Verso le sette del mattino del 2 luglio si sentì un colpo di fucile seguito da una raffica di mitra. Era il segnale di allarme convenuto della 17a brigata Garibaldi. Arrivò concitato e trafelato dalla Frassa, Sauro Faleschini, cremonese diciottenne buon camminatore che "Deo" aveva voluto con sé come staffetta: "stanno venendo su, numerosi e armatissimi, tedeschi e camicie nere" <271. La "Felice Cima" stava per essere attaccata dai nazifascisti. La notizia del rastrellamento giunse presumibilmente prima ai distaccamenti stanziati all'imbocco della Valle di Rubiana, interamente occupata dalla brigata. Tra quelli c'era il distaccamento comandato da Mauro Ambrosio "Bil" di cui faceva parte Federico Del Boca. Del Boca nel suo diario, scrivendo del rastrellamento del 2 luglio, non cita il luogo dove era alloggiato il distaccamento, ma dice che era "un posto pericoloso, vicino alla strada, eravamo come l'avanguardia di tutti (…) c'erano poche casupole in parte disabitate; però aveva un belvedere magnifico, si vedeva la strada che andava al Col del Lys e, sottostante il paese di Rubiana, si dominava tutta la valle" <272.
All'alba le pattuglie del distaccamento di "Bil" portarono la notizia che ad Almese vi erano una ventina di carri armati e autoblinde che stavano per proseguire verso Rubiana. I tedeschi e i fascisti stavano risalendo la valle per effettuare il rastrellamento. Secondo la testimonianza di Del Boca giunse al loro distaccamento un partigiano appartenente ad un distaccamento stanziato sull'altro versante della valle, alle pendici della Rocca della Sella, in località Rubiana, che riferì ai partigiani di "Bil" come i nazifascisti avessero raggiunto già quella zona della valle e avessero catturato molti partigiani <273.
Quindi le truppe tedesche e quelle italiane stavano risalendo la valle da entrambi i versanti e, superiori in mezzi e armi, superarono facilmente i tentativi di contrastare la loro avanzata messi in atto dai primi distaccamenti della brigata messi a presidio della valle. Il comandante "Bil" dispose subito il distaccamento in posizione difensiva. Le armi erano poche, il distaccamento faceva affidamento su due mitragliatrici una da 7 mm e l'altra da 20 mm, sprovviste di piedistallo e di munizioni. Gli uomini di "Bil" attendevano che i fascisti e i tedeschi si avvicinassero per aprire il fuoco, "i loro elmi cominciarono a brillare sotto il sole; avanzavano lentamente a scacchiera avvicinandosi sempre più, perché prevedevano un attacco di sorpresa; intanto a noi faceva paura il modo in cui, avanzando, si allargavano; si finiva col rimanere circondati" <274.
"Bil" ordinò allora, per scongiurare l'accerchiamento dei propri uomini, come mossa difensiva, la disposizione a ferro di cavallo, tenendo così il più a lungo possibile la posizione che avrebbe permesso ai compagni delle retrovie di portare in salvo i feriti e i pochi rifornimenti di cui i partigiani disponevano. Gli uomini di "Bil" riuscirono a mantenere le posizioni per poco tempo, i nazifascisti numerosi e meglio armati avanzano inesorabilmente. A quel punto ai partigiani non rimaneva che disperdersi. Qualcuno cercò di nascondere la roba più ingombrante che si aveva dentro a delle buche scavate nei pressi del magazzino del distaccamento, gli oggetti più facilmente trasportabili i partigiani li portarono con sé. Il gruppo di "Bil" ripiegò verso il castello di Mompellano, la sede del comando della 17a brigata Garibaldi, inseguiti dai nazifascisti che, superato l'ostacolo dei primi distaccamenti, procedevano verso il Col del Lys. Durante il ripiegamento verso il colle "vedemmo su una altura un gruppo di uomini che agitavano le braccia in segno di saluto. "Sono dei nostri compagni". (…) ci avvicinammo con gran fatica, eravamo carichi, chi aveva le armi pesanti, chi le cassette di munizioni, chi i viveri; ogni tanto i nuovi compagni ci salutavano: "venite siamo della squadra di Carlo". Io l'avevo conosciuto, il nome era di battaglia; sentendolo mi sentii subito meglio, mi ricordo che lo dissi a Bil; intanto si vedevano le divise da partigiani, erano ben armati, c'erano delle mitraglie che sembravano rivolte verso di noi, altri uomini erano stesi a terra come pronti a far fuoco; ogni tanto un richiamo e persino qualche parola in torinese; arrivati ad una cinquantina di metri tutti raggruppati, all'improvviso aprirono il fuoco in massa; io che ero tra i primi fortunatamente mi trovai dietro ad una piccola sporgenza e vidi quei maledetti che si toglievano le divise da partigiani ridendo a squarciagola e sparando" <275.
Decimati dall'agguato fascista i superstiti del gruppo di "Bil" riuscirono a raggiungere Mompellato, unendosi ai gruppi di partigiani comandati da "Deo" che cercavano di difendere il comando di brigata che era posto in una buona posizione strategica, tutto intorno non vi erano alberi o rocce dietro cui proteggersi (il nome Mompellato deriva proprio da questa caratteristica morfologica), chi voleva attaccare doveva compiere l'azzardo di avanzare allo scoperto. La squadra comandata da "Bil" si pose sul fianco destro della squadra comandata da "Deo". I partigiani resistettero fino a quando i militi della Repubblica sociale utilizzarono l'artiglieria. A quel punto il primo distaccamento a ripiegare fu quello di "Deo", seguito poi dal gruppo di "Bil" entrambi diretti verso il monte Civrari, montagna rocciosa e ben riparata dall'artiglieria che continuava a sparare. La nebbia, provvidenzialmente scesa in quel momento, aiutò i partigiani nel ripiegamento, ma non tutti riuscirono a mettersi in salvo.
Quando tre giorni dopo il rastrellamento il distaccamento di "Deo" riuscì a ricomporsi mancavano all'appello i partigiani del gruppo dei fratelli Scala. Notizie confuse giungevano dai contadini circa la situazione lasciata dal rastrellamento. Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani. I garibaldini della 17a brigata Garibaldi giunti sul posto si trovarono davanti a 26 giovani compagni massacrati in modo indescrivibile. Il parroco don Stefano Mellano di Bertesseno, località nei pressi del Col del Lys, che con il parroco don Evasio Lavagno di Mompellato era giunto sul posto per dare i sacramenti alle vittime, ha scritto: "Al due luglio vi fu una strage al Col del Lys. Arrivarono vestiti da partigiani, cantando le canzoni dei partigiani, ed i partigiani nel Castello non se ne accorsero. Quando ebbero sentore del pericolo erano chiusi da tre parti: essi, quelli che fuggirono verso Bertesseno andarono nelle loro mani. Furono presi in numero di 23 dal mio versante e massacrati con le baionette e bastonate; infine li portarono sulla strada di Niquidetto e lì li fucilarono. Via i tedeschi andai con alcuni uomini e ne trovammo tre gruppi di morti giù della scarpata della strada. Gli uomini li portarono sulla strada ed il giorno cinque luglio vennero molti partigiani dai dintorni e tutti i compagni per il riconoscimento; cinque, purtroppo furono irriconoscibili. Con il parroco di Mompellato benedicemmo un pezzo di terreno secondo il rituale. Intanto giunsero le casse e ad ognuno fu posto un'ampolla con il nome oppure con i connotati, che si poterono prendere. Molti mi diedero l'indirizzo e scrissi io ai loro parroci, che avvisassero le famiglie dell'accaduto" <276.
[...] Dei ventisei partigiani trucidati sul Col del Lys solo di diciannove è stato possibile ricostruirne la carriera partigiana nella 17a brigata Garibaldi perché i loro nominativi sono presenti nel database del partigianato piemontese. Fatta eccezione per Guerrotto di cui è nota solo la data e il luogo di nascita, per i sei sovietici, dei quali si conosce solo l'onomastica, sappiamo invece che appartenevano tutti allo stesso distaccamento formatosi il 1° maggio 1944, quando una quarantina di prigionieri sovietici adibiti alla riparazione del tronco ferroviario Rivoli-Avigliana, dopo aver preso contatto con Maria Lazzaretto, suo fratello Franza e con il comandante "Alessio", decisero di passare nella 17a brigata Garibaldi. Costituirono un loro distaccamento comandato da Andrei Gretčko, ufficiale dell'esercito sovietico, e si stanziarono oltre il villaggio di Courmayan, un punto strategico di estrema importanza che conduceva al valico per la Francia, dove operavano altre formazioni partigiane. Molti erano ucraini e georgiani, alcuni di Mosca e di Leningrado. Quasi tutti erano stati fatti prigionieri sul fronte del Don. Secondo la testimonianza di Osvaldo Negarville "se ne stavano appartati, difficilmente erano loro a cercare il contatto con i distaccamenti italiani, e la cosa sulle prime ci stupì. Ma in seguito ne capimmo il motivo: non volevano forzare i tempi, non volevano pretendere la nostra fiducia senza averci dato valide prove; attendevano l'occasione per dimostrare coi fatti che erano veramente nostri fratelli di lotta" <277. I sovietici, impiegati in Val di Susa dai tedeschi prevalentemente a presidio della linea ferroviaria Torino-Modane, erano ben organizzati e soprattutto ben armati. "Alessio" parlando dei partigiani che entravano nella sua brigata ha detto che "i russi e i cecoslovacchi erano armati, i cremonesi no" <278. Circostanza confermata dalla Gobetti che passando in rivista i partigiani della brigata Gl "Stellina" ne aveva avuto una grande impressione: "i cechi se ne son venuti su senza colpo ferire, portandosi l'equipaggiamento completo, divise, armi, coperte, tende, pentolini. Qui han montato le loro tende e tengon tutto in ordine perfetto: pentolini lucidissimi, divise ben pulite, armi perfettamente forbite. Formano un gruppo a sé con un proprio capo e sono organizzati e disciplinatissimi (- Si lavano i piedi tutti i giorni, - m'ha sussurrato un nostro partigiano valsusino con accento non ho ben capito se di compianto o di ammirazione). Vedemmo anche le postazioni delle mitragliatrici, molto ben occultate" <279.
L'occasione per dimostrare tutto il loro valore militare ai partigiani sovietici della "Felice Cima" non tardò a presentarsi.
[NOTE]
270 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, cit., p. 43
271 Ibidem
272 Del Boca, Il freddo, la paura e la fame, cit., p. 76
273 Ivi, p. 108
274 Ivi, p. 109
275 Ivi, cit., p. 112
276 Giuseppe Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940 – 1945). Nelle relazioni dei parroci del 1945, Edizioni Piemme, Torino 1996, cit., p. 269
277 Galleni, I partigiani sovietici nella Resistenza italiana, cit., p. 135
278 Testimonianza di Alessio Maffiodo in, Armando Ceste e Chiara Sasso (a cura di), Mai tardi. La Resistenza in Val di Susa, Index Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Torino 1996.
279 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 167
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi "Felice Cima". Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007