben inteso i Patti furono impresa di uomini immersi da mesi in una guerra senza frontiere, nella quale non sempre si facevano prigionieri e la vita stessa era continuamente in gioco. Mentre la Repubblica sociale italiana intensificava una campagna volta a ottenere la "partecipazione", aleggiava l'illusoria speranza che la conclusione del conflitto fosse alle porte, almeno per l'ltalia o quanto meno per la costiera liguro-provenzale e il suo immediato entroterra, sicché ogni atto militare assumeva rilievo politico e qualsiasi decisione su contingenze particolari sembrava proiettarsi sul futuro, con conseguenze di portata vastissima.. Citando Mario Giovana, Frontiere, nazionalismi e realtà locali: Briga e Tenda (1945-1947), in Il Presente e la Storia, rivista dell'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in provincia di Cuneo, n° 48, 1995, si piò ancora sottolineare che "oltre ad esprimere la soddisfazione dei contraenti per il ritrovamento di una base di intenti comune, avevano dichiarato l'inesistenza di ragioni di risentimento e di scontro per il recente passato politico e militare, che - affermavano i sottoscrittori - impegnava le responsabilità dei rispettivi governi e non quelle dei popoli medesimi, entrambi vittime di regimi d'oppressione e di corruzione. Inoltre, italiani e francesi proclamavano la piena solidarietà nella lotta contro il fascismo ed il nazismo, nonché contro le forze della reazione, quale necessaria fase preliminare dell'instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una libera comunità europea".
Questa piattaforma stipulata tra i partigiani che agivano ad est e ad ovest delle Alpi Marittime venne completamente disconosciuta dal generale Charles De Gaulle, in quanto i firmatari francesi degli accordi di Saretto erano "un avvocato radical-socialista di Aix-les- Bains, Max Juvenal, capo della R.2 , un avvocato democratico di sinistra nizzardo organizzatore del maquis del Laverq, Jean Lipman (caduto da valoroso nell'insurrezione), il socialista Maurice Piautier (vice comandante della R.2, anch'egli morto sul campo). Personaggi distanti anni luce dal rapimento di grandeur cui De Gaulle rimetteva il senso medesimo della propria missione".
La missione della quale si sentiva investito il generale francese, nei confronti del confinante stato italiano, consisteva prima di tutto nel non riconoscere il suo status di cobelligerante in quanto "nessun governo francese aveva aderito all'armistizio dell'8 settembre ed il Comitato francese di liberazione nazionale, che vi aveva aderito implicitamente, non era munito di riconoscimento come governo".
Sulla base di questa considerazione si doveva "punire" severamente l'Italia. 

Francobollo commemorativo dei patti di Saretto - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Rocco Fava di Sanremo (IM), La Resistenza nell'Imperiese. Un saggio di regestazione della documentazione inedita dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea di Imperia (1 gennaio - 30 Aprile 1945) - Tomo I - Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di Laurea in Pedagogia - Anno Accademico 1998 - 1999

La borgata Saretto di Acceglio (CN) - Fonte: Marco Travaglini, art. cit. infra

Il 31 maggio 1944, a Saretto di Acceglio (CN), si svolse un cruciale incontro tra la resistenza italiana e francese.
L’incontro tra italiani e francesi fu organizzato per firmare gli accordi che sancivano rapporti di solidarietà, intesa, collaborazione e lotta contro la dominazione nazifascista. Queste intese rivestirono un importante valore storico, rappresentando la comunanza politica tra i due movimenti in lotta, il reciproco desiderio di stabilire relazioni e ricercare collaborazioni di tipo militare.
All’appuntamento si giunse grazie alle relazioni politiche avviate da Costanzo Picco, sottotenente della IV armata rimasto in territorio francese dopo lo sbandamento dell’8 settembre 1943, che stabilì i contatti fra la resistenza francese e italiana tramite Detto Dalmastro, comandante del III settore del Comitato di Liberazione Nazionale. Un primo incontro avvenne il 12 maggio 1944 in alta montagna, al bivacco sul Colle Sautron, per iniziativa della Brigata “Giustizia e Libertà della Valle Maira”, al quale presero parte in rappresentanza dei partigiani italiani Detto Dalmastro, Costanzo Picco, Luigi Ventre - comandante della brigata Valle Maira - e Giorgio Bocca, comandante della brigata Valle Varaita.
I francesi erano rappresentati da Jacques Lecuyer, del Comité de Libération National, e da diversi comandanti delle formazioni di maquisards. Al Colle del Sautron ci si accordò per un secondo incontro da tenersi a Barcelonnette, nella valle dell’Ubaye, a una trentina di chilometri dal confine italiano. Al rendez vous del 20 maggio presenziarono Duccio Galimberti, Detto Dalmastro e Giorgio Bocca. L’occasione servì a concordare l’intensificazione dei collegamenti tra le formazioni partigiane dei due versanti del confine, scambiandosi armi, munizioni e due ufficiali che si sarebbero stabiliti presso i rispettivi comandi per concordare azioni comuni: Costanzo Picco e Jean Lippmann. Si giunse così all’incontro decisivo, fissato per il 30 e 31 maggio, per sancire gli accordi anche sul versante italiano con l’arrivo dei maquis francesi attraverso il Colle delle Munie; inizialmente l’intesa doveva essere firmata ad Acceglio, dove si erano ritrovate le due delegazioni passando la notte in paese, ma un improvviso rastrellamento tedesco nella mattinata del 31 costrinse i partigiani a riparare più a monte, nella borgata di Saretto.
Parteciparono all’incontro i partigiani Dante Livio Bianco, Ezio Aceto e Luigi Ventre, mentre i francesi vennero rappresentati dal comandante Max Juvenal (Maxence) e dal suo vice Maurice Plantier. L’importanza degli accordi si distingue per il valore dell’enunciazione di una solidarietà tra i popoli oppressi, la volontà di cooperare per la sconfitta del nazifascismo e la costruzione di una nuova Europa democratica e libera da guerre fratricide. Dal punto di vista politico si riconobbe che non vi era ragione di risentimento fra i popoli italiano e francese per le passate vicende belliche in quanto la responsabilità risaliva ai rispettivi governi e non ai popoli; dal punto di vista militare i Patti di Saretto, preso atto della fratellanza fra i combattenti dei due movimenti partigiani, evidenziò la necessità di unire le forze nella lotta contro i nazisti nella fascia alpina, stabilendo contatti continui per creare obiettivi comuni nelle azioni di guerriglia. Il testo, coinciso e denso di significati, rappresentò una delle dichiarazioni più rilevanti della Resistenza europea, di fondamentale importanza nei rapporti tra Italia e Francia dopo la fine della guerra.
[...] In quelle indimenticabili giornate passate sui monti fra l’alta Valle Maira e la Val d’Ubaye, sprofondando nella neve, combattendo contro il gelo e attraversando di nascosto le postazioni tedesche a presidio delle terre di confine, si consolidò tra quegli uomini l’ideale di un’Europa dei popoli come traguardo della lotta di Resistenza e di liberazione. Il loro pensiero si rivelò così audace che quanto scrissero nei Patti di Saretto venne criticato dai comandi italiani, poiché i concetti espressi andavano ben oltre i confini dell’idea monarchica ponendo le basi per una fase preliminare di costituzione delle libertà democratiche e della giustizia sociale in una comunità europea libera.
Marco Travaglini, I “patti” di Saretto. Una pagina di antifascismo europeo tra i monti della Valle Maira, Crpiemonte, 10 agosto 2020 


Un'ampia relazione al Comitato di Liberazione Nazionale, non firmata ma sicuramente di Duccio Galimberti, fornisce l'interpretazione data a quell'intesa preliminare da parte del suo più autorevole propugnatore di parte italiana.
Essa doveva ristabilire la solidarietà latina e rafforzare la lotta comune per l'affermazione delle libertà democratiche.
Anche alla delegazione di parte francese, integrata con un inviato della Commissione Interalleata di Algeri, era evidente la portata politica degli accordi, tantoché venne convenuto di diramare da radio Algeri un comunicato del seguente tenore: "Fra il Comitato di Liberazione Nazionale Italiano e le Forces Françaises de l'Intérieur si sono raggiunti concreti accordi ufficiali, sulla base del riconoscimento dell'identità della lotta per la liberazione dai tedeschi e per la instaurazione delle libertà democratiche".
Nella relazione al CLN Galimberti aggiunse: "Ho assunto l'incarico di far fare la trasmissione da radio Londra in italiano e confido che sia possibile al C.L.N. ottenerlo, anche ai fini di dimostrare la nostra efficienza organizzativa".
La trasmissione da quella emittente non avrebbe comunque bilanciato l'oggettiva disparità segnata dal fatto che la lingua ufficiale di tutta la trattativa - dai preliminari all'incontro al Sautron, dal Convegno di Barcellonette ai "patti di Saretto" - fu il francese, così come esclusivamente in inglese erano i testi originali dell'atto di resa incondizionata sottoscritto dal generale Castellano a Cassibile ("armistizio lungo" firmato da Badoglio a Malta il 29 dello stesso mese).
[...] Rimanevano infine particolarmente severe e fuori discussione le rivendicazioni di parte francese, ispirate a criteri che riesce difficile non catalogare come punitivi anziché politici. Se è vero che parevano accantonati i piani di smembramento e di occupazione permanente dell'Italia, messi a punto a Londra e in altre sedi negli anni precedenti, sul modello poi attuato ai danni della Germania, i gollisti non nascondevano di voler occupare un lungo tratto della costa ligure e di attestarsi, a est delle Alpi, almeno sulla linea Pinerolo-Cuneo, oltre ad annettersi la Valle d'Aosta: un 'bottino di guerra' che inevitabilmente avrebbe spinto altre potenze vincitrici, anche di seconda fila, come Grecia e Jugoslavia, ad accaparrarsi 'compensi' proporzionati ai vantaggi pretesi dai francesi, sì da gettare le basi di un contenzioso destinato ad avvelenare a tempo indeterminato la possibile pace, come già era accaduto all'indomani della Grande Guerra con i Trattati del 1919-20.
[...] I principi ispiratori di quanti, dal versante italiano, avevano tenacemente voluto l'incontro diretto con i francesi erano dunque gli stessi che nel 1942-43 avevano animato i primi 'manifesti' di riorganizzazione dell'Europa su basi federalistiche e di ciascuno Stato attraverso le autonomie regionali: gli stessi assunti a base della '"carta di Chivasso" <9.
Dal canto suo, Duccio Galimberti proprio nel 1942-43 aveva tracciato, con Antonino Repaci, un progetto di costituzione confederale europea ed interna la cui revisione in vista della stampa, ormai programmata, - scrisse Repaci - venne interrotta la sera dell'8 settembre 1943 dalla notizia dell'"armistizio" <10 .
Quel testo sostituiva il principio dell'indipendenza con quello dell'autonomia: una differenza notevole, sia dal punto di vista etico, sia sul piano giuridico, giacché avrebbe segnato l'abolizione della cosiddetta "sovranità esterna".
Lo Stato - spiegò Repaci stesso - "in altri termini sarebbe rimasto sovrano, e non senza certe limitazioni..., solo nei confronti dei suoi sudditi, cioè rispetto a quella che si suol chiamare politica internaa. <11.
Alla vigilia dell'estate 1944, l'imminenza dell'apertura del "secondo fronte" in Francia conferiva concretezza e valenza pratica immediata a prospettive sino a quel momento apparentemente relegate nella sfera dell'immaginazione e della  mera  letteratura  politica <12. Si trattava infatti di stabilire concretamente quale ruolo assegnare - almeno in prospettiva - alle potenze che stavano per risultare definitivamente vincitrici e ai vinti: fissandone durevolmente la disparità o ponendo tutti su basi di uguaglianza in nome della fratellanza universale tra i popoli.
Il carteggio di due tra i più rappresentativi esponenti del giellismo in Piemonte - ormai in larga parte disponibile anche a stampa - consente alcune sommarie considerazioni. Nessuno poneva in dubbio che le sorti dell'Italia sarebbero dipese dalle decisioni delle potenze occidentali (termine che invero non troviamo in uso, mentre vediamo impiegata la formula "anglo-americani", perché era ancora del tutto assente la previsione della spartizione dell'Europa in due aree, una delle quali ridotta a 'satellite' dell'URSS). In tale quadro, gli scenari postbellici risultavano variabili dipendenti della sorte dai vincitori riservata all'Europa centrale, segnatamente alla Germania.
[...] Il primato dell'amicizia italo-francese quale perno della ricostruzione europea era respinto con ostentata preoccupazione da parte di quanti v'intravvedevano il nucleo di un'aggregazione tra i Paesi 'latini' e affini (dalla penisola iberica al Belgio) nel cui ambito sarebbe risultata rilevante la funzione sociale della Chiesa cattolica: che l'esperienza insegnava essere per nulla incompatibile con la Repubblica francese, neppure quando Marianne aveva avuto una dirigenza laicistica e anticlericale (come ai tempi di Jules Ferry e Waldeck Rousseau).
Su quest'ultimo terreno il peso della Tradizione, comprensivo delle singole personalità e dei rispettivi seguiti (ed era la luce in cui taluni vedevano Duccio Galimberti, figlio di un notabile dell'età giolittiana), si riteneva fosse destinato a esercitare un ruolo frenante contro la realizzazione delle aspirazioni rivoluzionarie coltivate dalla frazione movimentistica della lotta di liberazione in costante contrasto, durante e dopo la guerra, con quanti, anche nel Partito d'Azione e oltre, ritenevano che la libertà non sia incompatibile con l'ordine.
Il testo dei patti siglati a Saretto il 30 maggio 1944 risultò, appunto, quale era atteso, espressione di tale "rivoluzione". Andò, anzi, oltre il segno. I firmatari, infatti, non si limitarono a esprimere il punto di vista delle rispettive organizzazioni. Essi sottoscrissero tre dichiarazioni di principio, una più impegnativa dell'altra:
a - la maggiore responsabilità dei rispettivi governi per il "recente passato politico e militare" (che si spingeva a equiparare il regime di Pétain al fascismo);
b - la piena solidarietà e fraternità franco-italiana nella lotta contro il nazifascismo e le forze della reazione quale fase necessaria e preliminare per l'instaurazione delle libertà democratiche e della giustizia sociale, in una libera comunità europea;
c - per l'Italia, non meno che per la Francia, la forma di governo più atta ad assicurare la saldezza delle libertà democratiche e della giustizia sociale è la repubblica.
La comitiva che - appuntò Bianco nel diario - il 29 maggio prese la corriera per Acceglio andò insomma a consumare un atto rivoluzionario: a dichiarare decaduta la monarchia e a sconfessare quel governo Badoglio che, completo di Croce, Togliatti e quant'altri, aveva il sostegno del Comitato Centrale di Liberazione Nazionale e Nazioni Unite. A ben vedere almeno in quel passo i Patti di Saretto mettevano a nudo il potenziale contrasto fra CLN Regionale Piemontese e CLN Centrale, tra Nord e Sud, tra le due Italie.
[...] A Saretto venne annunziata l'esistenza di un'altra Italia: quella della democrazia in armi il cui obiettivo ultimo, al di là delle liberazione dell'Italia dai nazifascisti, era la rivoluzione republicana.
Ciò che per la delegazione francese era ovvio e ordinario, per gli italiani era invece una sfida alla storia passata e futura. A infondere determinazione in Bianco, Ezio Aceto, Gigi Ventre erano i nove mesi di resistenza armata e la convinzione di essere portatori di un 'ordine nuovo', fondato sull'impiego delle armi, oltreché sull'esercizio di tutti i poteri (giustizia, amministrazione locale...), in nome del "popolo", ovvero del secondo (e spesso dimenticato) termine della formula posta a base dello Statuto Albertino, al quale i giellisti non volevan certo tornare e che anzi intendevano cancellare per sempre.
[NOTE]
(9) Il convegno di Chivasso ebbe luogo il 19 dicembre 1943 con la partecipazione di Emilio Chanoux, Osvaldo Coisson, Gustavo Malan, Mario Albeno Rollier e altri. In merito v. G. PEYRONEL, La dichiarazione dei rappresentami delle popolazioni alpine al Convegno di Chivasso il 19 dicembre 1943 in "Il Movimento di liberazione in Italia", 1949, n. 2 ; E. CHANOUX, Fédéralisme et autonomie, Aosta, 1960.
(10) Come attestò lo stesso A. Repaci nella Avvertenza all'edizione del Progetto di Costituzione confederale europea ed imerna, Torino-Cuneo, Fiorini-ICA, 1946, su cui v. anche FRANCO FRANCHI. Caro nemico. La costituzione scomoda di Duccio Galimberti eroe nazionale della resistenza, Roma, Settimo Siugillo, 1990.
(11) Op. cit.
(12) Per talune cui esemplificazioni v. LIVIO PIVANO, Risalire dal fondo, Panna, Guanda, 1947 e FELICE BERTOLINO, L'ltalia libera, Borgo S. Dalmazzo, Benello 1946
Aldo Alessandro Mola, I "patti" di Sareto del 31 maggio 1944 ed i loro riflessi militari in Cahiers de la Méditerranée, n° 52, 1, 1996 - Relations franco-italiennes - pp. 59-84
 
Un documento senza data e senza firma conservato nell’Archivio dell’Istituto Nazionale, comincia con queste parole: «Evidenti ragioni di generale interesse, non solo per l’immediatezza della lotta partigiana, ma anche per i futuri sviluppi della nostra battaglia di risorgimento patrio mi han sempre indotto a cercare di stabilire un collegamento ufficiale stabile con le forze organizzate ai medesimi fini al di là delle Alpi». Il contenuto di questi quattro fogli, che si presentano come relazione al Comitato di Liberazione Nazionale, fa supporre che l’autore sia Duccio Galimberti, comandante regionale delle formazioni GL del Piemonte, poiché soprattutto all’iniziativa di lui, uomo di fede mazziniana e combattente per la libertà nel senso europeo, si dovettero i primi tentativi di riallacciare i rapporti con l’organizzazione clandestina francese. Nel suo pensiero e in quello di coloro che gli erano vicini era giunto il momento che gli italiani liberi, che nel giugno del 1940 avevano sofferto tutta la vergogna dell’assalto proditorio alla Francia, collaborassero con quei francesi liberi che, nel silenzio, preparavano la resurrezione della loro patria, in un nuovo spirito di fraternità fra i due popoli al di sopra e al di fuori della corrotta realtà politica.
In questo documento, che evidentemente è del maggio 1944, sono narrati successivamente i due momenti più importanti di questi accordi: il primo avvenne il 12 maggio quando il Comandante del terzo settore a capo di un gruppo di ufficiali delle formazioni GL della Val Maira, si incontrò al Colle del Sautron a 2800 m., in una baracca affondata nella neve, con il Comandante francese delle Basse Alpi, rappresentante del comando del sud-est della Francia: «Il nostro ufficiale sapeva energicamente eliminare un iniziale atteggiamento di alterigia del delegato francese e mettere in degna luce l’importanza del nostro movimento, tanto che quegli dimostrando per esso particolare considerazione, stima ed interesse, palesava l’intento di addivenire al più presto e con carattere di estrema urgenza ad un colloquio conclusivo con un rappresentante del C.L.N. italiano il quale fosse munito di poteri per stringere concreti accordi generali ed operativi». <2.
Il nuovo incontro, decisivo, ebbe luogo il 20 maggio, con la partecipazione di Duccio Galimberti, che prese su di sé la responsabilità e il peso della pericolosa missione: «Tra il 19 ed il 20 maggio, con una marcia notturna e diurna durata 15 ore, abbiamo valicato un colle sui tremila metri, nonostante la presenza di mezzo metro di neve fresca, ed abbiamo percorso una trentina di chilometri nella Valle della Ubaye, controllata da numerosi e forti presidi tedeschi che fanno oggetto di particolare vigilanza la fascia prossima al confine e vi avevano, il giorno innanzi, arrestato un gruppo di contrabbandieri, fucilandone due. Al ritorno fu necessario marciare per 23 ore consecutive, evitando gli speciali controlli disposti anche nel versante italiano in vista delle operazioni di rastrellamento allora giudicate imminenti, data la scadenza del bando di franchigia (21-22 maggio). Ritengo peraltro che l’esito sia stato tale da compensare i rischi e le fatiche. Partecipavano alla riunione: da parte francese il Comandante del Sud-Est col suo Vice Comandante, un inviato (paracadutato) della Commissione Interalleata di Algeri, i Comandanti di Settore ed i rappresentanti dei Comitati di Liberazione della zona; mentre io ero assistito dal Comandante del III Settore, dal Com. Mil. della Val Varaita e dal ricordato Ten. P.C. <3. È interessante notare che, aprendo la seduta, il capo della delegazione francese dichiarava che quanto fossimo per fare e concludere sarebbe stato di grande utilità per noi italiani, onde cancellare l’eredità fascista e dimostrare il nostro diritto alla libertà. Dovevo, quindi, interromperlo per precisare che i progettati accordi avrebbero giovato non esclusivamente a noi ma per ristabilire la solidarietà latina e rafforzare la comune lotta per l’affermazione delle libertà democratiche. Su quest’ultimo punto ho particolarmente insistito sempre indicandolo come fondamentale, caratteristica finalità della nostra lotta, di cui ho fatto notare tutta la pericolosità, lo slancio audace ed i significativi risultati, ottenuti a prezzo di così gloriosi e cruenti sacrifici» <4.
Il convegno si concluse su questi punti precisi:
«1) riconoscimento di identità dei fini della lotta, non solo per la materialità della liberazione dallo straniero, ma anche per l’aspirazione politica (instaurazione delle libertà democratiche); 2) intensificazione dei contatti fra tutte le vallate confinanti. A questo proposito giova notare che noi confiniamo quasi esclusivamente colla R. 2 il cui capo conferiva con me. Con l’altra regione confinante (R. 1) il solo punto di contatto è il Piccolo S. Bernardo, ove sono avvenuti accordi locali meramente ufficiosi, mentre si studieranno collegamenti a carattere ufficiale e preciso; 3) collaborazione permanente ai fini di operazioni militari concordate. Si era pensato all’invio di un nostro ufficiale in Francia e viceversa. Ma si è concluso esser più pratica la collaborazione diretta dei due elementi. Siccome la R. 2 confina con noi da Ventimiglia al Monte Tabor, è stato necessario suddividerla in due sottozone: alpina l’una (nord) marittima l’altra (sud). Per ogni sottozona un delegato nostro ed uno francese stabiliranno una collaborazione a carattere permanente, onde studiare quali azioni militari coordinate si possano eseguire nel comune interesse.
Per quanto riguarda la zona nord il delegato francese è già stato designato ed ha raggiunto il comando del III Settore» <5.
Per dare un carattere ufficiale fu concordata la seguente comunicazione radio: «Fra il Comitato di Liberazione Nazionale Italiano e le F.F.I. si sono raggiunti concreti accordi ufficiali, sulla base del riconoscimento della identità di intenti nella lotta per la liberazione dai tedeschi e per la instaurazione delle libertà democratiche» <6.
Qui finisce la narrazione contenuta nel documento citato, e già altrimenti nota; racconta poi Livio Bianco <7 che il 30 maggio successivo, per iniziativa del cap. Lippmann, un avvocato lorenese amico dell’Italia, destinato a cadere per mano dei tedeschi, un nuovo convegno avvenne a Saretto, al fine di suggellare la collaborazione; convegno che si chiuse con un importante documento sottoscritto dal capo della II Regione francese Max Jouvenal e dallo stesso Bianco, commissario politico del II Settore; alcuni punti dell’accordo sono fondamentali per comprendere lo spirito della rinnovata intesa:
« ... entre les peuples français et italien il n’y a aucune raison de ressentiment et de heurt pour le recent passé politique et militaire, qui engage la responsabilité des respectifs gouvernements, et non pas celle de ces mêmes peuples, tous les deux victimes de régimes d’oppression et de corruption;
... Affirment la pleine solidarité et fraternité franco-italienne dans la lutte contre le fascisme et le nazisme et contre toutes Jes forces de la réaction, comme nécessaire phase préliminaire de l’instauration des libertés démocratiques et de la justice sociale, dans une libre communauté européenne;
... S’accordent pour engager les forces des respectives organisations dans la poursuite des buts comme ci-dessus definis, dans un esprit de pleine entente et sur un plan de réconstruction européenne» <8.
Una dichiarazione supplementare proposta da Livio Bianco si concludeva con queste parole:
«D’ores et déjà est prévue une étroite collaboration entre les respectives forces de la résistance dans la phase insurrectionnelle qui devra assurer la conquête des libertés démocratiques» <9.
Animato da questo spirito il piano di collaborazione divenne concreto: «Sulle montagne e nelle valli del Cuneese, era un lembo della nuova Europa che emergeva dalle torbide acque dell’oppressione nazifascista». <10
La naturale identificazione della Resistenza francese col generale De Gaulle che volle esclusivamente rappresentare l’antica tradizione nazionalista della Francia, i cui accesi spiriti egli si apprestava a restaurare, non tardò, dopo la liberazione di Parigi e l’arrivo del generale in patria nell’agosto 1944, a far sì che questi accordi, pur conservando il loro valore ideale, venissero a perdere gran parte della loro forza concreta, soprattutto perchè dopo l’agosto 1944 nei rapporti con la Francia si inserirono quelli assai più complessi e determinanti con i Comandi Anglo-americani.
Perciò il 15 novembre con una deliberazione del CVL, il cui documento porta la firma autografa di Maurizio, il dott. Eugenio Dugoni, rappresentante del Comando Militare del Piemonte, che già aveva partecipato alla fine di agosto 1944 ad una missione preliminare in Savoia allo scopo di prendere contatti col Maquis <12, riceve il mandato di mettersi in rapporto con le Organizzazioni Speciali Alleate (Special Force n. 1 e O.S.S.) e collaborare con esse; lo stesso mandato gli è affidato per quanto riguarda le autorità locali francesi, non appena possano essere stabiliti con esse rapporti normali.
[...] È noto che fra i problemi che rendevano irte di difficoltà le relazioni con la Francia, due in particolare premevano: la questione valdostana e il trattamento di tutti i partigiani italiani sconfinati in seguito a rastrellamento; sia che fossero tenuti in campo di concentramento, sia che fossero ammessi al lavoro in territorio francese.
Per facilitare i rapporti fra il Governo di Roma e la Francia e quindi affrettare la soluzione dei molti problemi contingenti, era stato nominato quale ufficiale di collegamento presso il Ministero della Guerra italiana il cap. Roger Guirche, che avrebbe dovuto fare in modo che il Governo francese riconoscesse il Dugoni quale delegato del CVL nella zona sud-est della Francia, perchè costui, che circolava coperto da un documento dell’O.S.S., fosse posto in condizioni di collaborare con le autorità militari francesi e con le speciali Missioni Militari Anglo-americane, al fine di provvedere al riarmo, all’assistenza, all’addestramento di reparti di Volontari della libertà, passati temporaneamente al di là delle Alpi.
In quel tardo autunno 1944 i problemi organizzativi della Resistenza italiana erano resi più difficili dal fatto che gli Alleati non avevano ancora concesso il riconoscimento ufficiale al C.L.N.A.I. e al suo Comando Militare, il CVL, cosa che, come è noto, si effettuò il 7 dicembre 1944 con i Protocolli di Roma firmati dal generale inglese Maitland Wilson, comandante Supremo Alleato del teatro operazioni Mediterraneo e dai componenti la Missione Sud: Ferruccio Parri, Alfredo Pizzoni, Giancarlo Pajetta ed Edgardo Sogno.
[NOTE]
1 Archivio C.L.N.A.I., documento n. 27, s.d., non firmato.
2 Vedi nota 1.
3 Costanzo Picco.
4 Vedi nota 1.
5 Vedi nota 1.
5 Vedi nota 1.
7 Livio BIANCO, Guerra partigiana, Einaudi, Torino, 1954.
8 L. Bianco, op. cit., pag. 77.
9 L. Bianco, op. cit., pag. 78.
10 L. Bianco, op. cit., pag. 79.
11 Archivio C.L.N.A.I., doc. 10 - XXI.
12 Archivio C.L.N.A.I., doc. Personale C.L.N.A.I. a firma II Delegato del C.G.A.I. in Svizzera
Bianca Ceva, Le trattative della delegazione del CLNAI con la Resistenza francese (dicembre 1944) sulla base dei documenti conservati nell'Archivio dell'Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia [Testo della comunicazione presentata al Convegno su «Forme e metodi dell’occupazione nazista in Italia» organizzato dall’Amministrazione provinciale di Roma (23-24 ottobre 1964)] in  Italia contemporanea (già Il Movimento di liberazione in Italia dal 1949 al 1973), n° 75, 1964, Rete Parri

Al termine della guerra iniziò, però, a emergere da parte francese la volontà di annettere la Valle Roja: l’Italia, responsabile del conflitto, era un paese sconfitto e quindi avrebbe dovuto soddisfare quelle modifiche territoriali considerate irrinunciabili dalla Francia per la sicurezza dei propri confini. A ciò si aggiungevano altri tre elementi: il primo riguardava il prestigio gollista teso a far pagare all’Italia «la pugnalata alla schiena» (ovvero l’aggressione) che aveva scavato un solco piuttosto profondo dai due paesi.
Il secondo affondava le proprie ragioni nel quadro della politica internazionale che vedeva la Francia - questa la posizione di De Gaulle - circondata dall’ostilità degli anglo-americani, che miravano a disfarne l’impero coloniale, e inserita in uno schieramento occidentale non sufficientemente coeso e deciso per fronteggiare la minaccia sovietica.
Il terzo verteva invece sul piano economico, con l’intenzione francese di sottrarre all’Italia rilevanti risorse industriali che nel caso della Valle Roja erano rappresentate dalle centrali idroelettriche.
L’Italia, come vedremo in seguito, aveva dal canto suo poche e flebili motivazioni per opporsi nelle sedi istituzionali a una Francia così determinata.
Enrico Miletto, «L’italianissima valle». L’annessione di Briga e Tenda alla Francia (1945-1947) in (a cura di) Francesco Panero, Le comunità alpine dell'arco occidentale: culture, insediamenti, antropologia storica, Atti del Convegno «Le comunità dell’arco alpino occidentale: culture, strutture socio-economiche, insediamenti, antropologia storica» (Torino e La Morra 27 e 28 aprile 2018 - CISIM e Università di Torino), Centro Internazionale di Studi sugli Insediamenti Medievali (CISIM), Cherasco, 2019

[n.d.r.: ma i problemi tra partigiani italiani e francesi insorsero subito, ancor prima che le alte sfere golliste avanzassero o facessero intendere le loro richieste di annessione di territori italiani: in tale senso risulta significativa la relazione di un comandante partigiano di Giustizia e Libertà che si pubblica in stralcio qui di seguito a conclusione di questo articolo; cui fa seguito la chiusura dell'articolo di Bianca Ceva, che aggiunge altri pesanti aspetti dell'atteggiamento francese verso la Resistenza italiana]

FORMAZIONI "GIUSTIZIA E LIBERTÀ"
II DIVISIONE ALPINA
COMANDO III SETTORE - BRIGATA VALLE MAIRA
"R. BLANCHI DI ROASCIO". "GIUSTIZIA E LIBERTÀ"
Sede, 14 settembre 1944
AL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE PER IL PIEMONTE - SEDE
Relazione sul trattamento riservato dai francesi agli italiani profughi in Francia.
ALLEGATO: Copia del memorandum presentato alle FFI.
II sottoscritto Aurelio, Commissario politico della Brigata "Val Maira della II Divisione Alpina "GIUSTIZIA E LIBERTÀ", inviato in Francia dal proprio Comandante di Divisione in missione speciale per prendere collegamento e accordi con i Comandi Alleati e i Comandi delle Forze Francesi dell'interno (FFI), doveva constatare, colà giunto, alcuni gravi fatti commessi a danno dei patrioti e dei civili italiani, profughi in quel paese in seguito allo sbandamento di alcune valli sotto la preponderante pressione germanica. Ecco una minuta esposizione di quanto egli potè accertare:
Non appena oltrepassato il confine nella zona del Passo San Veran, che mette in comunicazione la Valle Varaita con la Francia, egli e la sua guida furono fermati da due elementi delle FFI, muniti di bracciale di riconoscimento, i quali affermarono di aver ricevuto preciso ordine dal comandante il distretto Guillestre - Queyras - Vars di aprire il fuoco senza preavviso di sorta su qualunque individuo, partigiano o civile non importa, che tentasse di passare la frontiera in direzione della Francia, e che soltanto per il fatto che il sottoscritto era munito di bracciale tricolore, che per la lontananza non avevano distinto se italiano o francese, non avevano aperto il fuoco.
Stupefatto per quest'ordine di cui nessuno mai aveva avvertito i Comandi italiani, il sottoscritto si recava al primo comando delle FFI della zona, precisamente al villaggio di San Veran, dove gli veniva confermata non solo l'esistenza di tale ordine, ma pure di un secondo, secondo cui le FFI dovevano disarmare ogni italiano che si presentasse nella zona e internarlo in fortezza (esattamente nel castello-prigione di Mont-Dauphin situato a 5 chilometri da Guillestre). Egli si recava allora immediatamente a Guillestre, sede del comando FFI della zona Guillestre-Queyras-Vars e di alcuni comandi alleati.
Munito delle credenziali consegnategli dal proprio comandante, che gli permettevano di stringere come rompere accordi con le FFI, egli veniva accolto molto freddamente dal tenente George, comandante la zona, e fu grazie se costui si decise, dietro richiesta, di offrirgli ospitalità.
Interrogato il suddetto ten. George, chi fosse ad aver emanato gli ordini suesposti, egli, con tono violento e sprezzante, caratteristico della boriosa e megalomane mentalità del borghese francese, diceva di averli emanati egli stesso, di assumersene la responsabilità e di avere l'approvazione del proprio generale. Richiesto poi del motivo dell'emanazione di tali ordini le sue parole furono esattamente le seguenti: "Car tous ces italiens viennent à immerder le sol de nôtre Patrie!"
Superato il primo impulso di riempirgli il volto di schiaffi, volendo il sottoscritto evitare incidenti troppo clamorosi essendo egli in missione ufficiale, credette opportuno limitarsi a rifiutare l'ospitalità offerta dalle FFI a lui e alla sua guida, gettando sul viso del tenente George i suoi buoni alberghieri, a ricordare in termini molto recisi, ma pur sempre corretti, l'esistenza di accordi di mutua assistenza fra le FFI e i partigiani italiani, di rinfacciargli l'ospitalità offerta a centinai di profughi francesi nel giugno c.a. nei migliori alberghi della Valle Stura e della Valle Maira, a rendergli ufficialmente noto che dal suo ritorno in Italia, analoghi provvedimenti sarebbero stati presi contro tutti i francesi ospiti delle nostre formazioni, e alle nostre pattuglie di confine sarebbe stato dato ordine di aprire il fuoco contro tutti gli sconfinanti francesi in Italia.
A questo punto il Maggiore inglese Hamilton Cross, che assisteva alla discussione, richiese perché ancora i nostri feriti che erano attesi dalle loro ambulanze, non fossero ancora giunti dall'Italia. Il sottoscritto credette bene di rispondere (esprimendo effettivamente l'opinione generale) che noi preferivamo far morire i nostri feriti sulle rocce delle nostre montagne per una pallottola tedesca che farli vivere in Francia, vista la mentalità delle FFI.
Il Tenente George, frattanto, che evidentemente aveva compreso di aver fatto un passo falso, richiese al sottoscritto se fosse pronto ad assumersi la responsabilità di quanto affermava e se fosse pronto a sostenerlo davanti al generale comandante la zone delle Hautes Alpes.
Il sottoscritto accettô tutte le responsabilità e si fece introdurre presso il generale, cui consegnò il memorandum in calce allegato. Il generale, molto conciliante, e soprattutto più educato del suo dipendente ten. George, pretese che quest'ultimo porgesse ufficialmente le sue scuse al sottoscritto per l'espressioni usate verso l'Italia, e cercò di spiegare a suo modo il motivo degli ordini emanati dal suo dipendente.
A giustificazione produsse:
1°) Motivi di sicurezza della frontiera, in seguito alla presenza di elementi tedeschi e fascisti su taluni valichi, che un'infiltrazione insieme ai profughi italiani di spie nazifasciste, essendo la zona percorsa da importanti formazioni alleate.
Di fronte a questo stato di cose, per salvaguardare il nostro prestigio, il sottoscritto rimase così inteso col Comando FFI.
1) Per un tratto di frontiera pari a quella in precedenza stabilita dai francesi anche da parte nostra si sarebbe aperto il fuoco contro tutti gli sconfinanti, perché anche per noi sussiste il pericolo di infiltrazioni germaniche dalla zona dei paesi e non solo per i francesi.
2) II transito attraverso la zona di confine è permesso in appositi corridoi determinati sulla carta topografica e soltanto per persone autorizzate, o per gruppi di patrioti guidati dai loro ufficiali, che preavvisino del loro passaggio e abbiano modo di farsi riconoscere.
3) Un rappresentante nostro verrà inviato presso il Comando francese, onde poter prendere in esame il caso dei partigiani italiani internati, e, sotto la sua responsabilità, far rilasciare e riarmare coloro che egli riconosca come appartenenti alle nostre formazioni e che desiderino rientrare in Italia.
La richiesta di questo rappresentante verrà fatta dai magg. Hamilton Cross incaricato per gli affari riguardanti l'Italia, in modo da non dover chiedere il gradimento delle FFI.
Il generale presentò inoltre le sue scuse per non aver avvertito le nostre formazioni degli ordini impartiti di aprire il fuoco sulla linea di confine, mentre, dianzi, alla stessa domanda il tenente George aveva risposto che i francesi avevano ben altro da fare che preoccuparsi di avvertire degli italiani.
In questi termini l'incidente fu chiuso: sussiste però il fatto di una profonda ostilità dell'opinione pubblica, in particolare delle FFI nei riguardi degli italiani, su cui non si esita a gettar il discredito sino a considerare dei paurosi fuggiaschi quei patrioti che sono stati costretti a sconfinare solo dopo aver sostenuto per giorni e settimane l'urto di forze nemiche enormemente superiori e di aver esaurito sin l'ultima cartuccia.
Resta il fatto che gli internati vengono trattati come comuni prigionieri, sfilano per il paese sotto scorta armata e vengono utilizzati in lavori servili a vantaggio delle FFI [...]

Quanto sia stata aspra l'ostilità dei francesi contro i nostri rappresentanti, lo prova un episodio che avvenne nella seconda metà di dicembre 1944, durante il ritorno della missione italiana, quando all’aeroporto del Bourget Ferruccio Parri si trovò accolto da un reparto schierato della polizia francese, che lo minacciava d’arresto se fosse sceso dall’apparecchio.
Una volta di più apparve chiaro quanto grave e triste fosse per gli uomini della Resistenza il compito di dissipare quei rancori che la dichiarazione di guerra alla Francia il 10 giugno 1940 aveva addensato non solo contro il governo fascista, ma contro tutti gli italiani.
Bianca Ceva, art. cit.

domenica 30 gennaio 2022

Tutti uniti attorno al democristiano dissidente Silvio Milazzo


Proprio in occasione dell’inaugurazione del nuovo Palazzo di Giustizia di Palermo, il 2 marzo 1958, Giuseppe Togni, ministro dei Lavori pubblici, teneva così un comizio, dal tema "La Democrazia cristiana risponde ai suoi avversari", dove precisava che, in merito al risanamento dei quattro mandamenti, presto sarebbero stati stanziati 10 miliardi da parte del governo e 10 dalla Regione. Le sue dichiarazioni servivano, in primo luogo, ad attenuare l’impressione sconfortante suscitata dal fallimento della Legge speciale e, in vista delle elezioni politiche, più che altro ad avere un effetto psicologico sulla cittadinanza. <190
L’inizio della campagna elettorale richiedeva la mobilitazione di tutti gli iscritti della DC. Dalla caduta di De Gasperi, infatti, cinque anni difficili avevano caratterizzato la legislatura, a causa delle ripetute crisi di governo, dell’instabilità e dell’incertezza della situazione parlamentare. <191 Un decreto del presidente della Regione, in Sicilia, apriva la campagna suscitando però non poche perplessità: l’ex sindaco Cusenza, un otorinolaringoiatra, veniva nominato alla presidenza della Sicilcassa in sostituzione di Restivo, dimesso perché candidato alla Camera. <192 Era il frutto di un evidente compromesso elettorale, perché la designazione del suocero di Gioia arrivava da Piazza del Gesù come merce di scambio, visto che anche il segretario provinciale si apprestava a candidarsi. A nulla valevano le proteste dei comunisti, che per salvare il nome dell’istituto chiedevano all’ARS l’annullamento della nomina. <193 In attuazione delle norme stabilite dal Consiglio nazionale DC sui candidati al Parlamento, dopo cinque anni Gioia si dimetteva pertanto dalla Segreteria palermitana per far posto a Giuseppe Lo Forte. <194 Nel frattempo non si placavano gli attacchi contro Lima, ritenuto responsabile di aver tenuto vacanti duemila alloggi popolari, negandoli a chi ne aveva diritto, per prometterli in cambio del voto. <195 Il PCI protestava anche per l’invadenza della Chiesa. Nella dichiarazione della CEI, che aveva ribadito la necessità dell’unità dei cattolici per costruire «un argine valido ai gravissimi pericoli» che gravavano sul Paese, rilevava infatti una minaccia alla laicità dello Stato. Nel timore che le elezioni venissero trasformate in una sorta di censimento religioso, contro l’intromissione dei vescovi protestavano pure Il Mondo, che parlava di «assalto allo Stato» da parte dei ministri del culto, e L’Espresso, che indirizzava al presidente della Repubblica una lettera aperta di protesta. <196
Già incandescente, la situazione precipitava in occasione della celebrazione dei dodici anni dell’Autonomia, il 15 maggio 1958, quando Fanfani teneva un comizio a Palermo. La scelta dell’oratore scatenava le polemiche perché il segretario della DC era ritenuto il principale responsabile degli ostacoli che da Roma si erano frapposti alla Legge speciale. Il senso di fastidio era avvertibile già alla vigilia, perché Lima aveva fatto allestire una grande parata con i preparativi durati più di una settimana. Di proporzioni gigantesche, il palco era stato addobbato con metri di stoffa e velluti, e lungo l’impalcatura correva un impianto d’illuminazione a formare a grandi lettere il nome di Fanfani. Il tutto era stato preceduto dalla distribuzione di quintali di manifestini, alcuni dei quali lanciati da un aereo appositamente noleggiato dalla Segreteria provinciale. Accolto da tale contesto celebrativo, quando iniziava il suo discorso Fanfani non si aspettava dunque di essere contestato: nel momento in cui invitava gli ascoltatori a ringraziare la DC, infatti, alcuni militanti comunisti confusi tra la folla iniziavano a fischiarlo, finché, persa la calma, il segretario invitava il questore a ristabilire l’ordine accusandolo platealmente di avere la «spina dorsale di pastafrolla». Chiudeva il suo discorso maledicendo tutti coloro che il 25 maggio non avrebbero votato per la DC. Le critiche, verso un tale atteggiamento autoritario, erano unanimi: "il Giornale di Sicilia" lanciava comunque un appello perché la libertà di dissenso non degenerasse in provocazione e sopraffazione. <197 Poco dopo Domenico Modugno, noto simpatizzante socialista, citava tuttavia in giudizio la DC, perché, invitando a "votare…sì, sì / votare… per la DC", aveva sfruttato senza autorizzazione la sua celebre "Nel blu dipinto di blu". <198
Alle elezioni la DC guidava l’area centrista alla maggioranza assoluta dei voti. Rispetto al 1953 recuperava il 2,2% alla Camera e l’1,3% al Senato, guadagnando dieci seggi in entrambi i rami del Parlamento. Smentendo le previsioni della vigilia, che sull’onda della rivoluzione ungherese del 1956 ritenevano probabile un crollo dei comunisti, anche il PCI e il PSI aumentavano i consensi. L’incremento dei liberali era più contenuto rispetto alle previsioni, mentre il PSDI e il PRI mantenevano invariate le posizioni. Soltanto le destre subivano pertanto un arretramento, sia il MSI che i monarchici, che oltretutto si erano presentati divisi in due movimenti (PNM e PMP). <199 I dati nazionali venivano confermati a Palermo, dove la DC guadagnava 31mila voti danneggiando le destre - 18mila in meno al PNM e 13mila al MSI - mentre i due partiti di sinistra ne guadagnavano 16mila. Gioia veniva eletto alla Camera con 82.492 voti, quarto nella lista democristiana dopo Mattarella (120.392), Restivo (102.550) e Aldisio (89.310). Con 47mila voti, veniva eletto anche Barbaccia. <200
Il giorno prima del voto, improvvisamente, era venuto a mancare Luciano Maugeri, il sindaco settantenne. Secondo il PCI, la scelta del nuovo primo cittadino avrebbe pertanto dovuto tenere conto dei risultati elettorali. Scongiurando le «solite manovrette di corridoio», i comunisti si auguravano che il Comune potesse rimettersi sulla strada della buona amministrazione grazie alla loro collaborazione. Senza nemmeno consultare gli altri gruppi consiliari e zittendo gli oppositori interni che proponevano una soluzione più aperta e condivisa, la DC sosteneva invece l’elezione di Lima. Non solo appariva a molti acerbo e sprovveduto per il compito, ma la sua stessa attività a capo dell’assessorato ai LL.PP. non era stata esente da critiche. Queste le opinioni raccolte da "L’Ora" intorno alla sua candidatura: per il liberale Nicola Sanguigno, assessore all’Igiene, non avrebbe ottenuto il consenso degli stessi democristiani poiché, data la particolare gravità della situazione, serviva un uomo di esperienza; rammaricandosi per la mancata consultazione, Giuseppe Ingrassia, capogruppo del PNM, affermava che il sindaco della sesta città italiana non poteva essere un cittadino qualsiasi, ma una personalità conosciuta e con un passato di notorietà politica e professionale; il socialista Purpura parlava dell’ennesima prova, in seno alla DC, di «un inguaribile spirito di faziosità intorno a qualsiasi considerazione di interesse cittadino»; Ferretti aggiungeva infine che la DC voleva nominare il sindaco tramite «i soliti colpi di maggioranza», quando un riesame dei fallimenti precedenti avrebbe dovuto indurre a nuove scelte. Al di là delle riserve legate alla sua età, la candidatura di Lima poneva soprattutto la questione di come la corrente fanfaniana, carica dopo carica, si stesse ormai impossessando di tutte le leve del potere cittadino. <201 A Sala delle Lapidi la candidatura superava comunque abbondantemente i 31 voti necessari alla maggioranza assoluta: Lima veniva così proclamato la sera del 7 giugno 1958. Condividendo le incertezze di quanti vedevano in lui un sindaco privo di esperienza - era il più giovane capo di un’amministrazione capoluogo di provincia in tutta Italia - nell’accettare la carica si limitava a dire che avrebbe fatto del suo meglio. <202 La sua prima giunta era di centrodestra, sostenuta da una maggioranza composta da 27 democristiani, 7 monarchici (4 PNM, 3 PMP), 2 socialdemocratici e 1 liberale. Per la presenza del monarchico Antonino Sorci, la conferma di Ciancimino e l’ingresso di Giuseppe Trapani e Giuseppe Brandaleone, la presenza della mafia, a Palazzo delle Aquile, rimaneva pressoché inalterata. <203
All’estate del 1958 la Sicilia arrivava carica di tensione anche perché, caduto a Roma il monocolore DC retto da Adone Zoli, il 1° luglio Fanfani aveva presentato un gabinetto nel quale la componente siciliana aveva subito un forte ridimensionamento. L’unico ministro era Giardina (per la Riforma della pubblica amministrazione, peraltro senza portafoglio), mentre erano assenti esponenti come Mattarella e Scelba, che in qualità di leaders locali avevano contribuito al successo democristiano. <204 Considerato che la rappresentanza siciliana era la più numerosa in Parlamento (22 senatori e 57 deputati), a molti sembrava inaccettabile. Secondo Mario Ovazza, capogruppo comunista all’ARS, era preoccupante l’orientamento antisiciliano ripetutamente manifestato da Fanfani. Il socialista Michele Russo parlava di un’accentuata settentrionalizzazione del governo, mentre l’indipendente di sinistra Paolo D’Antoni lamentava che l’isola era ormai «una colonia a disposizione delle regioni del Nord». <205 La convinzione che fanfanismo e poteri forti del capitalismo italiano si apprestavano a restringere gli spazi delle libertà e delle competenze attribuite all’Autonomia era dunque largamente diffusa. Gli attacchi allo Statuto erano iniziati un anno prima con la soppressione di uno dei pilastri dell’edificio autonomista, l’Alta corte per la Sicilia, assorbita dalla Corte costituzionale con la sentenza 9 marzo 1957, n. 38. <206 Quando La Loggia si dichiarava vicino ai monopoli del Nord si giungeva così alla clamorosa rottura tra la Sicindustria, guidata da Domenico La Cavera, e Confindustria. <207 All’interno della DC non vi era spazio per gli oppositori, tanto che Fanfani incitava il presidente della Regione ad andare avanti con o senza voti. Preso alla lettera il suggerimento, La Loggia rifiutava così di dimettersi, il 2 agosto, nonostante il bilancio veniva bocciato dall’Assemblea. Con spavalderia, sfidava anzi l’aula ripresentando lo stesso documento la settimana successiva. In un’incandescente seduta, a Palazzo dei Normanni, le sinistre dichiaravano illegittimo il governo, dando inizio a un ostruzionismo che si sarebbe protratto per due mesi. Per la sua ostinazione a restare a tutti i costi, quello di La Loggia veniva ritenuto un «ostruzionismo alla rovescia». <208 Sfiancato dalla dura opposizione parlamentare, rassegnava le dimissioni dopo due mesi esatti, il 2 ottobre. Piazza del Gesù aggiungeva ulteriore benzina sul fuoco quando, in contrasto con la volontà del gruppo parlamentare della DC siciliana, imponeva come candidato Barbaro Lo Giudice, un fanfaniano suggerito da Gullotti. <209 Questa ennesima forzatura, di fatto, consegnava il candidato ai franchi tiratori. La mattina del 23 ottobre, gli italiani apprendevano infatti che in Sicilia la DC era stata estromessa dal governo regionale. <210 L’avvenimento era senza precedenti, perché, anomalia dei tradizionali valori politici, un inedito patto autonomista dava corpo a una maggioranza composta da socialisti e comunisti, da un lato, e missini e monarchici, dall’altro, tutti uniti attorno al democristiano dissidente Silvio Milazzo. <211
Alla lettura dei risultati, se nei banchi democristiani si rimaneva in sbigottito silenzio, le opposizioni si levavano al grido: «Viva Milazzo! Viva la Sicilia! Viva l’autonomia!». Per i socialisti e i comunisti era la vittoria del Parlamento siciliano contro le intimidazioni, le coercizioni esterne e la prepotenza dei fanfaniani. Per il gruppo democristiano, la sconfitta era invece talmente cocente che nessuno era in grado di esprimere un giudizio sulla vicenda. Poiché la congiuntura assembleare aveva fatto confluire su Milazzo i suffragi di due schieramenti contrapposti, fin da subito la Direzione democristiana sosteneva che quel «ponte fra le estreme ali assembleari» avrebbe avuto una durata effimera. <212 Convocato Milazzo, pena l’esclusione dal partito, il segretario gli intimava le dimissioni. Era però l’ennesimo atto di prevaricazione da parte della Segreteria nazionale, tanto che il calatino opponeva un coraggioso rifiuto e tornava a Palermo intenzionato a formare un governo su base assembleare. Nominata la giunta con i voti di PCI, PSI, PNM, MSI e democristiani dissidenti, già il 31 ottobre Fanfani annotava nei suoi "Diari" che la DC avrebbe fatto di tutto per «rendere la vita impossibile ad un simile governo». <213
Sul settimanale diocesano palermitano il cardinale Ernesto Ruffini non tardava a far apparire la sua condanna. Poiché la giunta era nata da un’ibrida coalizione di ideologie e interessi, gli esponenti DC che ne avevano favorito la costituzione avevano assunto comportamenti «politicamente e moralmente gravi». Il «console di Dio», figura forte e discussa della Chiesa siciliana, definiva quegli uomini «pavidi e schizzinosi», avendo occultato le proprie responsabilità nel segreto dell’urna. <214 Gli inviati dei principali giornali nazionali si precipitavano così a Palermo, e "L’Espresso" titolava: "Roma ha paura di Caltagirone". <215 La situazione aveva ripercussioni anche al Consiglio nazionale della DC (15-18 novembre 1958), dove, giustificando il suo comportamento, Fanfani sosteneva apertamente di non aver sbagliato nulla nei confronti della Sicilia. Per lui i transfughi erano mossi unicamente da interessi personalistici, perciò era doverosa la sua decisione di espellere chi aveva accettato di entrare in un governo appoggiato dai comunisti. La sua autodifesa non veniva tuttavia condivisa da parecchi colleghi: Scelba non condivideva nulla, rimproverando al segretario d’aver messo in soffitta l’alleanza con i liberali per inseguire il PSI e aver quindi provocato la crisi del partito nell’isola; Pella e Andreotti denunciavano la mancanza di fraternità interna e di unità d’intenti, mentre Colombo esprimeva il timore che la frana potesse allargarsi alle altre regioni; il più critico era comunque Roberto Lucifredi, che senza mezzi termini attaccava il malcostume dei «gerarchetti» fanfaniani. <216
Il primo effetto dell’operazione Milazzo era perciò uno scossone alla posizione del segretario e del suo apparato. Se il caso avrebbe appassionato l’opinione pubblica per un anno e mezzo, conclusa l’esperienza e placatosi il fervore polemico che ne avrebbe accompagnato l’«epilogo non certo edificante», molto poco però si sarebbe discusso e ancor meno scritto negli anni successivi. Solamente alla fine degli anni Settanta un convegno organizzato dall’Istituto socialista di studi storici avrebbe affrontato il tema col necessario rigore critico e documentario. <217 Un primo bilancio era stato tracciato da Macaluso, per il quale con l’esperienza milazziana l’Autonomia aveva vissuto i suoi momenti più esaltanti: il merito principale dell’operazione, infatti, era quello di aver risvegliato nell’animo dei siciliani «uno spirito di fierezza e di ribellione alla prepotenza esterna». Momento di rottura della preclusione anticomunista, il milazzismo aveva inoltre rappresentato il più serio tentativo di creare un fronte, seppur composito ed eterogeneo, contro il malgoverno democristiano. <218 Su questa scia interpretativa si inseriva la ricostruzione di Alberto Spampinato, giornalista de "L’Ora", che più avanti avrebbe ripercorso le tappe della vicenda arricchendo la narrazione con l’utilizzo di fonti allora inedite quali le testimonianze di Ovazza e di Francesco Pignatone, segretario dell’USCS. <219 Un taglio diverso avrebbero avuto gli scritti di Pasquale Hamel, storico di formazione cattolica, che non circoscrivendo l’analisi in un ambito esclusivamente regionale ha evidenziato i nessi con la situazione nazionale. <220 Il missino Dino Grammatico, assessore all’Agricoltura del primo governo Milazzo, avrebbe infine considerato l’operazione come una lezione alla DC, una clamorosa protesta contro la partitocrazia che Fanfani aveva legalizzato attraverso l’occupazione sistematica delle istituzioni. <221
[NOTE]
190 ACS, MI Gab. 1957-1960, Attività dei partiti, b. 55, f. Palermo, Telegramma del prefetto, 2 marzo 1958.
191 Democrazia cristiana - SPES, 5 anni difficili, SPES, Roma 1958.
192 Sulla Cassa di risparmio, la cui storia si è chiusa nel 1997 con la messa in liquidazione, cfr. Dino Grammatico, Sicilcassa: una morte annunciata. La svendita del sistema creditizio siciliano e la crisi delle banche in Italia, Sellerio, Palermo 1998.
193 ARS, Leg. III, Resoconti parlamentari, interrogazione n. 1403, 25 marzo 1958, pp. 1538-1539.
194 Giuseppe Lo Forte segretario provinciale della DC, in «Sicilia del Popolo», 25 aprile 1958.
195 Lanciata una sfida ai DC Lima e Cacopardo, in «La Voce della Sicilia», 5 maggio 1958.
196 E. Scalfari, Chi comanda in Italia?, in «L’Espresso»; L’assalto allo Stato, in «Il Mondo», 11-13 maggio 1958.
197 L’on. Fanfani segretario politico della DC ha pronunziato l’annunciato discorso a Palermo, in «Giornale di Sicilia»; Mario Farinella, Clamorosa protesta di Palermo durante il comizio di Fanfani, in «L’Ora», 16 maggio 1958.
198 Ugo Ugolini, Modugno querela la DC, in «L’Ora», 21 maggio 1958. La DC parodiava così la canzone vincitrice del Festival di Sanremo: «Penso che un tempo così / non ritorni mai più / Se non votiamo lo scudo / dipinto nel blu / Che tutto il bene che abbiamo / verrebbe abolito / Da chi di falce e martello / si è sempre servito... Votare… sì, sì… / Votare… per la DC / lo scudo dipinto nel blu / E non ascoltare Palmiro che lo devi votare anche tu! / dice: Ti dono la luna e anche più! / Mentre al mondo pian piano / aiuta a donar schiavitù / E con la lusinga vorrebbe / il tuo voto per sé…Votare… sì, sì… / Votare… per la DC / lo scudo dipinto nel blu / lo devi votare anche tu!».
199 Sulle elezioni cfr. P. Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea. 1830-1968, il Mulino, Bologna 1994, p. 518. Per le tabelle cfr. M. S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 433.
200 ACS, MI Gab. 1957-1960, Elezioni politiche 1958, b. 415, f. voti di preferenza.
201 Lima sindaco? È un po’ troppo…, in «L’Ora», 6 giugno 1958.
202 ASMPa, DCC, Elezione del sindaco, 7 giugno 1958.
203 O. Cancila, Palermo, cit., p. 292.
204 F. Malgeri, Storia della Democrazia cristiana, cit., III, pp. 146-153.
205 Delusione e disappunto negli ambienti regionali, in «L’Ora», 2 luglio 1958.
206 Sull’Alta corte e sui difficili rapporti Stato-Regione cfr. R. Menighetti - F. Nicastro, Franco Restivo, cit., pp. 195-241.
207 Sulla linea confindustriale al Sud negli anni Cinquanta, in generale, cfr. Anna Lucia Denitto, Confindustria e Mezzogiorno (1950-1958), Congedo, Lecce 2001; sul caso Sicindustria cfr. Nino Amadore, L’eretico. Mimì La Cavera un liberale contro la razza padrona, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.
208 V. Nisticò, Diabolicum perseverare, in «L’Ora», 1° ottobre 1958.
209 C. Pumilia, La Sicilia al tempo della Democrazia cristiana, cit., p. 38.
210 ARS, Leg. III, Resoconti parlamentari, 23 ottobre 1958, pp. 4863-4873.
211 Fin da giovane attivista del Partito popolare di Caltagirone, Milazzo aveva frequentato il liceo con Scelba. Durante il fascismo era sfuggito all’esilio andando a presiedere la cassa di San Giacomo, una banca di credito agrario fondata da don Sturzo. Nel 1947 era stato segretario della DC catanese, poi, eletto deputato regionale, era stato assessore ai LL.PP. e all’Agricoltura. Cfr. Felice Chilanti, Chi è Milazzo. Mezzo barone e mezzo villano, Parenti, Firenze 1959.
212 Enzo Passiglia, Sicilia ’58. Nascita e declino del milazzismo e dei cristianosociali, Acropoli, Palermo 2006, pp. 27-30.
213 A. Fanfani, Diari, cit., p. 385.
214 Giuseppe Petralia, Ibrida coalizione nel governo regionale, in «Voce Cattolica», 7 novembre 1958. Sull’anticomunismo di Ruffini cfr. Francesco Michele Stabile, I consoli di Dio. Vescovi e politica in Sicilia, 1953-1963, Sciascia, Caltanissetta 1999, pp. 245 sgg.
215 Manlio Del Bosco, Roma ha paura di Caltagirone, in «L’Espresso», 9 novembre 1958.
216 A. Damilano, Atti e documenti della Democrazia cristiana, cit., I, pp. 968-975; F. Malgeri, Storia della Democrazia cristiana, cit., III, pp. 168-173.
217 Rosario Battaglia - Michela D’Angelo - Santi Fedele (a cura di), Il Milazzismo. La Sicilia nella crisi del centrismo, atti del Convegno organizzato dalla sezione di Messina dell’Istituto socialista di studi storici, Messina, marzo 1979, pp. 99-106.
218 Emanuele Macaluso, I comunisti e la Sicilia, Editori riuniti, Roma 1970, p. 109.
219 Alberto Spampinato, Operazione Milazzo. Cronaca della rivolta siciliana del 1958, Flaccovio, Palermo 1979. Pignatone era deputato alla Camera nelle prime due legislature. Non rieletto nel 1958, per la difficoltà di sopravvivere alla lotta tra Alessi e Volpe nello scudocrociato nisseno, passava all’USCS, di cui diveniva segretario (1959-1963). Tornato nella DC al termine del milazzismo, veniva nominato presidente dell’ESPI. Per i suoi scritti cfr. Nella crisi dell’autonomia siciliana e del cattolicesimo politico. Testi da L’Unione Siciliana (1959-1961), Centro studi A. Cammarata, San Cataldo 1994.
220 Pasquale Hamel, Dalla crisi del centrismo all’esperienza milazzista (1956-1959). Cronaca della terza legislatura dell’Assemblea regionale Siciliana, Vittorietti, Palermo 1978; Da Nazione a Regione. Storia e cronaca dell’autonomia regionale siciliana (1947-67), Sciascia, Caltanissetta 1984.
221 D. Grammatico, La rivolta siciliana del 1958. Il primo governo Milazzo, Sellerio, Palermo 1996.
Vincenzo Cassarà, Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica (1928-1992), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2019

mercoledì 26 gennaio 2022

Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia

Fonte: Wikipedia

Tuttavia le precoci testimonianze sui campi francesi, come Drancy e Compiègne, suscitarono uno scarso interesse nella Francia del dopoguerra, più volta alla ricostruzione che al ricordo dei terribili anni dell’occupazione tedesca. L’attenzione del pubblico era per lo più rivolta ai resoconti dei campi di concentramento in Germania e di sterminio in Polonia, rispetto ai quali i campi francesi rivestivano per il momento un ruolo marginale nel racconto della storia della deportazione. <28 I campi di transito richiamavano infatti alla memoria una sensazione di precarietà ben diversa da quella dei Konzentrationslager dell’Est Europa: si avvertiva cioè un sentimento di futilità nel descrivere delle esperienze che apparivano a posteriori come sopportabili rispetto ai “lieux de cauchemar” conosciuti in seguito <29.
In Italia, diversamente dalla Francia, dove la narrativa resistenziale riusciva a coniugare vittoria e martirio, ricomprendendo vincitori e vinti, fu difficile includere i deportati, anche se partigiani, nelle file dei vincitori, poiché non erano stati tra i fautori attivi della ritrovata libertà <30. Non del tutto invisibile, ma neanche dirompente, fu poi la memoria della specifica sorte toccata agli ebrei, perseguitati e deportati in virtù di ciò che erano e non in funzione della loro appartenenza ad un partito <31, il cui percorso venne dunque compreso attraverso il filtro dell'esperienza dei deportati politici <32. Come ricorda Aline Sierp, oltre all’istituzionalizzazione di alcune ricorrenze che divennero nel dopoguerra commemorazioni pubbliche in memoria della caduta del Fascismo (tra cui il 25 aprile 1945), un’attenzione speciale era rivolta agli anniversari delle stragi compiute dai nazisti in Italia, come le Fosse Ardeatine, Cefalonia, Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto, al fine di sottolineare “il tributo di sangue” pagato dall’Italia <33.
L’interesse degli alti vertici statali e dell’opinione pubblica nei confronti dei campi di concentramento e transito sorti in territorio italiano era invece di tutt’altro tenore. Nel 1955, momento cruciale per le celebrazioni del decennale della Liberazione, Primo Levi si rammaricava dell'indifferenza generale che avvolgeva i deportati razziali, concludendo che fosse ancora “indelicato parlare” dell'esperienza concentrazionaria e dei campi di sterminio <34.
Come ricorda Manuela Consonni, tra il 1944 e il 1950 furono in tutto 38 i titoli dedicati al racconto della persecuzione e della deportazione, tra cui solo 8 di essi provenienti dalla penna di scrittori ebrei <35. Dopo una lunga pausa degli scritti di memorialistica sulla deportazione, si avvertì una ripresa dalla metà degli anni Cinquanta, con l’uscita di "Si fa presto a dire fame" di Piero Caleffi nel 1954, la seconda edizione di "Se questo è un uomo" pubblicata da Einaudi nel 1958, la traduzione italiana del "Diario di Anna Frank" e de "La specie umana" di Robert Antelme.
Anche in Francia, come in Italia, l’associazionismo che raccoglieva le esperienze degli ex deportati era per lo più di sinistra: per questo alcuni sopravvissuti ai campi, come Simone Veil, Robert Waitz o Georges Wellers preferirono restare ai margini delle associazioni marcatamente “partigiane” <36. Come ricordava poi Olivier Lalieu: "L’affirmation d’un destin singulier des Juifs en déportation est donc entravée au nom de l’antifascisme triomphant porté par les communistes ou confiné à des sphères guère visibles au sein de la société française. Mais elle est également contrariée dès 1945 par une tradition républicaine qui répugne à distinguer une partie de la population en fonction de critères
religieux" <37. A questo proposito, lo storico francese ricorda come il Ministère des prisonniers, déportés, rapatriés promosse la diffusione nel 1945 di un poster in cui un lavoratore forzato e un prigioniero di guerra in tenuta a righe si abbracciavano, sotto lo slogan “Il sont unis. Ne le divisez pas” <38.
Per Annette Wieviorka, neppure la comunità ebraica organizzata mise l’accento sulla specificità del genocidio: "Elle vit dans l’ombre portée des années noires, et aspire, comme tout un chacun d’ailleurs au lendemain d’une guerre, au retour à la normale, que l’on se présente à l’image de ce que fut l’avant-guerre. Les commémorations marquent alors le désir de réintégrer la communauté nationale, dont les Juifs de France avaient été exclus par l’occupant nazi et la contre-révolution vichyssoise" <39.
La fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 segnarono una prima svolta nelle politiche della memoria dei due Paesi: al termine della guerra d'Algeria, che aveva contribuito a richiamare gli inquietanti fantasmi del passato recente <40, la V Repubblica veicolava una visione pacificata del secondo conflitto mondiale plasmando la rappresentazione collettiva attraverso l'edificazione di numerose opere, come il Musée du Débarquement de Provence al Mont Faron, il Musée de l'Ordre de la Libération, il Mémorial du Struthof e il Mémorial de la Déportation sur l'Île de la Cité <41. Inoltre, il 18 dicembre 1964, le ceneri di Jean Moulin vennero trasferite al Panthéon: la grande cerimonia organizzata per l'occasione favorì l'identificazione del generale Charles de Gaulle e della nazione intera con l'eroe simbolo della Resistenza <42. Una "Journée nationale de la déportation" venne poi istituita nel 1954, segnando l'ingresso ufficiale della deportazione nell'agenda delle commemorazioni nazionali <43.
È proprio in questo periodo che opere di letteratura, cinema e teatro misero al centro il tema della deportazione: i romanzi di John Hersey "La muraille" pubblicato nel 1952 e "La mort est mon métier" di Robert Merle, sulla figura del comandante di Auschwitz Rudolf Hoess, furono seguiti da "Le Dernier des Justes" di André Schwarz-Bart nel 1959 e la pièce teatrale "Le vicaire di Rolf Hochhuth" nel 1961. Al cinema nel 1957, "Nuit et Brouillard" di Alain Resnais propose le immagini dei campi con il commento e le parole del poeta Jean Cayrol. Inoltre, tra il 1951 e il 1964, in Francia furono pubblicati 62 titoli dedicati alla deportazione: tra le testimonianze più significative è opportuno ricordare il "Journal" di Anne Frank nell’edizione francese del 1950, "La nuit di" Elie Wiesel uscito nel 1957, "Si c’est un homme" di Primo Levi nel 1961, "Aucun de nous ne reviendra" di Charlotte Delbo nel 1965.
Il processo Eichmann del 1961 e quello di Francoforte tra 1963 e il 1965, che vide alla sbarra alcuni dei membri del commando tedesco impiegati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, condussero infine il parlamento francese ad adottare l'imprescrittibilità dei crimini contro l'umanità nel 1964. Più tardi, soprattutto a partire dagli anni '80, grazie anche all'intervento dell'avvocato Serge Klarsfeld e di sua moglie Beate <44, si assistette ad una serie di procedure giudiziarie nei confronti di criminali di guerra e alti funzionari di Vichy che avevano collaborato alla “Soluzione Finale” <45.
In Italia invece ad essere perseguiti attraverso la legge erano stati soltanto alcuni gerarchi militari nazisti, come i responsabili dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, tra cui Herbert Kappler e Albert Kesselring, i cui processi vennero celebrati nell'immediato dopoguerra, e - molto più tardi - quello di Erich Priebke, condotto alla sbarra nel 1995, condannato all'ergastolo e protagonista di molte polemiche anche dopo la sua morte, sopraggiunta l'11 ottobre 2013 <46. Tuttavia, diversamente dal caso francese, l'intervento della giustizia italiana, anche per effetto dell’amnistia Togliatti, riguardò raramente coloro che avevano collaborato con l'occupante nazista: come ricorda Galliano Fogar in merito al processo di Trieste del 1976, il ruolo di tale azione giudiziaria è da ritenersi insufficiente <47. Nel caso ad esempio della Risiera di San Sabba, la musealizzazione del luogo precedette addirittura le indagini giudiziarie.
Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia, vennero invece inaugurati da Léon Poliakov con i volumi "Le bréviaire de la haine" del 1951 e "Le IIIe Reich et le Juifs" del 1959, che assieme a pochi altri studi internazionali, come quello dell’inglese Gerard Reitlinger, e più tardi dell’americano Raul Hilberg, entrarono a far parte di una prima corrente di riflessioni sul tema che all’inizio non tracciava un vero distinguo tra la storia della distruzione degli ebrei europei e la storia del nazionalsocialismo <48.
Soltanto negli anni Settanta si verificò un significativo cambiamento di prospettiva, con il contributo fondamentale di Olga Wormser-Migot sul sistema concentrazionario nazista (1968), ma soprattutto con un rinnovato interesse storiografico sul regime di Vichy e sul collaborazionismo, grazie ai lavori di Henry Rousso con il suo "Vichy, un passé qui ne passe pas" e degli storici americani Stanley Hoffmann, Robert Paxton e Michaël Marrus <49. Il primo tema ad essere posto in evidenza da questa nuova corrente storiografica è “la co-responsabilità del regime di Vichy, e del collaborazionismo dei francesi, e dunque delle istituzioni francesi nella deportazione degli ebrei presenti in Francia e nella Soluzione finale proposta e attuata dal Terzo Reich”, oltre al tema spigoloso dell’antisemitismo francese <50. Nel 1978 uscì inoltre, a cura di Serge Klarsfeld, "Le mémorial de la déportation des Juifs de France", una meticolosa ricostruzione dei convogli partiti dalla Francia, fondata sulle liste conservate presso il CDJC dal 1945 <51.
Per quanto riguarda la storiografia italiana invece, soltanto alla fine degli anni Ottanta - con il cinquantesimo anniversario delle leggi razziali del 1938 - gli storici hanno cominciato ad approfondire le questioni legate alla deportazione razziale e politica, all’antisemitismo in Italia e alle sue implicazioni ideologico-politiche e materiali <52.
Prima di allora vigeva il paradigma universalmente riconosciuto per il quale la legislazione antiebraica in Italia non fosse altro che un’imposizione da parte della Germania hitleriana; un regime, quest’ultimo, ritenuto di gran lunga più sanguinario e “nocivo” rispetto alla dittatura dai tratti “carnevaleschi” di Mussolini <53. Secondo la vulgata, mentre il fascismo aveva rappresentato una “parentesi” nella millenaria storia d’Italia contraddistinta dalla tradizione universalistica latina e cattolica, dall’umanesimo rinascimentale e dal culto della libertà, il nazismo aveva invece rappresentato il “portato” dell’intera storia tedesca, la quale risultava da sempre segnata da esclusivismo etnico-razziale, dall’ostinata volontà di imporre ad ogni costo il proprio primato e da una radicata vocazione illiberale <54.
Un primo segnale di distacco da questa tendenza fu rappresentato dai lavori dell’ex colonnello Massimo Adolfo Vitale e, in seguito, dal giornalista e storico della rivista “Il Ponte” Antonio Spinosa <55. Entrambi dimostrarono un atteggiamento più critico nei confronti della chiesa e della presunta totale solidarietà nei confronti degli aiuti dimostrati agli ebrei.
Non mutava però nel complesso l’assunto che l’antisemitismo fosse un male esterno instillato interamente dalla Germania nazista.
Fu Renzo De Felice, incaricato dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, a dedicarsi alla stesura di un’opera destinata a rimanere per lungo tempo il testo di riferimento sulle persecuzioni antiebraiche in Italia. Il volume "Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo", pubblicato nel 1961, trovò la sua genesi in un periodo storico mutato e più sensibile a certe tematiche: tra le vicende che dettero un impulso alla ripresa di questi studi vi fu il processo Eichmann, l’ascesa dell’estrema destra, con l’appoggio dell’MSI al governo di Fernando Tambroni e gli echi preoccupanti di un risorgere dell’antisemitismo nel paese <56.
Il lavoro di De Felice, che più di recente è stato largamente criticato <57, soprattutto per non aver saputo riconoscere la specificità dell’iniziativa fascista nella persecuzione degli ebrei dopo le leggi del 1938, resta comunque un testo cardine per la storiografia sulla Shoah, che dimostra come con l’apertura dell’era del testimone abbia creato di fatto anche una nuova fase per la ricerca storica.
La fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta segnarono un'ulteriore svolta nell'elaborazione della memoria della Shoah: nel 1979 andò in onda lo sceneggiato "Holocaust" del regista americano Marvin J. Chomsky, trasmesso in Francia da Antenne 2 e in Italia da Rai 1. Fu a partire da quell'anno che scoppiarono alcuni casi mediatici legati al negazionismo, come quello di Robert Faurisson, che costrinsero ad un'urgente riflessione sull'uso e l'abuso della storia a livello pubblico <58.
Il cinema costituì, in tutto questo periodo, un altro potente catalizzatore per rimettere in circolo memorie rimaste in sordina: se in Francia "Le Chagrin et la pitié" (1971) e "Lacombe Lucien" (1974) scandirono le tappe di un confronto più approfondito con les années sombres e il ruolo di Vichy, in Italia invece la deportazione degli ebrei venne affrontata dalla trasposizione cinematografica de "Il giardino dei Finzi Contini" (1970) di Vittorio de Sica e dal controverso "Il portiere di notte" (1973) di Liliana Cavani.
Vi fu anche una significativa ripresa nella pubblicazione di opere di memorialistica: fioriva così un genere, quello che talvolta è stato definito “letteratura concentrazionaria” <59.
“Si scrive di più” - commentano Anna Bravo e Daniele Jalla - “man mano che la distanza dai fatti propone un’urgenza inedita: per opporsi al passare del tempo, fronteggiare in anticipo il momento in cui non ci saranno più testimoni diretti, far conoscere esperienze personali che non possono mai essere interamente rappresentate nel racconto altrui” <60.
Non è quindi cambiato soltanto il rapporto dei sopravvissuti con il ricordo dell’esperienza della deportazione, dalla quale hanno assunto maggiore distacco, ma è mutata anche la disposizione del pubblico all’ascolto dell’eco di quel terribile passato. Tra gli scritti più celebri che ottengono maggior successo in questo periodo figurano in Italia il "Diario di Gusen" di Aldo Carpi, "Le donne di Ravensbrück" di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Buzzone, gli scritti di Giovanni Melodia e le poesie di Lodovico Belgiojoso. Inoltre, nel corso degli anni Ottanta, vengono tradotte in italiano anche le memorie di Jean Améry e di Elie Wiesel, preludio ad una intensissima produzione di testimonianze e letteraria che dura ancora oggi.
[NOTE]
28 R. Poznanski, D. Peschanski, B. Pouvreau, Drancy, un camp en France, Fayard et Ministère de la Défense, Paris, 2015., pp. 242.
29 A. Wieviorka, Déportation et génocide, cit., p. 167.
30 A. Bravo, D. Jalla, La vita offesa: Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, 1988, pp. 23-24.
31 La partecipazione ebraica alla resistenza non ebbe una valenza collettiva, ma fu piuttosto il frutto di scelte individuali. Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2000, pp. 133-134. Si veda anche L. Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, “Rivista mensile di Israel”, 3-4, 1980, pp. 132-146; S. Peli, Resistenza e Shoah, “Passato e Presente”, vol. 70, 2007, pp. 88 sg.
32 Cfr. P. Bertilotti, Contrasti e trasformazioni della memoria dello sterminio in Italia, in M. Flores et al. (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni. vol. II, UTET, Torino, 2010, pp. 72-73.
33 A. Sierp, A. Sierp, History, Memory and Trans-European Identity, Routledge, New York, London, 2014, p. 44. La memoria delle stragi era funzionale alla visione condivisa da molti politici italiani per i quali l’Italia non era stata che una vittima della Germania nazista, e in questo senso avrebbe dovuto partecipare a pieni diritti al tavolo degli alleati alla Conferenza di Pace di Parigi. La memoria dei campi di concentramento italiani era ben più complessa: assieme alla ricerca dei gerarchi SS che li avevano gestiti e delle amministrazioni naziste che li avevano diretti, essa avrebbe riportato a galla anche le responsabilità italiane. Come sottolinea Sierp, le commemorazioni degli eccidi, perpetuati dai nazisti, nel corso degli anni Novanta ebbero uno sviluppo notevole, per una semplice ragione: “it perpetuated the self-absolving image that Italians had of themselves, the idea of an innocent Fascism which, compared to the brutality of Nazism, had been less evil and almost good-natured and thus did not require any form of Vergangenheitsbewältigung (coming to terms with the past)”. Cfr. ivi, p. 82. Su questo si veda soprattutto il capitolo IV di G. Schwarz, Tu mi devi seppellir: riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, UTET, Torino, 2010, pp. 155-219.
34 Cfr. P. Levi, Deportati. Anniversario, 25 aprile 1955, in A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi per l’ANED, l’ANED per Primo Levi, Angeli, Milano, 1997, pp. 18-20.
35 M. Consonni, L'eclissi dell'antifascismo: resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, GLF Editori Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 41.
36 O. Lalieu, Histoire de la mémoire de la Shoah, Edition Soteca, Paris, 2015.
37 Cfr. ivi, p. 56.
38 Ivi, p. 27.
39 Cfr. A. Wieviorka, La construction de la mémoire de la déportation et du génocide en France. 1943-1995, in P. Momigliano Levi (a cura di), Storia e memoria della deportazione. Modelli di ricerca e di comunicazione in Italia e in Francia, Giuntina, Firenze, 1996, p. 32.
40 O. Wieviorka, La mémoire désunie., cit., pp. 141 sg.
41 Ivi, p. 154.
42 M. Gilzmer, Mémoires de pierres, cit., p. 116.
43 Ivi, pp. 131-133.
44 B. Klarsfeld, Mémoires. Serge et Beate Klarsfeld, Fayard-Flammarion, Paris, 2015.
45 Klaus Barbie viene incolpato di crimini contro l'umanità nel 1983 e condannato all'ergastolo nel 1987, Paul Touvier viene arrestato nel 1989 e condannato all'ergastolo nel 1994, Maurice Papon processato nel 1997 e condannato a dieci anni di reclusione nel 1998, Réné Bousquet, incolpato di crimini contro l'umanità nel 1991, fu ucciso nel suo appartamento nel 1993, mentre il processo a suo carico era ancora in corso (si veda S. Chalandon, P. Nivelle, Crimes contre l'humanité. Barbie, Touvier, Bousquet, Papon, Plon, Paris, 1998).
46 Sul divieto a tenere un funerale religioso e concedere alla salma di Priebke la sepoltura in un cimitero romano, si veda E. Mauro, La tomba segreta di Priebke, “La Repubblica”, 7 novembre 2013, consultato online il 22 settembre 2015.
47 G. Fogar, L'occupazione nazista del Litorale Adriatico e lo sterminio della Risiera, in A. Scalpelli (a cura di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, 2 voll., ANED, Mondadori, Trieste, 1988, pp. 58-65
48 M. Cattaruzza, La storiografia della Shoah, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. III, Torino, Utet, 2006, p. 117. Vedi anche P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria della guerra in Italia e in Francia, in G. Corni (a cura di), Storia e memoria. La seconda guerra mondiale nella costruzione della memoria europea, Museo storico di Trento, Trento, 2006, pp. 119-220.
49 H. Rousso, E. Conan, Vichy, un passé qui ne passe pas, Fayard, Paris, 1994.
50 P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria, cit., p. 211.
51 Un simile studio sulla deportazione politica è stato condotto dal Dipartimento di storia dell’Università di Torino diretta da Brunello Mantelli e Nicola Trafaglia e promosso dall’Aned, che ha dato origine ai quattro volumi dell’opera Il libro dei deportati, editi da Mursia tra il 2009 e il 2015.
52 I. Pavan, Gli storici e la Shoah in Italia, in Storia della Shoah in Italia, vol. II, cit., p. 135.
53 L’espressione è di Benedetto Croce, si trova nel volume Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, Laterza, Bari, 1944, p. 21. Su queste tematiche si veda F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco e il mito del bravo italiano, cit.; Id. Il cattivo tedesco e il bravo italiano, cit.; D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano, 1994. I lavori di Cecil Roth (The History of the Jews in Italy, Jewish Publication Society of America, Philadelphia, 1946, pp. 105-553), Léon Poliakov (La condition des Juifs en France sous l’occupation italienne, Centre de Documentation Juive Contemporaine, Paris, 1946), Gerald Reitlinger (The Final Solution: the attempt to exterminate the Jews of Europe, 1939-1945, Vallentine, Mitchell, London, 1953), Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira (Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino, 1956) sebbene avessero cominciato a far luce sulle vicende degli ebrei italiani sotto il regime fascista, ripetevano tuttavia lo stereotipo della bontà naturale e dell’ “innata gentilezza” del popolo e dei soldati italiani.
54 Cfr. F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco, cit., p. 105.
55 A. Vitale, Les persécutions contre les juifs en Italie, in Les Juifs en Europe (1943-1945). Rapports présentés à la Première Conférence Européenne des Commissions Historiques et des Centres de Documentation Juifs, Edition du Centre CDJC, Paris, 1949; A. Spinosa, Mussolini razzista riluttante, Bonacci, Roma, 1994.
56 I. Pavan, Gli storici, cit., p. 144.
57 Come ad esempio nella nota critica riservatagli da Corrado Vivanti in «Studi Storici», 1962, n. 4, pp. 889-906, oppure più recentemente da M. Sarfatti, La Storia della persecuzione antiebraica di Renzo De Felice: contesto, dimensione cronologica e fonti, “Qualestoria”, 2, 2004, pp. 11-27; Si vedano poi le interviste rilasciate da Renzo De Felice a Giuliano Ferrara per il “Corriere della Sera” nel dicembre 1987 e gennaio 1988, in cui lo storico ammise che “il fascismo italiano è al riparo dall'accusa di genocidio, è fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto. Per molti aspetti, il fascismo italiano è stato «migliore» di quello francese o di quello olandese. Inoltre, da noi la revisione è più utile, per le ragioni che le ho appena esposto e che riguardano la necessità di costruire una nuova Repubblica, e meno rischiosa. Noi non abbiamo una tragedia sociale come quella dell'immigrazione nordafricana in Francia, che ha portato il fascismo petainista fin dentro le fabbriche. Dunque possiamo ragionare, informare, parlare del fascismo con maggiore serenità” (Cfr. Ferrara, G., Le norme contro il fascismo? Sono grottesche, aboliamole. A colloquio con Renzo De Felice, lo storico del ventennio nero, in “Corriere della Sera”, 27 dicembre 1987; Ferrara, G., De Felice: “la Costituzione non è certo il Colosseo…”, “Corriere della Sera”, 8 gennaio 1988).
58 La “loi Gayssot”, concepita per perseguire penalmente la negazione dei crimini l'umanità e adottata dal parlamento francese nel 1990, sarà la prima delle cosiddette “loi mémorielles”, che segnano un forte intervento nell'ambito delle politiche della memoria attraverso lo strumento legislativo. Sul negazionismo si veda invece per la Francia P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris, 2005 e V. Igounet, Histoire du négationnisme, Le Seuil, Paris, 2000, mentre per l’Italia V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo, Bompiani, Milano, 2014 e C. Vercelli, Il negazionismo: storia di una menzogna, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2013.
59 C. Coquio, Finzione, poesia, testimonianza: dibattiti teorici e approcci critici, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. IV, UTET, Torino, 2006, pp. 158 sg.
60 Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta: Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, FrancoAngeli, Milano, 1994, p. 75.

Chiara Becattini, Storia della memoria di quattro ex campi di transito e concentramento in Italia e in Francia. 1945-2012, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, 2017

sabato 22 gennaio 2022

Le formazioni clandestine comuniste pagavano fra tutte il prezzo più doloroso



Ester Lombardo e Giovanni Artieri [n.d.r.>: il marito] lasciarono Milano già all'inizio del 1943 <523 e si trasferirono ad Amalfi, «nel clima di aranci e limoni, nella vista del mare stupendo» <524, dove avevano preso in affitto Villa Lone. Ester già conosceva la costiera amalfitana: a Capri ed Amalfi era stata diverse volte in villeggiatura e, nella primavera del 1942, vi aveva trascorso la convalescenza dopo un lungo periodo di febbri <525. La casa di Milano <526 venne affidata alle cure di una segretaria e presto sgomberata da mobili, tappeti, oggetti e libri, portati al sicuro nel piccolo castello di un amico, a Miasino, sul lago d'Orta, dove potevano essere custoditi da un guardiano. Un altro amico, Raffaele Vuolo, offrì ad Artieri una casa a Roma <527, usata spesso dai due giornalisti per brevi soggiorni. Artieri vi alloggiò quando doveva raggiungere la capitale per consultarsi con Alfredo Signoretti, che fino al luglio del 1943 diresse «La Stampa» <528, e, in seguito, ci abitò durante i nove mesi dell'occupazione tedesca di Roma.
Il luglio del 1943 segnò certamente una svolta nella vita politica del Paese e nella vita quotidiana e professionale di Ester Lombardo, che dopo ventuno anni era ormai costretta a chiudere le pubblicazioni di "Vita Femminile".
Fin dai mesi precedenti si intravedeva per l'Italia un futuro incerto: «Nell'autunno del '42 - scrive Giaime Pintor - due grandi avvenimenti militari, il fallimento dell'offensiva tedesca in Russia, culminata nella battaglia di Stalingrado, e lo sbarco angloamericano nell'Africa francese del Nord col successivo crollo del fronte africano dell'Asse, avevano dato la sensazione che la guerra fosse perduta per la Germania. Da quel momento l'azione di sganciamento della monarchia dal fascismo acquistò un moto progressivo. [...] Fu facile convincersi che l'enorme maggioranza del popolo avrebbe accolto come una liberazione qualunque gesto contro il fascismo e che tutti gli elementi politici, dai conservatori ai comunisti, avrebbero sostenuto chi se ne fosse fatto l'iniziatore. [...] Vittorio Emanuele riuscì ad attirare nel gioco i capi del fascismo dissidente e provocò il voto di sfiducia del Gran Consiglio» <529. Il 25 luglio Mussolini, arrestato, non era più a capo del governo: «l'Italia di Mussolini si era disfatta in un giorno come una facciata di cartapesta» <530. Iniziarono i quarantacinque giorni di Pietro Badoglio: si istituì un governo di tipo militare fino all'8 settembre 1943, quando il Maresciallo rese noto l'armistizio firmato con gli Alleati il 3 settembre. Seguirono quelli che Giovanni Artieri definisce «i nove lunghi mesi» o «i nove mesi della prigionia di Roma», l'occupazione tedesca di Roma che ebbe termine il 4 giugno del 1944 con l'arrivo delle truppe americane guidate dal generale Clark <531.
Nonostante la disponibilità della villa ad Amalfi, nei mesi di giugno e luglio, sia Ester Lombardo che Giovanni Artieri erano a Roma, probabilmente per lavoro. Il clima era teso:
"La Resistenza, albeggiante prima del 25 luglio e dell'8 settembre 1943, riusciva a mantenere in angoscioso stato d'allarme i nazisti. Specialmente con la propalazione di voci e allarmi. Ricordo una notte di fine giugno che fummo svegliati, Ester e io, da colpi furiosi alla porta e da grida: «Fuggite, fuggite che tra poco il quartiere Savoia salterà in aria. È stato già incendiato l'aeroporto del Littorio». Riconobbi le voci di chi, complici i portinai della zona, andava spargendo quel terrore. Dissi a mia moglie, fortemente perplessa: «Non è niente. So di che si tratta. Andiamo a letto. Non accadrà nulla». Non accadde nulla <532.
Non così invece il 19 luglio quando, il giorno seguente l'incontro tra Hitler e Mussolini a Feltre, Roma fu bombardata e i due furono testimoni di quell'avvenimento:
"Erano le 11 del mattino, stavo dinanzi lo specchio radendomi. il viale Regina Margherita, tra la piazza Quadrata e la via Nomentana, è strada larga, popolare, parallela a un quartiere signorile di architetture neo-barocche intitolato al Coppedè, suo autore. Oltre la Nomentana (nel 1943) è già periferia, nella zona del grande cimitero del Verano, della basilica di San Lorenzo, dei quartieri popolari, dei depositi tramviari, delle reti ferroviarie di approccio alla Stazione centrale. È qui che le informazioni alleate supponevano l'acquartieramento dei carri armati tedeschi, dei loro depositi di munizioni, delle loro caserme. Erano informazioni sbagliate che tuttavia portarono a quel bombardamento massiccio dell'intero anello periferico della capitale, durato due ore, dalle 11 alle 13 del pomeriggio, effettuato da 180 Liberator. La sera avanti ero a cena con Ester a casa di Eduardo De Filippo. Sonò l'allarme e cominciò un fuoco di artiglieria. Negli intervalli si udiva il ronzio di un solo apparecchio: un ricognitore, evidentemente, venuto a fotografare i siti della difesa antiaerea, indicata dai lampi delle cannonate. Eduardo disse: «Domani verranno in massa». Era stato buon profeta. Ai primi fragori andai nella camera di Ester. Erano troppo vicini perché non si potesse pensare che tra qualche istante una bomba non cadesse a polverizzarci tutti. Sedetti sul letto. Ci abbracciammo senza dirci ch'era consolante, dopo tutto, poter morire insieme. Nulla avvenne. Ridemmo guardandoci. Le bombe cadevano, ma sentivamo di esserne fuori. Anzi, andai a lavarmi, a insaponare il volto, a radermi. A picco, dalla mia finestra, vedevo i fuochi della difesa; grevi nuvole nere salivano da poco distante. I bombardieri battevano gli edifici del Policlinico ove si sapeva la sede del comando tedesco. Mi misi a contare le ondate degli attacchi. Nove. Colpite le stazioni ferroviarie di San Lorenzo, del Prenestino; gli aeroporti del Littorio, di Ciampino, quasi crollata la basilica di San Lorenzo, danneggiato il cimitero del Verano. Quella tetra festa durò, l'ho detto, due ore circa, durante le quali continuai (vestito e raso) a conversare con Ester, preparandoci per andar fuori a colazione, in un ristorante del centro. E ciò (ancora, a ripensarci, mi stupisce) senza più badare alle bombe all'intorno, mirate sui siti militari e, dunque, su obiettivi ammessi dalla convenzione che (si diceva) fosse intervenuta tra il Vaticano e la Wehrmacht sulla demilitarizzazione della capitale... Rimaneva il fatto dell'indifesa Roma, posta dinanzi alla realtà della guerra. Subito la patina di indifferenza è scomparsa dal volto della città e la povera gente è affiorata con i suoi materassi sdruciti, i suoi miseri letti, le stoviglie e le grame mobilie sui tricicli, i carretti, per le vie, a porre il suo colore disperato e umano nell'aria frivola e scempia della Roma gerarchica e godereccia" <533.
Il 23 erano ancora a Roma dove si respirava un clima teso per il rapido evolversi degli eventi:
"Sul corso Umberto incontrai Armando Curcio e Eduardo De Filippo. Eduardo, osservando il traffico della strada, l'aria grigia e carica attorno ai volti e alle cose, disse come per ispirazione: «Forse tra poco si proclamerà lo stadio d'assedio». Si parlava d'un consiglio della Corona per quella sera stessa, 23. Si sapeva della imminente convocazione del Gran Consiglio a richiesta d'un gruppo di componenti tra i quali Dino Grandi, Federzoni, Bottai e, persino, Galeazzo Ciano... Mi avvertirono di gravi e risolutivi avvenimenti, con la probabile eliminazione della dittatura di Mussolini. Credetti a metà a questa notizia" <534.
Ester Lombardo e Giovanni Artieri partirono il giorno seguente per Amalfi, fu qui che appresero la notizia della caduta di Mussolini e qui, sempre presso Villa Lone, rimase la giornalista fino alla liberazione di Roma:
"Giudicai mio dovere mettere al sicuro Ester nella nostra casa di Amalfi e, dunque, lasciare Roma; pensavo di ritornarvi, come avvenne, anche perché «La Stampa», il mio giornale, mi pregava di non allontanarmi in vista di non precisabili (o facilmente precisabili) avvenimenti" <535.
Dunque Artieri già il 29 luglio, convocato da «La Stampa», era di nuovo a Roma e inseguiva «i grandi fatti e il loro svolgersi» tra «la fine del fascismo, l'arresto di Mussolini, l'avvento della dittatura militare di Badoglio e le sue incongruenze ed errori, la complessa tragicommedia della dichiarazione di armistizio e la cinematografica avventura romana dei due diplomatici, l'americano e l'inglese (il generale Maxwell Taylor e il colonnello T. Gardiner)» <536. Nonostante le sempre maggiori difficoltà negli spostamenti, egli riuscì a tornare varie volte ad Amalfi: «Pensavo imminente - scrive - l'invasione, con i suoi pericoli e incognite da dividere con la mia cara» <537. Dalla costiera amalfitana si sentivano e si vedevano le incursioni aeree alleate sul territorio di Salerno. Si stava già preparando lo sbarco anfibio nel Golfo, operazione con cui gli alti comandi Alleati intendevano costituire una base per avanzare poi verso Napoli. Lo sbarco avvenne il 9 settembre, il giorno seguente alla proclamazione dell'armistizio <538.
Il 2 settembre Giovanni Artieri tornò a Roma e qui rimase «intrappolato», lontano da Ester, fino alla liberazione della città <539. Nella capitale erano anche Lea Lombardo e Italo Minunni, rispettivamente sorella e cognato di Ester. Fu proprio Italo Minunni <540, anch'egli giornalista, che arruolò di autorità Giovanni Artieri nel Partito democratico del lavoro di Ivanoe Bonomi <541. Con questo partito, che non ebbe un forte seguito popolare, entrò a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) insieme ad un esiguo gruppo di notabili prefascisti e si guadagnò in tal modo gli attestati della milizia nella Resistenza durante i nove mesi dell'occupazione romana, attestati che risultarono poi necessari per rientrare nel mondo del giornalismo. «La Stampa», attiva durante la Repubblica sociale italiana non poteva rinascere ma, già dal maggio 1945, Artieri fu chiamato a lavorare all'"Opinione" <542, diretta da Franco Antonicelli, capo del Cln del Piemonte <543.
Egli, pur sperando in una rapida liberazione, ricorda il tempo dell'occupazione di Roma comunque come fecondo:
"La scarsa possibilità di promuovere azioni nella stretta ferrea della sorveglianza nazista induceva a scivolare in una vita di pura evasione. Si trovava un correttivo nel lavoro organizzativo dei partiti: troppi, pullulanti, spesso velleitari... Ma, ripeto, esisteva unanimità tra tutte le forze della Resistenza: la «mia» casa di viale Regina Margherita, risultante non abitata dal suo proprietario ... fu per un certo tempo il punto di convegno dei comitati centrali e delle direzioni democristiana, comunista, del Partito d'azione, di quello demolaburista. Ospitò prigionieri evasi, comunisti ricercati (ne ricordo uno, Vittorio Viviani)... Ricordo ancora, ospite clandestino di quella casa, Armando Curcio, commediografo, editore; e ricordo i consigli e gruppi liberali: sullo sfondo appare il volto pallido e pensoso di Mario Pannuzio... Altri ospiti temporanei miei furono Eduardo e Peppino De Filippo, sottrattisi al bando emanato dal governo della Repubblica sociale che convocava al Nord i rappresentanti delle maggiori compagnie teatrali. Talvolta io ero ospite di Eduardo; talaltra io in un altro appartamento comprato dalla signora De Filippo, la prima moglie di Eduardo, la cara e bella Dodò, come la chiamava il marito. Quasi sempre, sfidando ogni regola di prudenza, ci si riuniva a pranzo o a cena: Eduardo e Peppino, io, Armando Curcio, il Carloni, marito di Titina De Filippo, e un giornalista napoletano, F.C., che noi, di sicuro, sapevamo essere spia dei tedeschi e dei neofascisti, ma che per una specie di insuperabile inibizione costituita da un complesso sentimento di affetto, di ammirazione, di ricordi napoletani, di timori, di inferiority complex e via dicendo non ci denunciò mai e noi, ciecamente, credevamo, sapevamo che mai e poi mai ci avrebbe denunciati" <544.
Giovanni Artieri visse infatti i nove mesi dell'occupazione in uno stato di clandestinità, poiché aveva ignorato gli ordini di Alessandro Pavolini, il quale, nominato segretario provvisorio del neonato Partito Fascista Repubblicano, aveva emanato l'ordine per i giornalisti di raggiungere le sedi dei loro sindacati e passare ai comandi del Ministero repubblicano <545. Così Artieri venne controllato dai tedeschi, anche se, per la sua iscrizione al Pnf <546 e perché poco aperto al dissenso, non rischiò seriamente di essere arrestato:
"Le formazioni clandestine comuniste pagavano fra tutte il prezzo più doloroso... A noi la polizia ci ritiene innocui o cerca di non vedere o di non guardare attentamente. Siamo, finché non si travalichino certi gradi di attività cospirativa, nel settore «italiano» della sorveglianza; là dove i comunisti sono oggetto delle premure di gran lunga più zelanti della polizia tedesca e perciò si tengono alla larga da chi non appartiene, sicuramente, alle loro fila" <547.
Durante l'occupazione di Roma, Ester Lombardo continuò a vivere ad Amalfi dove «dette la sua opera all'organizzazione degli Alleati a Capri, ad Amalfi e a Positano» <548. È difficile capire cosa si intenda con questa affermazione, ma sicuramente Ester Lombardo era ben inserita nel contesto, poteva godere di diverse amicizie, come quella con il sindaco di Capri, Peppino Brindisi, o con lo scrittore Edwin Cerio <549.
Subito dopo la liberazione di Roma, Giovanni Artieri «corse al sud» a cercare Ester, con una Balilla comprata per l'occasione insieme ad alcune latte di benzina. Non la trovò ad Amalfi, dove Villa Lone era stata requisita da Badoglio, per se e per il suo seguito, ma a Positano: "Ester la trovai a Positano, inserita come housekeeper, cioè come padrona di casa, nella spicciola burocrazia dell'alto comando britannico e badava all'ospitalità di tre vecchi colonnelli, dirigendo il personale locale addetto ai servizi. Ester aveva detto e vantato di avere il marito nella clandestinità romana, e fu orgogliosa di presentarmi ai suoi ospiti che m'accolsero cordialmente non prima di aver attentamente esaminato i miei titoli di appartenenza alla Resistenza e consultato elenchi ove (con incredibile precisione) erano segnati i nomi dei giornalisti aderenti alla Repubblica di Mussolini" <550.
L'offensiva alleata su Roma, iniziata il 12 maggio 1944, aveva portato alla sua liberazione il 4 giugno <551. Quasi un intero anno mancava alla resa dei tedeschi a Milano. Dunque, seppur ripristinati i collegamenti e i servizi ferroviari tra Roma e il sud, rimaneva ancora difficile per Artieri riprendere i contatti con «La Stampa», a Torino, al di là della Linea Gotica. Più semplice, come infatti fece, spostarsi tra il sud e Roma, dove la nascita di nuove testate creava la necessità di impiego di provati giornalisti. Caduta la Repubblica Sociale, fu possibile per lui tornare al Nord, alla sua casa di Milano, e riprendere i contatti con «La Stampa». Era la metà di maggio del 1945 e quel viaggio venne condiviso con Enrico Mattei, che raggiungeva Torino per ripresentarsi alla «Gazzetta del Popolo» <552. Come detto, «La Stampa» non poteva rinascere, ma Artieri iniziò a lavorare all'"Opinione". Il mese seguente arrivò a Milano anche Ester Lombardo. Probabilmente nel 1946 entrambi torneranno a Roma: Giovanni Artieri terminava l'esperienza all'"Opinione", Ester Lombardo iniziava l'avventura politica.
[NOTE]
523 Giovanni Artieri scrive infatti: «Il diario di Amalfi comincia il 1° gennaio 1943 a Lone, un venerdì di vento furioso e pioggia», G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 404. Il diario non è stato pubblicato ed è conservato da Paolo Cacace.
524 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 403.
525 "Fra otto giorni partirò per Capri. Ho ancora un poco di febbre; ormai sono quattro mesi e mezzo e non ne posso più. Spero che Capri mi faccia entrare definitivamente in convalescenza, anticamera della guarigione", Lettera di Ester Lombardo a Celso Luciano Capo di Gabinetto di S.E. il Ministro della Cultura Popolare, Milano, 3 giugno 1942, in ACS, MCP, Gabinetto, Archivio generale - affari generali 1926-1944, b. 99, fasc. 593 "Vita femminile". Lombardo Ester (1935-1942), c. 12. Si vedano anche Lettera di Ester Lombardo a Celso Luciano Capo di Gabinetto di S.E. il Ministro della Cultura Popolare, Milano, 29 aprile 1942, in ACS, MCP, Gabinetto, Archivio generale - affari generali 1926-1944, b. 99, fasc. 593 "Vita femminile". Lombardo Ester (1935-1942), c. 27; G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 231-237 e 403-404. Ester Lombardo aveva dato a Capri e alla costiera amalfitana visibilità anche attraverso le pagine di «Vita femminile», si vedano ad esempio: E. Lombardo, L’isola dei naufraghi, in «Vita femminile», 15 aprile-15 maggio 1923, pp. 24-27, qui meritano attenzione alcune righe scritte quasi vent'anni prima del suo "ritiro" amalfitano: «I deragliati dalle rotaie ordinarie dell'esistenza, i più vari falliti della vita approdano a Capri. [...] Attori grandi e piccoli di rivolgimenti politici andati a male naufragano su questo scoglio melodioso del Tirreno, attratti da qualche Sirena ancora superstite dai tempi di Ulisse», la cit. è a p. 24; A. Viviani, Passeggiate romantiche: Capri, in «Vita femminile», 1 luglio 1929, pp. 12-13 ; L. Minunni, I principi di Piemonte alle regate e al ballo a Capri, in «Vita femminile», agosto 1932, pp. 10-11; L. Minunni, Capri sulla tela. [Ezelino] Briante, giovane pittore ottocentista, in «Vita femminile», ottobre 1932, p. 42; A. Cesareo, Marina di Capri, in «Vita femminile», 15 agosto-15 settembre 1934, pp. 10-13.
526 Viale Regina Elena (oggi viale Tunisia).
527 Presso viale Regina Margherita.
528 Tutte le informazioni sono tratte dal capitolo Avvisaglie della crisi in G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 403-410.
529 G. Pintor, L'ora del riscatto. 25 luglio 1943, Castelvecchi, Roma, 2013, pp. 13-14 e 24. Saggio scritto da Giaime Pintor a Napoli nell'ottobre 1943 e pubblicato postumo in «Quaderni italiani», IV, New York, 1944.
530 Ivi, p. 24.
531 Si veda a proposito Istituto romano per la storia d'Italia dal fascismo alla Resistenza (a cura di), Roma durante l'occupazione nazifascista. Percorsi di ricerca, Franco Angeli, Milano, 2009.
532 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 411.
533 Ivi, pp. 412-413. Giovanni Artieri, sbagliando, colloca questo evento il 20 luglio. Roma, invece, fu bombardata il 19 luglio da aerei americani decollati dalle basi del Nord Africa. Per ogni approfondimento si rimanda a M. Carli, U. Gentiloni Silveri, Bombardare Roma. Gli alleati e la «città aperta» (1940-1944), Il Mulino, Bologna, 2007, in particolare pp. 101-148.
534 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 414.
535 Ivi, p. 423.
536 Ivi, p. 418.
537 Ivi, p. 425.
538 Su Salerno e l'operazione Avalanche si vedano S. Alinovi, L'amministrazione civica di Salerno dalla caduta del fascismo alla giunta del Comitato di Liberazione Nazionale, in AA.VV, Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla Repubblica (1943-1946), Guida, Napoli, 1986, pp. 193-210; A. Sole, Salerno e gli alleati, in R. Dentoni Litta (a cura di), Schegge di storia. Salerno e l'operazione Avalanche. Documenti, diari, memorie, testimonianze, Archivio di Stato di Salerno, Fisciano, 2014, pp. 279-294. Si vedano anche P. De Marco, L'occupazione alleata a Napoli, in N. Gallerano (a cura di), L'altro dopoguerra. Roma e il sud 1943-1945, Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 261-273; G. D'Agostino, Napoli: governo e amministrazione della città dalla caduta del fascismo all'avvento della Repubblica (1943-1946), in N. Gallerano (a cura di), L'altro dopoguerra, cit., pp. 407-422.
539 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 418.
540 Italo Minunni era anch'egli giornalista di stampo nazionalista, economista, volontario in Libia, mutilato di una gamba durante la prima Guerra Mondiale, alto funzionario della Confindustria, partigiano monarchico. Fu arrestato durante l'occupazione tedesca di Roma insieme ad Alberto Bergamini dalla polizia neofascista di Pietro Caruso poiché indiziato di cospirazione antifascista e di ricostituzione del partito della Democrazia del Lavoro. Era in carcere a Regina Coeli durante l'attentato di via Rasella ed era stato inserito nella lista dei 330 che i tedeschi avrebbero fucilato alle Fosse Ardeatine. Fu poi cancellato dalla lista quando l'ufficiale tedesco, venuto a prelevare i prigionieri, ordinò: «Abbiamo bisogno di uomini interi». Dopo la liberazione evase dal carcere. Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 462-469 e 504-505.
541 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 464. Sul Partito democratico del lavoro si veda L. D'Angelo, Fra liberalismo e socialismo: il Partito democratico del lavoro, in F. Grassi Orsini, G. Nicolosi (a cura di), I liberali italiani dall'antifascismo alla Repubblica, vol. I, Rubettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 159-173.
542 Anche il quotidiano «L'Opinione» aveva sede a Torino. Nato nel 1846, aveva chiuso le pubblicazioni nel 1900. Nel 1945 venne rifondato ma durò solo un anno.
543 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 540-549.
544 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 464-466. Su Mario Pannuzio e i liberali si veda A. Cardini, Il liberalismo di Mario Pannuzio, in F. Grassi Orsini, G. Nicolosi (a cura di), I liberali italiani dall'antifascismo alla Repubblica, cit., pp. 611-646.
545 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 476.
546 Giovanni Artieri si era iscritto al Pnf nel 1927, si veda Appunto della polizia politica, Napoli, 24 marzo 1933, in ACS, MI, DGPS, Divisione polizia politica, b. 48, fasc. 54 Artieri Giovanni, c. 4. Bisogna però tenere conto del fatto che in pratica l'iscrizione al sindacato fascista divenne per i giornalisti, proprio da quell'anno, una condizione indispensabile quanto l'iscrizione all'albo per poter esercitare la propria professione. Sull'argomento si veda G. Fabre, L' elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino,1998.
547 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 478 e 482.
548 Ivi, p. 484.
549 Edwin Cerio scrisse anche alcune novelle per «Vita femminile», si veda ad esempio E. Cerio, Concorrenza sleale, in «Vita femminile», luglio-agosto 1935, pp. 50-51. Inoltre sullo scrittore Ester Lombardo pubblicò un articolo: L. Minunni, Intervista con Cerio, il poeta-mago di Capri, in «Vita femminile», settembre 1932, pp. 26-28. Ester Lombardo e Giovanni Artieri frequentarono anche altre personalità molto conosciute a Capri, come l'archeologo Amedeo Maiuri e lo scrittore e giornalista Curzio Malaparte. Le relazioni con queste persone sono approfondite in diverse pagine di G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit.
550 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 535, per approfondimenti si veda l'intero paragrafo Alla ricerca di Ester, pp. 534-539.
551 Per un quadro approfondito sulle azioni militari e diplomatiche che portarono alla liberazione di Roma si faccia riferimento a M. Carli, U. Gentiloni Silveri, Bombardare Roma, cit., pp. 203-237. Si veda anche A. Di Stefano, U. Gentiloni Silveri, S. Palermo (a cura di), Roma 4 giugno 1944. La liberazione a colori, Palombi, Roma, 2011.
552 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 535-537.

Caterina Breda, Biografia intellettuale di Ester Lombardo: giornalista, scrittrice, attivista politica tra fascismo e Repubblica, Tesi di laurea dottorale, Università degli Studi Roma Tre, Anno Accademico 2016-2017