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lunedì 1 maggio 2023

Fui aggregato ad una unità segreta di uomini dell'Haganà che operava dentro l'esercito inglese


Il 22 maggio 1945 la Brigata Ebraica raggiungeva il passo del Tarvisio, un’area strategica a ridosso dei confini austriaco e jugoslavo. Nei mesi seguenti la fine della guerra, gran parte di coloro che oltrepassavano il confine proveniva dalle località di Villach, Klagenfurt, Salisburgo, Gratz, dove le autorità Alleate avevano allestito luoghi di soccorso per rifugiati. Trovandosi al centro di numerose linee di passaggio, interessate soprattutto dal transito di profughi, il passo del Tarvisio acquisiva una sempre più significativa rilevanza strategica. Il governo Italiano intendeva mantenere il controllo della città di Trieste e premeva affinché l’esercito britannico impedisse l’ingresso di forze ostili dalla Jugoslavia. <383 L’incarico assegnato alla Brigata Ebraica sarebbe stato proprio quello di sorvegliare la zona di confine fungendo da raccordo nella catena dei rifornimenti verso l’Austria. <384
All’interno dell’area controllata dai «battaglioni palestinesi», i volontari ebrei allestivano due campi per il soccorso ai profughi: il primo battaglione al di fuori della città di Tarvisio ed il terzo a Camporosso; il secondo battaglione veniva collocato invece all’interno della città. Dopo aver provveduto alle attività di accoglienza e di primo soccorso, i soldati del Jewish Brigade Group iniziavano ad organizzare il trasferimento di migliaia di profughi. <385 Nel maggio ’45 venivano avviate delle vere e proprie staffette verso la città di Milano e altri luoghi, come l’orfanotrofio di Sciesopoli a Selvino, <386 in provincia di Bergamo, la clinica per tubercolotici di Merano o le numerose hacsharot <387 vicino Roma, Mantova, Torino, fra cui quelle di Magenta, Boffalora, Tradate, Nonantola. <388
Al Tarvisio i volontari ebrei avevano ampio spazio di manovra. Essi disponevano, come emerge nei vari resoconti giornalistici dei corrispondenti di guerra, di una grande libertà d’azione: "La Brigata [Ebraica] staziona nella parte italiana del confine e non si trova in Austria, tuttavia convogli delle compagnie trasporti palestinesi e colonne di trasporti della stessa Brigata attraversano quotidianamente il confine per recarsi nei centri di occupazione dell’Ottava Armata, ricoprendo ruoli di responsabilità più vari e gestendo problemi connessi ai rifornimenti". <389
La scelta di trasferire la Brigata Ebraica al Tarvisio rappresentava una formidabile occasione per i sionisti che intendevano entrare in contatto con i profughi oltreconfine, <390 mentre si rivelava per i britannici un grave errore di valutazione poiché finì col determinare una indubbia accelerazione delle operazioni di immigrazione degli ebrei in Palestina. Afferma Shlomo Shamir “Rabinowitz”, il comandante degli ufficiali della Haganà nella Brigata Ebraica: "Sul perché i britannici decisero di schierarci in questa posizione strategica, un luogo che si confaceva ai nostri bisogni nazionali, non ho una risposta chiara. È possibile sia stato un miracolo. Forse i britannici semplicemente non capirono che questo luogo avrebbe potuto essere il nostro trampolino di lancio per stabilire il destino dell’ebraismo d’Europa. A pensarci bene, sono quasi certo che l’elemento ebraico non fu preso in considerazione. Dopo tutto, nemmeno noi sapevamo bene in quel momento cosa fosse successo agli ebrei in Europa". <391
La Brigata Ebraica fu trasferita al confine con l’Austria in virtù della sua particolare duttilità operativa e per il fatto che molti volontari ebrei conoscevano le lingue diffuse nella Mitteleuropa. <392 Ad essere sottovalutato, o almeno in un primo momento non considerato, fu pertanto il fattore legato alle esigenze nazionalistiche della dirigenza sionista, per la quale diventava fondamentale riuscire a far giungere in Palestina il più alto numero di sopravvissuti ebrei, unitamente alla efficace capacità operativa dei nuclei sionisti attivi nell’esercito britannico, i quali riuscirono ad organizzarsi autonomamente, ricevendo solo generali e sporadiche direttive da Gerusalemme a causa della precarietà delle comunicazioni, costituendo una avanguardia dalla fondamentale importanza strategica. <393
[...] Nel maggio del ‘45 era già stata avviata una collaborazione fra le organizzazioni ebraiche che operavano in soccorso ai profughi, fra cui il JOINT e la DELASEM, ed i volontari del Jewish Brigade Group, assieme a quelli di altre compagnie ebraiche, in particolare del RASC, che godeva di una più ampia dotazione di veicoli rispetto alle altre unità militari.
Nel mese di giugno aveva luogo al passo del Tarvisio un incontro fra alcuni esponenti della Brigata Ebraica ed i rappresentanti delle Jewish Companies per decidere le modalità di tradotta dei profughi. <394 Oltre ai circa 4 500 uomini del Jewish Brigade Group erano presenti in Italia otto compagnie formate da ebrei, per un totale di altri 3 000 uomini circa: <395 tre compagnie a Milano e dintorni, la 462esima, la 735sima e la 739sima compagnia; <396 due a Trieste, la 179sima e la 643sima compagnia; una nei pressi di Bologna, la 650sima compagnia; <397 una a Napoli e Bari, rispettivamente la 544sima e la 743sima compagnia; a queste si aggiungevano due compagnie interamente formate da volontari ebrei dislocate in Austria, fra cui la 468sima compagnia, proprio a ridosso del confine con l’Italia. <398 L’incontro era organizzato da Yehuda Arazi, il comandante del "Mossad Le Alyiah Bet" in Italia, <399 e da altri luogotenenti della Haganà giunti dalla Palestina; <400 vi partecipava insieme ad altri commilitoni il volontario della 462esima compagnia del RASC Yoseph Koren: "Fui aggregato ad una unità segreta di uomini dell'Haganà che operava dentro l'esercito inglese. Il suo compito era quello di preparare le vettovaglie: acqua, cibo ed equipaggiamento vario per l’immigrazione clandestina in Israele. L'unità 462 tornò a Milano. Dopo qualche giorno ci fu richiesto di presentarci da Eliyahu Cohen, <401 il warrant officer del nostro battaglione. Egli ci diede il compito di andare al comando della «brigata» che si trovava al momento nel triangolo di confine: Italia-Austria-Jugoslavia. Una volta arrivati sul posto ci avrebbero dato altre istruzioni sulla nostra missione. Nel campo militare che si trovava vicino alla «brigata» si ammassarono numerosi autisti con i loro camion delle unità 178, 179, 462, 468, 650. Il nostro compito era quello di prelevare profughi dell'olocausto dall'Austria e poi sparpagliarli tra i diversi campi UNRRA che c'erano in Italia. Solamente in questo momento siamo riusciti a concepire le dimensioni dell'olocausto. Questa era un'immensa marea umana che faceva il suo primo incontro con soldati ebrei provenienti da Israele". <402
L’unità segreta alla quale si riferisce Yoseph Koren era nota con il nome di unità TTG, una sigla che compariva su certificati e fogli di circolazione, acronimo della locuzione arabo-yiddish «Tilhas Tizi Gescheften» (letteralmente «lick my ass business»), che si riferiva ad una unità Alleata in realtà inesistente. <403
Il T.T.G. era formato da una squadra di 50 autisti che appartenevano ad unità di trasporto dell'esercito inglese. Gli uomini del T.T.G. furono meticolosamente scelti dalla Haganà. Ci fu ordinato di mantenere il silenzio, non solo con gli inglesi ma anche con i nostri compagni di altre unità ebraiche, anche se buoni amici dovevano rimanerne all'oscuro. La nostra attività era ritenuta illegale dagli inglesi e dagli italiani. <404
Una volta provveduto ad una prima ed immediata azione di soccorso, i rifugiati sarebbero stati trasferiti dalle zone di confine verso i principali centri di raccolta del nord Italia, soprattutto attorno a Milano e Torino, a bordo dei veicoli militari dell’esercito britannico: "Alla fine della guerra la compagnia di trasporto 462 fu sciolta. I soldati più avanti negli anni rimpatriarono in Israele mentre invece io e altri soldati più giovani siamo rimasti per continuare l'attività di soccorso ai profughi ovunque in Italia. Gli automezzi erano indispensabili per la nostra attività, li abbiamo sottratti così all'esercito inglese. Abbiamo restituito gli automezzi della compagnia, facendoli entrare da un ingresso principale, ma dopo le pratiche burocratiche li abbiamo fatti uscire da un’apertura nella recinzione. Così passarono nelle mani del T.T.G., rimuovemmo poi i numeri e le insegne che avrebbero potuto tradire la loro origine. Con questo metodo siamo riusciti a procurare 50 automezzi per la nostra banda con lo scopo di utilizzarli nell’azione di trasporto profughi nei centri di raccolta e verso i porti. Questi camion servirono anche per trasportare rifornimenti vari e cibarie per i campi, e anche per rifornire la navi per l'immigrazione clandestina di tutto il necessario". <405
A bordo dei veicoli dell’esercito britannico i volontari ebrei godevano di una relativa libertà di movimento anche secondo quanto sostiene Ada Sereni, una delle figure di spicco della Alyiah Bet in Italia: «I confini, in questo momento, sono aboliti e i camion militari alleati non sono fermati da nessuno. Solo la Military Police ha l’autorità di fermarli, ma quando gli autisti hanno i fogli di via in ordine, neppure la polizia può intromettersi». <406
Questa particolare circostanza consentiva ai volontari ebrei, e a quelli della Brigata Ebraica e del RASC in special modo, di offrire un contributo logistico alla Alyiah Bet in un momento in cui la precarietà dei collegamenti limitava in maniera significativa lo spostamento organizzato di un gran numero di profughi. Essi garantivano al contempo una efficace azione di pronto soccorso grazie alla scrupolosa organizzazione militare e al diffuso sentimento di solidarietà nazionale che caratterizzava le Jewish Companies dell’esercito britannico. In altre parole, i volontari ebrei sfruttavano la macchina bellica dell’esercito britannico per trasferire i profughi verso zone sicure, laddove diveniva per loro indispensabile impartire ai futuri «olim», ossia i nuovi cittadini, nozioni di sionismo nonché i rudimenti della vita in kibbutz.
[NOTE]
383 Circa l’importanza strategica della città di Trieste, si faccia riferimento all’appunto della Direzione Generale Affari Politici del Ministero degli Affari Esteri del 27 agosto 1945, ASMAE, Affari Politici, Gran Bretagna, B. 63 (1945) F. 3. Sionismo. Disponibile anche presso Hagana Museum Archive, Tel Aviv, sotto la collocazione 123/איטל /2. Citato anche in M. Toscano, La porta di Sion, p. 17.
384 The Jewish Infantry Brigade Group (1944-1946) - Brigadier E. F. Benjamin C. B. E Memorandum, CZA DD\12828. In un articolo dell’11 giugno 1945 contenuto in CZA J112\1020 viene riportato che «nel frattempo la Brigata Ebraica staziona a 100 miglia da Udine, in Italia, verso il confine con l’Austria, aiutando insieme ad altre unità dell’ottava Armata Britannica e della decima Divisione Alpina Americana a mantenere una sezione della linea dei rifornimenti delle forze di occupazione in Austria». Si veda anche H. Bloom, The Brigade: an epic story of Vengeance, Salvation, and WWII, Hardscrabble Enterteinment, New York 2002 [H. Bloom, La Brigata: una storia di guerra, di vendetta e di redenzione, Saggiatore, Milano 2005, pp. 157-158].
385 D. Porat, One side of a Jewish triangle in Italy: the encounter of Italian Jews with Holocaust survivors and with Hebrew soldiers and Zionist Representative in Italy (1944-1946), in «Italia Judaica IV, Gli ebrei nell’Italia unita (1870-1945)», Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Roma 1993, p. 506.
386 Si faccia riferimento a questo proposito a S. Luzzatto, I bambini di Moshe - Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele, Einaudi, Torino 2019.
387 Centri di educazione professionale agricola allestiti dai sionisti per preparare i nuovi immigrati in Palestina. Tali strutture erano generalmente situate in campagna all’interno di cascine, poderi, fabbricati agricoli.
388 Si vedano A. Sereni, I clandestini del mare e S. Minerbi, Raffaele Cantoni.
389 CZA J112\1020.
390 Report for Week Ending 13 June 1945, 13/6/1945, AMG Bolzano, Repatriation Division. NA, RG 331, ACC Italy, 11202/128/36; S. Kokkonen, Jewish displaced persons in Postwar Italy (1945-1951), in «Jewish Political Studies Review», 20:1/2, 2008, p. 92.
391 S. Shamir, Intervento divino e una bandiera ebraica nell’esercito britannico, p. 217.
392 Ibid.
393 Hagana Museum Archive, File 29.00046/Yitzhak Levi. Ada Sereni afferma che alcuni radiotelegrafisti ed altri emissari dalla Palestina giunsero in Italia a bordo della nave «Pietro», nell’agosto del 1945, probabilmente per ovviare alle difficoltà di comunicazione e per coordinare la gestione dell’immigrazione clandestina. Questo solo dopo che la Brigata Ebraica lasciò il Tarvisio. A. Sereni, I clandestini del mare, p. 44.
394 A. Sereni, I clandestini del mare, p. 21.
395 Lo storico Yoav Gelber sostiene che vi fossero in Italia, nel novembre 1944, circa 10.000 volontari ebrei, Y. Gelber, The Meeting Between the Jewish Soldiers from Palestine Serving in the British Army and She’erit Hapletah, in Y. Gutman; A. Drechsler (a cura di), «She’erit Hapletah, 1944-1948», p. 66. Mario Toscano riporta la cifra di circa 8.000 volontari per quanto riguarda l’estate del 1945, M. Toscano, La porta di Sion, p. 39. Ciò che emerge con chiarezza dalla documentazione del National Archive è che, al maggio 1945, erano operativi al di fuori della Palestina 12 662 volontari ebrei, di cui 5 777 in Egitto e 4 553 nella Brigata Ebraica. Il resto dei volontari ebrei era distribuito fra le Jewish Companies in Italia e nei Balcani. Nei mesi seguenti, alcune centinaia di volontari ebrei lasciavano l’Egitto e raggiungevano i propri commilitoni in Italia, inclusi alcuni membri del Jewish Brigade Group; appare pertanto verosimile che vi fossero circa 7/8 000 volontari ebrei in Italia nel giugno/luglio 1945, Monthly Strenght of Jews and Arabs in Armed Forces and Police - Foreign Office Memorandum, London, 19/3/1946, TNA FO 371/495. Il volontario Piero Cividalli, ad esempio, raggiunse l’Italia insieme ad un centinaio di commilitoni nel maggio 1945, per poi aggregarsi alla Brigata Ebraica, in Belgio, ai primi di ottobre. Intervista a Piero Cividalli (Ramat Gan, 16/5/2020).
396 C. Villani, Milano, Via Unione 5. Un centro di accoglienza per ‘displaced persons’ ebree nel secondo dopoguerra, in «Studi Storici», Anno 50, No. 2, Aprile-Giugno 2009, pp. 335.
397 Intervista al figlio di Ariè Sheck Eugenio (Milano, 15/1/2015).
398 Bintivey Ha’apala Information Center, Atlit Detention Camp Archive, File Peilim/Yoseph Koren.
399 Ada Sereni riporta un dialogo con Arazi nel corso del quale egli avrebbe affermato: «Prima che lasciassi Tel Aviv, Elyahu Golomb [uno dei capi della Hagana] mi disse chiaramente che sarei stato il comandante in Italia». A. Sereni, I clandestini del mare, p. 22.
400 S. Minerbi, Raffaele Cantoni, p. 151.
401 Elyahu Cohen era sergente maggiore della 462esima compagnia trasporti del RASC, «il più alto ufficiale dell’Hagana arruolato nell’esercito britannico», A. Sereni, I clandestini del mare, p. 35.
402 Bintivey Ha’apala Information Center, Atlit Detention Camp Archive, File Peilim/Yoseph Koren.
403 M. Beckman, The Jewish Brigade, pp. 56-59.
404 Bintivey Ha’apala Information Center, Atlit Detention Camp Archive, File Peilim/Yoseph Koren.
405 Ibid.
406 Illegal immigration movements in and through Italy - Vincent La Vista Memorandum, Israeli Defence Forces and Defence Establishment Archives (Tel HaShomer military base, Kiryat Ono), F. 87/1867/1998.
Stefano Scaletta, La Brigata Ebraica e le compagnie di ebrei volontari nell’esercito britannico (1939-1946), Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, Anno accademico 2020-2021

domenica 19 marzo 2023

In sintesi, l’intelligence americana evidenziava che una penetrazione su larga scala dell’Italia era viepiù necessaria


 

In coerenza con il progetto che stava a cuore a Donovan, sin dal dicembre 1944 il Planning Group Office dell'OSS elaborò una speciale programmazione concernente l'istituzione di un articolato servizio d'intelligence nel Teatro del Mediterraneo, compresa l'Italia, da attuarsi nel periodo postbellico e, in particolare, nella delicata fase di transizione successiva alla cessazione delle ostilità con la Germania. Con particolare riguardo all'Italia, la pianificazione di un servizio d'intelligence nel periodo postbellico doveva essere finalizzata a salvaguardare la sfera d'influenza americana in Italia, avuto riguardo al fatto che l'assetto degli equilibri europei, come configurato dalle Nazioni Unite <84, non avrebbe impedito, nelle previsioni a lungo termine dell'intelligence americana <85, che altre Nazioni, non esclusi gli stessi Alleati, avessero mire su un Paese, quale l'Italia, di notevole importanza strategica scaturente dalla posizione nel Mediterraneo, approfittando della situazione di grande fragilità in cui versava il 'Bel Paese', che, a giudizio dell'OSS, era in rovina, sia economica sia politica e morale, incapace di ritrovare la sua unità e risollevarsi dalle sue ceneri, dopo un ventennio di dittatura fascista che aveva significato "la sua disfatta economica e psicologica" <86 e, in quanto tale, privo delle necessarie risorse sia psichiche e sociali sia materiali per fronteggiare un'eventuale politica d'influenza, se non di controllo, da parte di altre nazioni.
"Tuttavia non sarebbe saggio pensare che la costituzione di tale status impedirebbe ad altri paesi di mostrare interesse per l'Italia. Anche se l'Italia manterrà la sua sovranità e non diventerà proprietà fisica di alcun paese, si manifesteranno vari livelli d'interesse. La città di Roma, sin dal momento della sua liberazione, è stata un centro d'intrighi pullulante di rappresentanti di partiti e fazioni, del Vaticano, dei paesi dei Balcani, degli Alleati e di ex membri dell'Asse e loro satelliti, tutti impegnati a stringere alleanze, coltivare interessi e spiarsi l'una con l'altra. Una volta che debba essere stabilito un certo grado di controllo sull'Italia, la questione degli scopi e metodi diventa un problema di analisi politica, piuttosto che di controspionaggio e non c'è alcun dubbio che tale controllo, se controllo deve essere, sarà più saldo nelle mani degli Stati Uniti che non tirano acqua al loro mulino e rivestono il più ampio ruolo nella tutela della pace mondiale" <87.
Si consigliava, dunque, di approfondire l'indagine sui servizi segreti stranieri nel nord dell'Italia, soprattutto quelli russi e slavi, in collegamento con i comunisti italiani, indagine da condursi con alta priorità, da parte dei servizi di controspionaggio dell'OSS, non solo perché si trattava di una sfida per gli Stati Uniti in Europa da non declinare, ma anche perché offriva una splendida opportunità, favorita dalla "confusione del momento", la volatilità delle alleanze che "cambiano di giorno in giorno e si vendono al migliore offerente (se offerenti vi sono)", l'ambiguità e, infine, la mancanza di lealtà, per infiltrare su larga scala agenti americani in Italia <88.
In sintesi, l'intelligence americana evidenziava che una penetrazione su larga scala dell'Italia, non solo del paese, in quanto tale, e dei suoi servizi segreti, ma anche dei servizi segreti stranieri, ivi operanti, era viepiù necessaria, giacché molti paesi erano interessati all'Italia e molti lo sarebbero diventati, per le ragioni di cui sopra, mentre per gli Stati Uniti essa si presentava non solo possibile, ma anche favorita dalle seguenti condizioni: -l'ampia copertura, nel senso che l'Italia, più di ogni altro paese europeo, eccettuata la Germania, era stata messa in ginocchio dalla guerra e gli Stati Uniti, mostratisi più affidabili e meglio equipaggiati di ogni altra nazione, avrebbero potuto giocare un ruolo di prim'ordine nella ricostruzione economica italiana; - il favorevole atteggiamento nei confronti degli Stati Uniti sia della polizia di Stato che dei servizi segreti italiani, con i quali l'OSS, come sopra visto, aveva nel corso della sua campagna d'Italia, instaurato ottime relazioni. Era, dunque, necessario che gli Stati Uniti si dotassero di un servizio permanente d'intelligence e, in particolare, di un potente e ramificato servizio di controspionaggio, al fine sia di garantire la sicurezza dello spionaggio 'positivo' sia di neutralizzare lo spionaggio da parte degli altri paesi stranieri in Italia e, così, controllare, anche indirettamente, l'intelligence di ogni potenziale nemico degli Stati Uniti in Europa.
Secondo le linee fondamentali della strategia d'intelligence postbellica dell'OSS nel Teatro del Mediterraneo, quindi, le operazioni speciali si sarebbero dipartite dall'Italia, quale centro strategico del Teatro del Mediterraneo e dalle sue stazioni sarebbero state dirette e coordinate e, in particolare:
- il servizio d'intelligence, di competenza del SI, avrebbe continuato a svilupparsi in e dai paesi del Teatro, sia neutrali sia occupati ovvero liberati, sotto la direzione dei comandi militari nei paesi, ove fosse costituito un Governo Militare Alleato con un comandante americano, ovvero di un rappresentante militare dell'OSS presso le competenti commissioni dell'ACC in quelli, dove si fosse insediata la Commissione Alleata di Controllo;
- le attività di competenza del SO sarebbero state, poi, circoscritte alle aree soggette all'occupazione e controllo militari e sarebbero state condotte secondo le direttive dei comandanti militari;
- la Research & Analysis (R & A) avrebbe proseguito la sua fondamentale attività di raccolta, analisi e studio d'intelligenze per conto dell'OSS e le altre agenzie militari americane.
"Le attività dell'OSS nel Teatro del Mediterraneo durante questo periodo saranno condotte in conformità della seguente politica:
1. Inizialmente le attività dell'OSS prescritte da questo programma saranno controllate e coordinate dalle stazioni in Italia. (…) Appena sarà cessato il bisogno di basi nel Mediterraneo (…) il personale dovrà essere trasferito o rilasciato appena possibile;
2. L'attività d'intelligence continuerà a svilupparsi in e da tutti i paesi occupati, liberati e neutrali del Teatro del Mediterraneo e si diffonderà in conformità alle previsioni del presente programma;
3. Nelle aree dove si sia insediato un governo militare alleato con a capo un comandante americano, l'attività d'intelligence dell'OSS sarà diretta da quest'ultimo;
4. La R & A continuerà a svolgere nel Teatro del Mediterraneo la sua funzione di raccolta e analisi delle intelligenze segrete per l'OSS, l'Esercito, la Marina, le Commissioni Alleate Centrali e i Capi delle Missioni Diplomatiche degli Stati Uniti(…);
5. Le attività del SO saranno limitate alle aree soggette all'occupazione e controllo militari e saranno condotte secondo le volontà dei comandanti militari (…);
6. Le unità dell'OSS dovranno essere assegnate al rappresentante militare anziano dell'OSS presso le competenti commissioni dell'ACC e assoggettate alla supervisione e controllo di quest'ultimo in quei paesi, ove tali commissioni si sono insediate;
7. Nel Teatro saranno sviluppati le comunicazioni e i relativi servizi, nei limiti in cui siano necessari allo svolgimento delle attività avanti delineate;
8. Richieste per un aumento dei fondi in vista dell'incremento di tali programmi saranno inoltrate nel rispetto delle regole in vigore a Washington e sul campo" <89.
Poste queste linee programmatiche complessive, gli obiettivi che l'OSS si prefisse di conseguire nel Teatro del Mediterraneo, nel periodo in esame, si concentrarono, primariamente, nello sviluppo e implementazione di una rete d'intelligence in e dall'Italia, compresa la Sicilia, da un lato, e nella conduzione di operazioni speciali a diretto supporto delle Forze militari nelle aree liberate e soggette all'AMG nonché in quelle ancora occupate dal nemico, dall'altro. Con riguardo particolare al primo obiettivo, il programma prescrisse che il SI dell'OSS del Mediterranean Theatre of Operations (OSS/MTO) si sarebbe avvalso delle fonti già acquisite e consolidate in Italia per l'acquisizione d'informazioni segrete ritenute importanti per l'esercito, la marina, l'OSS, l'AC e gli altri dipartimenti e agenzie governative statunitensi, mantenendo, così, le proprie basi in Italia, sempre nel rispetto delle direttive del Comando Militare Americano del MTO, l'AC, l'OSS dell'European Theatre of Operations (ETO) e l'OSS di Washington e, altresì, conservando stretti contatti con le altre basi del SI in Europa e coordinandosi con gli altri servizi segreti alleati. Per il conseguimento dei suddetti obiettivi furono pianificate le seguenti missioni:
a) raccogliere dalle fonti segrete informazioni militari, politiche, economiche, sociologiche, psicologiche e tutte quelle che fossero state richieste dalle agenzie competenti sopra citate;
b) elaborare e valutare le informazioni raccolte e trasmettere rapporti segreti al Comando Militare Americano del Teatro del Mediterraneo, all'AC, all'OSS del Teatro Operativo Europeo, all'OSS di Washington e al Capo delle Missioni Diplomatiche degli Stati Uniti <90;
c) classificare le informazioni raccolte secondo le seguenti categorie: -militari (concernenti "la posizione e la forza di bande di guerriglieri nemici ovvero gruppi di opposizione e sovversivi operanti in o dall'Italia, con particolare attenzione alle organizzazioni sviluppatesi di recente"; "attività di opposizione al controllo o al governo civile alleato"; "armi e dispositivi segreti, con particolare riguardo alle armi … non usate durante la guerra", "sviluppi scientifici segreti"; "metodi di comunicazione segreti"; "basi militari, stazioni radio e arsenali segreti in Italia e altrove"; piani di fuga clandestina di personale militare nazista e/o fascista in Italia o altrove; "tecniche di difesa segreta contro incursioni aeree o altre attività militari", etc.); -politiche (concernenti eventuali attività di contrasto al controllo o al governo civile alleato in Italia in violazione dei termini dell'armistizio; il Governo italiano, la sua composizione, le sue politiche sia interne sia internazionali e i rapporti con gli altri Poteri; partiti e gruppi politici; le attitudini politiche del popolo italiano, con particolare riguardo alle "reazioni alle politiche delle Nazioni Unite"; tendenze separatiste di alcuni elementi della popolazione; posizioni politiche della Chiesa; etc.); -psicologiche e sociali (concernenti la posizione e condizione dei prigionieri di guerra alleati in Italia); "il morale della popolazione italiana e gli effetti degli stenti vissuti in tempo di guerra"; "l'attitudine della popolazione italiana verso le Nazioni Unite"; effetti dei mutamenti demografici, etc.); -economiche e finanziarie (aventi a oggetto attività poste in violazione dei termini economici e finanziari degli accordi post-bellici); accordi commerciali, industriali o finanziari segretamente stipulati tra l'Italia e gli altri Stati; cartelli e affari che vedevano coinvolti anche gli interessi economici di Tedeschi e Fascisti; prove della continuità della partecipazione tedesca alla gestione delle industrie italiane e in particolare nel nord dell'Italia) <91;
d) provvedere, in collaborazione con l'OSS di Washington, ai necessari adattamenti dell'organico rispetto alle esigenze di implementazione del programma in esame.
Complementare fu, poi, uno speciale programma d'intelligence postbellico di competenza di un'altra fondamentale Divisione dell'OSS in Italia, lo X-2, titolare del servizio di controspionaggio dell'OSS, che, in una situazione che si prospettava pullulante di organizzazioni avverse di spionaggio, controspionaggio e sovversive operanti in e attraverso la penisola, anche dopo la cessazione delle ostilità, avrebbe dovuto non solo mantenere, ma anche estendere il suo servizio per l'Italia per tutto il periodo postbellico e, altresì, reclutare e addestrare personale aggiuntivo, ove richiesto dall'OSS per il Teatro del Mediterraneo, al fine di implementare il programma sopra enunciato.
[NOTE]
84 Si consultino i documenti finali delle conferenze di Yalta del febbraio 1945 e Potsdam del luglio 1945 che statuirono rispettivamente la ripartizione delle rispettive sfere d'influenza sull'Europa tra le potenze vincitrici e dopo la resa ufficiale della Germania, la definizione degli equilibri europei. Reperibili on line in www.lasecondaguerramondiale.it.
85 Si fa riferimento a un dettagliato studio, recante una data parzialmente illeggibile e annotata a mano probabilmente del 6 novembre 1945, sulle condizioni dell'Italia nel periodo postbellico e al ruolo dell'intelligence americana in Italia. L'autore è il capitano italo-americano Roberto Bellini, il quale antepose al proprio rapporto dattiloscritto alcuni commenti autografi di esemplare chiarezza. "Una stretta alleanza con l'Italia dipende dall'esito delle libere elezioni. Il pericolo dell'attuale collaborazione con l'Italia è di perdere la confidenza della Gran Bretagna che non scambierà rapporti con gli italiani. Inoltre, le difficoltà interne ai servizi italiani e i loro continui cambiamenti di personale rendono pericoloso mostrare le nostre carte ovvero puntare tutto su una sola cosa, pena il rischio di perdere. Per questa ragione [incomprensibile], dobbiamo lavorare pazientemente dietro le quinte sino a quando non saremo certi della scena politica italiana e non avremo una linea politica ben determinata da parte del nostro governo." A study of conditions in Italy and of their relation to American intelligence, in NARA, R.G. 226, E. 210, B. 396.
86 "Vent'anni anni di vita sotto un governo dittatoriale con la filosofia del 'diventa ricco senza lavorare', ha defraudato il popolo della sua iniziativa e aggravato la già esistente e universalmente nota allergia al lavoro onesto" A study of conditions in Italy cit., p. 3.
87 "However, to suppose that such establishment of status would prevent other countries from showing interest in Italy would be unwise. Although Italy will retain its sovereignty and will not become the physical property of any other country, varying degrees of interest will become manifest. The city of Rome, from the moment of its liberation, has been a center of intrigue, with representatives of Italian factions, the Vatican, the Balkan countries, the Allies and former Axis members and satellites - all forming alliances, advancing interests and spying on each other. Once a certain degree of control should be established over Italy, the methods and aims of its exploitation become the problems of the political analyst rather than of the counterintelligence operative, yet there is no doubt that such control, if control there must be, would be safest in the hands of the United States , which has non imperial axe to grind and which has the largest stake in world peace." A study of conditions in Italy cit., p. 1
88 Ivi, p. 2
89 Il rapporto Over-All and Special Programs for Strategic Services Activities in the Mediterranean Theater (Post-Hostilities), redatto dall'OSS -Planning Group Office- l'11 dicembre 1944, fu inviato al JCS a Washington per l'informazione, dopo aver ricevuto l'approvazione di Donovan. A esso sono allegati due speciali programmi concernenti l'uno, le attività d'intelligence di competenza del SI e l'altro, quelle di competenza dello X-2, denominati rispettivamente Special Program No. 1, MTO. Intelligence Program -SI (Post-Hostilities) e Special Program No. 1, MTO. Intelligence Program - X-2 (Post-Hostilities). Una copia fu inviata, per conoscenza, il 2 gennaio 1945 al Quartier Generale dell'OSS di Caserta e di questa è conservata traccia nei NARA, R.G. 226, E. 210, B. 396.
90 "MISSIONS: a. Collect military, political, economic, sociological, psychological, and such other information as may be required. b. Process and evaluate the information collected by SI and disseminate secret intelligence to the U.S. Military Commander/MTO, to the Allied Commission, to OSS/ ETO, to OSS/Washington, and to the Chief of the Diplomatic Mission of the United States." Over-All and Special Programs for Strategic Services Activities in the Mediterranean Theater (Post-Hostilities) cit., Special Program No. 1, MTO. Intelligence Program - SI (Post Hostilities), p. 3
91 "Operatives will be briefed to collect primarily from secret sources specific information of which the following classes are typical: (1) Military [sic] (a) Location and strength of any enemy guerrillas and other opposition and subversive groups operating in or from Italian territory with particular attention to newly developing organization. (b) Activities opposed to Allied control or civil government. (c) Secret weapons and devices, especially weapons or plans for weapons which were not used during hostilities. (d) Secret scientific developments. (e) Secret communications methods. (f) Secret military bases, radio stations, ad supply arsenals in Italy and elsewhere. (…) (h) Plans of German and Fascist military personnel to go underground in Italy and elsewhere. (i) Undisclosed techniques or defenses against air raids or other military activity. (2) Political [sic] (a) Activities in violation of the political terms of Allied control or civil government; (b) Composition of the Italian regime, attitudes and policies in domestic and foreign affairs, and relations with other powers. (c) Strenght, composition, intentions and motives or political factions and parties. (d) Political inclinations of all groups of the population; local feeling on political questions; reactions to United Nations policies. (e) Separatist tendencies of various elements of the population. (f) Political policies of church groups, and their activities. (g) Reactions to Allied control policies (…) 3) Psychological and Social [sic] (a) Location and condition of Allied prisoners of war and foreign labor groups. (b) Morale of the Italian people - effects of war time privations. (c) Attitude of the people toward United Nations. (d) Effects of shifts of population. (4) Economic and Financial [sic] (a) Activities in violation of the economic and financial terms of post - hostilities agreements. (b) Existence and terms of secret commercial industrial or financial agreements between the Italian government and other states. (c) Present status of cartel arrangements in which Nazi or Fascist business interests participated. (d) Evidences of continued German participation in Italian baking and industry, particularly in Northern Italy." Over-All and Special Programs for Strategic Services Activities in the Mediterranean Theater (Post-Hostilities) cit., Special Program No. 1, MTO. Intelligence Program - SI (Post Hostilities), pp. 4 e 5.

Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012 

L’OWI, dal canto suo, aprì la propria sede centrale in Italia a Roma, nell’estate del 1944. In teoria, il suo ruolo era quello di ufficio stampa, per la diffusione delle informazioni sulle attività belliche dell’esercito americano, ma la Commissione alleata di controllo lo trasformò in uno strumento più potente: non solo il bollettino curato dall’ufficio divenne l’unico strumento per conoscere le notizie di agenzia (e tale sarebbe rimasto fino al gennaio 1945, quando iniziò la sua attività l’ANSA), ma l’OWI divenne il fornitore di carta per i giornali, ed un bene così prezioso per l’informazione in tempo di guerra fu gestito per influenzare la linea editoriale delle redazioni della capitale <124.
Con la fine del conflitto, le strutture create dall’OWI e dal PWB non furono immediatamente smantellate, e la loro attività divenne un punto di riferimento per le azioni successive. In particolare, la propaganda organizzata favorevole agli Stati Uniti rimase attiva, tramite gli uffici USIS (United States Information Service), che già l’OWI aveva istituito in oltre quaranta ambasciate <125. Formalmente, il ruolo di tali agenzie era quello di curare i rapporti tra le rappresentanze ufficiali del governo americano e i mezzi di informazione dei paesi ospitanti, fornendo notizie ed informazioni di carattere ufficiale sugli Stati Uniti; negli anni della guerra fredda esse agivano da centrali di controllo dell’opinione pubblica dei paesi ospitanti, e cercavano di orientarla in senso favorevole agli USA <126. L’OWI fu poi soppresso nell’estate del 1945, ma con l’irrigidimento delle tensioni internazionali a partire dal 1947, si ebbe una riorganizzazione delle strutture di definizione della strategia propagandistica internazionale: a novembre il National Security Act istituì il National Security Council, destinato all’elaborazione della politica internazionale americana <127. Il progetto era di riproporre in tempo di pace, e in chiave marcatamente antisovietica, alcune delle attività propagandistiche sperimentate nel conflitto, a imitazione di quanto andava tentando di organizzare la Gran Bretagna <128, ma su una scala assai più vasta.
[NOTE]
124 Cfr. R. Faenza, M. Fini, Gli americani in Italia cit., pp. 57-58 e 102. Utili riferimenti comparativi con le strutture che agivano in altri paesi, occupati per un periodo più lungo sono N. Pronay, K. Wilson (eds.), The Political Re-Education of Germany and her Allies after World War II, London-Sidney, Croom Helm, 2001, e R. Wangneitner, Coca-Colonization and the Cold War. The Cultural Mission of the United States in Austria after the Second World War, Chapel Hill-London, The University of North Carolina Press, 1994, pp. 84-107.
125 Per un’idea del lavoro svolto nel corso del tempo dagli uffici USIS, una descrizione interessante è ancora quella di J.W. Henderson, The United States Information Agency, New York, Praeger, 1969, spec. pp. 128-162.
126 Walter L. Hixson, Parting the Curtain. Propaganda, Culture and the Cold War, Bakingstoke-London, Macmillan, 1998, pp. 2-4.
127 Sul ruolo del NSC nel mondo della propaganda, cfr. W. P. Dizard, Inventing Public Diplomacy cit., pp. 38-39 e ss.
128 Cfr. A Defty, Britain, America and Anti-Communist Propaganda. 1945-1953. The Information Research Department, London-New York, Routeledge, 2004, pp. XVIII-281.

Andrea Mariuzzo, Comunismo e anticomunismo in Italia (1945-1953): strategie comunicative e conflitto politico, Tesi di perfezionamento in discipline storiche, Scuola Normale Superiore di Pisa, 2006

venerdì 30 dicembre 2022

Nei confronti dell'Italia il polo di rigidità era in Washington, piuttosto che Londra


Il 26 settembre 1944, a margine della seconda conferenza di Quebec, i leader anglo-americani concordavano una dichiarazione programmatica che prometteva l’avvio di una nuova fase nelle relazioni tra gli Alleati e l’Italia, in conseguenza delle dimostrazioni di parziale affidabilità offerte da quest’ultima dopo aver combattuto al fianco delle forze antifasciste e partecipato attivamente alla rinascita di una parvenza di sistema democratico rappresentata dal governo di coalizione insediatosi in giugno nella capitale liberata <603. Le potenze occupanti, dunque, stabilivano che una «increasing measure of control will be gradually handed over to the Italian administration» mediante il ripristino di normali relazioni diplomatiche e un progressivo ridimensionamento delle funzioni e delle ingerenze dell’ACC nella vita istituzionale italiana, simboleggiato dalla nuova denominazione di Allied Commission (AC) <604.
L’impressione che una maggiore attenzione all’elemento liberale della politica alleata per l’Italia provenisse dal versante americano dell’alleanza era diffusa tra i contemporanei e confermata in sede storiografica. Nella versione tradizionale, il cambio direzionale operato dagli anglo-americani nella penisola era da ascriversi interamente o quasi all’atteggiamento progressista e amichevole manifestatosi tra le fila americane con maggiore evidenza sin dal gennaio 1944 quando, come si è raccontato nel capitolo precedente, la politica di non intervento preferita dagli statunitensi prendeva la forma di una agevolazione della formazione di un gabinetto marcatamente antifascista e dell’estromissione della figura del monarca dalla scena pubblica italiana. La storiografia, fosse questa di matrice britannica, americana o italiana, ha sottolineato quanto americani e inglesi avessero affrontato la sconfitta dell’Italia e le responsabilità che ne erano seguite con prospettive alquanto differenti, tratteggiando una contrapposizione di fondo tra una Washington interessata alla ricostruzione democratica dell’Italia e una Londra dedita alla conservazione dei propri interessi regionali, per la quale un’Italia debole risultava un fattore indispensabile. Se per gli americani la concentrazione militare nella penisola era stata prevalentemente una tappa nella guerra contro la Germania, «a defeat administered more in sorrow that in anger», per gli inglesi l’eliminazione del nemico mediterraneo, cercata con una determinazione vicina all’ossessione per l’intera durata del conflitto anglo-italiano, costituiva un traguardo a conclusione di un lungo periodo di confusione politica e ansie strategiche, «the elimination of a local rival who had come dangerously close to making good his boasts» <605. Uno tra i maggiori storici dell’occupazione, David Ellwood, sosteneva che il rifiuto britannico di prendere atto del drastico mutamento nella reale consistenza della minaccia rappresentata dagli italiani nel Mediterraneo ora che lo status di potenza era stato annientato da una doppia occupazione aveva portato Londra all’incapacità di definire «in any precise, non-arbitrary way a positive role for Italy in a post-war international system» <606. Secondo Varsori, il fallimento della linea conciliatoria britannica era dovuto alla constatazione della relativa inutilità dell’apporto fornito dalla macchina amministrativa e militare brindisina allo sforzo alleato, che aveva fatto svanire la disponibilità londinese a compiere concessioni modulate sul principio del “payment by results”. Nella delusione provocata dallo scontro dei progetti britannici con la sconfortante realtà del governo provvisorio in fuga da Roma, «i motivi, già emersi in precedenza, che giustificavano un atteggiamento duro verso l’Italia, ripresero il sopravvento» <607.
La differenza sostanziale, insomma, stava nell’importanza che si dava, nelle due capitali alleate, alla lettera dell’armistizio e alle azioni compiute dal governo italiano nelle fasi successive al cambio di campo. Gli inglesi, in una accurata descrizione del loro stato d’animo tracciata dal Dipartimento di Stato, consideravano quella italiana una nazione sconfitta che si era arresa senza condizioni, facendovi riferimento come ad un nemico e insistendo su una rigida applicazione dello strumento di resa, mentre dall’altra parte dell’Atlantico si era preso con serietà lo status della cobelligeranza, traendo le conseguenze dovute dalla cessazione de facto dello stato di guerra tra i due paesi <608. Al forte supporto fornito dagli americani al recupero dell’Italia, rifletteva Gat, faceva da contrappeso la rigidità britannica che, volendo mostrare al mondo che una politica di aggressione non avrebbe pagato, «was not willing to forget Italy’s deeds during three years of war» <609. L’approccio americano, in sostanza, come evidenziano le conclusioni cui giunge lo storico Buchanan, sembrava offrire un’alternativa allo spirito punitivo patrocinato dagli inglesi: «America’s paternalistic intervention in Italian politics had a fundamentally redemptive rather than punitive thrust»; laddove Londra minacciava, Washington offriva speranza <610.
La percezione condivisa da protagonisti e storici aveva raggiunto anche gli ambienti italiani, dove si credeva che gli inglesi, in particolar modo il Foreign Office di Eden, «tenderebbero a mantenere un’Italia debole, che non pensi e non possa dar ulteriori fastidi nel Mediterraneo», mentre gli americani sarebbero invece convinti «della necessità di un’Italia forte che possa riprendere in Europa la sua missione di civiltà e dunque il suo posto, che non può in nessun caso che essere quello di una potenza dirigente»611. Da parte italiana si tendeva a denunciare lo spostamento semantico operato da Churchill, sempre più portato ad addossare alla popolazione italiana la colpa delle condizioni drammatiche nelle quali questa si trovava a vivere, quando invece, in diverse occasioni precedenti, aveva enfatizzato come la responsabilità della guerra italiana fosse da attribuire esclusivamente alle azioni di Mussolini <612.
In sede di analisi conclusiva si possono discutere le possibili accezioni e sfaccettature che la mitezza attribuita alla politica sviluppata in Italia dagli americani a partire dal 1944 poteva assumere, ma l’insistenza sulla natura diretta del controllo da imporre nei territori occupati e il netto rifiuto di una collaborazione con le autorità italiane nella gestione dell’amministrazione che avevano caratterizzato la posizione americana nel periodo precedente al luglio 1943 erano segnali inconfondibili a dimostrazione di un’alleanza che aveva, quantomeno nelle sue fasi iniziali, il suo polo di rigidità in Washington, piuttosto che Londra. Il fatto che a partire dai primi mesi del 1944 le posizioni si fossero soltanto in parte invertite non giustifica la convinzione, piuttosto diffusa, come si accennava, che ad un atteggiamento morbido scelto dagli americani se ne contrapponesse uno duro da parte degli inglesi. La critica alla condotta britannica nel trattamento riservato all’Italia occupata faceva il paio con quella riguardante la strategia mediterranea tradizionalmente articolata in modo esclusivo e autonomo dagli inglesi che tendeva ad escludere dal ragionamento l’attiva collaborazione americana alla definizione di un progetto a lungo termine, anch’essa determinata da interessi e considerazioni strategiche che, seppur diversi da quelli inglesi, rispondevano comunque ad esigenze di carattere nazionale <613. La strategia alleata per l’Europa occupata non era certamente frutto di una elaborazione solitaria compiuta da Londra: Washington aveva iniziato a contribuire ben prima del 1944, riuscendo in più occasioni ad intervenire con l’intento di arginare l’incontinenza strategica mostrata dagli alleati. Con lo sguardo volto agli sviluppi futuri, le posizioni erano destinate a ribaltarsi ancora una volta: gli inglesi mostravano sì un intento punitivo nei confronti dell’Italia, una necessità geopolitica di neutralizzare il pericolo italiano nel Mediterraneo britannico, ma, almeno a detta degli stessi protagonisti della politica londinese in diverse occasioni, l’Italia non rientrava nei piani postbellici inglesi né era considerata una pedina fondamentale nella scacchiera strategica britannica <614. Londra aveva convinto l’alleato d’oltreoceano a partecipare attivamente alla gestione del Mediterraneo e aveva incentivato lo sviluppo di una presenza militare ed economica americana in Italia; l’emergere di particolari interessi nella regione aveva definitivamente legato Washington all’Italia e coinvolto gli americani nella conduzione degli affari locali.
Che il governo inglese avesse mantenuto una posizione a tratti ostile nei confronti del nemico finalmente sconfitto e riportato alla sua condizione di potenza minore è fuor di dubbio. Tra l’aprile e il maggio 1944, quando nelle capitali alleate si discuteva della richiesta riguardante la revisione dello status italiano avanzata da Badoglio, la politica londinese si opponeva con fermezza all’innalzamento della cobelligeranza in alleanza, mostrando scarso interesse ad incoraggiare «too rapidly a marked tendency in her part to forget altogether her position as a defeated enemy or to claim privileges of an ally at the expense of an armistice». Nella visione inglese, quanto più abbondanti le concessioni fatte nel momento di minore capacità italiana, tanto più difficile sarebbe stato imporre le sanzioni desiderate una volta liberata la penisola dalla presenza tedesca <615. Il Foreign Office in particolare non era pronto a intaccare le fondamenta delle relazioni intrattenute con gli italiani e metteva in guardia il War Cabinet dal rischio di essere indotti a fare sempre nuove concessioni dietro la minaccia di una caduta del governo qualora queste non fossero state soddisfatte. Accanto ad un incontrovertibile elemento di verità, secondo l’interpretazione che se ne dava a Londra, nelle lamentele italiane si trovava anche «an unpleasant flavor of blackmail». La linea da adottare, dunque, doveva consistere in un netto rifiuto «even to consider the question of giving Italy Allied status during the war», e subordinare il miglioramento delle condizioni armistiziali al soddisfacimento delle richieste alleate <616. Gli italiani, d’altra parte, secondo la visione condivisa da larghe parti dello schieramento britannico, dovevano considerarsi fortunati ad aver ricevuto la grazia di una permanenza in posizioni di responsabilità governative e amministrative e Londra «shall be very lucky if we never have anything worse than the present Italian government to deal with» <617.
A seguito del rovesciamento di Badoglio in giugno, il fastidio per le macchinazioni degli italiani portava a rigurgiti di quel risentimento che aveva contraddistinto alcune delle reazioni britanniche all’ingresso in guerra dell’Italia. Riflettendo sulla ambigua realtà della resa incondizionata nella sua applicazione al caso italiano, Churchill si chiedeva «whether it was they who had unconditionally surrendered to us or whether we were about unconditionally to surrender to them», richiamando il trattamento di favore riservato agli italiani e il mancato intervento alleato nelle evoluzioni del quadro politico del paese occupato <618. In aggiunta, gli eventi del marzo, con l’avvicinamento sovietico al governo italiano, determinavano un duplice effetto che, spinto dalla paura per la perdita della posizione di predominio nella regione, istigava da una parte una politica di concessioni che motivasse l’Italia a rimanere nella sfera d’influenza anglo-americana, e dall’altra restringesse ulteriormente la morsa del controllo alleato per evitare che si lasciasse libero il governo italiano di passare volontariamente sotto la protezione dell’alleato/nemico sovietico. Pur riconoscendo l’importanza in prospettiva futura di avere un’Italia con la quale poter collaborare in armonia per il mantenimento di un Mediterraneo prospero e pacifico, il Foreign Office era convinto della necessità imperativa di rifiutare «the Italian threat that if we do not go fast enough in transforming Italy from a defeated enemy into a new-made ally, she will at once go Communist and throw herself into the arms of the Soviet government» <619. In considerazione del turbolento passato recente condiviso con l’Italia, gli inglesi intendevano combinare i piani strategico e geopolitico in una politica che impedisse la ricostituzione di una Italia «with an exaggerated sense of her own strength, for that leads to trouble» <620, sviluppando una strategia che indebolisse il paese «so as to deprive her of the capacity for future aggression, while leaving her sufficient power to check the spread of communism» <621.
La situazione sembrava abbastanza chiara. Gli inglesi intendevano tenere a bada le aspirazioni italiane intervenendo con una politica repressiva che rendesse improbabile, se non impossibile, una riemersione dell’imperialismo mediterraneo fascista. Qualche dubbio sulla monoliticità del giudizio generalmente espresso, tuttavia, rimane. L’ostilità manifestata da Londra in diverse occasioni e in particolare nel periodo successivo alla perdita del punto di riferimento rappresentato da Badoglio era essa stessa espressione di valutazioni non unanimemente condivise da tutti gli agenti politici e militari britannici, o comunque figlia di un lungo periodo di inimicizia avviato da una decisione unilaterale italiana che, come si è visto, gli inglesi avevano tentato in ogni modo di scongiurare. Accanto alla fazione capeggiata da Eden, tendenzialmente contraria al riconoscimento di privilegi e scorciatoie agli italiani, ancora ritenuti nemici tout court, nella politica britannica per l’Italia vi era una seconda anima, moderata e pragmatica, che, prendendo atto della precaria posizione inglese nella regione e dell’effettivo rischio di perdere il controllo della situazione italiana in mancanza di gesti concreti in aiuto della popolazione e delle forze liberali, guidava Londra in direzione di un controllo meno duro, partecipando in maniera decisiva alla costruzione di una politica che, nel giro di pochi mesi, si sarebbe rivelata vincente, culminando nell’enunciazione di una nuova direzione alleata in Italia.
I primi segnali di ammorbidimento venivano inviati da Londra già in occasione della pianificazione per la commissione di controllo nelle settimane immediatamente successive all’imposizione dei termini di resa. Con gli sviluppi post-armistiziali, la concezione britannica del controllo sul governo italiano cambiava radicalmente, in considerazione del fatto che l’Italia non aveva passivamente accettato la capitolazione, ma si era offerta di cambiare campo. Il 7 settembre, ancor prima dell’annuncio ufficiale, Churchill mostrava un atteggiamento assai più accomodante di quanto fatto in precedenza riflettendo sul fatto che le guerre non si vincessero «in order simply to pay off old scores but rather to make beneficial arrangements for the future» <622. Un mese più tardi, il Foreign Office, proponendo una mitigazione delle clausole armistiziali sulla base dei servizi resi dagli italiani nella lotta contro il nemico comune, riteneva la rigida struttura della commissione di controllo inadeguata alle esigenze di promozione di una massima collaborazione con gli italiani, anche nel contesto dell’occupazione militare <623.
Il terreno di coltura di questa nuova politica consisteva, oltre che delle considerazioni strategiche tornate all’attenzione dei leader britannici con la penetrazione sovietica e il sorpasso subito dagli americani in Italia, delle precarie condizioni in cui il governo italiano si trovava ad operare e la popolazione civile a vivere. Una serie di rapporti provenienti dai territori occupati ricordavano ai policy-maker britannici che la situazione istituzionale dell’Italia alleata era ancora tutt’altro che stabile. Nonostante la mancata esecuzione di diverse clausole e il processo di costante rafforzamento della macchina amministrativa italiana, ragionava il Foreign Office, «the Italian government are still not masters in their own house» ed era in ultima istanza costretto ad uniformarsi agli ordini esecutivi del Comandante Supremo, oltreché a dovere la propria sopravvivenza economica alla carità dei governi anglo-americani <624. Lo scontento italiano derivava anche e soprattutto, stando all’analisi di Caccia da Brindisi, dal visibile distacco creatosi tra la propaganda effettuata dagli Alleati in Italia nel periodo pre-armistiziale, con la promessa di un trattamento giusto ed equo, e il trattamento imposto dopo l’8 settembre, segnato da un atteggiamento scarsamente conciliante nei confronti delle richieste e delle esigenze italiane <625. In gennaio, Macmillan denunciava un certo dualismo nella politica adottata dagli inglesi verso il governo italiano che rendeva difficili consistenti progressi e invitava di conseguenza Londra a svolgere un ruolo costruttivo che evitasse di affiancare al rafforzamento di Badoglio e del suo governo la tendenza «to deal him fresh blows», sperando che la ricezione della nuova entità governativa italiana presso le opinioni pubbliche e i governi alleati fosse determinata dall’osservazione della sua performance presente tanto quanto dal ricordo dei suoi misfatti passati. Ricorrendo ad una analogia religiosa, il Resmin, pur valorizzando la funzione di confessione e penitenza nella conversione di un peccatore, riteneva sbagliato «to refuse absolution altogether, however tactfully» e, riferendosi al rifiuto opposto dal Foreign Office all’inclusione dell’Italia nella Carta Atlantica, commentava che se Paolo di Tarso avesse adottato un atteggiamento analogo nei confronti dei gentili, «Christianity would have remained a small Jewish sect» <626. Le contraddizioni presenti nella produzione politica britannica nel contesto dell’occupazione italiana erano inconciliabili con gli obiettivi che questa stessa politica si prefiggeva: talvolta si consideravano gli italiani nemici, talaltre cobelligeranti; «sometimes we wish to punish them for their sins; sometimes to appear as rescuers and guardian angels. It beats me» <627.
Il riconoscimento dei limiti della politica restrittiva britannica, considerata parzialmente responsabile degli aspetti più negativi della situazione italiana, generava una istanza di rinnovamento che veniva portata avanti dai tre uomini inviati da Londra ad operare a stretto contatto con gli italiani, Caccia, Macmillan e, ad uno stadio più avanzato delle relazioni, Charles. La prima concreta proposta di allentamento dei legacci armistiziali giungeva nel marzo 1944 sotto forma di una lunga riflessione sulle complicazioni imposte dall’esistenza di un doppio armistizio in Italia sviluppata da Caccia con la collaborazione del collega americano Reber. Le difficoltà esperite dal governo italiano erano da imputare in gran parte al fatto che i termini di resa erano stati preparati con tanto anticipo «that it bore little relation to the conditions of the Italian capitulation and Allied requirements thereafter». La reale applicazione delle clausole si limitava infatti ad una serie di articoli, approssimativamente la metà di quelli previsti dai long terms, che erano eseguiti al massimo delle potenzialità governative, che in quei mesi equivaleva ad un rinvio della piena esecuzione alla fine della guerra, quando l’intero territorio italiano sarebbe stato sottoposto al controllo dell’amministrazione italiana. La mancanza di una politica costruttiva che prevedesse quantomeno l’abolizione delle clausole in disuso, non rispondenti alla realtà militare e istituzionale dell’Italia occupata, era da considerarsi alla radice dell’iniziativa sovietica e soprattutto della felice ricezione di questa nel campo italiano. Come sottolineato dai due emissari anglo-americani, «if by accident or fortuitous circumstances our treatment of a conquered people grows severer, the result is the same as if this had been a considered policy» <628.
[NOTE]
603 La Second Quebec Conference aveva luogo, con il nome in codice Octagon, tra il 12 e il 16 settembre 1944 nella città di Quebec.
604 Il testo integrale della dichiarazione in FRUS, Conference at Quebec, 1944, Washington D.C., U.S. Government Printing Office, 1944, p. 494. L’assunzione della carica di ambasciatore da parte di Charles, già Alto Commissario britannico in Italia, sarà annunciata a Bonomi il 10 ottobre, mentre il rappresentante americano a Roma, Alexander Kirk, ne portava già il titolo; il governo italiano era contestualmente invitato a nominare propri rappresentanti presso le capitali alleate. Pur non essendo ancora possibile la ripresa delle normali relazioni diplomatiche tra i due paesi, veniva stabilito un contatto diretto con il governo italiano per le questioni riguardanti interessi politici tra Italia e Gran Bretagna, cfr. Charles a Bonomi, MAE, SG, vol. XXII.
605 Cit. Reitzel, The Mediterranean, p. 26.
606 Ellwood, Italy, 1943-45, cit., pp. 100-1.
607 Varsori, L’atteggiamento britannico verso l’Italia, cit., p. 156.
608 La posizione americana nel telegramma di Dunn a Offie, Office of US Political Adviser, del 14 febbraio 1945, riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, p. 31.
609 Gat, Britain and Italy, 1943-49, cit., p. 89.
610 Cfr. Buchanan, “Good morning, Pupil!”, cit., p. 240.
611 Cit. l’appunto di Prunas del 29 settembre 1944 su un colloquio avuto con Kirk, in cui si riportava la convinzione di Kirk che durante le conversazioni di Quebec fossero affiorati in tutta la loro evidenza due atteggiamenti radicalmente diversi tra i due alleati circa l’Italia, MAE, AP, Stati Uniti, b. 89.
612 Il 6 settembre 1944, il quotidiano della comunità italiana negli Stati Uniti, Il Progresso Italo-Americano, pubblicava un editoriale dal titolo Italy and Churchill nel quale si denunciava l’inconsistenza della politica del Primo Ministro nei confronti dell’Italia. Nel saluto trasmesso agli italiani alla partenza dal suo viaggio nella penisola, Churchill aveva ricordato come gli italiani non potessero ritenersi immuni da biasimo per essersi lasciati governare per un ventennio dal regime fascista. Secondo il giornale, tuttavia, questa era una conclusione radicalmente diversa da quella presentata da Churchill nel messaggio del 23 dicembre 1940, quando si era proceduto a scindere il giudizio del popolo italiano dalle colpe del Duce. PREM 3/243/15. Altri riferimenti ad una politica britannica tendente a separare i mali del regime dalla popolazione italiana si trovano nei documenti riguardanti la definizione della propaganda politica da adottare in Italia prima dell’invasione, FO 898/163.
613 Per citare Leighton, lo stereotipo consolidato che voleva gli inglesi intenti a manovrare dietro le quinte per indebolire Overlord al fine di dare precedenza alle operazioni mediterranee per poi essere costretti, soltanto in extremis, ad allinearsi controvoglia alla posizione americana non era coerente con le indicazioni della documentazione anglo-americana, Leighton, Overlord Revisited, cit., p. 922.
614 In un discorso ai Comuni del 18 gennaio 1945, Churchill dichiarava che per il governo britannico non vi erano «political combinations in Europe or elsewhere in which we need Italy as a party», MAE, ADG, b. 48.
615 Si vedano il memorandum del Foreign Office del 20 aprile 1944, poi trasmesso a Washington il 24, FO 115/3604; e il telegramma di Churchill a Eden del 26 aprile, in cui si definiva un errore la prematura liberazione del governo italiano dai vincoli armistiziali, CAB 120/584.
616 Cit. la nota di Sargent dell’11 maggio, FO 371/43911. Sulla questione del rancore nutrito da Eden nei confronti dell’Italia, significativa la riflessione di Ellwood, secondo il quale il ministro inglese, «who apparently had not yet heard that Mussolini is dead and is no longer running Italy», era considerato dagli stessi suoi subordinati all’interno del ministero «most unreasonable on subject of Italy and indeed almost psychopathic», Ellwood, Italy, 1943-45, p. 208.
617 Cit. il messaggio di Churchill a Eden del 26 maggio 1944, CAB 120/584.
618 Il commento di Churchill è ripreso dal discorso del gennaio 1945 già citato.
619 Cit. il telegramma di Eden a Charles del 14 agosto 1944, FO 954. Cfr. anche quello di Churchill a Macmillan del giorno precedente, in cui si leggevano le perplessità del Primo Ministro circa la concessione intempestiva all’Italia di uno status che avrebbe affrancato le relazioni anglo-italiane dalle costrizioni dell’armistizio, CAB 120/584.
620 Cit. il Memo on British Long Term Interests in Italy preparato da Caccia e inviato il 26 ottobre 1944 da Charles al Foreign Office, FO 371/43915.
621 Gat, op. cit., p. 89.
622 La citazione nella lettera di Churchill a Eden e ai COS del 7 settembre 1943, PREM 3/245/7.
623 Cfr. la nota FO del 4 ottobre 1943, Relations with the Italian Government and Control Commission in Italy, FO 371/37310. Con questo suggerimento Whitehall non rinunciava alla creazione dell’ACC, ritenuta comunque necessaria alla supervisione del governo italiano, ma intendeva limitare l’insistenza su alcune clausole dell’armistizio che, nelle circostanze di quel periodo, risultavano inapplicabili (l’esempio evidenziato riguarda quella sul disarmo italiano mentre si tentava di formare divisioni italiane per combattere i tedeschi al fianco delle forze alleate).
624 Si veda la nota FO (Williams) del 21 novembre 1944, British Policy Towards Italy, FO 371/43916.
625 Cfr. il rapporto di Caccia al Foreign Office del 27 dicembre 1943, FO 371/43909.
626 24 gennaio 1944, Macmillan a Eden, PREM 3/243/8.
627 Il telegramma di Macmillan a Eden del 10 settembre 1944 è riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, cit., p. 105.
628 Cfr. il memorandum inviato a Londra e Washington il 31 marzo 1944, in ACC, b. 959. Secondo Caccia e Reber, gli articoli 16, 25, 28, 29, 30, 33 e 34 dei long terms non erano mai stati eseguiti o in modo soltanto parziale; gli articoli 1-27 (con l’eccezione del 16) erano stati o continuavano ad essere eseguiti dal governo al massimo delle sue potenzialità, il che però significava che non sarebbero stati pienamente eseguiti fino a quando il governo italiano non avrebbe governato l’intero paese.
Marco Maria Aterrano, “The Garden Path”. Il dibattito interalleato e l’evoluzione della politica anglo-americana per l’Italia dalla strategia militare al controllo istituzionale, 1939-1945, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, Anno Accademico 2012-2013

mercoledì 26 gennaio 2022

Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia

Fonte: Wikipedia

Tuttavia le precoci testimonianze sui campi francesi, come Drancy e Compiègne, suscitarono uno scarso interesse nella Francia del dopoguerra, più volta alla ricostruzione che al ricordo dei terribili anni dell’occupazione tedesca. L’attenzione del pubblico era per lo più rivolta ai resoconti dei campi di concentramento in Germania e di sterminio in Polonia, rispetto ai quali i campi francesi rivestivano per il momento un ruolo marginale nel racconto della storia della deportazione. <28 I campi di transito richiamavano infatti alla memoria una sensazione di precarietà ben diversa da quella dei Konzentrationslager dell’Est Europa: si avvertiva cioè un sentimento di futilità nel descrivere delle esperienze che apparivano a posteriori come sopportabili rispetto ai “lieux de cauchemar” conosciuti in seguito <29.
In Italia, diversamente dalla Francia, dove la narrativa resistenziale riusciva a coniugare vittoria e martirio, ricomprendendo vincitori e vinti, fu difficile includere i deportati, anche se partigiani, nelle file dei vincitori, poiché non erano stati tra i fautori attivi della ritrovata libertà <30. Non del tutto invisibile, ma neanche dirompente, fu poi la memoria della specifica sorte toccata agli ebrei, perseguitati e deportati in virtù di ciò che erano e non in funzione della loro appartenenza ad un partito <31, il cui percorso venne dunque compreso attraverso il filtro dell'esperienza dei deportati politici <32. Come ricorda Aline Sierp, oltre all’istituzionalizzazione di alcune ricorrenze che divennero nel dopoguerra commemorazioni pubbliche in memoria della caduta del Fascismo (tra cui il 25 aprile 1945), un’attenzione speciale era rivolta agli anniversari delle stragi compiute dai nazisti in Italia, come le Fosse Ardeatine, Cefalonia, Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto, al fine di sottolineare “il tributo di sangue” pagato dall’Italia <33.
L’interesse degli alti vertici statali e dell’opinione pubblica nei confronti dei campi di concentramento e transito sorti in territorio italiano era invece di tutt’altro tenore. Nel 1955, momento cruciale per le celebrazioni del decennale della Liberazione, Primo Levi si rammaricava dell'indifferenza generale che avvolgeva i deportati razziali, concludendo che fosse ancora “indelicato parlare” dell'esperienza concentrazionaria e dei campi di sterminio <34.
Come ricorda Manuela Consonni, tra il 1944 e il 1950 furono in tutto 38 i titoli dedicati al racconto della persecuzione e della deportazione, tra cui solo 8 di essi provenienti dalla penna di scrittori ebrei <35. Dopo una lunga pausa degli scritti di memorialistica sulla deportazione, si avvertì una ripresa dalla metà degli anni Cinquanta, con l’uscita di "Si fa presto a dire fame" di Piero Caleffi nel 1954, la seconda edizione di "Se questo è un uomo" pubblicata da Einaudi nel 1958, la traduzione italiana del "Diario di Anna Frank" e de "La specie umana" di Robert Antelme.
Anche in Francia, come in Italia, l’associazionismo che raccoglieva le esperienze degli ex deportati era per lo più di sinistra: per questo alcuni sopravvissuti ai campi, come Simone Veil, Robert Waitz o Georges Wellers preferirono restare ai margini delle associazioni marcatamente “partigiane” <36. Come ricordava poi Olivier Lalieu: "L’affirmation d’un destin singulier des Juifs en déportation est donc entravée au nom de l’antifascisme triomphant porté par les communistes ou confiné à des sphères guère visibles au sein de la société française. Mais elle est également contrariée dès 1945 par une tradition républicaine qui répugne à distinguer une partie de la population en fonction de critères
religieux" <37. A questo proposito, lo storico francese ricorda come il Ministère des prisonniers, déportés, rapatriés promosse la diffusione nel 1945 di un poster in cui un lavoratore forzato e un prigioniero di guerra in tenuta a righe si abbracciavano, sotto lo slogan “Il sont unis. Ne le divisez pas” <38.
Per Annette Wieviorka, neppure la comunità ebraica organizzata mise l’accento sulla specificità del genocidio: "Elle vit dans l’ombre portée des années noires, et aspire, comme tout un chacun d’ailleurs au lendemain d’une guerre, au retour à la normale, que l’on se présente à l’image de ce que fut l’avant-guerre. Les commémorations marquent alors le désir de réintégrer la communauté nationale, dont les Juifs de France avaient été exclus par l’occupant nazi et la contre-révolution vichyssoise" <39.
La fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 segnarono una prima svolta nelle politiche della memoria dei due Paesi: al termine della guerra d'Algeria, che aveva contribuito a richiamare gli inquietanti fantasmi del passato recente <40, la V Repubblica veicolava una visione pacificata del secondo conflitto mondiale plasmando la rappresentazione collettiva attraverso l'edificazione di numerose opere, come il Musée du Débarquement de Provence al Mont Faron, il Musée de l'Ordre de la Libération, il Mémorial du Struthof e il Mémorial de la Déportation sur l'Île de la Cité <41. Inoltre, il 18 dicembre 1964, le ceneri di Jean Moulin vennero trasferite al Panthéon: la grande cerimonia organizzata per l'occasione favorì l'identificazione del generale Charles de Gaulle e della nazione intera con l'eroe simbolo della Resistenza <42. Una "Journée nationale de la déportation" venne poi istituita nel 1954, segnando l'ingresso ufficiale della deportazione nell'agenda delle commemorazioni nazionali <43.
È proprio in questo periodo che opere di letteratura, cinema e teatro misero al centro il tema della deportazione: i romanzi di John Hersey "La muraille" pubblicato nel 1952 e "La mort est mon métier" di Robert Merle, sulla figura del comandante di Auschwitz Rudolf Hoess, furono seguiti da "Le Dernier des Justes" di André Schwarz-Bart nel 1959 e la pièce teatrale "Le vicaire di Rolf Hochhuth" nel 1961. Al cinema nel 1957, "Nuit et Brouillard" di Alain Resnais propose le immagini dei campi con il commento e le parole del poeta Jean Cayrol. Inoltre, tra il 1951 e il 1964, in Francia furono pubblicati 62 titoli dedicati alla deportazione: tra le testimonianze più significative è opportuno ricordare il "Journal" di Anne Frank nell’edizione francese del 1950, "La nuit di" Elie Wiesel uscito nel 1957, "Si c’est un homme" di Primo Levi nel 1961, "Aucun de nous ne reviendra" di Charlotte Delbo nel 1965.
Il processo Eichmann del 1961 e quello di Francoforte tra 1963 e il 1965, che vide alla sbarra alcuni dei membri del commando tedesco impiegati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, condussero infine il parlamento francese ad adottare l'imprescrittibilità dei crimini contro l'umanità nel 1964. Più tardi, soprattutto a partire dagli anni '80, grazie anche all'intervento dell'avvocato Serge Klarsfeld e di sua moglie Beate <44, si assistette ad una serie di procedure giudiziarie nei confronti di criminali di guerra e alti funzionari di Vichy che avevano collaborato alla “Soluzione Finale” <45.
In Italia invece ad essere perseguiti attraverso la legge erano stati soltanto alcuni gerarchi militari nazisti, come i responsabili dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, tra cui Herbert Kappler e Albert Kesselring, i cui processi vennero celebrati nell'immediato dopoguerra, e - molto più tardi - quello di Erich Priebke, condotto alla sbarra nel 1995, condannato all'ergastolo e protagonista di molte polemiche anche dopo la sua morte, sopraggiunta l'11 ottobre 2013 <46. Tuttavia, diversamente dal caso francese, l'intervento della giustizia italiana, anche per effetto dell’amnistia Togliatti, riguardò raramente coloro che avevano collaborato con l'occupante nazista: come ricorda Galliano Fogar in merito al processo di Trieste del 1976, il ruolo di tale azione giudiziaria è da ritenersi insufficiente <47. Nel caso ad esempio della Risiera di San Sabba, la musealizzazione del luogo precedette addirittura le indagini giudiziarie.
Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia, vennero invece inaugurati da Léon Poliakov con i volumi "Le bréviaire de la haine" del 1951 e "Le IIIe Reich et le Juifs" del 1959, che assieme a pochi altri studi internazionali, come quello dell’inglese Gerard Reitlinger, e più tardi dell’americano Raul Hilberg, entrarono a far parte di una prima corrente di riflessioni sul tema che all’inizio non tracciava un vero distinguo tra la storia della distruzione degli ebrei europei e la storia del nazionalsocialismo <48.
Soltanto negli anni Settanta si verificò un significativo cambiamento di prospettiva, con il contributo fondamentale di Olga Wormser-Migot sul sistema concentrazionario nazista (1968), ma soprattutto con un rinnovato interesse storiografico sul regime di Vichy e sul collaborazionismo, grazie ai lavori di Henry Rousso con il suo "Vichy, un passé qui ne passe pas" e degli storici americani Stanley Hoffmann, Robert Paxton e Michaël Marrus <49. Il primo tema ad essere posto in evidenza da questa nuova corrente storiografica è “la co-responsabilità del regime di Vichy, e del collaborazionismo dei francesi, e dunque delle istituzioni francesi nella deportazione degli ebrei presenti in Francia e nella Soluzione finale proposta e attuata dal Terzo Reich”, oltre al tema spigoloso dell’antisemitismo francese <50. Nel 1978 uscì inoltre, a cura di Serge Klarsfeld, "Le mémorial de la déportation des Juifs de France", una meticolosa ricostruzione dei convogli partiti dalla Francia, fondata sulle liste conservate presso il CDJC dal 1945 <51.
Per quanto riguarda la storiografia italiana invece, soltanto alla fine degli anni Ottanta - con il cinquantesimo anniversario delle leggi razziali del 1938 - gli storici hanno cominciato ad approfondire le questioni legate alla deportazione razziale e politica, all’antisemitismo in Italia e alle sue implicazioni ideologico-politiche e materiali <52.
Prima di allora vigeva il paradigma universalmente riconosciuto per il quale la legislazione antiebraica in Italia non fosse altro che un’imposizione da parte della Germania hitleriana; un regime, quest’ultimo, ritenuto di gran lunga più sanguinario e “nocivo” rispetto alla dittatura dai tratti “carnevaleschi” di Mussolini <53. Secondo la vulgata, mentre il fascismo aveva rappresentato una “parentesi” nella millenaria storia d’Italia contraddistinta dalla tradizione universalistica latina e cattolica, dall’umanesimo rinascimentale e dal culto della libertà, il nazismo aveva invece rappresentato il “portato” dell’intera storia tedesca, la quale risultava da sempre segnata da esclusivismo etnico-razziale, dall’ostinata volontà di imporre ad ogni costo il proprio primato e da una radicata vocazione illiberale <54.
Un primo segnale di distacco da questa tendenza fu rappresentato dai lavori dell’ex colonnello Massimo Adolfo Vitale e, in seguito, dal giornalista e storico della rivista “Il Ponte” Antonio Spinosa <55. Entrambi dimostrarono un atteggiamento più critico nei confronti della chiesa e della presunta totale solidarietà nei confronti degli aiuti dimostrati agli ebrei.
Non mutava però nel complesso l’assunto che l’antisemitismo fosse un male esterno instillato interamente dalla Germania nazista.
Fu Renzo De Felice, incaricato dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, a dedicarsi alla stesura di un’opera destinata a rimanere per lungo tempo il testo di riferimento sulle persecuzioni antiebraiche in Italia. Il volume "Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo", pubblicato nel 1961, trovò la sua genesi in un periodo storico mutato e più sensibile a certe tematiche: tra le vicende che dettero un impulso alla ripresa di questi studi vi fu il processo Eichmann, l’ascesa dell’estrema destra, con l’appoggio dell’MSI al governo di Fernando Tambroni e gli echi preoccupanti di un risorgere dell’antisemitismo nel paese <56.
Il lavoro di De Felice, che più di recente è stato largamente criticato <57, soprattutto per non aver saputo riconoscere la specificità dell’iniziativa fascista nella persecuzione degli ebrei dopo le leggi del 1938, resta comunque un testo cardine per la storiografia sulla Shoah, che dimostra come con l’apertura dell’era del testimone abbia creato di fatto anche una nuova fase per la ricerca storica.
La fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta segnarono un'ulteriore svolta nell'elaborazione della memoria della Shoah: nel 1979 andò in onda lo sceneggiato "Holocaust" del regista americano Marvin J. Chomsky, trasmesso in Francia da Antenne 2 e in Italia da Rai 1. Fu a partire da quell'anno che scoppiarono alcuni casi mediatici legati al negazionismo, come quello di Robert Faurisson, che costrinsero ad un'urgente riflessione sull'uso e l'abuso della storia a livello pubblico <58.
Il cinema costituì, in tutto questo periodo, un altro potente catalizzatore per rimettere in circolo memorie rimaste in sordina: se in Francia "Le Chagrin et la pitié" (1971) e "Lacombe Lucien" (1974) scandirono le tappe di un confronto più approfondito con les années sombres e il ruolo di Vichy, in Italia invece la deportazione degli ebrei venne affrontata dalla trasposizione cinematografica de "Il giardino dei Finzi Contini" (1970) di Vittorio de Sica e dal controverso "Il portiere di notte" (1973) di Liliana Cavani.
Vi fu anche una significativa ripresa nella pubblicazione di opere di memorialistica: fioriva così un genere, quello che talvolta è stato definito “letteratura concentrazionaria” <59.
“Si scrive di più” - commentano Anna Bravo e Daniele Jalla - “man mano che la distanza dai fatti propone un’urgenza inedita: per opporsi al passare del tempo, fronteggiare in anticipo il momento in cui non ci saranno più testimoni diretti, far conoscere esperienze personali che non possono mai essere interamente rappresentate nel racconto altrui” <60.
Non è quindi cambiato soltanto il rapporto dei sopravvissuti con il ricordo dell’esperienza della deportazione, dalla quale hanno assunto maggiore distacco, ma è mutata anche la disposizione del pubblico all’ascolto dell’eco di quel terribile passato. Tra gli scritti più celebri che ottengono maggior successo in questo periodo figurano in Italia il "Diario di Gusen" di Aldo Carpi, "Le donne di Ravensbrück" di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Buzzone, gli scritti di Giovanni Melodia e le poesie di Lodovico Belgiojoso. Inoltre, nel corso degli anni Ottanta, vengono tradotte in italiano anche le memorie di Jean Améry e di Elie Wiesel, preludio ad una intensissima produzione di testimonianze e letteraria che dura ancora oggi.
[NOTE]
28 R. Poznanski, D. Peschanski, B. Pouvreau, Drancy, un camp en France, Fayard et Ministère de la Défense, Paris, 2015., pp. 242.
29 A. Wieviorka, Déportation et génocide, cit., p. 167.
30 A. Bravo, D. Jalla, La vita offesa: Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, 1988, pp. 23-24.
31 La partecipazione ebraica alla resistenza non ebbe una valenza collettiva, ma fu piuttosto il frutto di scelte individuali. Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2000, pp. 133-134. Si veda anche L. Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, “Rivista mensile di Israel”, 3-4, 1980, pp. 132-146; S. Peli, Resistenza e Shoah, “Passato e Presente”, vol. 70, 2007, pp. 88 sg.
32 Cfr. P. Bertilotti, Contrasti e trasformazioni della memoria dello sterminio in Italia, in M. Flores et al. (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni. vol. II, UTET, Torino, 2010, pp. 72-73.
33 A. Sierp, A. Sierp, History, Memory and Trans-European Identity, Routledge, New York, London, 2014, p. 44. La memoria delle stragi era funzionale alla visione condivisa da molti politici italiani per i quali l’Italia non era stata che una vittima della Germania nazista, e in questo senso avrebbe dovuto partecipare a pieni diritti al tavolo degli alleati alla Conferenza di Pace di Parigi. La memoria dei campi di concentramento italiani era ben più complessa: assieme alla ricerca dei gerarchi SS che li avevano gestiti e delle amministrazioni naziste che li avevano diretti, essa avrebbe riportato a galla anche le responsabilità italiane. Come sottolinea Sierp, le commemorazioni degli eccidi, perpetuati dai nazisti, nel corso degli anni Novanta ebbero uno sviluppo notevole, per una semplice ragione: “it perpetuated the self-absolving image that Italians had of themselves, the idea of an innocent Fascism which, compared to the brutality of Nazism, had been less evil and almost good-natured and thus did not require any form of Vergangenheitsbewältigung (coming to terms with the past)”. Cfr. ivi, p. 82. Su questo si veda soprattutto il capitolo IV di G. Schwarz, Tu mi devi seppellir: riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, UTET, Torino, 2010, pp. 155-219.
34 Cfr. P. Levi, Deportati. Anniversario, 25 aprile 1955, in A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi per l’ANED, l’ANED per Primo Levi, Angeli, Milano, 1997, pp. 18-20.
35 M. Consonni, L'eclissi dell'antifascismo: resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, GLF Editori Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 41.
36 O. Lalieu, Histoire de la mémoire de la Shoah, Edition Soteca, Paris, 2015.
37 Cfr. ivi, p. 56.
38 Ivi, p. 27.
39 Cfr. A. Wieviorka, La construction de la mémoire de la déportation et du génocide en France. 1943-1995, in P. Momigliano Levi (a cura di), Storia e memoria della deportazione. Modelli di ricerca e di comunicazione in Italia e in Francia, Giuntina, Firenze, 1996, p. 32.
40 O. Wieviorka, La mémoire désunie., cit., pp. 141 sg.
41 Ivi, p. 154.
42 M. Gilzmer, Mémoires de pierres, cit., p. 116.
43 Ivi, pp. 131-133.
44 B. Klarsfeld, Mémoires. Serge et Beate Klarsfeld, Fayard-Flammarion, Paris, 2015.
45 Klaus Barbie viene incolpato di crimini contro l'umanità nel 1983 e condannato all'ergastolo nel 1987, Paul Touvier viene arrestato nel 1989 e condannato all'ergastolo nel 1994, Maurice Papon processato nel 1997 e condannato a dieci anni di reclusione nel 1998, Réné Bousquet, incolpato di crimini contro l'umanità nel 1991, fu ucciso nel suo appartamento nel 1993, mentre il processo a suo carico era ancora in corso (si veda S. Chalandon, P. Nivelle, Crimes contre l'humanité. Barbie, Touvier, Bousquet, Papon, Plon, Paris, 1998).
46 Sul divieto a tenere un funerale religioso e concedere alla salma di Priebke la sepoltura in un cimitero romano, si veda E. Mauro, La tomba segreta di Priebke, “La Repubblica”, 7 novembre 2013, consultato online il 22 settembre 2015.
47 G. Fogar, L'occupazione nazista del Litorale Adriatico e lo sterminio della Risiera, in A. Scalpelli (a cura di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, 2 voll., ANED, Mondadori, Trieste, 1988, pp. 58-65
48 M. Cattaruzza, La storiografia della Shoah, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. III, Torino, Utet, 2006, p. 117. Vedi anche P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria della guerra in Italia e in Francia, in G. Corni (a cura di), Storia e memoria. La seconda guerra mondiale nella costruzione della memoria europea, Museo storico di Trento, Trento, 2006, pp. 119-220.
49 H. Rousso, E. Conan, Vichy, un passé qui ne passe pas, Fayard, Paris, 1994.
50 P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria, cit., p. 211.
51 Un simile studio sulla deportazione politica è stato condotto dal Dipartimento di storia dell’Università di Torino diretta da Brunello Mantelli e Nicola Trafaglia e promosso dall’Aned, che ha dato origine ai quattro volumi dell’opera Il libro dei deportati, editi da Mursia tra il 2009 e il 2015.
52 I. Pavan, Gli storici e la Shoah in Italia, in Storia della Shoah in Italia, vol. II, cit., p. 135.
53 L’espressione è di Benedetto Croce, si trova nel volume Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, Laterza, Bari, 1944, p. 21. Su queste tematiche si veda F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco e il mito del bravo italiano, cit.; Id. Il cattivo tedesco e il bravo italiano, cit.; D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano, 1994. I lavori di Cecil Roth (The History of the Jews in Italy, Jewish Publication Society of America, Philadelphia, 1946, pp. 105-553), Léon Poliakov (La condition des Juifs en France sous l’occupation italienne, Centre de Documentation Juive Contemporaine, Paris, 1946), Gerald Reitlinger (The Final Solution: the attempt to exterminate the Jews of Europe, 1939-1945, Vallentine, Mitchell, London, 1953), Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira (Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino, 1956) sebbene avessero cominciato a far luce sulle vicende degli ebrei italiani sotto il regime fascista, ripetevano tuttavia lo stereotipo della bontà naturale e dell’ “innata gentilezza” del popolo e dei soldati italiani.
54 Cfr. F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco, cit., p. 105.
55 A. Vitale, Les persécutions contre les juifs en Italie, in Les Juifs en Europe (1943-1945). Rapports présentés à la Première Conférence Européenne des Commissions Historiques et des Centres de Documentation Juifs, Edition du Centre CDJC, Paris, 1949; A. Spinosa, Mussolini razzista riluttante, Bonacci, Roma, 1994.
56 I. Pavan, Gli storici, cit., p. 144.
57 Come ad esempio nella nota critica riservatagli da Corrado Vivanti in «Studi Storici», 1962, n. 4, pp. 889-906, oppure più recentemente da M. Sarfatti, La Storia della persecuzione antiebraica di Renzo De Felice: contesto, dimensione cronologica e fonti, “Qualestoria”, 2, 2004, pp. 11-27; Si vedano poi le interviste rilasciate da Renzo De Felice a Giuliano Ferrara per il “Corriere della Sera” nel dicembre 1987 e gennaio 1988, in cui lo storico ammise che “il fascismo italiano è al riparo dall'accusa di genocidio, è fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto. Per molti aspetti, il fascismo italiano è stato «migliore» di quello francese o di quello olandese. Inoltre, da noi la revisione è più utile, per le ragioni che le ho appena esposto e che riguardano la necessità di costruire una nuova Repubblica, e meno rischiosa. Noi non abbiamo una tragedia sociale come quella dell'immigrazione nordafricana in Francia, che ha portato il fascismo petainista fin dentro le fabbriche. Dunque possiamo ragionare, informare, parlare del fascismo con maggiore serenità” (Cfr. Ferrara, G., Le norme contro il fascismo? Sono grottesche, aboliamole. A colloquio con Renzo De Felice, lo storico del ventennio nero, in “Corriere della Sera”, 27 dicembre 1987; Ferrara, G., De Felice: “la Costituzione non è certo il Colosseo…”, “Corriere della Sera”, 8 gennaio 1988).
58 La “loi Gayssot”, concepita per perseguire penalmente la negazione dei crimini l'umanità e adottata dal parlamento francese nel 1990, sarà la prima delle cosiddette “loi mémorielles”, che segnano un forte intervento nell'ambito delle politiche della memoria attraverso lo strumento legislativo. Sul negazionismo si veda invece per la Francia P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris, 2005 e V. Igounet, Histoire du négationnisme, Le Seuil, Paris, 2000, mentre per l’Italia V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo, Bompiani, Milano, 2014 e C. Vercelli, Il negazionismo: storia di una menzogna, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2013.
59 C. Coquio, Finzione, poesia, testimonianza: dibattiti teorici e approcci critici, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. IV, UTET, Torino, 2006, pp. 158 sg.
60 Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta: Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, FrancoAngeli, Milano, 1994, p. 75.

Chiara Becattini, Storia della memoria di quattro ex campi di transito e concentramento in Italia e in Francia. 1945-2012, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, 2017

lunedì 27 settembre 2021

Togliatti si augurava la sconfitta delle truppe italiane in Etiopia

Addis Abeba, 5 maggio 1936. La popolazione sventola drappi bianchi in segno di resa all’ingresso in città della colonna Badoglio. Foto Fondo Bottai, Milano - Fonte: paginerosse.wordpress.com

Addis Abeba, 5 maggio 1936. Foto Fondo Bottai, Milano - Fonte: paginerosse.wordpress.com

[...] Negli anni Trenta, il Partito Comunista d’Italia adotta un atteggiamento anticolonialista, a partire dal pensiero gramsciano e dalla solidarietà globale con gli oppressi e con la manodopera migrante di tutto il mondo. Presto, il PCd’I lancia una campagna anticoloniale contro l’invasione dell’Etiopia, cercando di influenzare anche le comunità italiane all’estero, augurandosi ottimisticamente che possa fare da leva per la caduta del regime (la si dipingeva come una guerra dispendiosa per l’Italia che avrebbe mietuto molte vittime fra gli arruolati che provenivano dalle classi povere), quando invece la guerra d’Etiopia fu, come è noto, il momento di maggior popolarità del Fascismo e del suo capo.
Nel 1938, il PCd’I invia una sua «missione» in Etiopia, composta da tre membri, Ilio Barontini (già antifascista in Spagna e futuro partigiano), Domenico Rolla e Anton Ukmar; secondo lo storico Angelo Del Boca, dietro la missione c’era anche lo zampino dell’intelligence britannica che voleva raccogliere informazioni sulle forze ribelli etiopi, tanto che infatti un ufficiale inglese accompagnò i tre compagni nel loro viaggio verso l’Etiopia. In ogni caso, l’obiettivo della missione era coadiuvare l’organizzazione dei partigiani locali in piccoli gruppi di guerriglia, per contrastare più efficacemente gli italiani. Nella testimonianza pubblicata nel 1966 su Rinascita, emerge come ai tre fu chiesto di presentarsi ai loro compagni etiopici non come membri del Partito, né come italiani, ma come militanti internazionalisti.
Nel tuo libro Italian Colonialism and Resistances to Empire, 1930-1970 (Palgrave, 2018) proponi una nuova storia culturale dell’imperialismo italiano. Sostieni che l’Impero fascista permetta di disintegrare un’idea di colonialismo e di resistenza anticoloniale tutta influenzata dai modelli inglese e francese. Non si tratta tanto di una specificità del colonialismo italiano (che venne rivendicata a scopo legittimante fin dalla guerra di Libia e che viene ancora utilizzata a scopo giustificativo da chi continua a pensare che «italiani = brava gente»), ma piuttosto di una specificità della Resistenza anticoloniale in Etiopia, che fu molto sostenuta, fuori dal paese, da un’internazionale nera, mossa dal significato simbolico e politico che l’Impero etiope aveva agli occhi della diaspora nera nel mondo. Gli stessi giacobini neri ai quali è intitolata questa rivista vennero raccontati dall’intellettuale caraibico C.R.L. James proprio su spinta della resistenza in Etiopia: Black Jacobins uscì nel 1938 [...]
Michela Pusterla, La storia nascosta dell’anticolonialismo italiano, Jacobin Italia, 14 novembre 2019

La mancata reazione immediata all'incidente di Ual-Ual (5-6 dicembre 1934) <1 sulla stampa del P.C.d'I. è forse dovuta al fatto che, quando esso avviene, sia "L'Unità" che "Lo Stato Operaio" (organo e rivista teorica del partito) sono già chiusi in tipografia.
Tuttavia, anche se il P.C.d'I., da sempre attento alle malefatte del fascismo, ignora che i primi piani italiani per conquistare l'Etiopia risalgono al 1932 - cioè a subito dopo la totale pacificazione della Libia <2 - , la tregua concessa al Duce dal P.C.d'I. sul problema etiopico durerà ben poco. Se, infatti, all'inizio del 1935, a Ual-Ual e al problema etiopico si fanno solo degli accenni <3, essi saranno poco dopo affrontati direttamente. Si riparlerà infatti dell'incidente e di un'eventuale guerra italiana all'Abissinia, che pare sempre più vicina, in occasione della firma degli accordi franco-italiani di Roma (6-7 gennaio 1935). <4
In uno scritto su questo tema, oltre a notare che questo patto non diminuisce affatto il pericolo di guerra, si scrive: "Ma più importante di ciò che l'Italia ha ottenuto è ciò che (...) si ripromette di ottenere in Africa nel campo della collaborazione «pacifica» in Etiopia, e il cui primo atto è la partecipazione alla ferrovia Gibuti-Addis Abeba. Questa dichiarazione (...) viene fatta nel momento in cui il governo abissino fa appello alla Società delle Nazioni contro l'aggressione delle truppe italiane sul territorio del paese africano. L'Italia, dunque, avrebbe avuto carta bianca per la sua penetrazione «pacifica» (...) in Etiopia?" <5
Questa prima reazione del quotidiano può apparire inadatta a quanto potrebbe accadere, poiché è espressa in forma dubitativa, ma è spiegabile perché: 1) non è noto il vero senso degli accordi di Roma; 2) il P.C.d'I. ignora che, fin dal 30 dicembre 1934, Mussolini ha consegnato ai suoi più stretti collaboratori un memoriale dal titolo "Direttive e piano d'azione per risolvere la questione italo abissina". <6 Anche questa nuova tregua durerà ben poco: infatti, "Lo Stato Operaio", già nel febbraio 1935, pubblica due articoli che chiariscono come ormai si aspetti solo il momento dell'attacco fascista all'Etiopia, poiché non ci si illude su una composizione pacifica della vertenza italo-etiopica. Nel
primo <7 si parla, oltre che dell'incidente di Ual-Ual, anche di quello precedente di Gondar, per sottolineare la ormai chiara volontà fascista di occupare l'Etiopia. <8 Ma non solo: dopo un appello al popolo italiano a lottare contro la guerra - futuro asse della politica del partito <9, si scrive: "Le popolazioni abissine divengono, perciò, delle alleate del proleatariato e dei lavoratori italiani nella lotta contro il fascismo e contro l'imperialismo italiano." <10 Inoltre, si afferma che "L'interesse dei lavoratori italiani e delle popolazioni abissine, in questa guerra, è di battere l'imperialismo italiano e il fascismo" <11 e si invitano poi i primi ad una costante "(...) attività antimilitarista e antiguerresca (...)" <12 che si riallacci ad esempi del passato. <13
Nel secondo <14, invece, si rievocano tutte le imprese coloniali italiane fra cui quelle - fallite - in Abissínia, e si ricorda che, già in passato, la situazione nel settore era difficile per l'Italia. <15 Ci si chiede poi quando inizieranno la operazioni militari, e si constata che: 1) l'Italia farà da sola la guerra, e ciò significa un doppio sacrificio - di sangue ed economico - per il paese; 2) l'invio di truppe italiane in Africa Orientale è già una guerra che il fascismo deve per forza vincere per non cadere. <16
Rilevato poi come il cinico inganno del fascismo agli italiani, convinti di andare in Abissinia per lavoro e non per fare la guerra <17, si aggiunge che questo non è però il solo motivo, perché "Il fascismo in Africa va a fare una guerra (...) brigantesca (...). Ma (...) maschera i suoi scopi di rapina imperialistica con la più sfrenata demagogia patriottica (...)", dato che "La più inconfessabile politica di rapina (...) viene presentata come una necessità di difesa
nazionale, (...) una missione di civilizzazzione, (...) un mezzo per dare pane e lavoro ai
disoccupati italiani." <18
Il P.C.d'I. vuol chiaramente smitizzare il sogno africano creato dalla propaganda fascista nel popolo italiano <19, ma anche agire fra i lavoratori italiani per causare la sconfitta del fascismo. <20
Ogni possibile tregua tra il fascismo e i comunisti italiani è ormai finita, perché nel citato scritto si parla di argomenti e temi poi ripresi dalla stampa del P.C.d'I., ma non solo: essi sono già infatti - del tutto о in parte - un patrimonio di tutto l'antifascismo italiano. <21 [...]
[NOTE]
1 Sull'incidente di Ual-Ual cfr. Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, III: La conquista dell'Impero, Milano, Mondadori, 1992, pp. 244-291; Renzo De Felice, Mussolini il Duce, I: Gli anni del consenso (1929-1936), Torino, Einaudi, 1996, pp. 610-616; Luigi Salvatorelli - Giovanni Mira, Storia d'Italia nel periodo fascista, Torino, Einaudi, 1963, pp. 819-820; Enzo Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Π, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 167-168; Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna, IX: Il fascismo e le sue guerre, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 340-341. Ma cfr., inoltre, George W. Baer, La guerra italo-etiopica e la crisi dell'equilibrio europeo, Bari, Laterza, 1970, pp. 59-82.
2 Su questi piani italiani contro l'Etiopia cfr. A. Del Boca, op.cit., pp. 156-159 e pp. 169-179; R. De Felice, op.cit., pp. 603-605; G. Candeloro, op.cit., pp. 337-338.
3 Cfr., ad esempio, La via della salvezza per i lavoratori è la via del bolscevismo, la via della lotta contro il corporativismo e per il potere sovietico (non firmato: d'ora in poi n.f.), in "L'Unità", 1935, 1, appello alla lotta contro una possibile guerra per far cadere il fascismo, ed Egidio Gennari, Per una «coscienza coloniale» proletaria, in "Lo Stato Operaio", 1, gennaio 1935, pp. 24-31: vi si parla della colonizzazione italiana della Libia.
4 Sugli accordi franco-italiani di Roma cfr. L. Salvatorelli - G. Mira, op.cit., p. 817; R. De Felice, op.cit., pp. 602-603; A. Del Boca, op.cit., pp. 259-260; G. W. Baer, op.cit., pp. 82-127. Per parte francese cfr. Jean-Baptiste Duroselle, Politique étrangère de la France. La décadence (1932-1936), Paris, Le Seuil, 1979, pp. 133-139. Sulle reazione del P.C.d'I. e del P.C.F. agli accordi cfr. Giuliano Procacci, Il socialismo internazionale e la guerra d'Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 17-22. Gli accordi franco-italiani di Roma non diminuiscono il pericolo della guerra (n.f.), in "L'Unità", 1935, 2. Sulla posizione del P.C.d'I. cfr. G. Procacci, op. cit., p. 21.
6 Su questo documento cfr. A. Del Boca, op.cit., pp. 255-259 (che lo analizza in dettaglio); R. De Felice, pp. 606-610 (che, a p. 608, sottolinea indirettamente il passaggio sul possibile uso di gas asfissianti); G. Procacci, op.cit., p. 9; G. Candeloro, op.cit., pp. 341-344.
7 Cfr. Nostri compiti urgenti (n.f.), in "Lo Stato Operaio", 2, febbraio 1935, pp. 83-92
8 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 83.
9 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 84.
10 Art.cit., loc.cit., p. 85.
11 Art.cit., loc.cit., p. 85.
12 Art. cit., loc.cit., p. 91.
13 Art. cit., loc.cit., p. 91.
14 Cfr. Luigi Gallo (Luigi Longo), Per la disfatta dell 'imperialismo italiano, ivi, pp. 93-101.
15 Cfr. art.cit., loc.cit., pp. 93-94.
16 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 95.
17 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 96.
18 Cfr. art.cit., loc.cit., p. 97.
19 Su questo tema cfr. Mario Isnenghi, Il sogno africano, in AA.VV., Le guerre coloniali del fascismo (a cura di Angelo Del Boca), Bari, Laterza, 1991, pp. 60-71; A. Del Boca, op.cit., pp. 320-350; R. De Felice, op.cit., pp. 626-643.
20 Cfr. art.cit., loc.cit., pp. 98-101.
21 Su questo tema cfr. Enzo Santarelli, L'antifascismo di fronte al colonialismo, in AA.W., Le guerre coloniali del fascismo, cit., pp. 79-92.
Alessandro Rosselli (Università di Szeged), Il Partito Comunista d'Italia e la guerra d'Etiopia. Una rassegna sulla stampa comunista, Études Sur La Région Méditerranéenne, 15, pp. 45-61, 2006  

L’obiettivo del progetto è quello di esplorare alcuni momenti specifici della politica coloniale del partito, ovvero le missioni di Velio Spano in Egitto e Tunisia (1936-1943), la spedizione di Ilio Barontini in Etiopia (1939) e l’operato del Pci in Somalia (1942-1950), per gettare nuova luce e colmare alcune lacune storiografiche relative all’azione dei militanti comunisti in questi contesti, ai loro rapporti con i movimenti locali, all’analisi del colonialismo da parte del partito e al ruolo della Terza Internazionale (Comintern) nell’organizzazione di queste iniziative. Inoltre, il progetto intende indagare come, a seguito della svolta di Salerno e con la nascita del ‘Partito Nuovo’, il Pci sviluppa la propria riflessione sul colonialismo, da un lato in termini pedagogici, attraverso la pubblicazione di letteratura destinata ai militanti, dall’altro attraverso la partecipazione di propri delegati agli incontri internazionali della Federazione mondiale della gioventù democratica e dell’Unione internazionale degli studenti.
[...]
Giulio Fugazzotto, Al servizio di una rivoluzione globale? I comunisti italiani e il colonialismo tra antifascismo e anti-imperialismo. 1926-1950, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, 2021

Fonte: Fondazione Gramsci



Sunto
Quest'articolo si concentra sulle particolari caratteristiche dell'imperialismo fascista e sul suo sforzo di costruire una coscienza nazionale tramite il riscatto coloniale per mezzo della guerra contro l'Abissinia. Tentativo che ha incontrato una risposta ambivalente in Italia e all'estero, tra gli antifascisti in esilio.
Lo studio della politica del Partito comunista sulla questione della guerra italo-etiopica a metà degli anni Trenta ci permette di ricostruire la sfida degli antifascisti al regime, su scala internazionale, che avrà una ripercussione più profonda in seguito durante la guerra civile spagnola.
[...] Tuttavia, di fronte a una guerra che rischiava di coinvolgere le grandi potenze del Mediterraneo, non poche erano le titubanze e all'inizio anche da parte dei vertici fascisti, in particolare dei gerarchi sensibili ai buoni rapporti con Francia e Inghilterra, si registravano incertezze ed esitazioni. <27
La preoccupazione di un'opinione pubblica riluttante alla guerra indusse il regime ad intensificare l'opera di controllo sulla stampa, le pubblicazioni, le trasmissioni radiofoniche e cinematografiche.
Nell'estate del 1935, la questione etiopica divenne il centro dell'attività propagandistica e, il 25 giugno 1935, tutto l'apparato mediatico venne centralizzato nel Ministero della stampa e della propaganda, diretto da Ciano. In questo modo i giornali, le radio, i cinegiornali, i periodici, furono interamente sottomessi alle esigenze della guerra. Il regime riuscì anche a contrabbandare quella che Baer definisce “un'evasiva politica di inazione” <28 della Francia e dell'Inghilterra in un'ostilità attiva contro i legittimi diritti dell'Italia di espandersi in Africa e rinserrare l'opinione pubblica attorno alla “patria fascista”.
La Chiesa fornì un contributo fondamentale alla formazione del consenso bellicista: dopo un primo disorientamento da parte delle organizzazioni e delle gerarchie cattoliche, anche per le prese di posizione ufficiali del papa in favore della deposizione delle armi, <29 allo scoppio delle ostilità il clero si schierò, con poche eccezioni, per la guerra esaltata come missione civilizzatrice della nazione cattolica impegnata a redimere gli schiavi, i barbari e popoli senza Dio. <30
Tra i più accesi sostenitori si trovava il cardinale Schuster della diocesi di Milano. Ma anche motivi internazionali spingevano il Vaticano a sostenere il fascismo. Mentre nazioni cattoliche come l'Austria sostenevano l'impresa africana, l'Inghilterra protestante si opponeva all'avventura italiana in Africa, insieme con la Francia laica e massone, che forniva asilo politico ai fuorusciti comunisti e socialisti e aveva stipulato nel 1935 un patto con l'Unione sovietica bolscevica.
Come scriveva Ernesto Rossi, bisognava combattere contro il “protestantesimo che, in combutta con la massoneria, col comunismo e con l'antifascismo, si sforza di abbattere la civiltà di Roma, perché cattolica”. <31
Poco importava che in Etiopia venissero impiegate truppe musulmane libiche e somali per massacrare i cristiani copti, o che in fondo la stessa Unione sovietica era legata da un trattato di non aggressione con l'Italia fin dal 1933.
Il culmine dell'infatuazione nazionalistica si ottenne con la “giornata della fede”, indetta per il 18 dicembre 1935, due mesi dopo lo scoppio delle ostilità e la proclamazione delle sanzioni, che erano entrate in vigore però solo il 19 novembre. A questa campagna, che si prolungò per varie settimane, e che consisteva nel donare la fede nuziale oltre che tutto l'oro, l'argento e il ferro, parteciparono tutti gli strati della popolazione.
Lo stesso filosofo e senatore antifascista Benedetto Croce contribuì, donando la medaglietta senatoriale, pur dichiarando di non approvare la politica del governo; vescovi e cardinali parteciparono alla raccolta, donando i loro ori e invitando i fedeli a fare altrettanto. A livello più generale la guerra mobilitò pressoché tutti gli strati della classe dirigente, anche quelli che fino a quel momento avevano nutrito un atteggiamento critico, e degli intellettuali, da D'Annunzio e Marinetti, le cui simpatie per il fascismo non erano un mistero, ad intellettuali che passavano per antifascisti come Sem Benelli o altri. La piccola e media borghesia nazionalista, i lavoratori dell'industria e i contadini furono anch'essi coinvolti, con scarse eccezioni, nel sostegno alla guerra.
Scrive, sconsolatamente, “Lo Stato Operaio”, organo del Partito comunista: “il fascismo è riuscito per il momento a fanatizzare non soltanto larghi strati di piccola borghesia ma anche una parte non indifferente della gioventù proletaria.” <32
Alle donne veniva poi affidato un ruolo specifico, non solo di consolatrici di eroi e di custodi del focolare domestico, la cui cura era costituita di economia e preghiera, nella migliore, o peggiore se si vuole, tradizione dell'epica classica coniugata col misticismo cristiano, ma anche di propagatrici dell'ideale della civiltà. L'intera stampa femminile venne asservita a questo scopo: <33 alla militarizzazione della mascolinità, per riprendere un concetto di Mosse, <34 si aggiunse la nazionalizzazione della femminilità, in una specie di divisione dei valori: alla mascolinità eroica, militare, combattiva e violenta, forgiata nella tempesta d'acciaio della guerra, corrisponde una femminilità frugale, parsimoniosa e parca: i due aspetti si completano nella guerra e nel lavoro.
Come osserva Carlo Zaghi: "l'aver sollevato il sentimento più profondo del popolo italiano e identificato l'onore nazionale col riscatto della sua inferiorità coloniale, fu il successo più grande di Mussolini, il momento storico più alto toccato dal regime". <35
La guerra contro l'Etiopia ebbe un impatto immediato in tutto il mondo. A parte le reazioni diplomatiche, come le limitate sanzioni decise dalla Sdn, vasti settori dell'opinione pubblica fecero pressione sui propri governi perché reagissero contro il colonialismo fascista.
[...] Varie organizzazioni di afro-americani si mobilitarono in un fronte unico che coinvolgeva i gruppi del nascente nazionalismo nero, organizzazioni antifasciste e gruppi comunisti, come il Comitato provvisorio per la difesa dell'Etiopia, fondato ad Harlem nel febbraio del 1935. <36 Non solo, ma da New York a Kansas City, migliaia di volontari neri risposero agli appelli delle varie organizzazioni di partire per l'Etiopia e combattere contro gli italiani. In seguito alla repressione del governo Usa, che non voleva essere trascinato in una guerra con l'Italia fascista, la mobilitazione militare cessò, anche se non completamente. La Black Legion, ad esempio, dichiaro che i suoi 3000 militanti che si preparavano a partire per l'Etiopia avrebbero rinunciato alla cittadinanza americana per servire il “loro” paese. <37
Scrive “l'Unità” (s.d., ma 1935): I negri si arruolano volontari. Ad Harlem … è stata costituita una “Legione Nera”, la quale chiama i negri ad arruolarsi per difendere l'ultimo paese indipendente dell'Africa, l'Abissinia. … Il negro Walter Davis, del Texas, ha inviato un telegramma all'imperatore dell'Abissinia, offrendogli un aiuto di 6 mila volontari... <38
Non si mobilitarono solo i partiti socialisti e comunisti, i popoli coloniali o gli afro-americani, che vedevano nella causa etiope le ragioni della loro stessa causa, ma anche, per motivi diversi, strati di popolazione dei paesi imperialisti democratici. <39 Come scrive Procacci: "Si può dire anzi che fu proprio tra la tarda primavera e gli inizi dell'estate [1935, nota mia] che si venne diffondendo sempre più largamente la sensazione che la controversia in atto tra Italia e Etiopia aveva cessato di essere una questione marginale per assumere invece i caratteri di un test dal quale dipendeva in larga misura il mantenimento della pace. (…) Nasceva insomma un'opinione pubblica pacifista e antifascista". <40
Anche se, come ricorda Procacci, questo fenomeno riguardò in maniera più evidente l'Inghilterra, soprattutto per la presenza di un forte Partito laburista e per la coesistenza di altri fattori psicologici e politici, <41 e la Francia, si diffuse in tutti i paesi dell'Europa continentale, compresi i Balcani, al di fuori, per ovvie ragioni, della Germania nazista. <42
In Italia la mobilitazione toccò essenzialmente i partiti antifascisti in esilio.
Le principali organizzazioni antifasciste dell'emigrazione scorsero nell'avventura etiope un'occasione per sferrare un colpo mortale al regime mussoliniano. Si distingueva da questa impostazione il gruppo di “Giustizia e libertà”, animato da Carlo Rosselli, per il quale si trattava di una posizione attendista.
Per Gl, non si doveva aspettare la disfatta del fascismo in Etiopia, ma organizzare subito un intervento politico propagandistico in Italia nel tentativo di rovesciare il regime. <43 In realtà, con questa polemica, Gl puntava a spezzare l'isolamento dalle altre formazioni antifasciste, e in particolare dai partiti comunista e socialista che avevano istituito un rapporto privilegiato in seguito alla svolta del VII congresso della Terza internazionale.
Il Pci e il Psi, legati ormai da un patto d'azione, organizzarono i giorni 12 e 13 ottobre del 1935, il Congresso di Bruxelles, al quale parteciparono varie organizzazioni antifasciste, tranne Gl.
I relatori principali furono il socialista Pietro Nenni, che tenne il discorso introduttivo, e Ruggero Grieco, dirigente del Pci. <44
Il discorso di Nenni e la sua stessa presenza al Congresso smentirono in parte la posizione dell'Internazionale socialista, che era riluttante ad intraprendere azioni comuni con l'Internazionale comunista; il leader socialista si pronunciò per l'unità d'azione con i comunisti, anche in vista di una crisi del regime che si riteneva imminente e che avrebbe richiesto un senso di responsabilità delle organizzazioni antifasciste, pur senza l'illusione della maturità di una crisi rivoluzionaria.
Ruggero Grieco si spinse anche oltre le dichiarazioni di Nenni, ipotizzando persino la possibilità di un governo “antifascista” che “difenda le libertà popolari”, presumibilmente di ampia coalizione. <45
Il VII congresso dell'Internazionale comunista si era occupato della guerra italo-abissina nell'ambito del dibattito sul fascismo e i pericoli di guerra, registrando l'intervento di Togliatti sull'avventura africana il 13 e 14 agosto 1935. <46  Nel suo rapporto, Togliatti si augurava la sconfitta delle truppe italiane come preludio alla caduta del regime: "se il Negus d'Abissinia, spezzando i piani di conquista del fascismo, aiuterà il proletariato italiano ad assestare un colpo tra capo e collo al regime delle camicie nere, nessuno gli rimprovererà di essere 'arretrato'. Il popolo abissino è l'alleato del proletariato italiano contro il fascismo e noi gli esprimiamo la nostra simpatia". <47
La stessa posizione venne espressa, in maniera più articolata dopo lo scoppio della guerra, il 15 novembre, in un articolo apparso sul “Bolśevik”, <48 nel quale si ribadisce che "la sconfitta dell'imperialismo italiano sarà il prologo della caduta del fascismo: il fascismo non può rischiare uno smacco. Uno smacco può essere l'inizio della sua fine". <49
E, nella misura delle sue possibilità, tenuto conto delle esigenze della clandestinità, il Pci si adoperò per rendere questo sviluppo effettivo e di opporsi attivamente alle operazioni belliche, non limitandosi a una posizione massimalista e attendista come accusato da Gl. <50  Pur muovendosi entro un quadro di collaborazione di classe internazionale determinato dalla svolta del VII congresso, <51 la politica del Pci si distinse sia dalle combinazioni diplomatiche dell'Urss che dal puro e semplice propagandismo.
Fin dal luglio del 1935, quindi tre mesi prima dell'aggressione italiana, Sergio (Giulio Cerreti) proponeva di recarsi in Egitto, ed eventualmente in Etiopia, ad organizzare la resistenza contro la guerra, <52 per conto del Comitato mondiale contro la guerra e il fascismo, un organismo che lo stesso Cerreti aveva collaborato a fondare, i cui esponenti principali erano Henry Barbusse e Romain Rolland. Al momento il progetto non ebbe seguito, ma gettò le basi di una discussione che avrebbe avuto dei risvolti operativi molto concreti.
Tra il 1934 e il 1935 il Pci intensificò i tentativi di penetrazione in Italia, in particolare la propaganda tra gli operai industriali e nei sindacati fascisti, diretta a sollevare rivendicazioni sulle condizioni di lavoro, i salari, il carovita, approfittando di ogni possibilità legale permessa dal regime. Vennero moltiplicati gli sforzi per introdurre la stampa in Italia e organizzare le proteste, i cui echi si trovano nelle pagine dell'“Unità”, “lo Stato operaio” o “Azione popolare”. In particolare venne curato l'intervento nell'esercito allo scopo di dare voce alle pur minime manifestazioni di malcontento contro la partenza per l'Africa o dei soldati di stanza in Aoi, di cui la stampa comunista diventa megafono. Ogni protesta in una caserma, un canto antimilitarista, gli insulti ad ufficiali particolarmente crudeli, la denuncia delle malattie in Abissinia, le proteste per il rancio, sono tutte occasioni che dimostrano, per la stampa comunista, l'impopolarità della guerra tra i soldati <53.
Così, ad esempio, “L'Unità” n. 1, 1936, sotto il titolo "Lettere dalle caserme e dall'Africa Orientale", dedica una pagina intera alle manifestazioni di dissenso tra le truppe. Erano del resto già vari anni che il Pci cercava di penetrare nell'esercito con suoi organi di stampa, prima “Caserma”, che venne chiuso alla fine del 1934, dopo dieci anni di pubblicazioni, e poi “Grigioverde”, fondato allo scopo di rendere più efficace e concreta la mobilitazione dei soldati contro la guerra e la terribile disciplina militare. In un lungo rapporto di dieci pagine del 28 maggio 1935, Neri (Luigi Longo) delinea un piano molto dettagliato d'intervento nell'esercito. <54 Dopo aver chiarito le ragioni che hanno condotto alla chiusura di “Caserma”, Longo spiega: “L'uscita di “Grigioverde” risponde a questa esigenza… Bisogna accentuare il carattere legale e popolare del giornale che deve diventare sempre più come un organo di soldati, di marinai, di avieri, di militi”.
Infine, il progetto di intervenire tra le truppe italiane destinate in Etiopia si concretizzò nella missione di Velio Spano in Egitto, incaricato dal comitato antifascista eletto al congresso di Bruxelles: Spano arriva in Egitto nel novembre 1935, prende contatti con settori antitaliani della borghesia egiziana e con alcuni connazionali sensibili alla propaganda antifascista. <55 Anche se la missione era stata preparata accuratamente nei mesi precedenti, Spano ne lamenta la disorganizzazione in una lettera al Comitato internazionale del 14 gennaio 1936 <56 e, tuttavia, nei limiti delle forze che si sono potute impiegare, la missione non è priva di qualche successo.
Spano riporta del clamore suscitato a Porto Said della propaganda antifascista e contro la guerra. <57 In una serie di articoli apparsi su “Stato operaio” nel 1938, Paolo Tedeschi (pseudonimo di Spano) sottolinea la polarizzazione tra le truppe italiane in transito per i porti egiziani, divise tra entusiasti alla guerra e riluttanti e sensibili alla propaganda antimilitarista <58 e descrive l'impatto che la distribuzione di volantini ha sui soldati imbarcati sui piroscafi in transito per il Canale di Suez. <59
Che l'azione di Spano avesse avuto un certo successo è testimoniato anche dalla preoccupazione suscitata nell'ambasciata italiana al Cairo. <60
L'ingresso delle truppe italiane in Addis Abeba, nel maggio del 1936, cambia la prospettiva propagandistica del Pci che, pur riconoscendo che l'occupazione della capitale etiope non avrebbe posto fine alle operazioni militari, deve tuttavia fare i conti con la realtà di un regime che, proprio in occasione della proclamazione dell'impero, ottiene il massimo consenso popolare. <61
Nella riunione dell'Ufficio politico l'8 maggio 1936, <62 al punto sulla questione abissina, l'intervento di Longo esprime chiaramente la delusione e il disorientamento del gruppo dirigente comunista che aveva puntato sulla disfatta italiana. I fatti impongono una rettifica nella propaganda e nelle parole d'ordine, ma ne deriva anche una rettifica dell'analisi. Le prime avvisaglie di questo mutamento di prospettiva si rivelano in un articolo dello “Stato operaio”, "Dopo Addis Abeba", del maggio 1936, scritto a caldo dopo la proclamazione dell'impero, ma è il manifesto programmatico "Per la salvezza dell'Italia:riconciliazione del popolo italiano" <63 che delinea in maniera più netta questo mutamento.
Già Spano, rientrato clandestinamente in Italia dopo la missione egiziana, aveva osservato “la nostra giusta preoccupazione di essere una corrente, una grande corrente di opposizione nel fascismo, deve essere oggi non più soltanto in primo piano nella nostra politica, ma forse addirittura il centro della nostra politica...” <64
Il manifesto ha come suo nucleo programmatico l'appello ai fascisti perché lottino insieme coi comunisti per la realizzazione del programma fascista del 1919, “che è un programma di libertà”. <65  Ed è firmato, a ribadirne la solennità, dai veri nomi e cognomi dei dirigenti del Pci.
Come nota Paolo Spriano, quest'appello suscita polemiche, recriminazioni e critiche da Mosca che si faranno via via più severe, ed è possibile che molti dei firmatari non fossero stati nemmeno interpellati. <66 L'appello cadeva poi in una fase particolarmente critica, all'inizio della guerra civile spagnola, che vedrà di nuovo, in uno scontro più drammatico, fascisti e antifascisti italiani combattersi, questa volta sulle barricate e le trincee di Spagna. Tra i sottoscrittori del manifesto, infatti, ritroviamo dirigenti comunisti che sono in procinto di partire per la penisola iberica in soccorso alla repubblica, che difficilmente avrebbero aderito a un appello “ai fratelli in camicia nera”. A questo seguiva un'apertura alla Chiesa cattolica, nell'autunno del 1936, in piena guerra civile spagnola dove la stragrande maggioranza delle gerarchie ecclesiastiche era apertamente schierata dalla parte del franchismo. <67
Non è possibile qui riprendere le polemiche che il Partito socialista e Giustizia e libertà scatenarono contro il manifesto "Per la salvezza dell'Italia"; <68 è necessario però ricordare che le critiche che giunsero da Mosca, oltre allo scoppio della guerra civile spagnola, determinarono infine la decisione dell'Ufficio politico di “ritirare la parola della conciliazione nazionale per dare maggior chiarezza e vigore alla politica di unione del popolo”. <69
Questo episodio avrà però delle ripercussioni negli anni a venire e determinerà, in parte, la mutazione della formazione del gruppo dirigente del Pci.
Come ha notato Simona Colarizi, “L'intervento dei volontari antifascisti [nella guerra civile spagnola] imbarazza non poco il regime, anche perché, per la prima volta dopo molti anni, i fuorusciti ritornano inevitabilmente alla ribalta della cronaca e per di più avvolti in un'aureola di eroismo guerriero”. <70 Ed è nel fuoco della guerra civile spagnola, nell'entusiasmo per la vittoria repubblicana di Guadalajara, che comincia a delinearsi l'idea di inviare alcuni membri delle Brigate internazionali in soccorso alla resistenza etiope, <71 viste anche le difficoltà che sta incontrando l'esercito regolare del Negus, i cui resti comandati da ras Destà, sono stati distrutti dall'esercito italiano. La missione venne decisa infine in una riunione di segreteria l'8 dicembre 1938, nella quale Nicoletti (Giuseppe di Vittorio), presentò la proposta di inviare un gruppo di compagni in Etiopia al seguito del “compagno che parte”. <72 Prende la parola il compagno in questione che espone il suo piano di lavoro e, nello stesso mese di dicembre, Ilio Barontini si reca così in Etiopia accompagnato dal segretario di Hailé Selassié, Lorenzo Taezaz, il quale però si ferma in Egitto, e fornito di credenziali del Negus stilate su fazzoletti di seta. Nonostante gli evidenti problemi di comunicazione, il 6 febbraio 1939 Barontini riesce a far avere sue notizie al Partito, in una lettera certamente scritta da una località etiope, ma spedita da Khartoum il 22 marzo, nella quale esalta le virtù militari dei resistenti e l'accoglienza della popolazione, soprattutto dei contadini molto attenti e interessati alle tecniche militari, ma evidenzia la disastrosa situazione degli armamenti, la carenza di munizioni e l'eterogeneità delle armi, fucili di marche diverse, mitragliatrici senza cartucce. Osserva comunque “Penso che solamente la mia presenza qui è un successo, si riprende fiducia …” <73
In una lettera, datata 1 aprile 1939, indirizzata a Tuti (Rigoletto Martini), Jacopo (Giuseppe Berti) esprime la soddisfazione del Partito per la missione, nota che Barontini è dirigente riconosciuto dalla resistenza, e l'unico contatto del Negus con i suoi uomini rimasti in Etiopia, ma lamenta gli scarsi mezzi a disposizione. <74
Nel frattempo, nel marzo del 1939 sono partiti per l'Etiopia anche altri due combattenti di Spagna, Rolla e Ukmar. <75 L'impresa, che vide la collaborazione diplomatica di Francia e Inghilterra, coinvolse parimenti il colonnello francese Paul Robert Monnier, che perì nel novembre del 1939 in seguito a un attacco cardiaco nel corso di una missione di rifornimento.
L'obiettivo della spedizione era duplice, politico e militare. Così la descrive Ukmar: "Si doveva riuscire a convincere gli etiopi ad abbandonare l'organizzazione di grosse bande di mille-duemila uomini di cui solo una parte armati di fucili - tali formazioni erano facilmente reperite e massacrate - e costituire gruppi più piccoli e mobili. Si doveva cercare di mantenere i territori liberati… <76 ma soprattutto, in un contesto caratterizzato dalla continua rivalità tra tribù e in una regione, il Goggiam, governata da ras tradizionalmente ribelli all'autorità del Negus e in perenne conflitto tra di loro, dovevamo mantenere il contatto con i capi della rivolta, coordinare le loro azioni, evitare conflitti armati tra le varie formazioni, fare quanto possibile per portare pace tra i gruppi armati e volgere ogni sforzo contro l'esercito di occupazione". <77
A questi si aggiungeva anche un altro scopo: la presenza di europei tra le file della resistenza etiope doveva contribuire a demoralizzare le truppe italiane e, insieme con la collaborazione di Francia e Inghilterra, dimostrare l'internazionalizzazione del conflitto.
Nel frattempo si intensifica l'attività di propaganda rivolta agli etiopi e alle truppe italiane. I fuorusciti italiani pubblicano un foglio settimanale, “La voce degli etiopi”, in amarico e italiano, <78 e il risultato politico della missione trova il suo riflesso in alcuni articoli pubblicati in “Lo Stato operaio” e “La voce degli italiani”. Di notevole rilevanza le conclusioni cui giunge Di Vittorio nell'articolo "La lotta del popolo etiopico ed i doveri del proletariato italiano", chiaramente ispirato da Barontini: "Il popolo etiopico, già in enorme ritardo sull'evoluzione storica, non possedeva ancora una coscienza nazionale, quando venne proditoriamente aggredito dal governo fascista. Uno Stato etiopico non esisteva. La società feudale etiopica era dominata da ras e sotto-ras in lotta fra di loro. (…) Il 'miracolo' che… si è già prodotto in buona parte, è questo: che sotto l'oppressione terroristica e sanguinaria del fascismo italiano il popolo etiopico sta forgiandosi una coscienza nazionale… Non si tratta, dunque, di una rivolta episodica, ma d'una rivoluzione popolare nazionale contro l'oppressore straniero. (…) dei capi che si erano resi complici dell'oppressore o vi si erano sottomessi, oggi si battono uniti e da eroi, non più per il potere o il predominio di questo o quel ras, ma per l'indipendenza dell'Etiopia". <79
Non fa parte degli scopi del presente articolo, ma non mi sembra superfluo osservare che le conclusioni cui giungevano Barontini e Di Vittorio esprimono un'opinione oggi diffusa in ambito storiografico: che la guerra contro l'Italia abbia accelerato il processo di unità nazionale dell'Etiopia, che le riforme dei primi anni di governo di Hailé Selassié avevano appena accennato nel loro tentativo di modernizzazione e di uscita dal particolarismo feudale. <80
La missione ebbe termine nel marzo del 1940 per varie ragioni, in primo luogo per il mutamento dello scenario internazionale determinato dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. E tuttavia non è la sola ragione: si scopre che Monnier era un agente dell'Intelligence service inglese, col quale aveva costantemente mantenuto i contatti, e che aveva sempre tenuto le redini della missione <81 e nei primi mesi del 1940, l'Inghilterra, nel tentativo di impedire l'ingresso in guerra dell'Italia a fianco di Hitler, aveva deciso di tagliare i finanziamenti e il sostegno alla resistenza etiope, inclusa la missione di Barontini. <82
[NOTE]
27 Idem, p. 621. Per altro v. anche, per le riserve di Dino Grandi, Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, cit. p. 325.
28 Citato in A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, op. cit. p. 327. Mussolini era ben consapevole che né l'Inghilterra né la Francia avrebbero rischiato la guerra contro l'Italia sulla questione etiope; v. Ibidem, p. 326-327.
29 Il 27 agosto 1935, in un discorso alle 2000 infermiere cattoliche in visita a Castelgandolfo, Pio XI si oppose apertamente all'imminente avventura africana, definendola “un guerre injuste”, v. L. Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d'Etiopia, Laterza, Roma - Bari, 2010, p. 44
30 Ibidem, p. 67 - 135; S. Colarizi, cit., p. 199; A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale. La conquista dell'impero, cit. p. 333.
31 S. Colarizi, cit., p. 200.
32 Lettera da Roma. Piccola borghesia ed intellettuali di fronte alla guerra, in “Lo Stato operaio”, febbraio 1936, p. 110.
33 V. Mirella Mingardo, “Pace”, “Lavoro”, “Civiltà”. Propaganda e consenso nella stampa periodica durante la guerra d'Etiopia, in Caccia, Patrizia e Mingardo, Mirella (a cura), Ti saluto e vado in Abissinia, Viennepierre, Milano, 1998.
34 L. Benadusi e G. Caravale (a cura), Sulle orme di George L. Mosse. Interpretazioni e fortuna dell'opera di un grande storico, Carocci, Roma, 2012, p. 69.
35 C. Zaghi, L'Africa nella coscienza europea e l'imperialismo italiano, Guida, Napoli, 1973. A conclusione della prima fase della guerra, l'8 maggio 1936, “Il popolo d'Italia” poteva sostenere che la guerra era stata “impresa di popolo, di tutte le classi e di tutti i ceti, di tutte le categorie e di tutte le gerarchie. Dalla Dinastia al clero, dalla gioventù delle Università alle moltitudini dei campi e delle officine, tutta la Nazione era spiritualmente impegnata nell'impresa, 'con trepida e inesorabile decisione'”, in I. Granata, Milano e la proclamazione dell'Impero (Maggio 1936): tra “regime” e “patria”, in P. Caccia e M. Mingardo, Ti saluto e vado in Abissinia, cit., p. 42.
36 In particolare, la mobilitazione degli afro-americani e stata oggetto di vari studi, dei quali ricordiamo solo l'opera piu significativa: William R. Scott, The Sons of Sheba’s Race: African Americans and the Italo-American War 1935-1941. Bloomington: Indiana University Press, 1993. V. però anche N. Venturini, Neri ed italiani ad Harlem. Gli anni trenta e la guerra d'Etiopia, Lavoro, Roma, 1991; Antifascist dieselpunk II - The Italo-Abyssinian War, 26 aprile 2012, disponibile online su: pdjeliclark.files.wordpress.com. Trasformatosi in seguito nell'organizzazione United Aid for Ethiopia, il Comitato provvisorio ottenne il riconoscimento ufficiale del governo imperiale all'Estero. v. opuscolo dell'associazione, War in Ethiopia, New York City, 1936.
37 William R. Scott, Black Nationalism and the Italo-Ethiopian Conflict, “The Journal of Negro History”, 63, n. 2, 1978, p. 118-134.
38 Conservato all'Acs, Fondo ministero dell'interno - Direzione generale pubblica sicurezza - Divisione affari generali e riservati - Stampa sovversiva in Italia - Busta 77/491.
39 Per la mobilitazione dei movimenti anticolonialisti contro l'aggressione italiana e la reazione dell'opinione pubblica all'estero, oltre ai libri di Giuliano Procacci, Dalla parte dell'Etiopia, cit., e Il socialismo internazionale e la guerra d'Etiopia, Editori riuniti, Roma, 1978, vedi Denise Eeckaute e Michel Perret (ed.) La guerre d'Ethiopie et l'opinion mondiale, Inalco, Paris, 1986.
40 G. Procacci, Il socialismo internazionale e la guerra d'Etiopia, cit. p. 62.
41 Ibidem; per un approfondimento delle reazioni dell'opinione pubblica inglese v. anche D. Waley, British Public Opinion and the Abyssinian war. 1935-1936, Maurice Temples Smith, London 1974
42 Nel volume collettaneo La guerre d'Ethiopie et l'opinion mondiale, cit., v. i saggi di S. Rubenson, sulla Svezia; di J. Gergely e L. Nyeki, per l'Ungheria; D. Eeckaute, per l'Europa dell'est; J. R. Bojovic, per la Jugoslavia; ma anche, relativamente ai paesi extraeuropei, M. Kovacs, per il Canada; J. C. Ralema per il Madagascar e S. A. Nguyen Dac, per il Vietnam. Una rassegna storiografica dell'atteggiamento dei paesi balcanici è fornita infine da A. Kuzmanova. Sulla reazione dell'opinione pubblica francese v. F. D. Laurens, France and the Italo-Ethiopian crisis 1935-1936, Mouton, Paris - Le Hague, 1967, anche Max Gallo: L'affaire d'Ethiopie, Editions du Centurion, Paris, 1967.
43 Per una sintesi delle posizioni di Rosselli e di Gl, v. l'articolo di Magrini, Rosselli e la guerra d'Etiopia, in Quaderni italiani n. 2, agosto 1942; ma anche: Carlo Rosselli, Opere scelte. Scritti dall'esilio, vol. II, Dallo scioglimento della concentrazione antifascista alla guerra di Spagna (1934-1937), Einaudi, Torino, 1992. Anche Nicola Tranfaglia, Una scelta di campo necessaria. Carlo Rosselli e Gl di fronte a Hitler e all'espansione dei fascismi, in “Studi storici”, n. 3, 1995.
44 Per una sintesi dei lavori del Congresso v. “Il Nuovo Avanti”, 19 ottobre 1935; il rapporto di L. Gallo (Luigi Longo), in “Stato operaio”, ottobre 1935, che riporta anche l'intervento di Grieco; l'articolo di E. Modigliani in “Informations internationales”, n. 36.
45 R. Grieco, I compiti del popolo italiano nella lotta contro la guerra, “Lo Stato Operaio”, cit. p. 625-634.
46 Il rapporto di Togliatti al congresso dell'Ic venne pubblicato sulla “Rundschau” del 2 ottobre 1935; una sintesi si trova nello “Stato operaio” n. 10, 1935.
47 “So” n. 10, 1935, p. 598.
48 Ora in Palmiro Togliatti, Opere, vol. IV.1, Editori riuniti, Roma, 1979, p. 41-57.
49 ibidem, p. 53.
50 Lettera di Gl al Pci, riportata in Archivio del partito comunista italiano (d'ora in poi Apc), 513 - 1286, nella quale la formazione di Rosselli accusa il Partito comunista di non comprendere, con i suoi slogan, la psicologia delle masse che sostenevano, in Italia, l'occupazione dell'Etiopia.
51 Si veda per esempio l'atteggiamento nei confronti delle sanzioni, v. articolo "Le sanzioni sono la pace e la salvezza del popolo italiano", in “La difesa”, n. 14, ottobre 1935.
52 L'intero rapporto di Cerreti, e in Apc 513 - 1 - 1318, p. 86 ss., ma v. anche appunto manoscritto senza firma, probabilmente di Longo (Terra), del 12 giugno 1935, in Apc 513 - 1 - 1283, p. 67, che chiede di “inviare qualcuno al più presto”.
53 Questa e l'indicazione della Segreteria del Pc, che, in un'osservazione all'”Unità” n. 10 del 1935, raccomanda di “utilizzare OGNI malcontento che viene creato dalla situazione di guerra” (maiuscolo nell'originale), in Apc 513-1283, p. 135.
54 Apc, 513 - 1 - 1288, p. 2-11.
55 A. Mattone, Velio Spano: vita di un rivoluzionario di professione, Della Torre, Cagliari, 1978, p. 24.
56 In Apc 513 - 1 - 1393, p. 1.
57 Ibidem, p. 3.
58 Gli articoli, dal titolo "Esercito e milizia nella guerra d'Etiopia", sono apparsi nei numeri 1, 2, 4 e 7 del 1938.
59 Idem, n. 2, p. 27.
60 Telespresso del Consolato di Porto Said n. 2341/312, in Archivio storico Ministero affari esteri, Busta “Ambasciata del Cairo”, A63, 294/2.
61 v. S. Colarizi, L'opinione degli italiani sotto il regime. 1929–1943, cit.; a p. 206–207 riporta alcuni esempi di note fiduciarie che testimoniano la demoralizzazione dell'antifascismo di fronte alla conquista di Addis Abeba.
62 Apc 513 - 1 - 1358, p. 11 ss.
63 “Lo Stato operaio”. n. 8, agosto 1936.
64 Rapporto di un viaggio in Italia, Apc 513 - 1 - 1385, citato in A. Mattone, Velio Spano, cit. p. 40, sott. nell'originale.
65 Ibidem, p. 524; anche S. Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del Pci 1936-1948, Rizzoli, 1980, Milano, p. 46 ss.
66 Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano.
V. 3. I fronti popolari, Stalin, la guerra, Einaudi, Torino, 1970, p. 65-67.
67 I comunisti ai cattolici italiani. Dichiarazione del Cc del Pci, “Lo Stato Operaio”, 8 ottobre 1936.
68 Su questo aspetto v. anche Bruno Grieco, Un partito non stalinista. Pci 1936: “Appello ai fratelli in camicia nera”, Marsilio, Padova, 2004, e Giorgio Amendola, Storia del Partito comunista italiano. 1921-1943, Editori riuniti, Roma, 1978.
69 Verbale dell'Ufficio politico del 17 febbraio 1937, in Apc 513 - 1 - 1432, p. 47; è anche impossibile, in questa sede, esaminare in dettaglio il ruolo di Togliatti che, detto in estrema sintesi, si è trovato a dover sacrificare Grieco, principale dirigente del Pci in Francia ed estensore materiale dell'appello, per salvaguardare il Partito dalla liquidazione, che aveva riguardato il Pc polacco, i dirigenti ungheresi e jugoslavi e Bela Kun in Ungheria.
70 S. Colarizi, cit., p. 232.
71 B. Anatra, Partigiano sulle rive del lago Tana, “Rinascita”, 19, 7 maggio 1966, p. 18
72 Apc, 513 - 1 - 1494.
73 Apc 513 - 1 - 1498, p. 27.
74 Apc 513 - 1 - 1494, p. 24-25.
75 G. Pajetta, in Il ragazzo rosso, Mondadori, Milano, 1983, p. 247-248, rivela dell'esistenza di un diario di Barontini, mai ritrovato; di Ukmar resta la testimonianza resa a Cesare Colombo e pubblicata da B. Anatra in “Rinascita” n. 19 del 17 gennaio 1966, cit. pagine 18-19. Di notevole importanza il libro della figlia di Barontini, Era, in collaborazione con Vittorio Marchi, Dario. Ilio Barontini, Nuova Fortezza, Livorno 1988.
76 B. Anatra, Partigiano sulle rive del lago Tana, cit. p. 19.
77 ibidem.
78 Matteo Dominioni, La missione Barontini in Etiopia. La singolare vicenda di un anomalo fronte popolare antifascista, in “Studi piacentini”, n. 35, 2005, p. 85 ss. Alle pagine 88-89 Dominioni ristampa anche due esemplari del foglio ciclostilato. V. anche, dello stesso autore, Lo sfascio dell'impero, cit. p. 292.
79 “Lo Stato Operaio”, n. 12, 1939, p. 277.
80 Cosi esempio Teshale Tibebu, The Making of Modern Ethiopia: 1896-1974, Red Sea Press, Lawrenceville, 1995.
81 Barontini, Era, Marchi, Vittorio , Dario. Ilio Barontini, cit. p. 197.
82 Cablogramma del quartier generale inglese al Cairo, del 25 settembre 1939, gentilmente fornito da Sandi Volk.
Gino Candreva, Nazionalismo e comunismo di fronte alla Guerra d'Etiopia in História: Debates e Tendências, vol. 13, núm. 1, enero-junio, 2013, pp. 150-166, Universidade de Passo Fundo, Passo Fundo, Brasil

1938-39. Ilio Barontini in Etiopia nel Goggiam. Foto dell’archivio storico dell’Unità - Fonte: paginerosse.wordpress.com

1938-39. Ilio Barontini tra i partigiani etiopi. Da sinistra: Kebbedè, ufficiale; Ghila Gherghis, diplomatico; Paolus Getahoum Tesemma, capo del governo in esilio, un guerrigliero. Foto dell’archivio storico dell’Unità - Fonte: paginerosse.wordpress.com

Qualche decennio fa il senatore del PCI Giancarlo Pajetta, intervistato sull'argomento, precisò che non fu mai trovato il diario del principale protagonista dell'impresa.
"…di quella vicenda e del fatto che là aveva trovato persino un comunista etiopico, ci disse di averne scritto nelle sue memorie. Doveva essere un racconto affascinante: dopo la sua morte cercammo il manoscritto per mezza Italia. Non lo trovammo e perciò restammo col dubbio che lo avesse scritto davvero. Si fece ogni sforzo ma nessuna delle donne che avrebbe potuto averlo avuto in consegna - e che, essendo assai numerose, rendevano la ricerca imbarazzante e non facile - fu in grado di farcelo ritrovare" (Giancarlo Pajetta, Il ragazzo rosso, Mondadori, Milano 1983).
Il mistero riguarda la missione (o forse più di una, certamente un paio) che nel 1938 un piccolo gruppo di comunisti, di quelli che fondarono il partito in Italia, compirono nell'Etiopia soggetta al tallone di ferro delle truppe d'occupazione italiane.
Tra di essi Ilio Barontini, un comunista le cui gesta in tre continenti rimangono leggendarie, ma note solo quelle in Europa.
Ancora una decina di anni fa era possibile incontrare ad Addis Ababa, presso il cimitero dei reduci a ridosso della chiesa mausoleo consacrata alle spoglie di Hailè Selassie, proprio sulla collina alle spalle del Ghebbi (palazzo) imperiale che fu di Menelik, gli ultimi reduci ottantenni-novantenni arbagnuocc che cacciarono i fascisti italiani dalla loro patria.
Ad un giornalista italiano uno di questi fieri e poverissimi vecchietti, che amavano stazionare presso il loro circolo di reduci indossando sempre l'uniforme color kaki della guerra italo-etiope, fece questa dichiarazione: "sì… c'era un italiano che ci insegnava a sfottere i fascisti… in italiano». A riparlarne gli vien da ridere, al veterano etiope in divisa kaki.
«Lui stava col nostro esercito, Paolo si chiamava. Me lo ricordo perché c'era la taglia col suo nome». Che faceva? «Ci mandava di notte sotto le mura dei fortini, a gridare a squarciagola». Cosa urlavate? «Le vostre mogli se la spassano con i gerarchiiii!». E poi? «Gridavamo in eritreo, agli ascari collaborazionisti: le vostre se le fanno gli italianiiii!». Abboccavano? «In cinque minuti scoppiava il pandemonio. I fascisti aprivano le porte e uscivano per farci la pelle. Noi scappavamo come lepri in una gola tra i monti. E lì c'era l'imboscata». «Aveva gli occhi folli» narra il veterano, sbarrando le pupille, come posseduto dal grande spirito. Ed evoca la leggenda clandestina del combattente di Spagna, Etiopia e Italia, che morì senza lasciar nulla di scritto. "Paulus" l'imprendibile, che insegna agli africani la guerra psicologica e l'uso delle mine, ciclostila giornali, obbliga le formazioni rivali a combattere unite, trasmette gli ordini del Negus…" (Paolo Rumiz, La Domenica di Repubblica, 30 aprile 2006)
[...] Fabio Baldassarri che recentemente ha curato una biografia di Ilio Barontini servendosi anche di testimonianze di compagni livornesi, cioè concittadini di Barontini che avevano appreso notizie sul suo conto dal medesimo protagonista delle stesse, parla soltanto di Paulus ovvero pertanto solo di Barontini che, nell'approssimarsi della data della partenza visse un periodo di isolamento in un'abitazione francese al fine di farsi crescere la barba e operare qualche altro cambiamento di connotati. (Fabio Baldassarri, Ilio Barontini un garibaldino del '900, Teti editore)
Intanto la polizia fascista e i servizi segreti di mezzo mondo già da tempo erano sulle tracce di un tal Paul Langrois del quale si comincia a paventare la presenza in Etiopia. Per il generale della PAI (Polizia dell'Africa Italiana) Marraffa è Paolo De Bargili, ma in realtà ancora oggi la sua vera identità è avvolta dal mistero. Per il dirigente comunista Anton Ukmar, da una testimonianza del dopoguerra, sarebbe invece il dirigente comunista Velio Spano ma successivamente sarà smentito da Giorgio Amendola e dalla stessa moglie di Spano, che pur ammettendo la presenza di Spano in Egitto in quel periodo nega che egli sia stato anche in Etiopia. In effetti Velio Spano era stato in Egitto, ma nel 1935, e della sua azione, o tentativo di azione, se ne ha traccia presso l'Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri (ASDMAE), Ministero dell'Africa. Da un'informativa di polizia del Tenente Colonnello Princivalle al Governo dell'Eritrea (Asmara 19 febbraio 1935), si apprende che il 27 dicembre del '35 furono trovati a Suez dentro a tre scatole di tabacco, alcuni volantini antifascisti in italiano.
Era un primo tentativo di azioni di propaganda del PCdI rivolta alle truppe dell'esercito italiano che passavano da Suez per dirigersi verso il porto di Massaua, nella colonia Eritrea, per dare inizio all'invasione dell'Etiopia.
Per altri Paul Langrois sarebbe una delle tante identità assunte dallo stesso Barontini. La confusione su questo punto è massima! E questo non è casuale.
Non è casuale che anche tra i dirigenti comunisti le informazioni e le testimonianze su quei fatti, che rimanevano alla fine del conflitto, fossero episodiche e spesso contraddittorie. Ciò dipende dalla formidabile struttura leninista clandestina del partito, forgiato in periodo fascista nella clandestinità e come "struttura d'avanguardia del proletariato composta da rivoluzionari di professione", che non consente la conoscenza di fatti ed azioni se non ai componenti delle cellule strettamente interessate ed a pochissimi altri nelle strutture di collegamento che, tuttavia, non conoscono, eccetto un contatto, gli altri componenti delle cellule stesse.
I due comunisti prendono contatti con i servizi segreti britannici e, con gli emissari di Hailè Selassiè. Partiti dalla Francia attraversano l'Egitto e il Sudan per trovarsi nel dicembre del 1938 in territorio etiope, nel Goggiam, nei pressi del lago Tana, dove si pongono al seguito del degiac (generale)Mangascià Giamberiè e dove le azioni della resistenza etiope sono più numerose e il suo controllo sulle foreste e le campagne maggiore.
Una prima lettere di Barontini giunge attraverso Khartoum : "…la mia salute è buona, nonostante la vita sia dura, dormire sulla terra, mangiare quando si trova, mangiare quello che c'è, bisogna avere uno stomaco di struzzo. Bisogna avere un fisico molto resistente. Al momento sono decisamente in forze, ci sono degli indigeni che nella zona terribile per la malaria hanno preso la febbre; al contrario io sto bene. È 26 giorni che passo da villaggio a villaggio, ho visitato fino ad ora tre grandi regioni. L'unico sistema di trasporto le nostre gambe, salire e scendere continuamente, di giorno il termometro segna 30-35 gradi all'ombra, la notte scende a 8-10. La situazione è buona. I contadini mi hanno fatto le migliori manifestazioni di amicizia, di rispetto, di considerazione, ho fatto e faccio tutti i giorni delle riunioni dando delle istruzioni, dei consigli, istruzioni militari, modo di combattimento, sul problema della salute, etc. Sono sorpreso poiché non ho mai trovato un pubblico più attento che qui, questi contadini sono molto intelligenti, imparano bene e dopo i miei discorsi manifestano per me una grande venerazione. Il documento del Negus è veramente formidabile. Penso che solamente la mia presenza qui è un successo, si riprende fiducia, ci si rinforza per sviluppare un miglior lavoro, per un lavoro più intensivo. Qui ci sono molti uomini disposti a combattere, ma non ci sono armi a sufficienza per armare tutti gli uomini disponibili. Ogni paese ha il suo armamento; ho visto centinaia e centinaia di fucili, ma ho constatato che provengono da diverse marche, questo fatto complica la formazione di unità omogenee. [...] I combattenti hanno una buona conoscenza per utilizzare le mitragliatrici; ma non ci sono munizioni. [...] Domani andiamo al combattimento, gli indigeni sono formidabili per il combattimento, ho visto un contadino donare una vacca per avere due cartucce per la sua arma. I preti sono sempre dalla parte della popolazione, ci sono dei preti veramente meravigliosi, sono in buoni rapporti con loro. Qui ci sono delle camicie nere che ti seguono non appena gli fai vedere un po' di soldi. Al momento ne ho una accanto a me che mi fa divertire. (lettera di Ilio Barontìni, Kartoum 6 febbraio 1939, inviata il 22 marzo, conservata presso il patrimonio archivistico dell'Istituto Granisci, tradotta dal francese e riportata da Matteo Dominioni in: Lo sfascio dell'Impero, Laterza 2008).
Una seconda lettera viene scritta il 9 maggio ed è indirizzata da "Jacopo" a "Tuti": …sono cinque mesi che il nostro compagno è in sede riconosciuto ufficialmente in base alle credenziali di ampia fiducia del Negus ed egli ormai ha preso la direzione militare di tutto quanto c'è di attivo e di combattivo laggiù e si tratta di parecchie decine di migliaia di uomini" (sempre da "Matteo Dominioni, op.cit.).
Nello schieramento opposto, quello delle forze d'occupazione italiana presso il comando di Gondar abbiamo una testimonianza della situazione di conflitto permanente esistente nella regione.
Curzio Malaparte, incaricato di un reportage giornalistico dal Corriere della Sera, con lo scopo di rassicurare la popolazione italiana a proposito della propaganda inglese antiitaliana, percorrerà nei primi mesi del 1939, al seguito di un contingente militare italiano, la rotta di rifornimento Massaua, Asmara, Adua, Bahir Dar, Addis Ababa. Nell'articolo intitolato "Passaggio di armati per le alte terre dell'Uoranà" non può fare a meno di descrivere, per quanto con toni rassicuranti e dissimulati, un attacco degli sciftà (briganti) e di un territorio del quale gli era stato sconsigliato il transito ( articoli adesso ripubblicati in "Curzio Malaparte, Viaggio in Etiopia ed altri scritti africani, Vallecchi 2006)
Sin da subito i due comunisti assumono le mansioni di istruttori militari e consiglieri.
Del "misterioso" Paul Langrois ci lascia una testimonianza il prigioniero italiano, capitano Bertoja, tramite Vittorio Longhi che era stato inviato nella regione del Goggiam per trattare la sua liberazione. Bertoja era stato precedentemente catturato dallo stesso degiac Mangascià ed ebbe modo di incontrare il presunto Langrois presso il villaggio di Fagutta e, naturalmente, considerandolo un traditore, lo descrive in maniera molto poco lusinghiera. Inoltre per Bertoja il compito che Langrois vuole portare a termine è quello di unificare l'azione delle tante bande di resistenti, spesso in conflitto reciproco, sotto un unico comando.
…"Sempre secondo Bertoja, Langrois è anche diventato il consigliere politico del piccolo gruppo di intellettuali che gravita intorno a Mangascia Giamberiè e che stampa alla macchia il settimanale ciclostilato <>. Ed ancora a lui il generale Marraffa attribuisce la paternità dei volantini che vengono diffusi in molte parti del Goggiam e che sono firmati da <>. Dice uno di questi manifestini: << ora l'Italia non ha più oro e argento; le banconote che vi danno non hanno più valore, sono come i marchi del 1918. Oh popolo d'Etiopia, attenzione! Non accettate le lire di carta. Gli italiani vi ingannano>>. (Angelo Del Boca, op.cit.).
Nella primavera del 1939 una seconda missione raggiunge gli stessi territori dell'Etiopia. Su questa si hanno maggiori ragguagli forniti da uno dei protagonisti, il comunista triestino Anton Ukmar, già combattente nelle brigate internazionali in Spagna e successivamente, nel '43 comandante della lotta partigiana in Liguria con il nome di battaglia di Miro. Testimonianze sulla figura di Ukmar e sulla sua impresa in Etiopia si hanno dalla sua stessa relazione pubblicata nel 1966 su Rinascita e dalle pubblicazioni del comandante partigiano G.B. Lazagna, oltrechè dalle edizioni dell'Anpi e in altri testi. Ukmar afferma che la missione gli fu affidata da Di Vittorio a Parigi. "La nostra missione consisteva in questo. Aiutare la popolazione etiopica nella mobilitazione contro l'aggressione colonialista e nella costituzione di un esercito partigiano; non si trattava di svolgere un lavoro di partito, né di presentarci come italiani ma semplicemente come membri delle Brigate Internazionali".
Insieme ad Ukmar fa parte della missione lo spezzino Bruno Rolla, già commissario politico della sezione clandestina del Partito a Palermo e combattente di Spagna nella 12a Brigata Garibaldi. Con loro ci sono il colonnello francese Paul Robert Mounier, del servizio d'informazione militare francese e simpatizzante della politica del Fronte Popolare, e Lorenzo Taezaz, uno dei più attivi collaboratori del Negus in esilio. Per Baldassarri, nella citata biografia di Barontini, Ukmar prenderebbe il nome di Johannes, Rolla quello di Petrus e Mounier quello di Andreas. La missione, sullo stesso percorso in territorio egiziano-sudanese sotto tutela delle truppe britanniche, presto raggiunge Ilio Barontini nel Goggiam. "…Ci mise al corrente della situazione e discutemmo insieme su da farsi: dovevamo riuscire a convincere gli etiopici ad abbandonare la struttura a grosse bande di 1000/2000 uomini, dei quali soltanto una parte armati di fucili, dato che queste formazioni erano lente nei movimenti e facilmente localizzabili; infatti venivano puntualmente scoperte e massacrate; essi avrebbero dovuto costituire gruppi più piccoli e mobili. Inoltre avremmo dovuto persuaderli a non uccidere più i prigionieri ma a disarmarli e lasciarli liberi…I guerriglieri etiopici avrebbero dovuto anche cercare di mantenere i territori liberati. Nostro compito sarebbe stato quello di mantenere i contatti con i capi della rivolta, coordinare le loro azioni, evitare i conflitti fra le varie formazioni, in modo da unificare nella lotta contro l'esercito coloniale tutte le energie" (Rinascita, n. 19, 7 maggio 1966 riportato anche in "Angelo Del Boca, op.cit.).
Inoltre si attribuiva particolare importanza all'opera di propaganda presso la popolazione e presso i militari italiani. Tramite un ciclostile veniva dato alle stampe un foglio metà in italiano e metà in amarico dal nome "La voce degli etiopi" con tiratura settimanale che poi veniva diffuso, fra le truppe italiane, dalle donne, in quanto meno sospettabili, che contemporaneamente carpivano informazioni fondamentali per la guerriglia. E' certo inoltre che si tentò di costituire una sorta di governo "ribelle" affinchè cominciasse ad essere riconosciuto un contropotere nei territori interessati dalla guerriglia.
Per mettere in pratica questo programma Barontini, Ukmar, Rolla e Monnier intraprendono viaggi, spesso ognuno singolarmente per tutto il vasto territorio del nord Etiopia che va dall'Ermacciò, al Beghemeder, al sud del lago Tana, al Goggiam.
E' certo che Barontini fu raggiunto da Lorenzo Taezaz in agosto e svolse la propria azione presso il degiac Mangascià, Ukmar operò nella zona di Gondar, attorno al Lago Tana, nell'Alto Nilo Azzurro e nel Goggiam.
Ma fu un compito irto di pericoli sopratutto a causa delle bande di mercenari sguinzagliati alla loro ricerca da parte delle autorità militare italiane e dalla rissosità tra le varie bende di resistenti etiopi.
Inoltre Monnier muore improvvisamente a causa delle febbri malariche mentre si spostava nella zona di Harar, ad est nel territorio etiopico, per prendere contatti con altri nuclei di ribellione.
Stessa sorte rischia di toccare ad Ukmar, ammalatosi anch'egli, e a Rolla a causa di una infezione ad una ferita che rischiava di degenerare.
Ukmar intanto aveva fatto chiamare i compagni mettendoli al corrente del suo stato di pericolo: "…Dapprima Ukmar ricevette un po' di latte, poi più niente.
Vennero due stregoni. Bruciarono erbe aromatiche e, infine, visto che non ottenevano alcun risultato, lo misero fuori dal tucul per lasciarlo morire. Dopo un po' lo privarono delle armi e degli oggetti di qualche interesse e lo trasportarono all'esterno del villaggio per abbandonarlo sotto un albero. Era la morte certa, anche per opera degli animali, se in quel momento non fosse arrivato Ilio Barontini.
Era sera e Ilio sentì pronunciare il nome che gli abissini avevano affibbiato ad Ukmar: Oghen. Barontini scorse il compagno e si rese conto che era in condizioni disperate. Gli apri la bocca con la lama della baionetta e gli fece ingoiare del chinino; poi lo fece caricare su un cammello e si avviò verso il Goggiam. A Barontini, quando era arrivato nel villaggio, era stato detto che iI suo amico poteva considerarsi morto. Trasferito in un altro villaggio, Ukmar pote invece riaversi rapidamente grazie a qualche settimana di riposo e ad un po' di recupero nell'alimentazione.
Anche Rolla si ammalo di li a poco. Una ferita ad un dito suppurò facendogli gonfiare tutto il braccio. Ancora una volta Barontini accorse in tempo. Gli pratico delle inieizione sulla ferita, la ripulì ben bene e Rolla guarì. " (Fabio Baldassarri, op. cit.)
Al colmo della malasorte anche quel minimo di dotazioni tecniche del gruppo si esauriscono. La radio smette di funzionare pertanto non potendo più ricevere istruzioni Ukmar, Rolla e Barontini decidono di sospendere la missione e di rientrare in Europa preceduti da Lorenzo Taezaz e De Bargili (Paul Langrois ?!).
Nella decisione di porre fine alla missione senz'altro ebbe un ruolo fondamentale il cerchio poliziesco che si stava per chiudere attorno al gruppo.
Infatti già dal 1935 la polizia italiana teneva sotto controllo le intenzioni e i progetti degli esuli antifascisti a Parigi: "…In una riunione promossa a Parigi da «Giustizia e Libertà» fra rappresentanti antifascismo italiano si sono esaminati mezzi idonei svolgere propaganda negativa fra nostre truppe e particolarmente fra quelle destinate Africa Orientale. Tra l'altro si è pensato inviare in Abissinia, previ accordi con rappresentante diplomatico etiopico a Parigi, qualche elemento del movimento antifascista per svolgere azione sul posto, a mezzo stampati da distribuirsi fra nostre truppe dislocate frontiera Somalia ed Eritrea. Fondi necessario dovrebbero essere forniti dal Governo Etiopico cui si chiederebbero anche garanzie per nostri soldati che si lasciassero convincere propaganda a passare al nemico…" (ASDMAE, MA//7, posiz. 181/6, fase. 3, telegramma n. 2693 di Lessona a De Bono, Roma, 26 marzo 1935; telegramma n.3541 di Emilio De Bono al Governo di Mogadiscio, Asmara 31 marzo 1935. Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
E ancora: "…viene riferito da fonte confidenziale che si starebbe organizzando in Francia una legione di italiani fuorusciti, a spese delle Internazionali. Anche trattandosi di poche persone, essa potrebbe provocare incidenti gravi per i rapporti franco italiani in questo momento delicatissimo. Pare che la legione dovrebbe imbarcarsi - clandestinamente - per prendere servizio a favore del Negus in Abissinia. [...] È possibile del resto che le Internazionali mirino soltanto a fare scandalo; a dimostrare all'opinione che vi sono italiani disposti a combattere per il Negus. Subordinatamente poi, a scagliarsi contro il signor Lavai se impedisse la sedicente spedizione…" (ASDMAE, MAIII, posiz. 181/56, fase. 271, lettera senza numero della Regia ambasciata di Parigi a firma Cerruti, Parigi 18 settembre 1935. Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
Successivamente giunse dall'Ambasciata italiana di Parigi un telegramma che momentaneamente escludeva azioni degli antifascisti in Etiopia: "…da accurate indagini esperite è risultato che la notizia riguardante la legione dei volontari italiani antifascisti per l'Etiopia non trova conferma in questi ambienti comunisti ed antifascisti in genere. Il progetto venne discusso, ma sembra, poi scartato per ragioni di opportunità…". (ASDMAE, MAIII, posiz. 181/56, fase. 271, telespresso n. 214747 del ministero degli Affari Esteri al ministero dell'Africa Italiana, Roma 30 aprile 1936 . Riportato in Matteo Dominioni op. cit.)
In Etiopia la cognizione delle strutture di polizia italiane, circa natura e programmi della missione comunista, ben presto cambia attribuendole un grado di maggiore pericolosità.
Questo avviene a causa del rapporto di Vittorio Longhi che mediava la liberazione del capitano Bertoja, di cui abbiamo già accennato. Il rapporto venne letto dal Ministro delle colonie Lessona e dallo stesso Mussolini e disegna il ritratto di Paul Langrois: "è un individuo di circa 40 anni, statura media, un po' curvo di spalle ma energico nel portamento; capelli, barba e baffi castano scuri, occhi neri, miopi; generalmente parla sfuggendo lo sguardo dell'ascoltatore; dentatura guasta, mancante di parecchi molari; ha una piccola cicatrice alla regione parietale destra, molto vicina all'occhio. Sguardo acceso, quasi da alcolizzato. Ha molta tendenza alle donne. Si fa passare per generale dell'esercito francese e racconta di essere stato in Spagna ed in Russia, ma parla mediocremente la lingua francese e conosce invece molto bene la lingua italiana, che parla con accento toscano. Il capitano, durante la sua prigionia, confidò a Longhi che l'emissario non era affatto uno straniero e neppure un generale, bensì un rinnegato italiano, invasato da idee antifasciste e probabilmente un giornalista. Si fa chiamare Paul Langlois e varie volte espresse a Longhi idee antifasciste, dichiarando altresì di appartenere al partito democratico sociale francese e che l'unico scopo della sua vita era di servire l'antifascismo internazionale. Si presentò al deggiac Mangascià con alcune credenziali munite del sigillo dell'ex negus, e sulle quali era incollata, per riconoscimento, la propria fotografia. L'azione dell'emissario non fu precisamente militare, ma propagandistica. Egli cercò di far riappacificare i deggiac ribelli, invitandoli a riunirsi compatti a combattere le truppe del governo ed aiutarsi vicendevolmente. Inviava delle relazioni nel Sudan e raccontò a Longhi che Karthoum era il centro dal quale si diramava la propaganda in A.O.I. e destinazione delle sue relazioni e delle pellicole cinematografiche da lui prese. A Karthoum i suoi corrispondenti trasmettevano le relazioni a Parigi, ove si troverebbe il centro della propaganda antifascista e antitaliana e dove si sosterrebbero le mire del partito nazionalista etiopico. Disse pure di essere stato a Londra per una settimana, espite dell'ex negus, ma il Longhi notò che l'emissario non conosceva alcuna persona del vecchio governo negussita e ciò gli apparve strano dato che molti seguaci si trovano ancora presso l'ex negus. L'emissario aveva per interprete un eritreo che il Longhi conobbe a Cheren che fu anche ascari del IV Battaglione, certo Emanuel Mangascià Burrù, maestro della scuola Salvago Raggi di Cheren. Altro interprete ai servizi dell'emissario era certo Atò Asseghei di Adua il quale dichiarò a Longhi, che l'emissario era persona nota anche al Duce e che in Spagna aveva prestato segnalati servizi per la causa del comunismo. (ASDMAE, MAIII posiz. 180/42, fase. 138, allegato al foglio n. 146636 di prot. di Amedeo di Savoia al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 7 dicembre 1939. Riportato in Matteo Dominioni op.cit.)
Da questo momento si moltiplicano le informative di polizia, le segnalazioni sulle azioni del gruppo e il cerchio inesorabilmente si stringe. Sempre il 7 dicembre del 1939 il duca Amedeo d'Aosta (che intanto aveva sostituito Rodolfo Graziani nella carica di vicerè della colonia Etiope) inviò al Ministero dell'Africa Italiana copia delle pubblicazioni dei ribelli e lo informò circa la loro dotazione di mezzi tecnici: "macchine fotografiche, una macchina da scrivere, una stazione ricetrasmittente e un poligrafo". ( ASDMAE, MAIII foglio n. 14764 di prot. di Amedeo di Savoia al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 7 dicembre 1939. In Matteo Dominioni, La missione Barontini in Etiopia. La singolare vicenda di un anomalo fronte popolare antifascista, Studi Piacentini).
Il 18 dicembre è la volta del generale Nasi a trasmettere al Ministero un'altro bando del presunto Langrois che era destinato ai capi della regione del Buriè. ( ASDMAE, MAIII foglio n. 145446 di prot. del generale Nasi al ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 18 dicembre 1939. In Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit.)
A gennaio la polizia dell'Africa Italiana diffonde una foto del presunto Langlois in compagnia di Mangascià e di Mesfin Scibesci. Cominciano a sorgere i primi dubbi sull'identità del Langlois. (Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit.)
L'ispettorato generale del PAI di Addis Abeba, grazie ad un'ulteriore deposizione del Longhi comincia a disegnare un ritratto più preciso del Langlois: "…il così detto Paul Langlois è certamente italiano, e per meglio precisare toscano. Parla assai male il francese; fu in Spagna con i rossi ed in Cina con Ciang Kai Scek. A suo dire fu maggiore dell'esercito italiano e riveste il grado di generale (?) nella legione straniera. Giunse presso il Degiac Negasc il 18 marzo 1939, proveniente da Parigi donde era partito il 1° gennaio 1939 e dove faceva parte del partito democratico italiano. Entrò in A.O.I. dal Sudan Anglo, sfuggendo alla sorveglianza delle nostre truppe. Aveva con se due lettere autografe dell'ex negus, una per il Deggiac Negasc e l'altra per il «popolo del Goggiam» incitanti alla resistenza contro il Governo Italiano…".(ASDMAE, MAIII foglio n. 1258/5599 di prot. del generale Renzo Mambrini al Comando Generale della Pai e ministero dell'Africa Italiana, Addis Abeba 25 gennaio 1940. In Matteo Dominioni, La missione Barontini op cit).
Successivamente un'altra serie di informative interessò l'attività del gruppo antifascista italiano arrivando anche a dettagliare il viaggio intrapreso dal Langlois per raggiungere il capitano Monnier morente.
"Paul Langlois fu identificato come Paolo De Bargili solamente nel marzo del 1940. Dalla documentazio e dell'archivio del Ministero dell'Interno (casellario politico centrale) la PAI venne a conoscenza del fatto che sin dal 1923 Langlois era stato lo pseudonimo usato da De Bargili. Mai però la PAI e la PS si accorsero che anche il nome De Bargili era la copertura di un'altra identità, quella di Barontini. E' un fatto singolare che nel casellario politico centrale sia stata iscritta una persona inesistente. Un'ipotesi plausibile è che Barontini si sia impossessato dell'identità di un connazionale deceduto o emigrato clandestinamente e sparito all'estero" (Matteo Dominioni, Lo Sfascio dell'Impero, op. cit.)
Nel 1940 cominciò il percorso, attraverso gli stessi territori dell'andata, per il rientro in Europa.
Ma non fu una passeggiata, in quanto il gruppo, scortato da circa venti uomini e in compagnia di preti e dignitari etiopi, fu intercettato da una banda di mercenari e fu costretto a dividersi.
Nel punto di ritrovo concordato Barontini tardò per parecchi giorni fino ad essere considerato morto dai compagni. Fortunatamente, viceversa, il gruppo riuscì a riunirsi a Karthoum e in fine a maggio si trovò al Cairo per essere imbarcato da una nave della Croce Rossa francese per Marsiglia, piuttosto che la Grecia, la Siria o la Turchia in base a quella che era la loro preferenza. Barontini a marsiglia riuscì a scampare all'arresto. Non ebbero la stessa fortuna i compagni che furono imprigionati nel campo di Vernet d'Ariege.
Ma seguiamo il già citato racconto di Cesare Colombo per l'Istituto Gramsci. "Nel maggio del 1940 raggiunsero il fiume Altara girando al largo del lago Tana. Era necessario passare per un passaggio obbligato, molto pericoloso. Assieme ai tre italiani erano dei dignitari etiopi di cui tre ammalati, due preti coopti ed una scorta di circa venti armati. Vennero fermati da una banda di seicento etiopi, che erano stati in parte armati dai fascisti proprio per l'antiguerriglia.
Questi richiesero le armi pesanti e l'oro. lnfatti da tempo circolavano nel paese leggende sui tesori degli emissari del Negus e dei loro aiutanti europei; si parlava di trecento cammelli carichi d'oro.
Ukmar, Rolla e due etiopi, furono messi da una parte; Barontini, i due preti e due etiopi, da un altra.
Fu detto che l'oro era a Badaref, nel Sudan, e alla fine si accordarono che il gruppo di Ukmar e Rolla sarebbe andato a prelevarlo; Barontini e gli altri avrebbero aspettato.
Barontini aveva suggerito il piano, e si era accordato segretamente per fuggire (la tenda sua e degli etiopi che erano con lui si trovava al margine di un bosco) e ritrovarsi in un punto determinato.
La scorta del gruppo di Ukmar, Rolla e gli altri etiopi era stata scelta dai nostri: la maggioranza era costituita da amhara una parte dei quali aveva già combattuto con i patrioti e che al momento buono eliminarono quanti erano contrari a seguire le direttive dei prigionieri; si recarono al luogo convenuto con Barontini e lo aspettarono nove giorni; la banda che aveva fatto prigionieri i nostri nel frattempo si era spostata, erano tutti convinti che Barontini si fosse perduto nella foresta o fosse stato ucciso. Passarono la frontiera e raggiunsero Kartum senza incidenti. Andarono dall'ex-ministro etiope per riprendere i vestiti europei e gli inglesi gli comunicarono: - Anche il vostro amico italiano sarà qui domani. - Infatti Barontini, e gli altri che erano fuggiti con lui grazie alla complicità degli amharici, si erano persi nella foresta ed erano sconfinati nel Sudan, molto più a Sud.
Dopo otto o dieci giorni, alla fine del maggio '40, giunsero al Cairo. Chiesero di essere imbarcati per la Grecia o la Siria o la Turchia. Furono invece imbarcati in un piroscafo francese della Croce Rossa adibito al trasporto di rifugiati francesi ed olandesi. Barontini riuscì a sbarcare inosservato.
Rolla e Ukmar il giorno dopo l'arrivo a Parigi furono arrestati e poi internati nei campo di Vernet d ‘Ariége. Si era ai primi del giugno 1940. Qualche giorno dopo Parigi cadeva nelle mani dei nazisti.
(Per tutta la vicenda del rientro in Europa vedasi anche l'articolo citato su Rinascita, "B.Anatra, Partigiano sul lago Tana" e "E. Barontini, V. Marchi, "Dario").
Non si pensi che i Nostri siano stati ricoperti di onori dai compagni di partito. Lo stesso Barontini fu tenuto in isolamento, come in quarantena, intanto che il partito sondava qualità politica e limpidezza delle sue precedenti azioni. La logica della clandestinità non ammetteva deroghe e Barontini era stato per circa 18 mesi in rapporto con l'intelligence britannica, cosa che suscitava più di un sospetto. (Vedasi sempre il libro della figlia di Barontini "Dario").
Sempre Del Boca riferisce nel mai superato Gli italiani in Africa Orientale che questi non furono gli unici italiani ad aver militato nella resistenza etiope. Il grande storico dell'Etiopia Richard Pankhurst gli fece pervenire una piccola nota frutto di una ricerca nella quale figurano tra i combattenti etiopi il siciliano Saverio Sbriglio, che disertò per prestare soccorso quale infermiere presso la formazione di Abebè Aregai, e Alfonso P. che disertò per raggiungere le forze di Negasc Bezabè nel Goggiam. Alfonso P. finirà i suoi giorni internato per errore nel 1941, dagli inglesi, nel campo di concentramento di Dire Dawa e verrà pugnalato al cuore da alcuni fascisti. Inoltre nel 1941, alla data della liberazione dell'Etiopia, saranno centinaia, forse qualche migliaio, gli "insabbiati". Ovvero gli italiani che avevano disertato ed erano spariti nell'immenso territorio del paese, facendosi una famiglia e conducendo un'esistenza spesso clandestina [...]
Gaspare Sciortino, I comunisti e i guerriglieri del Negus. Un episodio della resistenza antifascista in Etiopia, 1938-39, www.resistenze.org, aprile 2012

La tesi è il frutto di una ricerca svolta in questi mesi insieme a docenti e studenti delle scuole superiori modenesi. La tesi è articolata in sei capitoli. Nei primi 4 capitoli, si analizza la storia coloniale italiana, gli studi etno-antropologici e il razzismo nei confronti degli africani. Il colonialismo italiano è una delle pagine più nascoste della storia italiana e la memoria coloniale italiana è tema storiografico poco dibattuto. Il colonialismo italiano veniva considerato meno violento, meno razzista rispetto a quello delle grandi potenze. È diventato un tema studiato da qualche anno, il merito dell’inizio di una nuova chiave di lettura del colonialismo va allo storico Angelo Del Boca. Lo storico, insieme da altri studiosi come Giorgio Rochat, Nicola Labanca, Valeria Deplano, Alessandro Pes, Barbara Sòrgoni, Barbara Spadaro, hanno iniziato a mettere in luce alcuni eventi e pratiche coloniali. Gli studiosi hanno dimostrato che il colonialismo italiano non è meno violento o meno razzista rispetto a tutti i colonialismi europei. Gli ultimi due capitoli si concentrano sulla ricerca svolta con i docenti e gli studenti, attraverso delle interviste, nel capitolo dedicato ai docenti, si cerca di analizzare se viene insegnata la storia coloniale nelle scuole superiori modenesi e in che modo. Sono stati intervistati docenti di diverse scuole di Modena e provincia, istituti di tutte le categorie: professionali, licei e tecnici. La storia coloniale è la grande assente, nei manuali le viene dedicato poco spazio. Non si parla quasi mai delle violenze, dell’uso dei gas, violenza di genere. Molti dei docenti intervistati, hanno però tematizzato alcuni argomenti e sono stati approfonditi in classe usando materiale oltre all’uso del libro di testo. Il sesto capitolo invece è sulla memoria coloniale nelle nuove generazioni, le interviste sono state fatte con studenti degli istituti professionali, licei e tecnici di Modena. Alcuni studenti sono figli di immigrati e con loro si è parlato, quando è stato possibile, della storia coloniale dei loro paesi di origini. L'obiettivo era quello di analizzare com’è la memoria coloniale nelle nuove generazioni, come percepiscono la storia coloniale e alcune tematiche legate ad essa come la violenza sulle popolazioni colonizzate, violenza sulle donne nelle colonie, il razzismo. La storia coloniale è stata trasmessa dalla scuola oppure dalla famiglia? In che modo? Gli studenti figli di genitori immigrati, si sentono far parte di tutte e due le patrie, hanno raccontato la storia coloniale dei paesi di origini, cosa si ricordano, come la percepiscono, quali sono i residui del colonialismo su questi paesi. Raccontando la loro memoria, gli studenti vivono sulla propria pelle l’eredità razzista del passato, simile a quella vissuta dai loro antenati. Sentono l’importanza di studiare la storia coloniale dei paesi di origini per conoscere quello che hanno dovuto subire i loro avi e perché credono che studiando il passato si possono evitare di rifare gli errori del passato. Anche gli studenti figli di genitori italiani hanno condiviso le loro memorie, fotografie risalenti dall’epoca coloniale. Anche loro sono sensibili a questo tema e credono nella sua importanza di conoscere il passato e affrontare alcuni temi nelle scuole per evitare di ricadere in errori fatti in passato, e che continuano a persistere nel mondo.
Ijjou Berdaouz, La storia coloniale italiana: memoria e insegnamento nelle scuole superiori modenesi, Riassunto, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2020