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sabato 16 settembre 2023

A Hollywood ogni sceneggiatore scopriva subito una triste verità


Se nei film su Hollywood la star è di norma votata alla tragedia e all’autodistruzione, lo sceneggiatore è invece un personaggio spesso in balia della frustrazione artistica, del cinismo e perfino della paranoia. Lo dimostra il caso di Viale del tramonto, dove la vittima oggettiva della storia è senza dubbio Joe Gillis, lo screenwriter di terz’ordine freddato da alcuni colpi di pistola per mano della sua amante. Tuttavia, mai una volta durante il suo celebre resoconto post mortem Joe ci fa percepire in maniera melodrammatica l’ingiustizia della sua fine violenta, mentre mantiene intatto, fino all’ultimo, un atteggiamento di cinico distacco mescolato ad amarezza per il suo fallimento professionale. Del resto, per parafrase il titolo originale di un altro celebre film coevo a Viale del tramonto, In a Lonely Place (Il diritto di uccidere, 1950) di Nicholas Ray, gli sceneggiatori sembrano aver occupato un “posto solitario” all’interno dell’industria fin dai tempi in cui l’introduzione del sonoro rende necessaria la presenza costante a Hollywood di scrittori in grado di fornire sceneggiature filmabili provviste di dialogo.
Larry Ceplair e Steven Englund riassumono così le difficoltà esperite da tale categoria professionale: "A Hollywood ogni sceneggiatore - sia che stendesse le sue sceneggiature a Normandy negli uffici della Fox organizzati come un villaggio, o negli asettici e angusti locali della MGM, o nelle malconce ma comode stanze della Paramount […], o nella speciale versione del Château d’If allestita dalla Columbia - scopriva subito una triste verità e prima o poi si doveva abituare a vivere con essa: il rapporto di cui doveva tener conto non era quello tra lui, sceneggiatore, e il pubblico che andava a vedere il film, bensì tra lui e il produttore. […]. Gli scrittori erano sì incoraggiati a presentare soggetti originali ma la forma mentis dei produttori era così rigida che solo raramente uno sceneggiatore riusciva a “piazzare” più di cinque o sei soggetti originali nell’arco della sua carriera. […]. Tutto dunque ruotava sul rapporto tra lo scrittore e il suo produttore. L’impressione era che, dovunque lo sceneggiatore vagasse nel labirinto hollywoodiano, saltava fuori il produttore a sbarrargli il cammino. Era lui che si doveva affrontare e soddisfare. Perciò lo scrittore doveva imparare subito che quel che contava era l’idea che il produttore, e non lui personalmente, aveva di una buona sceneggiatura" <117.
Sebbene i film autoreferenziali spesso denuncino una deliberata assenza di verosimiglianza nel descrivere il lavoro degli sceneggiatori all’interno dello studio system (ad esempio, molte volte è passato sotto silenzio il fatto che il loro principale compito consistesse di norma solo nell’adattare materiale già selezionato dall’ufficio-soggetti, e che di rado qualcuno riuscisse a far realizzare un progetto proprio), l’abisso di potere, che davvero separava questa categoria dai produttori, è sempre posto al centro del dramma. Se Il diritto di uccidere è senz’altro poco realistico quando ci descrive il lavoro di scrittura del protagonista Dix Steele (Humphrey Bogart) come un lavoro solitario e condotto in casa propria agli orari più improbabili, non lo è, però, quando ci comunica la frustrazione che questo stesso personaggio prova essendo costretto dalla sua professione ad adattare soggetti dozzinali per lo schermo. In tal senso, la violenza fisica di Dix e la sua sospettosità paranoide (evidenti soprattutto nel rapporto con l’altro sesso) non sono solo concessioni ai canoni del genere noir in cui il film di Ray s’inscrive, ma servono a tematizzare l’incapacità del protagonista di adeguarsi al modus operandi hollywoodiano.
Come osservano ancora Ceplar ed Englund, «gli scrittori che resistettero a Hollywood impararono a fare del loro meglio con qualsiasi materiale avessero a disposizione cercando di evitare allo stesso tempo (per quanto possibile) ogni coinvolgimento del proprio io nella sceneggiatura che avevano sotto mano. In generale questo tipo di sforzo è estraneo al processo creativo, ma la sopravvivenza degli scrittori impegnati nel processo produttivo dell’industria cinematografica richiedeva questa capacità e così molti di loro impararono in un modo o nell’altro ad adattarsi» <118.
A Dix Steele quest’adattamento non riesce perché equivale per lui, psicologicamente parlando, a essere declassato dal ruolo di artista a quello di semplice funzionario di livello medio all’interno di una grossa impresa produttiva.
Successivo di soli due anni a Il diritto di uccidere, Il bruto e la bella di Vincente Minnelli esamina, almeno in parte, questioni analoghe, ma lo fa mettendo al centro della diegesi proprio il personaggio del produttore, vale a dire la figura solitamente accusata di tutti i mali degli sceneggiatori hollywoodiani. Curiosamente, qui il personaggio di Jonathan Shields (Kirk Douglas), con ogni probabilità modellato sulla biografia reale del grande producer indipendente David O. Selznick, ha molti tratti in comune con Dix: ambizione, creatività, rabbia, desiderio di rivalsa sul milieu hollywoodiano, ma anche e soprattutto la medesima difficoltà a stabilire una relazione sentimentale non contrassegnata dalla violenza e dalla manipolazione psicologica. Insomma, sebbene Dix Steele e Jonathan Shields muovano da posizioni professionali opposte (il primo non tollera le restrizioni creative dettate dal suo produttore, mentre il secondo cerca, in tutti i modi, di controllare il lavoro e perfino i sentimenti dei suoi sottoposti), i due personaggi esibiscono problematiche psicologiche davvero affini.
L’immagine di Hollywood come ambiente professionale che esige dei temperamenti particolarmente ossessivi è di antica memoria e di grande forza drammatica. Peraltro, essa non ricorre soltanto nei film ma anche nella letteratura: Gli ultimi fuochi di Francis Scott Fitzgerald, scrittore che non a caso trascorre l’ultima fase della sua vita lavorando infelicemente come sceneggiatore, e Perché corre Sammy? (What Makes Sammy Run?, 1941) di Budd Schulberg, anch’egli sceneggiatore e figlio di un magnate dell’industria, ne sono una buona dimostrazione. Tuttavia, va notato come la figura del produttore spietato non faccia la sua comparsa nel cinema autoreferenziale fino agli anni Cinquanta (nei film degli anni Trenta, come A che prezzo Hollywood ed È nata una stella, i moguls del racconto sono figure pittoresche e bizzarre, ma tutt’altro che sadiche o egocentriche). È solo nel 1952 che Il bruto e la bella inaugura questo genere di caratterizzazione psicologica, che sarà poi ripresa più e più volte nelle opere immediatamente successive. Di nuovo, notiamo come il decennio dei Cinquanta si caratterizzi per una spiccata negatività nel tratteggiare il mondo dell’industria. Le contaminazioni noir in una cornice sostanzialmente melodrammatica, l’atmosfera di soffusa paranoia, la narrazione costruita per flashback che sembra rievocare, sulla falsariga del celebre modello di Quarto potere, il senso di una detection sulle vere ragioni del protagonista, sono solo alcuni dei tanti elementi che contribuiscono all’idea di Hollywood come luogo che distrugge qualsiasi felicità personale in nome dell’ambizione, del successo e del denaro. E tuttavia, il personaggio di Shields, pur nella sua negatività, risulta troppo affascinante, creativo e titanico perché si possa parlare, anche in questo caso, di una completa demistificazione del mondo del cinema.
Siccome gli sceneggiatori erano solitamente indicati come “gli intellettuali di Hollywood” e spesso provenivano da precedenti esperienze nell’ambito della letteratura, del teatro o del giornalismo, non sorprende se la tensione tra desiderio di libertà creativa da parte del singolo e potere schiacciante e indifferenziato dell’apparato economico sia molte volte rappresentata come scontro tra questa categoria professionale e quella dei producers. Talvolta, può accadere anche che a fare le spese del potere debordante dei magnati della Hollywood classica sia il personaggio del regista. A tal proposito, si veda l’esempio di La contessa scalza, dove il regista di talento Harry Dawes (Humphrey Bogart) è costretto a una posizione di sudditanza rispetto al sadico e mediocre Kirk Edwards (Warren Stevens), che si ritrova a capo di una major unicamente per questioni ereditarie. Anche in casi simili il conflitto è solitamente descritto come quello fra un’intelligenza creativa, che ambisce a emancipare la qualità dei progetti in cui è coinvolta, e un atteggiamento invece ottuso, rigido, incapace di riconoscere il vero talento se questo rischia di mettere in discussione la sua autorità.
Un’interessante variazione sul tema - su cui ci si soffermerà più volte tanto nelle pagine dedicate al film di Ray quanto in quelle dedicate al film di Minnelli - è rappresentata da Il grande coltello di Robert Aldrich dove lo scontro si consuma tra Stanley Shriner Hoff (Rod Steiger), tipica figura di tycoon spietato fino al punto di rasentare la malattia mentale, e Charlie Castle, star hollywoodiana stanca di interpretare film mediocri, e desiderosa di tornare all’esperienza del teatro d’impegno politico da cui proviene. Oltre a spostare per una volta l’attenzione dall’immagine della star femminile a quella maschile, e in particolare alla capacità anche del divo maschio di esprimere, attraverso il corpo, un ideale di bellezza ed erotismo (Charlie non è solo una stella ma anche un sex symbol), questo film ci ricorda uno degli aspetti più controversi dell’organizzazione economica dello star system classico. Infatti, come sottolinea Mark Cerisuelo, «il film [di Aldrich] è probabilmente l’unico del filone ad insistere sull’importanza del contratto settennale che legava gli attori alla loro casa di produzione» <119.
[NOTE]
117 Larry Ceplair, Steven Englund, Inquisizione a Hollywood. Storia politica del cinema Americano 1930-1960, trad. it. Riccardo Duranti, Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 15-7. (ed. or. The Inquisition in Hollywood. Politics in Film Community 1930-1960, Doubleday, Garden City, N.Y. 1980).
118 Ivi, p. 19.
119 Marc Cerisuelo, Hollywood a l’ecran. Essai de poétique historique des films: L’exemple des métafilms américains, Presses de la Sorbonne Nouvelle, Paris 2000, p. 287.
Diletta Pavesi, Poisoned Love Letters to the Movies. La contraddittoria rappresentazione di Hollywood nel cinema americano classico (1932-1962), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Ferrara, 2014

giovedì 7 settembre 2023

Tallonato da condizioni economiche precarie il Gruppo Rizzoli aveva reagito intraprendendo un continuo rilancio della propria azione imprenditoriale


La Loggia P2 aveva usufruito almeno per un decennio di una sostanziale collusione, che potrebbe essere definita culturale, con ampi settori della vita istituzionale del paese adoperandola come punto di partenza per il raggiungimento di propri obiettivi: banche, servizi segreti, ma anche Università, Procure, Pubbliche amministrazioni, Parlamento e Informazione. Allergica ad ogni forma di mediazione democratica la P2 è stata giustamente descritta come punto di riferimento e supporto a settori sociali e istituzionali che non dialogavano attraverso i canoni consueti del potere democratico. I suoi maggiori ambiti di azione, i servizi segreti, la stampa, la finanza, la politica, disegnavano una mappa estesa che certamente conferiva al fenomeno P2, come ha sottolineato Francesco Biscione, “la dignità di un importante movimento di trasformazione”. La P2 sembrava incarnare una immensa area a-partecipativa, indifferente se non refrattaria al percorso democratico; una forza che traeva la propria legittimazione da alcune trasformazioni fondamentali della realtà sociale ed economica del paese, inserendosi all’interno di un sistema produttivo squilibrato e fisiologicamente predisposto a questo coacervo di interazioni. <424
Prodromico di questa capacità di insediamento era il caso “Rizzoli-Corriere della Sera”, capitolo che la Commissione d’inchiesta inserì nel canovaccio investigativo denominato “Finanza ed Editoria”. La massiccia infiltrazione di uomini della P2 all’interno del quotidiano di Via Solferino fu evidenziata nella relazione Anselmi come l’indice più eloquente della potenza con cui l’informazione aveva influito sullo scacchiere del consenso e della partecipazione, al centro del meccanismo democratico. L'analisi dell'assetto proprietario del quotidiano milanese sembrava fugare ogni dubbio sulla “proponibilità di tesi di taglio riduttivo” della Loggia P2 e delle attività “che in essa venivano progettate e gestite da forze disparate, ma unificate dalla convergenza di interessi su situazioni determinate”. L’influenza che la Loggia P2 aveva esercitato sul “Corriere della Sera”, concludeva la relazione finale, “aveva lasciato intravedere le linee generali di un allarmante disegno generale di penetrazione e condizionamento della vita nazionale”. <425
Tuttavia la parabola del Gruppo Rizzoli racchiudeva al suo interno un intricato gomitolo di antinomie che mal si conciliava con la semplicistica ma tutt’altro che semplice interpretazione che la Commissione ne volle dare durante la stesura della relazione finale.
Ceduto alla famiglia Rizzoli dal gruppo Agnelli, Moratti e Crespi nel 1974 il Corriere della Sera contava un deficit patrimoniale di svariate decine di miliardi, unito ad un costo di esercizio previsto altrettanto oneroso di cui il Gruppo Rizzoli aveva cercato di contrastare con investimenti mirati allo sviluppo e non al taglio della spesa. In questa direzione andava l’acquisto di Telemalta, iniziativa concordata con il governo maltese per costruire una “Tv estera tutta italiana” in diretta concorrenza con la Rai per soffiarle “una buona fetta di inserzionisti pubblicitari”. <426
Seguiva l’accordo con la Democrazia Cristiana per la gestione de “Il Mattino” di Napoli, il più diffuso quotidiano del Mezzogiorno. La famiglia Rizzoli con il figlio poco più che trentenne Angelo si era presentata come il nuovo polo dell’informazione nazionale, scevra da interessi extra-editoriali, avviando una pesante opera di espansione che in pochi anni, dal 1974 al 1977, aveva effettuato interventi a sostegno di numerose testate a carattere locale e nazionale. Secondo la ricostruzione contenuta nella relazione di minoranza a firma del radicale Massimo Teodori, Angelo Rizzoli e il direttore finanziario Bruno Tassan Din, entrambi iscritti alla Loggia P2, avevano compreso che l’unica maniera per ottenere denari sufficienti a sostenere queste operazioni fosse quella “di scambiare il potere della stampa a loro disposizione con dei servizi da rendere ai partiti non solo con gli orientamenti dei giornali rizzoliani ma anche con l'acquisto di testate direttamente per i partiti o a disposizione dei partiti”. <427
Tallonato da condizioni economiche precarie il Gruppo Rizzoli aveva reagito intraprendendo un continuo rilancio della propria azione imprenditoriale, attraverso l’acquisto di giornali locali, figli di finanziarie satelliti al sistema partitico italiano. Un meccanismo che da una parte ne avrebbe dilatato il debito e dall’altra ne avrebbe ridotto l’indipendenza.
Benché la ricostruzione di Massimo Teodori avesse natura prevalentemente politica e quindi in qualche modo strumentale alla causa che il Partito radicale stava combattendo contro la “partitocrazia” italiana, vi erano alcuni dati che non potevano essere ignorati: nel giro di pochi anni, il Gruppo Rizzoli aveva acquistato “Sport Sud di Napoli, il 60% della OTE editrice de Il Piccolo di Trieste e de L’Eco di Padova, l'80% della Papiria editrice del Giornale di Sicilia, l'80% della Cima Brenta editrice dell'Alto Adige di Bolzano”. E poi ancora altri interventi erano stati effettuati con l’erogazione di finanziamenti destinati a non essere rimborsati: 1.955.406.000 solo fino al 31 Dicembre 1976 all’ Adige di Trento, la cui società editrice apparteneva alla Affidavit, finanziaria posseduta dalla Democrazia Cristiana; 4 miliardi alla EDIME di Napoli per conto della DC Affidavit; 1,5 miliardi alla SOFINIM, finanziaria del Partito Socialista per l'acquisto del Lavoro di Genova. <428. Le cifre mettevano in mostra una concentrazione editoriale tanto forte quanto in grossa crisi finanziaria. Secondo i dati Ads, il Corriere della Sera aveva nel 1977 una diffusione media di 600.000 copia su una tiratura di 702.000, il Corriere d’Informazione stampava 100.000 copie, mentre Il Mattino ne stampava 95.000 unità. <429
I radicali già nel marzo e nell’aprile del 1981 avevano chiesto con due interpellanze parlamentari di conoscere la reale situazione debitoria del Gruppo Rizzoli e se esistessero “gli estremi per la bancarotta”. In quel caso la risposta venne fornita il 7 aprile 1981 dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Piergiorgio Bressani, il quale sin dal V governo Andreotti deteneva la delega per i problemi della stampa e dell’editoria:
“Per quanto riguarda l’esposizione debitoria del Gruppo, essa risulta controllata dall’Istituto di vigilanza secondo i dati di centrale rischi costantemente aggiornati. A riguardo mi riservo di fornire al Parlamento non appena sarò posto in condizioni di farlo notizie sull’andamento relativo all’esposizione debitoria”. <430
Poche settimane dopo, la scoperta della Loggia P2 palesò la massiccia infiltrazione nella stampa, irrompendo sulla scena politica come interprete perfetta di quel “Dialogo agli inferi tra Machiaveli e Monesquieu” scritto nel secolo precedente da Marice Joly: inquinamento dell’informazione e manipolazione delle coscienze. <431
Nel più importante quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”, si era registrato un alto numero di affiliati a cominciare dal direttore Franco Di Bella, il direttore de “l’Occhio” Maurizio Costanzo, il giornalista Roberto Gervaso. La scoperta della P2 fu percepita dal paese come un trattato contro la libertà di informazione, potenziato a dismisura dal ritrovamento del famigerato “Piano di Rinascita democratica” all’Aeroporto di Fiumicino nel luglio 1981. A ribadire tale prospettiva contribuiva d’altronde l’innegabile nesso tra Angelo Rizzoli, anch’esso tra le liste P2, e Licio Gelli e documentato ad abundantiam tra le fonti in possesso della Commissione d’inchiesta. Lì vi si trovavano i “fraterni ringraziamenti” per le operazioni finanziarie concluse, “sul cui esito felice tu hai avuto un ruolo determinante”, scritti da Rizzoli al Venerabile il 20 luglio 1977. Vi erano poi gli attestati di profonda gratitudine per l’alleggerimento degli oneri finanziari del giornale, dal cui sollievo scaturiva “il necessario presupposto per affrontarli con maggiore serenità” <432. Tuttavia, già nella sua prima deposizione Angelo Rizzoli parlando dei suoi rapporti con Gelli aveva chiarito la natura esclusivamente finanziaria di tali rapporti, sottolineando che “certamente non ho mai avuto pressioni da Gelli”. E nelle successive audizioni confermava il modesto profilo politico di Gelli, una persona “scarsamente informata e scarsamente interessata alle vicende politiche”; un fanfarone che “faceva le ipotesi le più. Parlava della regina d’Olanda, del Vaticano”. <433
Secondo la ricostruzione della relazione di maggioranza invece la Loggia P2 aveva intravisto nel “Corriere della Sera” una struttura da utilizzare per il “coordinamento di tutta la stampa provinciale e locale” [...] “in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del paese”. <434
Le condizioni sembravano ideali dal momento che il Gruppo Rizzoli era gestito come azienda a carattere familiare, con esponenti non sempre all’altezza del loro ruolo imprenditoriale; in seconda battuta, risultava proprietario di un quotidiano di grandi tradizioni ma appesantito da una difficile situazione finanziaria; in ultima istanza, si trovava sotto la morsa dei finanziamenti resi necessari per l’acquisto dell'editoriale del Corriere della Sera. Lo sottolineò Alberto Cecchi, tra i membri più preparati della Commissione, impegnato a fondo nel dibattito relativo all’istituzione dell’inchiesta parlamentare sulla P2 e tra i presentatori della proposta di legge di parte comunista <435.
[NOTE]
424 Cfr. F. M. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo, Bollati-Boringhieri, Torino, 2003.
425 CP2, Relazione finale di maggioranza, 2-bis, p. 128.
426 L. Delli Colli, C’era una volta l’italietta in tv, in “la Repubblica”, 3 gennaio 1987.
427 Ibid.
428 CP2, Relazione di minoranza dell’onorevole Massimo Teodori, 2-bis/II, p. 76 e ss. . Nel più importante quotidiano
429 Dati Ads, Accertamento diffusione Stampa, Anno 1997.
430 Camera dei Deputati, Documenti, Banche Dati, Legislature precedenti, Legislatura VIII, Senato della Repubblica, Interpellanza n. Atto 2/00293, presentato dal Partito Radicale, senatore Gianfranco Spadaccia: “Al Ministro del Tesoro. Per sapere sulla situazione patrimoniale e finanziaria del Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera; quale sia l’esposizione finanziaria delle banche nei rapporti con detto editore; quali garanzie siano state offerte alle banche a fronte dell’urgente e sempre crescente massa debitoria del gruppo editoriale; se non esistano già nella situazione finanziaria del Gruppo, dati i livelli raggiunti dall’indebitamento, gli estremi della bancarotta; quale iniziativa il ministro e le autorità monetarie abbiano preso o intendano prendere per evitare che l’eventuale crack finanziario del gruppo editoriale si risolva in un grave costo per lo Stato e per la collettività”.
431 Maurice Joly nel 1864 scriveva: “Nei paesi parlamentari è quasi sempre per la stampa che cadono i governi. Ebbene io vedo la possibilità di neutralizzare la stampa con la stessa stampa. Poiché il giornale è una forza così potente, il mio governo diventerà giornalista, avrò tantissimi giornali, uno per ogni partito, devoti e nascosti. Si apparterrà al mio partito senza neanche saperlo”.
432 CP2, Lettera di Angelo Rizzoli a Licio Gelli, allegata alla seconda parte del “Memoriale Gelli” e inviata alla Commissione d’inchiesta il 15 giugno 1984.
433 CP2, Resoconti stenografici, Audizione di Angelo Rizzoli, 20 gennaio 1982, 2-ter/I, p. 659; vd. anche 2-ter/III, Resoconti stenografici del 24 marzo 1982, p. 110.
434 All’interno del Piano di Rinascita Democratica era infatti possibile leggere nel capitolo relativo all’informazione: “In un secondo momento occorrerà: acquisire alcuni settimanali di battaglia; coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso un’agenzia centralizzata; coordinare molte TV via cavo con l'agenzia per la stampa locale; dissolvere la RAI-TV in nome della libertà di antenna ex art.21 Costituzione”. Il Piano completo è stato sequestrato all’Areoporto di Fiumicino nella borsa della figlia di Gelli nel luglio 1981. Si trova in CP2, Documenti citati nelle relazioni 2-quater/3, Tomo VII-bis, p. 611 e ss.
435 Camera dei Deputati, VIII Legislatura, Atti parlamentari, Disegni di legge e relazioni, documento n. 2632 d’iniziativa dei deputati Cecchi, Fracchia, Chiovini, Pochetti presentato il 2 Giugno 1981.
Lorenzo Tombaresi, Una crepa nel muro: storia politica della Commissione d'inchiesta P2 (1981-1984), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo", Anno Accademico 2014-2015
 
Molto importante fu l'operazione d’infiltrazione e di controllo del gruppo Rizzoli; la Loggia P2 intravide la possibilità di mettere in atto un’operazione inquadrata nelle previsioni del piano di rinascita democratica per quanto concerne il mondo della stampa e dell’editoria <98. In quel frangente storico il gruppo Rizzoli era, con esponenti poco capaci e scarsamente virtuosi nel ruolo imprenditoriale, gestita come azienda a carattere familiare. Un quotidiano di grandi tradizioni ma appesantito da una difficile situazione finanziaria che nel 1975, attraverso il Banco Ambrosiano, la P2 manovrò mediante un’azione di condizionamento finanziario trasformandolo in un polo aggregativo di un sempre maggior numero di testate. In contemporanea vennero effettuati interventi d’acquisizione di numerose testate a carattere locale <99 nell'ambito d’un collegamento con il Corriere della Sera e destinato a raggiungere il maggior numero di lettori ed influenzare così l'opinione pubblica. Nella vicenda si denotò la funzione puramente di facciata della famiglia Rizzoli mentre il gruppo editoriale, che utilizzò Calvi come supporto bancario sfruttando l'influenza esercitata su Angelo Rizzoli, dal 1977 venne gestito dalla coppia Gelli ed Ortolani in quasi completa autonomia. Si sviluppò da questo momento un sottile e continuo condizionamento della linea seguita dal quotidiano, caratterizzata dall'emarginazione di giornalisti scomodi, con servizi elogiativi o distruttivi ben mirati e con l'attribuzione d’incarichi importanti a persone appartenenti alla loggia.
[NOTE]
98 «E' infatti disponibile una struttura da utilizzare per il coordinamento di tutta la stampa provinciale e locale in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del paese», Licio Gelli cit. in CpiP2, Doc. XXIII n.2, p 121.
99 «Il Mattino», «Sport Sud», «Il Piccolo», «L'Eco di Padova», «Il Giornale di Sicilia», «Alto Adige», «L'Adige», «Il Lavoro».

Giacomo Fiorini, Penne di piombo: il giornalismo d’assalto di Carmine Pecorelli, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2012-2013 
 
Gli esempi impiegati erano molti e tutti evidenziavano che tra le ambizioni di Licio Gelli vi fosse soprattutto quella di trovare una forte presa sull’opinione pubblica attraverso forme che gli consentissero di gestire, manipolare e direzionare l’informazione italiana:
'Per questa via Gelli ha cercato di utilizzare prima la rivista “OP”, poi c’è stato il tentativo di costituire una agenzia di informazioni e poi mi pare che nella progressione dei propositi ambiziosi del personaggio ci fosse proprio il “Corriere”' <436.
La strumentalizzazione politica a cui il fenomeno piduista veniva piegato poteva essere misurata anche dalla pervicacia con cui tutti in Commissione davano per assunto che tra le pieghe del giornale milanese avesse agito una forza occulta il cui obiettivo era inceppare il meccanismo d’informazione del paese. È per evidenziare questa saldatura che il richiamo alla rivista “Osservatorio Politico”, la generica denuncia di voler “costruire una agenzia di informazioni”, così come quei tanti “mi pare che” riferiti alle ambizioni sul “Corriere della Sera”, venivano uniti in un unico sentiero accidentato da pressioni e manipolazioni piduiste. Ma tale proliferazione di riferimenti se non consentiva di spiegare un fenomeno ancora misterioso come quello piduista, rivelava anche una confusione metodologica schiacciata unicamente sulle gesta del personaggio Gelli. La lettura di un deus ex machina su cui la Commissione volle insistere, poteva essere inoltre funzionale alla legittimazione di un sé politico che si incaricasse di ricostruire storicamente quel varco di potere violato, sino ad attenuare la propria personale responsabilità.
Perché era vero che il capo della Loggia P2 conosceva il direttore della rivista “OP” Mino Pecorelli. Era una conoscenza nata dalla comune amicizia con il senatore Egidio Carenini, sottosegretario democristiano del ministero dell’Industria e del Commercio nel biennio 1974-1976, che lo stesso Gelli aveva ricordato nel 2006, quando ammise di vedere Pecorelli “tutte le settimane per una colazione: io, Mino e Carenini. Parlavamo di tutte le notizie che in quel momento potevano avere un particolare interesse. Pecorelli era una persona preziosa perché in caso di necessità avrebbe potuto aiutarci con la sua penna”. <437. Eppure Pecorelli, ucciso da mano ignota nel marzo del 1979, non aveva certo aiutato il capo della P2 “con la sua penna”. Basti pensare che dal gennaio 1979 “Osservatorio Politico” non aveva fatto altro che attaccare il Venerabile Maestro uscendo con articoli di inedita durezza. Era il caso del servizio su "Massoneria: finalmente la verità sul Venerabile della P2 - due volte partigiano". All’interno Pecorelli raccontava in esclusiva le mille vite di Gelli collaboratore dei fascisti e dei nazisti prima, doppiogiochista poi, partigiano infine. Inoltre, nell’ultima uscita di “OP” il 20 marzo 1979, Pecorelli pubblicava un dossier, La massoneria: è ancora una cosa seria quella italiana?, in cui si denunciavano “attentati, stragi, tentativi di golpe, l’ombra della massoneria ha aleggiato dappertutto: da Piazza Fontana al delitto Occorsio, dal golpe Borghese alla fuga di Sindona”438. Ma la modesta incisività con cui la Loggia di Gelli riusciva a influire sulla carta stampata sembrava suggerita anche dalle parole di Roberto Gervaso, giornalista del “Corriere della Sera”, il quale confidò proprio a Gelli che la linea del giornale non era affatto controllata dalla P2. In un post scriptum privato agli atti della Commissione d’inchiesta si era sfogato alludendo alla “cosa più importante: coperto dal Barba (Angelo Rizzoli, ndr) il vero direttore del Corriere è il radical-marxista Enzo Golino. È lui che spadroneggia nelle pagine culturali, che sono l’anima e il veleno di un giornale”. <439
Alcuni membri di commissione avevano sollevato in questo senso più di un dubbio. Come il commissario democristiano Lino Armellin il quale si domandava perché la figura di Gelli venisse presentata come quella di “una persona che intendeva influire sulla politica italiana” usando politici e informazione per manovre poco chiare al limite del golpismo, quando risultava che dentro il “Corriere della Sera” vi fossero rappresentate quasi tutte le correnti politiche ma soprattutto “una altissima percentuale di giornalisti del Corriere della Sera fosse di sinistra”. <440
Invece secondo la ricostruzione del gruppo di lavoro che si occupava del capitolo “Finanza ed Editoria” le deviazioni piduiste all’interno del “Corriere della Sera” erano state forti e costanti nel tempo. E segnatamente erano cominciate con le dimissioni del direttore Piero Ottone nel 1977 e la sua sostituzione con il piduista Franco Di Bella. Ottone si era certamente dimesso in conseguenza di una gestione eccessivamente indipendente del giornale, confermata dall’arrivo di firme autonome come Enzo Biagi e Alberto Ronchey; l’inaugurazione sulla prima del Corriere degli “scritti corsari” di Pier Paolo Pasolini; l’addio di Montanelli, firma storica del quotidiano milanese, che abbandonava in contrasto con la linea editoriale per fondare Il Giornale. Tutti segnali impercettibili per la società civile ma sirene assordanti per gli addetti ai lavori. Nel 1975 “Panorama" era arrivato addirittura a domandarsi in prima pagina: “Il Corriere è comunista?”. <441
[NOTE]
436 CP2, A. Cecchi, Resoconti stenografici, 2-ter/I, p. 708 e ss.: Alberto Cecchi aveva anche chiesto ad Angelo Rizzoli perché, dopo la trasmissione sulla P2 ideata da Mimmo Scarano, lo stesso giornalista fosse stato licenziato e se ci fosse una correlazione tra la trasmissione P2 e il licenziamento di Scarano. Alla domanda Rizzoli rispose: “No, ritengo che ci sia una relazione tra il licenziamento di Scarano e l’andamento economico del suo settore nel 1981. Noi ad un certo punto abbiamo dovuto procedere ad uno smantellamento del settore; questione di quattrini non ideologica. [...] Questa decisione nacque dal fatto che si era arrivati ad una decisione di risoluzione contestuale; dopo di che Scarano fece altre richieste e si arrivò a decidere di prendere quella strada. Ma escludo con forza che il licenziamento di Scarano sia da addebitare ad una decisione di Gelli e Ortolani anche perché se io avessi dovuto ascoltare le sfuriate di Ortolani, avrei dovuto licenziare metà dei giornalisti del Corriere”.
437 S. Neri, Parola di Venerabile, Aliberti, Reggio Emilia, 2006.
438 L’articolo si trova in CP2, Servizi segreti, eversione stragi, terrorismo, criminalità organizzata, traffico di droga, armi e petroli, Pecorelli e l’agenzia O.P., 2-quater/VII, tomo XVI, p. 387-389.
439 La lettera di Roberto Gervaso a Gelli è in CP2, Documenti citati nelle relazioni finali, 2-ter/III, Tomo V, p. 12. Sostanzialmente la lettera dietro lo sfogo tradiva la richiesta di una raccomandazione dal momento che “è bene che tutti capiscano che blandire i nemici non serve a niente. Restano nemici. Bisogna premiare gli amci. Se non vogliamo che tutto si sfasci. Scusa, caro Licio, lo sfogo. Ma qui dobbiamo fare quadrato. E non solo per salvare noi. Anche per salvare quel poco di democrazia che resta”.
440 CP2, Resoconti stenografici, Audizioni di Angelo Rizzoli, p. 711. Anche Il senatore democristiano Antonino Calarco aveva sottolineato durante l’audizione del giornalista Maurizio Costanzo, piduista e direttore del quotidiano Rizzoli “l’Occhio”, che SIPRA la Società Italia Pubblicità per Azioni, aveva avallato un contratto pubblicitario di 3 miliardi di lire per il suo giornale prima ancora che questo uscisse: “come mai una società pubblica presieduta dall’ex deputato comunista D’Amico dà 3 miliardi a scatola chiusa all’Occhio?”, CP2, Resoconti stenografici, Audizione di Maurizio Costanzo, 2 Febbraio 1982, 2-ter/2, p. 205.
441 Panorama, 25 Agosto 1975...

Lorenzo Tombaresi, Op. cit.

venerdì 1 settembre 2023

Un bambina alla sfilata dei partigiani in Piazza San Marco a Venezia il 5 maggio del 1945

Fonte: Maria Teresa Sega, art. cit. infra

Le immagini delle due partigiane che sfilano in Piazza S. Marco il 5 maggio del 1945, davanti ai Comandi alleati, ci hanno accompagnati per anni nei manifesti, nelle copertine dei libri, negli inserti fotografici. La donna esultante con il fucile a tracolla e l’altra con una bambina per mano, sono diventate simbolo di una Resistenza veneziana che si vuole rappresentare, almeno visivamente, corale e plurale e di una Liberazione popolare e partecipata, almeno quella come fatto non strettamente militare. Ma una memoria intermittente non aveva dato nome ai volti, facendo sembrare incongrui quel fucile esibito sul seno e quella bambina con le trecce.
Queste immagini continuavano a interrogarmi: non mi piace l’anonimato, non amo vedere le persone ridotte a simboli, senza sapere delle loro vite, delle loro scelte, dei loro sentimenti. Mi chiedevo cosa provasse la bambina con la testa reclinata sulla spalla, intimidita forse dalla folla vociante, dai militari armanti, dalla macchina da presa dell’operatore che riprende la scena (le istantanee sono fotogrammi di un film girato dal Luce). Che ci faceva ad una sfilata di partigiani? Volevo conoscere l’identità delle due partigiane, le loro storie, ma nessuno dei veneziani da me interpellati le riconosceva: “saranno di fuori”. Andando nella sede dell’Anpi di Mestre, qualche anno, fa seppi invece i loro nomi.
La partigiana col fucile è la Elisa Campion (Lisetta), staffetta della “Ferretto”, sempre presente ai raduni dell’Anpi. Era originaria della zona del Montello dove, dopo l’8 settembre 1943, organizzò un gruppo di donne per assistere i soldati sbandati: li conducevano in case private da dove ripartivano con abiti borghesi. Si mise quindi in contatto con i partigiani della zona del Piave e le vennero affidati i servizi di collegamento del Comando militare provinciale, tra il Piave e Treviso. Poi la formazione si spostò verso Casale sul Sile e Bonisolo. Ricercata si nascose in Cansiglio. Dopo il rastrellamento dell’ottobre ’44 ridiscese in pianura ed entrò nella Brigata “Ferretto”, che operava tra Mestre e Quarto D’Altino. Partecipò con “Volpe” (Martino Ferretto che aveva assunto il comando dopo l’uccisione del fratello Erminio) all’azione che portò alla liberazione di Vincenzo Fonti (Alì), prigioniero nella caserma della Gnr di Treviso e condannato a morte. Fu lei che distrasse la guardia e la immobilizzò sotto il tiro della sua pistola. Arrestata a Mestre e portata a S. Maria Maggiore, partecipò alla liberazione del carcere e all’insurrezione in città.
Della donna che sfila sorridente con la bambina per mano - Maria, figlia di Giovanni Fornaro, assassinato dalle Brigate nere a Ca’ Littoria - non ho saputo niente fino a quando, intervistando ex tabacchine per una ricerca sulla Manifattura tabacchi, qualcuna mi ha parlato della giudecchina Maria Scarpa (Mima) che “era andata con i partigiani”. Ho rintracciato la sorella novantenne che ancora abita alla Giudecca e così ho saputo che Maria, tra le organizzatrici delle proteste che alla Manifattura si verificarono anche durante l’occupazione tedesca, temendo di essere denunciata e catturata se ne andò in montagna, anche lei in Cansiglio. Tornata a Venezia dopo il rastrellamento, rimase nascosta a casa di amici, continuando l’attività clandestina. Era in contatto con Anita Mezzalira e Pina Boldrin, sue compagne di lavoro (l’Anita era stata licenziata nel ’27 ed era sorvegliata speciale, la Pina era anche lei in clandestinità); si incontravano in barca in laguna e organizzavano gli “scioperi del sale” all’interno della Manifattura (il più importante nel dicembre del ’44). Dopo la guerra, rientrata in fabbrica, assieme alla Mezzalira, alla Boldrin e a Tosca Siviero, operaia della Junghans, si impegnò nell’Unione donne italiane, che si occupava di assistenza ai bambini, ai profughi, ai reduci ed entrò nel Partito comunista. Con Renato Rizzo, anch’egli partigiano, organizzò alla Giudecca una manifestazione per chiedere che fossero riassunti gli antifascisti come Bibi Fagherazzi, marito della Tosca e operaio della Junghans, che aveva combattuto nella guerra di Spagna e, dopo essere ritornato dalla Francia, dove era prigioniero, era entrato nella Resistenza. È lui l’uomo che le sta accanto nella foto, l’altro è colui che diventerà suo marito, Aldo Cucco, che aveva conosciuto in Cansiglio.
Allo stato attuale delle mie ricerche le informazioni sulle due partigiane si fermano qui, ma conto di continuare a seguire piste, a verificare indizi e ascoltare testimoni; sono certa che altri nomi e altre vicende affioreranno da memorie un po’ sbiadite ma rivitalizzate da opportune domande, altre immagini riemergeranno dai fondi dei cassetti.
La Resistenza veneziana ha ancora storie da raccontare. Di uomini, di donne e di bambine.
Maria Teresa Sega, Le due partigiane simbolo della Liberazione ora hanno un nome, Notizie dall'Isever, Isever, Anno V - n. 1, 13 aprile 2007


Elisa Campion

ANPI Sezione di Mestre “Erminio Ferretto” bandisce un concorso per un premio annuale intitolato a Elisa Campion “Lisetta”, partigiana combattente e medaglia d’argento (Breda di Piave 1925 - Bollate 1997).
Il premio è destinato a una tesi di laurea magistrale o di dottorato di ricerca in storia contemporanea, discussa presso l’università di Venezia o di Padova tra l’01/09/2021 e il 19/12/2022 e inedita alla data di scadenza della domanda di partecipazione.
La tesi di laurea magistrale o di dottorato deve affrontare, riservando particolare attenzione al ruolo delle donne, uno dei seguenti filoni di ricerca relativi alla storia del Veneto:
- Antifascismo
- Resistenza
- Partiti, organizzazioni e movimenti politici nell’immediato secondo dopoguerra
Il premio di € 1000 sarà assegnato entro i primi mesi del 2023 a giudizio insindacabile della commissione nominata da ANPI Mestre in collaborazione con le Università Ca' Foscari Venezia e Università di Padova.
Scadenza per l'invio delle candidature: 20 dicembre 2022 ore 12
Dettagli e informazioni nel bando in allegato.
Redazione, Premio Elisa Campion, per una tesi di laurea in storia contemporanea, prima edizione, cfNews Università Ca' Foscari Venezia, 20 dicembre 2022

Erano in 25 e, armati di gessetti rosa e bianco, stesi a terra sui masegni della Corte del Teatro Goldoni, hanno colorato il ritratto della partigiana Maria Scarpa che il 28 aprile 1945 entrò in Piazza San Marco, tenendo a mano la piccola Maria Fornaro, per festeggiare la liberazione di Venezia dal nazifascismo a cui aveva partecipato in prima persona. Sono i bambini della scuola dell'Infanzia "B. Capitanio", nota a Venezia per una serie di iniziative didattiche innovative e coinvolgenti per gli alunni. L'iniziativa, ideata dagli artisti Frediano Bortolotti e Vladimir Isailovi, ha trovato piena approvazione da parte del Comune, dell'Anpi e di Iveser, che hanno condiviso con gli autori le finalità: rendere omaggio a tutte le donne partigiane che vengono ricordate poco, e coinvolgere, attraverso il gioco, i bambini in un'attività di sensibilizzazione. Presenti oltre alle insegnanti e ai genitori, anche il commissario straordinario del Comune di Venezia, Vittorio Zappalorto, il direttore della Direzione Affari Istituzionali, Luigi Bassetto, i rappresentanti dell'Anpi (Serena Ragno, Gabrielle Poci detto 'bocia', Bruno Stocchetto detto 'Venezia') il direttore dell'Iveser, Marco Borghi, il nipote di Maria Scarpa, Renzo Giuponi.
Redazione, Erano in 25 e, armati di gessetti rosa e bianco, stesi a terra sui masegni della Corte del Teatro Goldoni, Il Gazzettino.it, 27 aprile 2015

venerdì 25 agosto 2023

Assoldare anche ex militari non ancora richiamati alle armi, specie se abbiano già partecipato ad azioni di controguerriglia o a spedizioni punitive

Villa Feltrinelli a Gargnano (BS), residenza di Mussolini sul Lago di Garda tra l’ottobre 1943 e l’aprile 1945

Uno dei primi documenti in cui lo stato maggiore dell'ENR [Esercito della Repubblica Sociale] si confronta con il tema della controguerriglia è un documento segreto dell'aprile 1944 in cui Mischi indica, tra le altre cose, anche le regole da seguire ai fini dell'arruolamento nei costituendi reparti speciali: «Ove possibile, assoldare anche ex militari non ancora richiamati alle armi, specie se abbiano già partecipato ad azioni di controguerriglia o a spedizioni punitive (squadristi, reduci dalla Balcania, ecc.)». <203 Questa precisazione rafforza l'impressione che, per quanto riguarda l'esercito di Salò, ci sia stato un rapporto di continuità tra la partecipazione all'occupazione italiana dei Balcani - la più recente esperienza che aveva consentito ai soldati dell'esercito italiano di sviluppare una serie di competenze in materia di controguerriglia - e la successiva militanza nelle forze armate della repubblica di Salò. È l'ipotesi di lavoro avanzata da Carlo Gentile, che, lamentando la carenza di studi sugli apparati militari e sulle strutture di polizia del fascismo repubblicano, afferma: «I primi dati a nostra disposizione, tuttavia, inducono a credere che almeno per quanto riguarda l'apparato militare e poliziesco ci fosse un nesso tra la partecipazione all'occupazione italiana dei Balcani o l'appartenenza alla milizia fascista e la più tarda militanza nelle formazioni della RSI». <204
Questa ipotesi di lavoro trova conferma non soltanto nelle carriere e nelle esperienze pregresse di molti ufficiali dell'esercito di Salò, ma anche negli atteggiamenti e nei comportamenti tenuti dall'ENR nei riguardi della popolazione civile. A differenza degli altri corpi armati della RSI, la stessa cultura della violenza di cui l'esercito regolare di Graziani era portatore avrebbe dovuto sospingerlo ad una maggiore disciplina e, soprattutto, ad una formale osservanza dei codici e dei regolamenti militari. In realtà, come sappiamo, non mancarono forme di brutalità, che sembrano rinviare alle modalità repressive sperimentate dal regime fascista durante l'occupazione dei Balcani degli anni 1941-1943, quando le truppe del regio esercito si trovarono a muoversi in un teatro di guerra caratterizzato dalla presenza di un nemico - il movimento partigiano - che poteva vantare forti legami di contiguità con la popolazione. <205 Così facendo, anche da parte dell'esercito di Salò si contribuì non poco alla radicalizzazione dello scontro fratricida in un paese precipitato nella spirale della guerra civile. <206 In un simile contesto la lotta antipartigiana della RSI poteva facilmente degenerare fino ad assumere la configurazione della guerra ai civili, punteggiata da forme efferate di violenza contro una popolazione, con cui si potevano vantare anche rapporti di natura amicale, se non addirittura parentale, ma che, quanto meno a partire dall'estate del 1944, era da ritenersi ormai irrimediabilmente perduta alla causa del fascismo repubblicano. «Dopo la caduta di Roma, i fascisti cominciarono a considerare non solo i partigiani in armi, ma anche tutti gli italiani, come dei traditori, come un popolo indegno di questo nome, come un'accozzaglia di individui». <207 Questa concezione, in cui possiamo scorgere un effetto di quella nazificazione del fascismo di Salò su cui ha insistito in particolare Enzo Collotti, contribuì a creare i presupposti per legittimare qualsiasi tipo di violenza contro i connazionali.
In un rapporto scritto subito dopo la sua nomina a comandante della divisione Italia, il generale Carloni constatava la scarsa disciplina esistente tra le sue truppe («La disciplina nelle retrovie non va. L'ho constatato personalmente nelle mie frequenti visite ai reparti. Il fenomeno purtroppo non è circoscritto a qualche reparto ma è di carattere generale, anzi direi endemico») e denunciava i numerosi atti illegali commessi ai danni della popolazione locale: «Innumerevoli anche le violenze dei soldati nei confronti della popolazione civile, poverissima e già così duramente provata, per sottrarre ad essa viveri od altro. Tutto questo deve cessare; i superiori gerarchici, la cui azione è stata sinora deficiente, intervengano immediatamente con tutta la loro energia affinché questo stato di cose, indegno di reparti organizzati, sia al più presto eliminato». <208 Dal versante opposto, è una figura di spicco della lotta partigiana in Piemonte come Mario Giovana a ricordare con quanta facilità la lotta contro la Resistenza potesse degenerare in una vera e propria guerra combattuta ai danni della popolazione civile: «Le squadre antipartigiane, costituite all'interno dei battaglioni della Littorio e della Monterosa, conducono la lotta più ai civili che contro le bande, svolgendo un lavoro di vera e propria polizia che si risolve in arresti, saccheggi di abitazioni, torture verso tutti coloro che vengono sospettati di una sia pur minima collaborazione e connivenza con i volontari». <209
La diffusione degli abusi e dei soprusi trasse indubbiamente vantaggio dalla frammentazione dei poteri in campo militare, che fin dall'inizio contrassegnò la RSI, precocemente colta dal segretario particolare di Mussolini, Giovanni Dolfin, che nel suo diario, di fronte alla proliferazione di «formazioni autonome», costituite «per iniziativa di singoli elementi, per lo più ufficiali superiori, animati di fede o di ambizione», si lamentava del fatto che «in pieno ventesimo secolo» si stesse tornando «all'epoca singolare dei capitani di ventura». <210 A spiegare questo fenomeno, secondo Luigi Ganapini, stava il fatto che ciascun corpo intendeva la propria funzione militare come quella di una banda, «struttura irregolare, per definizione fondata sul volontarismo e su un ideale eroico e individualista». <211 Anche l'esercito della RSI subì l'attrazione e la fascinazione esercitate da questo modello di riferimento. Il comandante militare regionale del Piemonte, generale Massimo De Castiglioni, arriva a chiamare in causa la figura dei ras dell'Etiopia per qualificare il comportamento di quei comandanti che agivano a loro discrezione nella più totale impunità: «I comandanti dei vari reparti si ritengono tanti ras e ritengono lecito fare quello che loro torna più comodo senza dar conto a nessuno delle loro azioni». <212 Questo stato di cose rispecchiava il modo stesso, del tutto disordinato e disorganizzato, in cui era sorto l'apparato militare di Salò. Già risultava difficile far coesistere una pluralità di corpi armati tra loro non soltanto differenti, ma anche concorrenti, ma non doveva certamente essere facile nemmeno imporre la disciplina e l'ordine nello stesso esercito nazionale repubblicano in cui convivevano, fianco a fianco, volontari, ex internati nei campi di concentramento tedeschi, reclute e richiamati alle armi “vittime” della politica dei bandi fascisti di leva. Non c'è quindi da sorprendersi se molti reparti, magari guidati da ufficiali privi di scrupoli, ne approfittarono per mettere in atto comportamenti ai limiti della criminalità comune, caratterizzati da quella che Dianella Gagliani ha chiamato la «licenza di sopruso». <213 Da questo punto di vista il comportamento delle truppe regolari di Graziani non sembra essere stato troppo dissimile da quello di altri corpi armati - le brigate nere, la X MAS, la legione autonoma Ettore Muti, la 1ª legione d'assalto M Tagliamento, ecc. <214 - messi in piedi dal fascismo repubblicano, la cui azione violenta, non esente da venature delinquenziali, è stata tale da lasciare una traccia profonda nella memoria collettiva del popolo italiano.
[NOTE]
203 AUSSME, I 1, b. 51, f. 1825, bande irregolari di controguerriglia, aprile 1944.
204 C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2015, p. 54.
205 L'analisi delle politiche di repressione dell'Italia fascista nei Balcani meriterebbe un discorso a parte, che, per ragioni di spazio, non è possibile fare. Senza quindi nessuna pretesa di esaustività, sul tema dell'occupazione italiana della Jugoslavia si possono citare in primo luogo gli studi di E. Gobetti, Alleati del nemico: l'occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Laterza, Bari-Roma 2013, di F. Caccamo -L. Monzali (a cura di), L'occupazione italiana della Jugoslavia 1941-1943, Le Lettere, Firenze 2008 e di J. H. Burgwyn, L'impero sull'Adriatico. Mussolini e la conquista della Jugoslavia cit., che si vanno ad aggiungere a quelli pionieristici di Enzo Collotti e Teodoro Sala, di cui mi limito a segnalare soltanto E. Collotti - T. Sala, Le potenze dell'Asse e la Jugoslavia: saggi e documenti, 1941-1943, Feltrinelli, Milano 1974. Per quanto riguarda più nello specifico gli aspetti militari dell'occupazione italiana della Slovenia si vedano A. Osti Guerrazzi, Esercito italiano in Slovenia 1941-1943 cit. e M. Cuzzi, L'occupazione italiana della Slovenia, Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito, Roma 1998, a cui è possibile aggiungere la raccolta documentaria curata da T. Ferenc, Si ammazza troppo poco: condannati a morte, ostaggi, passati per le armi nella provincia di Lubiana 1941-1943, Istituto per la storia moderna, Lubiana 1999. Per quanto riguarda, invece, la guerra in Montenegro oggi si dispone dello studio di F. Goddi, Fronte Montenegro: occupazione italiana e giustizia militare (1941-1943), LEG, Gorizia 2016, anche se conservano la loro validità gli apporti di G. Scotti e L. Viazzi, Le aquile delle montagne nere: storia dell'occupazione e della guerra italiana in Montenegro, 1941-1943, Mursia, Milano 1987 e Id. L'inutile vittoria. La tragica esperienza delle truppe italiane in Montenegro, 1941-1942, Mursia, Milano 1989. Si preoccupano maggiormente di sfatare il mito del “bono italiano” i contributi di D. Conti, L'occupazione italiana dei Balcani: crimini di guerra e mito della brava gente (1940-1943), Odradek, Roma 2008 e C. Di Sante, Italiani senza onore: i crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1945), Ombre corte, Verona 2005. Di più ampio respiro, infine, i lavori di E. Aga Rossi -M. T. Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, Bologna 2011 e D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
206 Sui caratteri specifici della guerra civile, resi ancora più aspri, come sostiene Toni Rovatti, da «un surplus di efferatezza riconducibile alla particolare commistione fra moventi privati e ragioni pubbliche», si vedano le considerazioni espresse da Gabriele Ranzato nel saggio introduttivo al volume da lui stesso curato sulle guerre civili in età contemporanea, Un evento antico e un nuovo oggetto di riflessione, pp. IX-LVI in G. Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1994. Per il giudizio di Toni Rovatti cfr. Id. Leoni vegetariani cit. p. 130.
207 A. Osti Guerrazzi, Storia della Repubblica sociale italiana cit. pp. 178-179.
208 AUSSME, Fondo Associazione Divisione Monterosa, b. 7, f. 7, disciplina nelle retrovie, 28 febbraio 1945.
209 M. Giovana, Le popolazioni alpine nella guerra partigiana del Cuneese, p. 170 in G. Agosti et alii, Aspetti della Resistenza in Piemonte, Book's store, Torino 1977, pp. 137-180.
210 G. Dolfin, Con Mussolini nella tragedia cit. pp. 173-174. Le annotazioni di Giovanni Dolfin portano la data del 21 dicembre 1943.
211 L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere cit. p. 68.
212 AUSSME, I 1, b. 39, f. 1259, dipendenze disciplinari di reparti dislocati nel territorio del 206° comando regionale, 11 gennaio 1945.
213 D. Gagliani, Violenze di guerra e violenze politiche. Forme e culture della violenza nella RSI cit. p. 314.
214 Sulle brigate nere l'opera di riferimento è naturalmente quella di D. Gagliani, Brigate nere cit. Sulla X MAS si veda J. Greene -A. Massignani, Il principe nero. Junio Valerio Borghese e la X MAS, Arnoldo Mondadori, Milano 2017; sulla legione Ettore Muti M. Griner, La “pupilla” del duce cit. Sulla legione Tagliamento, formalmente inserita nella GNR, si dispone dell'ottimo studio di S. Residori, Una legione in armi cit.
Stefano Gallerini, "Una lotta peggiore di una guerra". Storia dell'esercito della Repubblica Sociale Italiana, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2021

domenica 20 agosto 2023

Gli analisti americani erano convinti che gli jugoslavi volessero invadere i territori italiani al confine


I documenti dell'intelligence statunitense desecretati nel 2002 mostrano come a giudizio di Angleton esistessero due fronti, di importanza vitale, su cui lavorare in Italia: mentre il primo era formato dai confini con i Balcani, il secondo era costituito dai luoghi in cui la forza elettorale dei comunisti cresceva eccessivamente, cosa che accadeva soprattutto in Sicilia. Nell'isola infatti il forte movimento contadino e i successi che la pratica delle occupazioni delle terre andava accumulando avevano fatto sì che il movimento fosse arrivato con tutta la sua forza all'attenzione dei media. Tutti i braccianti e i contadini poveri della penisola guardavano alle vicende delle campagne siciliane con partecipazione e speranza. La Sicilia avrebbe potuto quindi attivare un effetto domino nazionale: innescare cioè un'ondata favorevole alle sinistre in tutta la penisola, analogamente a come avrebbe fatto l'Italia con gli altri paesi europei se fosse caduta in mano ai comunisti - pericolo di cui aveva avvertito Kennan nel suo celebre lungo telegramma. Angleton aveva puntato interamente l'attenzione su questi punti caldi: il 12 febbraio del 1946 inviò al War Department dell'SSU e al direttore stesso del servizio un cablogramma cifrato, nel quale richiedeva immediatamente almeno 10 ufficiali, necessari per una "fase militare": "Oltre agli ufficiali in sostituzione del personale che deve andare in congedo, ho bisogno immediatamente di almeno 10 ufficiali che vanno assegnati come agenti di emergenza, e per aprire e far funzionare stazioni a Napoli, in Sicilia, a Bari e a Trieste. Tutti gli ufficiali che saranno inviati per questi scopi devono essere sottoposti ad un periodo di intenso addestramento a Roma prima di assumere i futuri incarichi. Il personale richiesto serve per una fase militare". <394
Gli agenti di cui Angleton faceva richiesta agli uffici dell'SSU di Washington non dovevano quindi essere agenti normali, personale militare di tipo impiegatizio: dovevano operare concretamente sul campo. Il direttore dell'X-2 non aveva bisogno di "novellini" da ufficio, e cercò di fare intendere fra le righe questa esigenza ai suoi superiori scrivendo nelle conclusioni del cablogramma: "Spendere una grande percentuale del nostro tempo per riscrivere e rivedere i rapporti, quando invece c'è urgenza di operazioni di lungo termine, non sarebbe il caso: per questo è impossibile nella presente fase sovraccaricarci di personale militare che si occupi più che altro di leggere e scrivere", un modo elegante, nel linguaggio necessariamente formale usato per scrivere ai superiori di Washington, per far capire che aveva bisogno di gente pronta a tutto.
Nel documento, come si è visto, il capo dell'X-2 parla esplicitamente di una inquietante "fase militare". Il contesto di pace in cui operava, considerato che il conflitto era finito in tutto il mondo già da diversi mesi, fa presumere che lo scenario bellico per il quale erano destinati i nuovi agenti fosse in realtà una guerra coperta, condotta mediante operazioni clandestine. Tali operazioni clandestine del resto erano la modalità con cui il controspionaggio affrontava i compiti più importanti, in un momento storico in cui il primo obiettivo era il mantenimento dell'Italia nello schieramento occidentale. Sul confine orientale proprio in quei mesi le tensioni si facevano crescenti, e gli analisti americani erano convinti che gli jugoslavi volessero invadere i territori italiani al confine e da lì provocare un'insurrezione comunista nel paese, per poi invaderlo direttamente, con una manovra che avrebbe avuto il coinvolgimento del Partito comunista, garante del sostegno dall'interno <395.
Alla luce di questi documenti la fase militare, per la quale Angleton aveva un bisogno così urgente di agenti, sembra dunque da intendersi come una fase di operazioni paramilitari, volte a contenere l'avanzata di quello che, agli occhi dell'intelligence statunitense, appariva come un unico fronte comunista articolato in due diverse minacce: la possibile invasione jugoslava sui confini orientali della penisola e l'ascesa dei partiti di sinistra.
Le elezioni amministrative svoltesi nel marzo del '46 indicarono poi come la forza dei due partiti della sinistra - il Pci ed il Psi - fosse ulteriormente in piena ascesa. I vertici del controspionaggio statunitense a Washington temevano, sulla base dei rapporti che ricevevano dall'Italia, una manovra a tenaglia da parte dei comunisti: se la pressione delle truppe jugoslave sul versante nord-orientale si fosse fatta insostenibile, nello stesso momento in cui sul versante meridionale gli equilibri politici si fossero spostati in favore del partito guidato da Togliatti - come sembrava che stesse accadendo soprattutto in Sicilia vista la crescente forza del movimento contadino - non sarebbe rimasto alcuno spazio di manovra per frenare la caduta dell'Italia nell'orbita comunista, catastrofica eventualità che rendeva pertanto necessaria un'attività coperta e paramilitare preventiva.
Il 15 febbraio Angleton scrive a Washington riportando l'informazione che "l'ambasciata sovietica stava forzando" i comunisti italiani a "provocare una crisi di governo per scatenare una guerra civile" <396. Fu proprio in previsione di questi scenari dunque che il capo dell'intelligence statunitense fece richiesta ai suoi superiori di agenti che fossero pronti ad operare sul campo, per quella che aveva appunto definito una "fase militare" <397.
[NOTE]
394 NARA, RG 226, Entry 210, Box 457, Folder "In Rome 1/8/46 - 9/30/46", cablogramma cifrato classificato con il grado di segretezza "confidenziale" del 12 febbraio 1946, inviato da Angleton al War Department- Strategic Services Unit.
395 Secondo Angleton ed i suoi agenti inoltre c'era la possibilità, giudicata concreta, che qualora il clima internazionale fosse diventato ancora più teso, il Pci stesso avrebbe potuto "richiedere l'intervento delle truppe  russo-jugoslave schierate sulla frontiera orientale italiana" per prendere il potere in Italia. Rapporto a firma di George C. Zappalà, uno degli agenti di Angleton, riprodotto nell’antologia a cura di N. Tranfaglia, Come nasce la Repubblica, cit., pp. 415-420.
396 NARA, RG 226, Entry 216, Box 6 (Original Box 3), Folder 27, cablogramma inviato da Angleton al War Department dell'SSU di Washington, il 15 febbraio 1946.
397 Il primo maggio 1947, su una delle alture che circondano la spianata di Portella della Ginestra, di fronte a quella dove si trovava Giuliano, prima della sparatoria alcuni testimoni videro proprio un reparto di uomini della Decima Mas in assetto militare, appostati fra le rocce, fare il saluto e il grido della formazione, come testimoniarono durante il processo. Portella della Ginestra potrebbe forse prospettarsi dunque come la prima applicazione di queste operazioni paramilitari per le quali si stava preparando Angleton. Cfr. R. Mecarolo e A. La Bella, Portella della Ginestra, Milano, Teti editore, 2003; cfr. a questo proposito anche A. Giannuli, Turiddu e la trama nera, Roma, Nuova Iniziativa Editoriale (l’Unità), 2005.
Siria Guerrieri, Obiettivo Mediterraneo. La politica americana in Europa Meridionale e le origini della guerra fredda. 1944-1946, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Roma "Tor Vegata", Anno accademico 2009-2010

domenica 13 agosto 2023

Le Fiabe sono state dedicate a Raggio di sole, certo, ma non è solo una dedica a R.D.S, una dedica all’amata, è di più


Nell'opera Gli amori difficili sono presenti anche dei racconti che implicitamente contengono dei riferimenti autobiografici alla vita dello stesso Calvino e in particolare alla sua relazione amorosa con l'attrice Elsa de' Giorgi <113, come "L'avventura di un viaggiatore" e "L'avventura di un poeta". Il primo dei due testi ha come protagonista Federico, un uomo che abitualmente compie lunghi viaggi in treno durante la notte per raggiungere Roma, dove vive la fidanzata Cinzia.
Giulia Zanocco, I personaggi femminili nella narrativa di Italo Calvino: stereotipizzazione e complessità, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2019-2020

Tra il 1956 e il 1958, tra le Fiabe e l’uscita dei Racconti, gli avvenimenti della vita di Calvino sono numerosi: tra questi, l’uscita dal Pci, Il barone rampante, La speculazione edilizia, La nuvola di smog e molti racconti de Gli amori difficili, e si tratta della produzione calviniana più compromessa con l’autobiografia. Vale la pena quindi di fare una preliminare analisi testuale ravvisando i collegamenti tra questi testi e i motivi accennati nei brani delle lettere oltre alle somiglianze tra i personaggi inventati nelle opere e le figure della sua vita. Individuando e interpretando la peculiarità della scrittura calviniana si può dire che si tratta quindi di racconti in cui Calvino rielabora spunti autobiografici e si racconta senza freni, mostrandosi nella più cruda debolezza del suo percorso intellettuale ancora in fieri, pur non assumendosi direttamente la responsabilità del genere mediante l’identità di autore, narratore e protagonista. Se ci domandiamo quindi quanto delle lettere sia stato sviluppato nelle opere e quanto di Calvino sia stato mostrato nelle lettere, in entrambi i casi la risposta è ‘molto’.
Proprio mentre sta lavorando alle Fiabe scrive alcune lettere in cui scende così nel profondo da entrare in crisi sulla sua capacità creativa. Calvino oscilla, per quanto concerne la propria vocazione letteraria, tra momenti di entusiasmo e momenti di sconforto.
"È un momento in cui mi sento più che mai senza prospettive, non so cosa sarà di me (…), ho girato per due giorni per le stanze come una belva in gabbia , convincendomi che nessuna delle idee che ho in testa sono capace a sviluppare in una narrazione. Ho puntato troppo alto, ho disperso le mie forze, ora non ho nemmeno quella mano sicura, quell’inclinazione dell’occhio anche limitata, parziale, che permette a uno scrittore di continuare il mondo, a far piccole scoperte. <115
(…) un fiume quasi secco. Dovrei fare un’operazione coraggiosa: rinunciare decisamente alla narrativa e mettermi a fare solo il saggista, il critico. Ma non ho il coraggio di rinunciare a una strada intrapresa e così non faccio né uno né l’altro; m’impegno in lavori che sono solo degli alibi, come queste Fiabe. Ecco, mi viene fuori solo una lettera triste come questa, e voleva invece essere una lettera per essere più vicino a te, combattere la tristezza degli ostacoli". <116
Lo scrittore si lamenta sul suo “continuo cambiar di genere, dalla fiaba all’autobiografia, dalla secchezza neorealistica all’aura simbolistica” e così le Fiabe inizialmente gli paiono un alibi, si ritrova diviso tra l’esigenza di far critica e una necessità di creazione; solo dopo, con l’impegno assiduo di un anno, il lavoro delle Fiabe lo conquisterà a tal punto da assorbirlo totalmente, tanto da domandarsi: “riuscirò a rimettere i piedi sulla terra?” <117.
Le Fiabe sono state dedicate a Raggio di sole, certo, ma non è solo una dedica a R.D.S, una dedica all’amata, è di più: è un orientamento a nuove tematiche, come l’amore e come la bellezza, delle quali non aveva sentito un richiamo così forte fino ad ora. È proprio nel mezzo di questo cambiamento che si inserisce una polemica di Calvino contro il disinteresse nei confronti valore estetico da parte di uno studio critico, talvolta troppo altero e lontano dal riconoscere un istinto archetipico nell’uomo che lo porta ad avere esigenza, da sempre, di inserire il reale all’interno di una cornice fantastica. È una logica antica, eterna e perduta che l’uomo moderno ha estrema necessità di riscoprire e recuperare. Calvino tratteggia i limiti e i doveri di chi dovrebbe fare la letteratura e su come si dovrebbe farla e da dei consigli efficaci sulla “retorica” del saggista-conferenziere sulla necessità di:
"(…) nascondere tutto l'apparato libresco, e far parere che tutti i giudizi, gli aforismi, i paradossi ti vengano fuori come fischiettando (…). Questa è l'arte dei saggisti "artisti", dei pensatori d'ingegno e di stile, e quel che li distingue dal professorone, il quale invece per ogni ideuzza scomoda mezza storia della filosofia (…) <118
Mi piacerebbe riflettere, cosa che tutti questi professori non fanno, sul perché della fortuna di certi motivi, sul perché si affondano più in certi luoghi che in certi altri, cioè sulle ragioni prime della poesia, del bisogno poetico e fantastico degli uomini. L’indifferenza al fatto estetico da parte di questi studiosi mi pare il più grande limite delle ricerche di questo tipo". <119
[NOTE]
115 “cara Paloma, il mio Visconte è un libro freddo, meccanico”: le idee, le crisi, gli errori dello scrittore Calvino nelle lettere a Elsa de’ Giorgi di Paolo Di Stefano del 11/08/2004
116 M. Corti, Un eccezionale epistolario d’amore in Vuoti del tempo, Bompiani, Milano 2003 p.144 (contenuto anche in G. Bertone, Italo Calvino: a Writer for the Next Millennium. Atti del Convegno Internazionale di Studi)
117 Introduzione alle Fiabe in I. Calvino, Fiabe Italiane, raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1956
118 “cara Paloma, il mio Visconte è un libro freddo, meccanico”: le idee, le crisi, gli errori dello scrittore Calvino nelle lettere a Elsa de’ Giorgi di Paolo Di Stefano del 11/08/2004
119 M. Corti, Un eccezionale epistolario d’amore in Vuoti del tempo, Bompiani, Milano 2003 p.145 (contenuto anche in G. Bertone, Italo Calvino: a Writer for the Next Millennium. Atti del Convegno Internazionale di Studi)

Eugenia Petrillo, Italo Calvino ed Elsa De Giorgi: l’itinerario di un carteggio, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2014-2015

domenica 6 agosto 2023

Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani


Il 1° luglio del 1944 era uno splendido sabato. All'improvviso nel cielo azzurro comparve un aereo. Qualcuno, tra i partigiani, pensò a un aviolancio - non ve ne erano ancora stati dall'inizio della Resistenza - era invece un ricognitore tedesco diretto chissà dove e non destò allarme. La giornata trascorse tranquilla. Verso sera il cielo si oscurò e nella notte un violento temporale si scatenò in valle èSusa] sradicando alberi e scoperchiando alcune baite meno protette. La notte passò serenamente nel distaccamento dei cremonesi, "nella baita illuminata da un paio di candele si levò un fievole coro che poi si irrobustì. Erano canzoni note, ma l'atmosfera era nuova, di una dolcezza infinita" <270 che i partigiani intonavano per combattere il freddo e il temporale che stavano rattristando la serata.
Verso le sette del mattino del 2 luglio si sentì un colpo di fucile seguito da una raffica di mitra. Era il segnale di allarme convenuto della 17a brigata Garibaldi. Arrivò concitato e trafelato dalla Frassa, Sauro Faleschini, cremonese diciottenne buon camminatore che "Deo" aveva voluto con sé come staffetta: "stanno venendo su, numerosi e armatissimi, tedeschi e camicie nere" <271. La "Felice Cima" stava per essere attaccata dai nazifascisti. La notizia del rastrellamento giunse presumibilmente prima ai distaccamenti stanziati all'imbocco della Valle di Rubiana, interamente occupata dalla brigata. Tra quelli c'era il distaccamento comandato da Mauro Ambrosio "Bil" di cui faceva parte Federico Del Boca. Del Boca nel suo diario, scrivendo del rastrellamento del 2 luglio, non cita il luogo dove era alloggiato il distaccamento, ma dice che era "un posto pericoloso, vicino alla strada, eravamo come l'avanguardia di tutti (…) c'erano poche casupole in parte disabitate; però aveva un belvedere magnifico, si vedeva la strada che andava al Col del Lys e, sottostante il paese di Rubiana, si dominava tutta la valle" <272.
All'alba le pattuglie del distaccamento di "Bil" portarono la notizia che ad Almese vi erano una ventina di carri armati e autoblinde che stavano per proseguire verso Rubiana. I tedeschi e i fascisti stavano risalendo la valle per effettuare il rastrellamento. Secondo la testimonianza di Del Boca giunse al loro distaccamento un partigiano appartenente ad un distaccamento stanziato sull'altro versante della valle, alle pendici della Rocca della Sella, in località Rubiana, che riferì ai partigiani di "Bil" come i nazifascisti avessero raggiunto già quella zona della valle e avessero catturato molti partigiani <273.
Quindi le truppe tedesche e quelle italiane stavano risalendo la valle da entrambi i versanti e, superiori in mezzi e armi, superarono facilmente i tentativi di contrastare la loro avanzata messi in atto dai primi distaccamenti della brigata messi a presidio della valle. Il comandante "Bil" dispose subito il distaccamento in posizione difensiva. Le armi erano poche, il distaccamento faceva affidamento su due mitragliatrici una da 7 mm e l'altra da 20 mm, sprovviste di piedistallo e di munizioni. Gli uomini di "Bil" attendevano che i fascisti e i tedeschi si avvicinassero per aprire il fuoco, "i loro elmi cominciarono a brillare sotto il sole; avanzavano lentamente a scacchiera avvicinandosi sempre più, perché prevedevano un attacco di sorpresa; intanto a noi faceva paura il modo in cui, avanzando, si allargavano; si finiva col rimanere circondati" <274.
"Bil" ordinò allora, per scongiurare l'accerchiamento dei propri uomini, come mossa difensiva, la disposizione a ferro di cavallo, tenendo così il più a lungo possibile la posizione che avrebbe permesso ai compagni delle retrovie di portare in salvo i feriti e i pochi rifornimenti di cui i partigiani disponevano. Gli uomini di "Bil" riuscirono a mantenere le posizioni per poco tempo, i nazifascisti numerosi e meglio armati avanzano inesorabilmente. A quel punto ai partigiani non rimaneva che disperdersi. Qualcuno cercò di nascondere la roba più ingombrante che si aveva dentro a delle buche scavate nei pressi del magazzino del distaccamento, gli oggetti più facilmente trasportabili i partigiani li portarono con sé. Il gruppo di "Bil" ripiegò verso il castello di Mompellano, la sede del comando della 17a brigata Garibaldi, inseguiti dai nazifascisti che, superato l'ostacolo dei primi distaccamenti, procedevano verso il Col del Lys. Durante il ripiegamento verso il colle "vedemmo su una altura un gruppo di uomini che agitavano le braccia in segno di saluto. "Sono dei nostri compagni". (…) ci avvicinammo con gran fatica, eravamo carichi, chi aveva le armi pesanti, chi le cassette di munizioni, chi i viveri; ogni tanto i nuovi compagni ci salutavano: "venite siamo della squadra di Carlo". Io l'avevo conosciuto, il nome era di battaglia; sentendolo mi sentii subito meglio, mi ricordo che lo dissi a Bil; intanto si vedevano le divise da partigiani, erano ben armati, c'erano delle mitraglie che sembravano rivolte verso di noi, altri uomini erano stesi a terra come pronti a far fuoco; ogni tanto un richiamo e persino qualche parola in torinese; arrivati ad una cinquantina di metri tutti raggruppati, all'improvviso aprirono il fuoco in massa; io che ero tra i primi fortunatamente mi trovai dietro ad una piccola sporgenza e vidi quei maledetti che si toglievano le divise da partigiani ridendo a squarciagola e sparando" <275.
Decimati dall'agguato fascista i superstiti del gruppo di "Bil" riuscirono a raggiungere Mompellato, unendosi ai gruppi di partigiani comandati da "Deo" che cercavano di difendere il comando di brigata che era posto in una buona posizione strategica, tutto intorno non vi erano alberi o rocce dietro cui proteggersi (il nome Mompellato deriva proprio da questa caratteristica morfologica), chi voleva attaccare doveva compiere l'azzardo di avanzare allo scoperto. La squadra comandata da "Bil" si pose sul fianco destro della squadra comandata da "Deo". I partigiani resistettero fino a quando i militi della Repubblica sociale utilizzarono l'artiglieria. A quel punto il primo distaccamento a ripiegare fu quello di "Deo", seguito poi dal gruppo di "Bil" entrambi diretti verso il monte Civrari, montagna rocciosa e ben riparata dall'artiglieria che continuava a sparare. La nebbia, provvidenzialmente scesa in quel momento, aiutò i partigiani nel ripiegamento, ma non tutti riuscirono a mettersi in salvo.
Quando tre giorni dopo il rastrellamento il distaccamento di "Deo" riuscì a ricomporsi mancavano all'appello i partigiani del gruppo dei fratelli Scala. Notizie confuse giungevano dai contadini circa la situazione lasciata dal rastrellamento. Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani. I garibaldini della 17a brigata Garibaldi giunti sul posto si trovarono davanti a 26 giovani compagni massacrati in modo indescrivibile. Il parroco don Stefano Mellano di Bertesseno, località nei pressi del Col del Lys, che con il parroco don Evasio Lavagno di Mompellato era giunto sul posto per dare i sacramenti alle vittime, ha scritto: "Al due luglio vi fu una strage al Col del Lys. Arrivarono vestiti da partigiani, cantando le canzoni dei partigiani, ed i partigiani nel Castello non se ne accorsero. Quando ebbero sentore del pericolo erano chiusi da tre parti: essi, quelli che fuggirono verso Bertesseno andarono nelle loro mani. Furono presi in numero di 23 dal mio versante e massacrati con le baionette e bastonate; infine li portarono sulla strada di Niquidetto e lì li fucilarono. Via i tedeschi andai con alcuni uomini e ne trovammo tre gruppi di morti giù della scarpata della strada. Gli uomini li portarono sulla strada ed il giorno cinque luglio vennero molti partigiani dai dintorni e tutti i compagni per il riconoscimento; cinque, purtroppo furono irriconoscibili. Con il parroco di Mompellato benedicemmo un pezzo di terreno secondo il rituale. Intanto giunsero le casse e ad ognuno fu posto un'ampolla con il nome oppure con i connotati, che si poterono prendere. Molti mi diedero l'indirizzo e scrissi io ai loro parroci, che avvisassero le famiglie dell'accaduto" <276.
[...] Dei ventisei partigiani trucidati sul Col del Lys solo di diciannove è stato possibile ricostruirne la carriera partigiana nella 17a brigata Garibaldi perché i loro nominativi sono presenti nel database del partigianato piemontese. Fatta eccezione per Guerrotto di cui è nota solo la data e il luogo di nascita, per i sei sovietici, dei quali si conosce solo l'onomastica, sappiamo invece che appartenevano tutti allo stesso distaccamento formatosi il 1° maggio 1944, quando una quarantina di prigionieri sovietici adibiti alla riparazione del tronco ferroviario Rivoli-Avigliana, dopo aver preso contatto con Maria Lazzaretto, suo fratello Franza e con il comandante "Alessio", decisero di passare nella 17a brigata Garibaldi. Costituirono un loro distaccamento comandato da Andrei Gretčko, ufficiale dell'esercito sovietico, e si stanziarono oltre il villaggio di Courmayan, un punto strategico di estrema importanza che conduceva al valico per la Francia, dove operavano altre formazioni partigiane. Molti erano ucraini e georgiani, alcuni di Mosca e di Leningrado. Quasi tutti erano stati fatti prigionieri sul fronte del Don. Secondo la testimonianza di Osvaldo Negarville "se ne stavano appartati, difficilmente erano loro a cercare il contatto con i distaccamenti italiani, e la cosa sulle prime ci stupì. Ma in seguito ne capimmo il motivo: non volevano forzare i tempi, non volevano pretendere la nostra fiducia senza averci dato valide prove; attendevano l'occasione per dimostrare coi fatti che erano veramente nostri fratelli di lotta" <277. I sovietici, impiegati in Val di Susa dai tedeschi prevalentemente a presidio della linea ferroviaria Torino-Modane, erano ben organizzati e soprattutto ben armati. "Alessio" parlando dei partigiani che entravano nella sua brigata ha detto che "i russi e i cecoslovacchi erano armati, i cremonesi no" <278. Circostanza confermata dalla Gobetti che passando in rivista i partigiani della brigata Gl "Stellina" ne aveva avuto una grande impressione: "i cechi se ne son venuti su senza colpo ferire, portandosi l'equipaggiamento completo, divise, armi, coperte, tende, pentolini. Qui han montato le loro tende e tengon tutto in ordine perfetto: pentolini lucidissimi, divise ben pulite, armi perfettamente forbite. Formano un gruppo a sé con un proprio capo e sono organizzati e disciplinatissimi (- Si lavano i piedi tutti i giorni, - m'ha sussurrato un nostro partigiano valsusino con accento non ho ben capito se di compianto o di ammirazione). Vedemmo anche le postazioni delle mitragliatrici, molto ben occultate" <279.
L'occasione per dimostrare tutto il loro valore militare ai partigiani sovietici della "Felice Cima" non tardò a presentarsi.
[NOTE]
270 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, cit., p. 43
271 Ibidem
272 Del Boca, Il freddo, la paura e la fame, cit., p. 76
273 Ivi, p. 108
274 Ivi, p. 109
275 Ivi, cit., p. 112
276 Giuseppe Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940 – 1945). Nelle relazioni dei parroci del 1945, Edizioni Piemme, Torino 1996, cit., p. 269
277 Galleni, I partigiani sovietici nella Resistenza italiana, cit., p. 135
278 Testimonianza di Alessio Maffiodo in, Armando Ceste e Chiara Sasso (a cura di), Mai tardi. La Resistenza in Val di Susa, Index Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Torino 1996.
279 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 167
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi "Felice Cima". Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007