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venerdì 25 agosto 2023

Assoldare anche ex militari non ancora richiamati alle armi, specie se abbiano già partecipato ad azioni di controguerriglia o a spedizioni punitive

Villa Feltrinelli a Gargnano (BS), residenza di Mussolini sul Lago di Garda tra l’ottobre 1943 e l’aprile 1945

Uno dei primi documenti in cui lo stato maggiore dell'ENR [Esercito della Repubblica Sociale] si confronta con il tema della controguerriglia è un documento segreto dell'aprile 1944 in cui Mischi indica, tra le altre cose, anche le regole da seguire ai fini dell'arruolamento nei costituendi reparti speciali: «Ove possibile, assoldare anche ex militari non ancora richiamati alle armi, specie se abbiano già partecipato ad azioni di controguerriglia o a spedizioni punitive (squadristi, reduci dalla Balcania, ecc.)». <203 Questa precisazione rafforza l'impressione che, per quanto riguarda l'esercito di Salò, ci sia stato un rapporto di continuità tra la partecipazione all'occupazione italiana dei Balcani - la più recente esperienza che aveva consentito ai soldati dell'esercito italiano di sviluppare una serie di competenze in materia di controguerriglia - e la successiva militanza nelle forze armate della repubblica di Salò. È l'ipotesi di lavoro avanzata da Carlo Gentile, che, lamentando la carenza di studi sugli apparati militari e sulle strutture di polizia del fascismo repubblicano, afferma: «I primi dati a nostra disposizione, tuttavia, inducono a credere che almeno per quanto riguarda l'apparato militare e poliziesco ci fosse un nesso tra la partecipazione all'occupazione italiana dei Balcani o l'appartenenza alla milizia fascista e la più tarda militanza nelle formazioni della RSI». <204
Questa ipotesi di lavoro trova conferma non soltanto nelle carriere e nelle esperienze pregresse di molti ufficiali dell'esercito di Salò, ma anche negli atteggiamenti e nei comportamenti tenuti dall'ENR nei riguardi della popolazione civile. A differenza degli altri corpi armati della RSI, la stessa cultura della violenza di cui l'esercito regolare di Graziani era portatore avrebbe dovuto sospingerlo ad una maggiore disciplina e, soprattutto, ad una formale osservanza dei codici e dei regolamenti militari. In realtà, come sappiamo, non mancarono forme di brutalità, che sembrano rinviare alle modalità repressive sperimentate dal regime fascista durante l'occupazione dei Balcani degli anni 1941-1943, quando le truppe del regio esercito si trovarono a muoversi in un teatro di guerra caratterizzato dalla presenza di un nemico - il movimento partigiano - che poteva vantare forti legami di contiguità con la popolazione. <205 Così facendo, anche da parte dell'esercito di Salò si contribuì non poco alla radicalizzazione dello scontro fratricida in un paese precipitato nella spirale della guerra civile. <206 In un simile contesto la lotta antipartigiana della RSI poteva facilmente degenerare fino ad assumere la configurazione della guerra ai civili, punteggiata da forme efferate di violenza contro una popolazione, con cui si potevano vantare anche rapporti di natura amicale, se non addirittura parentale, ma che, quanto meno a partire dall'estate del 1944, era da ritenersi ormai irrimediabilmente perduta alla causa del fascismo repubblicano. «Dopo la caduta di Roma, i fascisti cominciarono a considerare non solo i partigiani in armi, ma anche tutti gli italiani, come dei traditori, come un popolo indegno di questo nome, come un'accozzaglia di individui». <207 Questa concezione, in cui possiamo scorgere un effetto di quella nazificazione del fascismo di Salò su cui ha insistito in particolare Enzo Collotti, contribuì a creare i presupposti per legittimare qualsiasi tipo di violenza contro i connazionali.
In un rapporto scritto subito dopo la sua nomina a comandante della divisione Italia, il generale Carloni constatava la scarsa disciplina esistente tra le sue truppe («La disciplina nelle retrovie non va. L'ho constatato personalmente nelle mie frequenti visite ai reparti. Il fenomeno purtroppo non è circoscritto a qualche reparto ma è di carattere generale, anzi direi endemico») e denunciava i numerosi atti illegali commessi ai danni della popolazione locale: «Innumerevoli anche le violenze dei soldati nei confronti della popolazione civile, poverissima e già così duramente provata, per sottrarre ad essa viveri od altro. Tutto questo deve cessare; i superiori gerarchici, la cui azione è stata sinora deficiente, intervengano immediatamente con tutta la loro energia affinché questo stato di cose, indegno di reparti organizzati, sia al più presto eliminato». <208 Dal versante opposto, è una figura di spicco della lotta partigiana in Piemonte come Mario Giovana a ricordare con quanta facilità la lotta contro la Resistenza potesse degenerare in una vera e propria guerra combattuta ai danni della popolazione civile: «Le squadre antipartigiane, costituite all'interno dei battaglioni della Littorio e della Monterosa, conducono la lotta più ai civili che contro le bande, svolgendo un lavoro di vera e propria polizia che si risolve in arresti, saccheggi di abitazioni, torture verso tutti coloro che vengono sospettati di una sia pur minima collaborazione e connivenza con i volontari». <209
La diffusione degli abusi e dei soprusi trasse indubbiamente vantaggio dalla frammentazione dei poteri in campo militare, che fin dall'inizio contrassegnò la RSI, precocemente colta dal segretario particolare di Mussolini, Giovanni Dolfin, che nel suo diario, di fronte alla proliferazione di «formazioni autonome», costituite «per iniziativa di singoli elementi, per lo più ufficiali superiori, animati di fede o di ambizione», si lamentava del fatto che «in pieno ventesimo secolo» si stesse tornando «all'epoca singolare dei capitani di ventura». <210 A spiegare questo fenomeno, secondo Luigi Ganapini, stava il fatto che ciascun corpo intendeva la propria funzione militare come quella di una banda, «struttura irregolare, per definizione fondata sul volontarismo e su un ideale eroico e individualista». <211 Anche l'esercito della RSI subì l'attrazione e la fascinazione esercitate da questo modello di riferimento. Il comandante militare regionale del Piemonte, generale Massimo De Castiglioni, arriva a chiamare in causa la figura dei ras dell'Etiopia per qualificare il comportamento di quei comandanti che agivano a loro discrezione nella più totale impunità: «I comandanti dei vari reparti si ritengono tanti ras e ritengono lecito fare quello che loro torna più comodo senza dar conto a nessuno delle loro azioni». <212 Questo stato di cose rispecchiava il modo stesso, del tutto disordinato e disorganizzato, in cui era sorto l'apparato militare di Salò. Già risultava difficile far coesistere una pluralità di corpi armati tra loro non soltanto differenti, ma anche concorrenti, ma non doveva certamente essere facile nemmeno imporre la disciplina e l'ordine nello stesso esercito nazionale repubblicano in cui convivevano, fianco a fianco, volontari, ex internati nei campi di concentramento tedeschi, reclute e richiamati alle armi “vittime” della politica dei bandi fascisti di leva. Non c'è quindi da sorprendersi se molti reparti, magari guidati da ufficiali privi di scrupoli, ne approfittarono per mettere in atto comportamenti ai limiti della criminalità comune, caratterizzati da quella che Dianella Gagliani ha chiamato la «licenza di sopruso». <213 Da questo punto di vista il comportamento delle truppe regolari di Graziani non sembra essere stato troppo dissimile da quello di altri corpi armati - le brigate nere, la X MAS, la legione autonoma Ettore Muti, la 1ª legione d'assalto M Tagliamento, ecc. <214 - messi in piedi dal fascismo repubblicano, la cui azione violenta, non esente da venature delinquenziali, è stata tale da lasciare una traccia profonda nella memoria collettiva del popolo italiano.
[NOTE]
203 AUSSME, I 1, b. 51, f. 1825, bande irregolari di controguerriglia, aprile 1944.
204 C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia 1943-1945, Einaudi, Torino 2015, p. 54.
205 L'analisi delle politiche di repressione dell'Italia fascista nei Balcani meriterebbe un discorso a parte, che, per ragioni di spazio, non è possibile fare. Senza quindi nessuna pretesa di esaustività, sul tema dell'occupazione italiana della Jugoslavia si possono citare in primo luogo gli studi di E. Gobetti, Alleati del nemico: l'occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Laterza, Bari-Roma 2013, di F. Caccamo -L. Monzali (a cura di), L'occupazione italiana della Jugoslavia 1941-1943, Le Lettere, Firenze 2008 e di J. H. Burgwyn, L'impero sull'Adriatico. Mussolini e la conquista della Jugoslavia cit., che si vanno ad aggiungere a quelli pionieristici di Enzo Collotti e Teodoro Sala, di cui mi limito a segnalare soltanto E. Collotti - T. Sala, Le potenze dell'Asse e la Jugoslavia: saggi e documenti, 1941-1943, Feltrinelli, Milano 1974. Per quanto riguarda più nello specifico gli aspetti militari dell'occupazione italiana della Slovenia si vedano A. Osti Guerrazzi, Esercito italiano in Slovenia 1941-1943 cit. e M. Cuzzi, L'occupazione italiana della Slovenia, Ufficio storico dello stato maggiore dell'esercito, Roma 1998, a cui è possibile aggiungere la raccolta documentaria curata da T. Ferenc, Si ammazza troppo poco: condannati a morte, ostaggi, passati per le armi nella provincia di Lubiana 1941-1943, Istituto per la storia moderna, Lubiana 1999. Per quanto riguarda, invece, la guerra in Montenegro oggi si dispone dello studio di F. Goddi, Fronte Montenegro: occupazione italiana e giustizia militare (1941-1943), LEG, Gorizia 2016, anche se conservano la loro validità gli apporti di G. Scotti e L. Viazzi, Le aquile delle montagne nere: storia dell'occupazione e della guerra italiana in Montenegro, 1941-1943, Mursia, Milano 1987 e Id. L'inutile vittoria. La tragica esperienza delle truppe italiane in Montenegro, 1941-1942, Mursia, Milano 1989. Si preoccupano maggiormente di sfatare il mito del “bono italiano” i contributi di D. Conti, L'occupazione italiana dei Balcani: crimini di guerra e mito della brava gente (1940-1943), Odradek, Roma 2008 e C. Di Sante, Italiani senza onore: i crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1945), Ombre corte, Verona 2005. Di più ampio respiro, infine, i lavori di E. Aga Rossi -M. T. Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, Bologna 2011 e D. Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
206 Sui caratteri specifici della guerra civile, resi ancora più aspri, come sostiene Toni Rovatti, da «un surplus di efferatezza riconducibile alla particolare commistione fra moventi privati e ragioni pubbliche», si vedano le considerazioni espresse da Gabriele Ranzato nel saggio introduttivo al volume da lui stesso curato sulle guerre civili in età contemporanea, Un evento antico e un nuovo oggetto di riflessione, pp. IX-LVI in G. Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1994. Per il giudizio di Toni Rovatti cfr. Id. Leoni vegetariani cit. p. 130.
207 A. Osti Guerrazzi, Storia della Repubblica sociale italiana cit. pp. 178-179.
208 AUSSME, Fondo Associazione Divisione Monterosa, b. 7, f. 7, disciplina nelle retrovie, 28 febbraio 1945.
209 M. Giovana, Le popolazioni alpine nella guerra partigiana del Cuneese, p. 170 in G. Agosti et alii, Aspetti della Resistenza in Piemonte, Book's store, Torino 1977, pp. 137-180.
210 G. Dolfin, Con Mussolini nella tragedia cit. pp. 173-174. Le annotazioni di Giovanni Dolfin portano la data del 21 dicembre 1943.
211 L. Ganapini, La repubblica delle camicie nere cit. p. 68.
212 AUSSME, I 1, b. 39, f. 1259, dipendenze disciplinari di reparti dislocati nel territorio del 206° comando regionale, 11 gennaio 1945.
213 D. Gagliani, Violenze di guerra e violenze politiche. Forme e culture della violenza nella RSI cit. p. 314.
214 Sulle brigate nere l'opera di riferimento è naturalmente quella di D. Gagliani, Brigate nere cit. Sulla X MAS si veda J. Greene -A. Massignani, Il principe nero. Junio Valerio Borghese e la X MAS, Arnoldo Mondadori, Milano 2017; sulla legione Ettore Muti M. Griner, La “pupilla” del duce cit. Sulla legione Tagliamento, formalmente inserita nella GNR, si dispone dell'ottimo studio di S. Residori, Una legione in armi cit.
Stefano Gallerini, "Una lotta peggiore di una guerra". Storia dell'esercito della Repubblica Sociale Italiana, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2021

domenica 6 agosto 2023

Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani


Il 1° luglio del 1944 era uno splendido sabato. All'improvviso nel cielo azzurro comparve un aereo. Qualcuno, tra i partigiani, pensò a un aviolancio - non ve ne erano ancora stati dall'inizio della Resistenza - era invece un ricognitore tedesco diretto chissà dove e non destò allarme. La giornata trascorse tranquilla. Verso sera il cielo si oscurò e nella notte un violento temporale si scatenò in valle èSusa] sradicando alberi e scoperchiando alcune baite meno protette. La notte passò serenamente nel distaccamento dei cremonesi, "nella baita illuminata da un paio di candele si levò un fievole coro che poi si irrobustì. Erano canzoni note, ma l'atmosfera era nuova, di una dolcezza infinita" <270 che i partigiani intonavano per combattere il freddo e il temporale che stavano rattristando la serata.
Verso le sette del mattino del 2 luglio si sentì un colpo di fucile seguito da una raffica di mitra. Era il segnale di allarme convenuto della 17a brigata Garibaldi. Arrivò concitato e trafelato dalla Frassa, Sauro Faleschini, cremonese diciottenne buon camminatore che "Deo" aveva voluto con sé come staffetta: "stanno venendo su, numerosi e armatissimi, tedeschi e camicie nere" <271. La "Felice Cima" stava per essere attaccata dai nazifascisti. La notizia del rastrellamento giunse presumibilmente prima ai distaccamenti stanziati all'imbocco della Valle di Rubiana, interamente occupata dalla brigata. Tra quelli c'era il distaccamento comandato da Mauro Ambrosio "Bil" di cui faceva parte Federico Del Boca. Del Boca nel suo diario, scrivendo del rastrellamento del 2 luglio, non cita il luogo dove era alloggiato il distaccamento, ma dice che era "un posto pericoloso, vicino alla strada, eravamo come l'avanguardia di tutti (…) c'erano poche casupole in parte disabitate; però aveva un belvedere magnifico, si vedeva la strada che andava al Col del Lys e, sottostante il paese di Rubiana, si dominava tutta la valle" <272.
All'alba le pattuglie del distaccamento di "Bil" portarono la notizia che ad Almese vi erano una ventina di carri armati e autoblinde che stavano per proseguire verso Rubiana. I tedeschi e i fascisti stavano risalendo la valle per effettuare il rastrellamento. Secondo la testimonianza di Del Boca giunse al loro distaccamento un partigiano appartenente ad un distaccamento stanziato sull'altro versante della valle, alle pendici della Rocca della Sella, in località Rubiana, che riferì ai partigiani di "Bil" come i nazifascisti avessero raggiunto già quella zona della valle e avessero catturato molti partigiani <273.
Quindi le truppe tedesche e quelle italiane stavano risalendo la valle da entrambi i versanti e, superiori in mezzi e armi, superarono facilmente i tentativi di contrastare la loro avanzata messi in atto dai primi distaccamenti della brigata messi a presidio della valle. Il comandante "Bil" dispose subito il distaccamento in posizione difensiva. Le armi erano poche, il distaccamento faceva affidamento su due mitragliatrici una da 7 mm e l'altra da 20 mm, sprovviste di piedistallo e di munizioni. Gli uomini di "Bil" attendevano che i fascisti e i tedeschi si avvicinassero per aprire il fuoco, "i loro elmi cominciarono a brillare sotto il sole; avanzavano lentamente a scacchiera avvicinandosi sempre più, perché prevedevano un attacco di sorpresa; intanto a noi faceva paura il modo in cui, avanzando, si allargavano; si finiva col rimanere circondati" <274.
"Bil" ordinò allora, per scongiurare l'accerchiamento dei propri uomini, come mossa difensiva, la disposizione a ferro di cavallo, tenendo così il più a lungo possibile la posizione che avrebbe permesso ai compagni delle retrovie di portare in salvo i feriti e i pochi rifornimenti di cui i partigiani disponevano. Gli uomini di "Bil" riuscirono a mantenere le posizioni per poco tempo, i nazifascisti numerosi e meglio armati avanzano inesorabilmente. A quel punto ai partigiani non rimaneva che disperdersi. Qualcuno cercò di nascondere la roba più ingombrante che si aveva dentro a delle buche scavate nei pressi del magazzino del distaccamento, gli oggetti più facilmente trasportabili i partigiani li portarono con sé. Il gruppo di "Bil" ripiegò verso il castello di Mompellano, la sede del comando della 17a brigata Garibaldi, inseguiti dai nazifascisti che, superato l'ostacolo dei primi distaccamenti, procedevano verso il Col del Lys. Durante il ripiegamento verso il colle "vedemmo su una altura un gruppo di uomini che agitavano le braccia in segno di saluto. "Sono dei nostri compagni". (…) ci avvicinammo con gran fatica, eravamo carichi, chi aveva le armi pesanti, chi le cassette di munizioni, chi i viveri; ogni tanto i nuovi compagni ci salutavano: "venite siamo della squadra di Carlo". Io l'avevo conosciuto, il nome era di battaglia; sentendolo mi sentii subito meglio, mi ricordo che lo dissi a Bil; intanto si vedevano le divise da partigiani, erano ben armati, c'erano delle mitraglie che sembravano rivolte verso di noi, altri uomini erano stesi a terra come pronti a far fuoco; ogni tanto un richiamo e persino qualche parola in torinese; arrivati ad una cinquantina di metri tutti raggruppati, all'improvviso aprirono il fuoco in massa; io che ero tra i primi fortunatamente mi trovai dietro ad una piccola sporgenza e vidi quei maledetti che si toglievano le divise da partigiani ridendo a squarciagola e sparando" <275.
Decimati dall'agguato fascista i superstiti del gruppo di "Bil" riuscirono a raggiungere Mompellato, unendosi ai gruppi di partigiani comandati da "Deo" che cercavano di difendere il comando di brigata che era posto in una buona posizione strategica, tutto intorno non vi erano alberi o rocce dietro cui proteggersi (il nome Mompellato deriva proprio da questa caratteristica morfologica), chi voleva attaccare doveva compiere l'azzardo di avanzare allo scoperto. La squadra comandata da "Bil" si pose sul fianco destro della squadra comandata da "Deo". I partigiani resistettero fino a quando i militi della Repubblica sociale utilizzarono l'artiglieria. A quel punto il primo distaccamento a ripiegare fu quello di "Deo", seguito poi dal gruppo di "Bil" entrambi diretti verso il monte Civrari, montagna rocciosa e ben riparata dall'artiglieria che continuava a sparare. La nebbia, provvidenzialmente scesa in quel momento, aiutò i partigiani nel ripiegamento, ma non tutti riuscirono a mettersi in salvo.
Quando tre giorni dopo il rastrellamento il distaccamento di "Deo" riuscì a ricomporsi mancavano all'appello i partigiani del gruppo dei fratelli Scala. Notizie confuse giungevano dai contadini circa la situazione lasciata dal rastrellamento. Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani. I garibaldini della 17a brigata Garibaldi giunti sul posto si trovarono davanti a 26 giovani compagni massacrati in modo indescrivibile. Il parroco don Stefano Mellano di Bertesseno, località nei pressi del Col del Lys, che con il parroco don Evasio Lavagno di Mompellato era giunto sul posto per dare i sacramenti alle vittime, ha scritto: "Al due luglio vi fu una strage al Col del Lys. Arrivarono vestiti da partigiani, cantando le canzoni dei partigiani, ed i partigiani nel Castello non se ne accorsero. Quando ebbero sentore del pericolo erano chiusi da tre parti: essi, quelli che fuggirono verso Bertesseno andarono nelle loro mani. Furono presi in numero di 23 dal mio versante e massacrati con le baionette e bastonate; infine li portarono sulla strada di Niquidetto e lì li fucilarono. Via i tedeschi andai con alcuni uomini e ne trovammo tre gruppi di morti giù della scarpata della strada. Gli uomini li portarono sulla strada ed il giorno cinque luglio vennero molti partigiani dai dintorni e tutti i compagni per il riconoscimento; cinque, purtroppo furono irriconoscibili. Con il parroco di Mompellato benedicemmo un pezzo di terreno secondo il rituale. Intanto giunsero le casse e ad ognuno fu posto un'ampolla con il nome oppure con i connotati, che si poterono prendere. Molti mi diedero l'indirizzo e scrissi io ai loro parroci, che avvisassero le famiglie dell'accaduto" <276.
[...] Dei ventisei partigiani trucidati sul Col del Lys solo di diciannove è stato possibile ricostruirne la carriera partigiana nella 17a brigata Garibaldi perché i loro nominativi sono presenti nel database del partigianato piemontese. Fatta eccezione per Guerrotto di cui è nota solo la data e il luogo di nascita, per i sei sovietici, dei quali si conosce solo l'onomastica, sappiamo invece che appartenevano tutti allo stesso distaccamento formatosi il 1° maggio 1944, quando una quarantina di prigionieri sovietici adibiti alla riparazione del tronco ferroviario Rivoli-Avigliana, dopo aver preso contatto con Maria Lazzaretto, suo fratello Franza e con il comandante "Alessio", decisero di passare nella 17a brigata Garibaldi. Costituirono un loro distaccamento comandato da Andrei Gretčko, ufficiale dell'esercito sovietico, e si stanziarono oltre il villaggio di Courmayan, un punto strategico di estrema importanza che conduceva al valico per la Francia, dove operavano altre formazioni partigiane. Molti erano ucraini e georgiani, alcuni di Mosca e di Leningrado. Quasi tutti erano stati fatti prigionieri sul fronte del Don. Secondo la testimonianza di Osvaldo Negarville "se ne stavano appartati, difficilmente erano loro a cercare il contatto con i distaccamenti italiani, e la cosa sulle prime ci stupì. Ma in seguito ne capimmo il motivo: non volevano forzare i tempi, non volevano pretendere la nostra fiducia senza averci dato valide prove; attendevano l'occasione per dimostrare coi fatti che erano veramente nostri fratelli di lotta" <277. I sovietici, impiegati in Val di Susa dai tedeschi prevalentemente a presidio della linea ferroviaria Torino-Modane, erano ben organizzati e soprattutto ben armati. "Alessio" parlando dei partigiani che entravano nella sua brigata ha detto che "i russi e i cecoslovacchi erano armati, i cremonesi no" <278. Circostanza confermata dalla Gobetti che passando in rivista i partigiani della brigata Gl "Stellina" ne aveva avuto una grande impressione: "i cechi se ne son venuti su senza colpo ferire, portandosi l'equipaggiamento completo, divise, armi, coperte, tende, pentolini. Qui han montato le loro tende e tengon tutto in ordine perfetto: pentolini lucidissimi, divise ben pulite, armi perfettamente forbite. Formano un gruppo a sé con un proprio capo e sono organizzati e disciplinatissimi (- Si lavano i piedi tutti i giorni, - m'ha sussurrato un nostro partigiano valsusino con accento non ho ben capito se di compianto o di ammirazione). Vedemmo anche le postazioni delle mitragliatrici, molto ben occultate" <279.
L'occasione per dimostrare tutto il loro valore militare ai partigiani sovietici della "Felice Cima" non tardò a presentarsi.
[NOTE]
270 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, cit., p. 43
271 Ibidem
272 Del Boca, Il freddo, la paura e la fame, cit., p. 76
273 Ivi, p. 108
274 Ivi, p. 109
275 Ivi, cit., p. 112
276 Giuseppe Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940 – 1945). Nelle relazioni dei parroci del 1945, Edizioni Piemme, Torino 1996, cit., p. 269
277 Galleni, I partigiani sovietici nella Resistenza italiana, cit., p. 135
278 Testimonianza di Alessio Maffiodo in, Armando Ceste e Chiara Sasso (a cura di), Mai tardi. La Resistenza in Val di Susa, Index Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Torino 1996.
279 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 167
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi "Felice Cima". Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

domenica 23 luglio 2023

Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill


Mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola italiana, gli inglesi approfittando della situazione della resa italiana, stavano studiando uno sbarco in Istria, per dare la possibilità di effettuare operazioni militari attraverso la regione e la provincia di Lubiana in direzione dell'Europa centrale. Lo sbarco avrebbe avuto non solo conseguenze militari importanti, ma anche in ambito politico, e proprio per questo motivo rappresentava un problema, perché uno sbarco in quella parte della penisola dove viveva la gran parte della minoranza italiana, poteva provocare un peggioramento delle relazioni politiche, rendendo più difficili e sfavorevoli i rapporti e i problemi ancora irrisolti fra gli jugoslavi e gli italiani dell'Istria. Inoltre, lo sbarco venne respinto da Stalin e da Roosevelt alla conferenza di Teheran, perché ritenuto di poca importanza militare, giustificando la bocciatura classificando l'operazione di scarso valore militare, nascondendo le loro preoccupazioni politiche: gli americani consideravano la zona dei Balcani e il fronte italiano era considerato un fronte secondario, a differenza della Francia, mentre per i sovietici l'obiettivo, oltre a Berlino, era anche la presa di Vienna. <14
Mentre per la resistenza slovena e croata, la notizia dell'armistizio italiano, rappresentò una sorta di miracolo: perché da una parte i soldati italiani abbandonarono le caserme, lasciando l'Istria e la provincia di Lubiana sguarnite senza dare una presenza militare seria, permettendo così l'inizio della vendetta degli slavi contro i responsabili fascisti, che si macchiarono del tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia, durante il ventennio fascista, e delle violenze perpetuate dall'esercito italiano nei Balcani durante la guerra, ad esempio la circolare 3C del generale Mario Roatta <15: questa vendetta, verrà ricordata come i massacri delle foibe. In più da quella data le forze partigiane ampliarono il loro raggio delle operazioni militari, considerando che vennero abbandonate migliaia di armi, veicoli blindati e pezzi d'artiglieria italiani, riutilizzate dalle forze partigiane (secondo quanto detto dal generale cetnico Draza Mihajlović). Oltre al materiale bellico abbandonato, diversi reparti italiani si unirono ai partigiani jugoslavi, che subito diedero un contributo significativo nella battaglia di Turjak, contro i nazionalisti sloveni. Questi reparti si unirono alla resistenza, a seguito delle voci, fatte circolare dai titini, di uno sbarco alleato in Istria, che in realtà non ci sarebbe stato, e chiesero agli italiani in zona di unirsi alle forze partigiane e di affrontare il nemico comune, i tedeschi. <16
L'OF, “Osvobodilna fronta”, in sloveno fronte di liberazione, a seguito dell'ampliamento delle loro operazioni, divulgarono, tramite una commissione composta da diversi geografi, militari, politici e storici, teorie nazionalistiche tra la popolazione slava dell'Istria, dichiarando che i territori italiani, dall'Istria fino al fiume Tagliamento, erano territori storicamente appartenuti ai croati e agli sloveni, strappati dagli italiani dopo la Prima guerra mondiale. Queste rivendicazioni non  avevano solo motivi ideologici, ma anche strategici, nel senso che, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, in previsione di un nuovo conflitto in Europa, la regione avrebbe svolto un ruolo cruciale per la difesa dello stato Jugoslavo. <17
Il Foreign Office aveva scoperto che se gli alleati avessero continuato a supportare militarmente sia le forze cetniche del governo jugoslavo in esilio a Londra, che le forze comuniste guidate da Tito, avrebbero creato due stati jugoslavi separati tra loro, provocando così una guerra civile, come avverrà nel caso della Grecia nel 1946. Pertanto, gli alleati da una parte avevano dei dubbi sulle forze cetniche guidate da Mihajlović, sospettando che collaborasse con le forze dell'Asse, ipotesi all'epoca falsa, ma che si rivelerà esatta in futuro a causa dell'abbandono del supporto degli inglesi a partire nel 1944. Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill usando la propaganda internazionale, dichiarando che il movimento comunista era l'unico che poteva fronteggiare i tedeschi e che godeva del pieno appoggio del popolo jugoslavo, anche se in realtà in quel momento, i titini non controllavano il Montenegro e la Serbia (roccaforte dei cetnici). <18
Il 28 novembre 1943, si tenne la conferenza di Teheran, per decidere sulle prossime operazioni alleate in Francia, sul fronte occidentale e sulla questione balcanica. Churchill e Stalin volevano che le forze jugoslave unissero le forze sotto un unico comando, per combattere contro i tedeschi. Secondo Churchill per cercare di trovare una tregua tra le forze partigiane, i cetnici dovevano unirsi sotto il comando di Tito e il re Pietro II doveva abdicare in favore delle forze comuniste. Stalin invece, dopo la conferenza, sollecitò i comunisti jugoslavi a prendere contatto con il governo in esilio di Šubasic, poiché l'AVNOJ (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije - Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) aveva stabilito che il re Pietro II non poteva più ritornare in patria, poiché ritenuto un traditore <19. Inoltre raccomandò ai comunisti jugoslavi di muoversi con discrezione per evitare di suscitare sospetti tra gli alleati sul nascere di un nuovo stato comunista nei Balcani. <20
Il 12 settembre 1944 re Pietro II, sotto la pressione di Churchill, esortò i serbi, croati e sloveni a riconoscere il nuovo governo sotto la guida di Tito. Il primo ministro inglese, dopo gli accordi, temeva che, non appena fosse arrivata l'Armata Rossa ai confini della Serbia, i sovietici avrebbero instaurato un regime comunista sotto la guida di Tito, per cui sospese i rifornimenti ai cetnici, nonostante la promessa di Mihajlović di continuare a combattere i tedeschi, e li indirizzò ai titini. Per questo motivo, chiese a Tito di incontrare il re per formare un nuovo governo in Jugoslavia per decidere quale sarebbe stato il nuovo sistema politico in Jugoslavia, ma Tito evitò l'incontro con il re, assicurando a Churchill che il suo sistema politico non sarebbe stato di stampo comunista. <21
Per cui, con le dimissioni del re, e con l'avanzata dell'Armata Rossa in Bulgaria e in Romania (che avevano firmato un armistizio con le forze sovietiche), Tito viaggiò segretamente in aereo, all'insaputa degli inglesi, per arrivare a Mosca per chiedere aiuti militari a Stalin e addestrare le sue truppe in modo da poter combattere efficacemente i tedeschi e cacciarli dalla Jugoslavia. Stalin approvò la richiesta <22, e il 20 ottobre 1944 l'Armata Rossa lanciò la sua terza offensiva verso l'Ungheria. In seguito divisioni sovietiche si riversarono su Belgrado e insieme alle forze titine la liberarono. Questa offensiva, l'offensiva di Belgrado, permise a Tito di stabilire il suo quartier generale nella capitale, diventando così il nuovo capo della Serbia, che insieme agli accordi diplomatici, già descritti, furono il suo primo grande successo in campo internazionale. <23 Tuttavia rimaneva la questione irrisolta della Venezia Giulia occupata.
[NOTE]
14 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
15 Rossi-Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, 2011, pp. 59-60
16 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
17 Pupo. Trieste '45. p. 42
18 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
19 Diego de Castro. Vol 1. p. 156
20 Novak, p. 96
21 Novak, pp. 97-99, ma non lo menzionò nei suoi discorsi politici al pubblico.
22 Consultare B. B. Dimitrijević and D. Savić (2011) Oklopne jedinice na Jugoslovenskom ratištu 1941-1945, Institut za savremenu istoriju, Beograd 23 Novak, p. 99
Matteo Boggian, La questione triestina 1945-1954, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2020-2021 

La crescente iniziativa dei partigiani dell'esercito di liberazione nazionale guidato da Tito e la sanguinosa guerra nazionale e civile delle diverse fazioni politiche attive in Jugoslavia, impegnate in una lotta senza quartiere al fianco o contro le forze di occupazione al fine di garantirsi una posizione di forza favorevole alla fine del conflitto, costrinsero Mussolini a dichiarare la Dalmazia, assieme al Montenegro, alla Slovenia e ai territori croati e bosniaci occupati, “zona di operazioniˮ. <187
In Dalmazia queste misure determinarono in primo luogo una selvaggia competizione per il potere tra il governatore Giuseppe Bastianini ed il generale Quirino Armellini, comandante del XVIII Corpo d'armata che si concluse a favore del primo. L'occupazione della Slovenia ebbe implicazioni cariche di conseguenze sulle sorti dei territori di confine: nella provincia di Lubiana il fascismo perseguì in un primo tempo una politica di moderazione nei confronti della popolazione civile.
Questa politica si differenziava notevolmente dalla prassi di germanizzazione violenta messa in atto dai tedeschi nella Slovenia settentrionale, in seguito alla quale circa 21.000 sloveni provenienti dalla zona di occupazione germanica si erano rifugiati nella zona italiana. Questi fatti suscitarono notevoli malumori da parte degli occupanti tedeschi della parte settentrionale della Slovenia, che dal canto loro andavano attuando un programma complessivo di germanizzazione delle aree adiacenti al confine austriaco attraverso deportazioni di massa della popolazione slovena. L'Italia venne accusata in tale frangente di aver favorito il formarsi a Lubiana del centro dell'irredentismo sloveno <188.
Lo stesso Mussolini in un primo tempo non intendeva procedere all'italianizzazione forzata della provincia: «Inizialmente le cose parvero procedere nel modo migliore. La popolazione considera il minore dei mali il fatto di essere sotto la bandiera italiana. Fu dato alla provincia uno statuto, poiché non consideriamo territorio nazionale quanto è oltre il crinale delle Alpi, salvo casi di carattere eccezionale» <189.
[...] Rispetto alla condizione in cui versava il paese, la situazione che venne a crearsi nell'area di confine fu ben diversa: qui andò dissolvendosi ogni simulacro di presenza statuale italiana; l'8 settembre non significò solo, nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell'esercito, ma anche la scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano, cosicché il carattere di cesura vi si presentò in forme assai più accentuate che nel resto d'Italia <231 .
La firma dell'armistizio provocò un'accelerazione dei processi che erano andati delineandosi già a partire dal 1942, quando l'attività partigiana aveva trasformato la parte orientale del territorio in zona di guerra: i numerosi episodi di aggressione e disarmo di gruppi di soldati da parte di unità partigiane e le preoccupate reazioni degli alti comandi rappresentano infatti un indicatore dello stato di demoralizzazione delle truppe e delle conseguenze che avrebbero potuto sortirne. In seguito alla diffusione della notizia della firma dell'armistizio, varie unità si lasciarono sopraffare da contadini croati disarmati. Ad Albona, 1200 soldati si arresero a 30 croati, tra le quali diverse donne, mentre a Pisino circa 1000 effettivi si sbandavano, dopo aver abbandonato un armamentario composto da pezzi di artiglieria, mitragliatrici e mortai <232. Altri soldati si arresero nel villaggio dell'Istria interna di Pinguente, nella provincia di Lubiana, a Trieste, a Fiume e a Pola. A Gorizia si verificò invece un tentativo di resistenza e di cooperazione con le unità partigiane che circondavano la città: gli operai dei cantieri di Monfalcone, rifornitisi di armi raccogliticce, organizzarono la divisione Proletaria, che si oppose assieme ai partigiani sloveni all'avanzata tedesca; la maggioranza dei soldati che si arrendevano vennero internati in Germania, contro le precedenti assicurazioni dei comandi tedeschi. In Istria le cose andarono diversamente: qui ebbero luogo diverse sollevazioni, sia nei centri italiani sia in quelli croati; Giovanni Paladin, nel suo La lotta clandestina di Trieste, ricostruisce nei termini seguenti il passaggio dei poteri in Istria: «I partiti politici italiani non esistevano, la vecchia classe dirigente era scomparsa da lungo tempo, gli italiani dell'Istria, pur essendo in maggioranza, non disponevano più alcuna istituzione autonoma intorno alla quale raccogliersi e resistere. La disgregazione morale e politica aveva dissociato tutti i gangli vitali della comunità italiana dell'Istria. […] Nel vuoto lasciato libero, prima dal fascismo e poi dalle autorità civili e militari, si precipitarono dopo l'8 settembre i nuclei partigiani slavi, instaurando l'ordine nuovo per mezzo dei cosiddetti «poteri popolari» senza incontrare resistenza alcuna da parte degli italiani dell' Istria. La Venezia Giulia era diventata terra di nessuno…[…]. Quel giorno finiva di fatto la sovranità italiana sull'Istria e incominciava la dominazione balcanica che sovvertiva da cima a fondo l'ordine costituito <233».
Il 13 settembre 1943 si riunì a Pisino un'assemblea del neoistituito Comitato popolare di liberazione, composto da una trentina di quadri: il Comitato proclamava l'unione dell'Istria alla «madrepatria croata»; in seguito una più ampia assemblea, a cui parteciparono anche numerosi italiani, ratificò queste decisioni. Il 20 settembre, il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia (Zavnoh), emise un decreto che dichiarava decaduti tutti i trattati e le convenzioni stipulate con l'Italia. L'Istria, la Dalmazia e le isole erano annesse ipso facto alla Croazia <234. Il proclama di Pisino era stato preceduto da numerose sommosse locali, in cui una prima rudimentale ossatura di contropotere partigiano, integrata poi da quadri comunisti provenienti dalla Croazia, aveva provveduto a disarmare le guarnigioni e le forze di polizia italiana, insediando i nuovi poteri e rafforzando le fila partigiane.
[NOTE]
187 M. Cantaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 216.
231 M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 241.
232 Ivi, p. 241 ss.
233 G. Paladin, La lotta clandestina di Trieste. Nelle drammatiche vicende del CLN della Venezia Giulia, Del Bianco, Udine 1960, p.74.
234 M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, cit., p. 211.

Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2013

sabato 15 luglio 2023

Calvino non viene riconosciuto al momento dell’arresto come partigiano, ma semplicemente come renitente alla leva

Sanremo (IM): ex fortezza di Santa Tecla

«Per quel che mi riguarda, la Resistenza mi ha messo al mondo, anche come scrittore. Tutto quello che scrivo e penso parte da quell’esperienza» <16: con queste poche parole si percepisce l’importanza che assumeranno questi ventuno mesi per Calvino, mesi dettati dal profondo entusiasmo di poter partecipare attivamente alle fasi del cambiamento di regime. Si trova presso il campo della milizia universitaria di Mercatale di Vernio, costretto al servizio militare che aveva provato a disertare molte volte, quando arriva la notizia del ritorno di Badoglio al governo. Subito la sua reazione è di estremo entusiasmo, ma da alcune lettere indirizzate al padre e a Eugenio Scalfari, si percepisce tutto il suo dispiacere di essere «fuori dal mondo, […] lontano dal mio paese» (L, p. 140). Sente quindi forte il richiamo della sua Liguria e decide di partecipare attivamente alla lotta anti-fascista.
Ad agosto 1944, dopo aver sostenuto alcuni esami, tornerà a Sanremo dove, nominato caporale maggiore, verrà posto in licenza illimitata dopo l’8 settembre. Dopo questa data, per sfuggire alla leva della repubblica di Salò, trascorse molti mesi nascosto per non essere arrestato dalla polizia fascista come disertore e per combattere la solitudine si buttò a capo fitto su varie letture che influenzarono la sua vocazione di scrittore. In questi quarantacinque giorni, giorni di profondo fervore, prese la decisione di entrare «nell’organizzazione comunista clandestina» (S, p. 2744).
I primi mesi del 1944 lo vedranno sottoporsi a diverse visite presso l’ospedale militare di Genova e quello di Savona e a maggio presterà servizio presso il Tribunale militare di Sanremo in qualità di scritturale (ubicato presso Piazza Colombo e completamente distrutto durante un bombardamento), come si evince dalla domanda di ammissione presentata all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia <17. Si farà sempre più pressante, in questi mesi, la necessità di agire, così deciderà di entrare nel partito comunista considerato da Italo «la forza più attiva e organizzata» (S, p. 2744) contro il fascismo:
"Quando seppi che il primo capo partigiano della nostra zona, il giovane medico Felice Cascione, comunista, era caduto combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio del 1944, chiesi a un amico comunista di entrare nel partito" (S, p. 2745).
Così, insieme al fratello Floriano, prenderà la decisione di salire sui monti per apportare il proprio contributo alla causa della Resistenza, testimoniata anche dalle parole che il fratello maggiore rivolgerà al fratello minore nel racconto La stessa cosa del sangue, uscito inedito nella raccolta del 1949 Ultimo viene il corvo: «Questa vita di ribelli di lusso non ho più testa a farla. O facciamo il partigiano o non lo facciamo. Uno di questi giorni sarà bene che pigliamo la via dei monti e saliamo con la brigata» <18. I racconti di questo periodo, scritti tutti in terza persona, sono in realtà un chiaro indicatore degli eventi che Calvino affronta come partigiano, e pur nella trasfigurazione letteraria offrono indizi preziosi per ricostruirne la biografia di quegli anni, le scelte effettuate.
Ripercorrere esattamente i mesi che seguirono la scelta di entrare a far parte dei vari distaccamenti partigiani dell’entroterra ligure non è facile visto lo scarso materiale a disposizione, ma la ricostruzione di alcuni studiosi come Claudio Milanini, Francesco Biga, Domenico Scarpa, Pietro Ferrua e di altri, possono aiutarci a delineare, pur con qualche dubbio o lacuna, la sua esperienza partigiana.
Dalla domanda dell’ANPI, datata 7 ottobre 1945, i primi dati certi sono da far risalire all’agosto-settembre dello stesso anno [n.d.r.: invece si trattava del 1944]. Durante questo periodo di effettiva presenza come partigiano nelle località di Beulle, Baiardo e Ceriale nel distaccamento Alpino guidato dal comandante Umberto, all’anagrafe Candido Bertassi, Calvino prenderà parte alle azioni armate di Coldirodi (3 settembre) e Baiardo (5 settembre) <19. Prima di queste date abbiamo solo le dichiarazioni del comandante Erven, Bruno Luppi, che sostenne la presenza di Italo Calvino nella IX Brigata garibaldina durante il combattimento di Carpenosa del 16 giugno. Il piccolo paese di Carpenosa è un agglomerato di case adagiate sulla strada che da Badalucco e Montalto Ligure porta a Molini di Triora e Triora. Al suo fianco scorre il fiume Argentina che dà il nome alla vallata e che fu al centro della lotta resistenziale. Il 27 giugno il comandante Erven venne ferito nel combattimento di Sella Carpe e i garibaldini subirono forti perdite, così il suo gruppo si sciolse per aggregarsi ad altre formazioni. La battaglia di Sella Carpe fu l’inizio di dieci giorni tempestosi per tutta la Resistenza nella provincia di Imperia. Da ciò si evince che Calvino potrebbe essere stato quindi con i garibaldini, prima di entrare a far parte della brigata guidata dal comandante Umberto che guidava un gruppo badogliano.
[...] In questo mese, dal 15 agosto al 20 settembre 1944, Calvino insieme al fratello Floriano milita nel gruppo del comandante Umberto nel bosco delle Beulle sul Monte Ceppo e poi nella zona di Ceriana (nel documento dell’ANPI appare scritto Ceriale invece di Ceriana, ma è presumibilmente un errore di trascrizione) per poi entrare nella brigata cittadina «Giacomo Matteotti», distaccamento «Leone», al secolo Juares Sughi, guidato dal comandante Aldo Baggioli che aveva base a San Giovanni. Non ci sono molti documenti che comprovino il periodo in cui Calvino si trova a far parte di questo distaccamento, ma alcuni suoi racconti ci possono chiarire alcuni episodi, come quello relativo all’arresto della madre. In questo periodo i fratelli Calvino si nascondevano di giorno in una grotta creata dal padre Mario nelle campagne di San Giovanni. Era un nascondiglio segreto che ricreava una vera e propria cameretta in muratura, dove i due si nascondevano insieme ad altri partigiani. Questa grotta, come riporta Ferrua attraverso la voce di Pierto Sughi, fratello di Jaures, era stata costruita dal padre di Calvino, Mario, per i figli Italo e Floriano e si trovava in prossimità di una concimeria. Era una vera e propria cameretta dove c’era «una tonnellata di legname e c’era un buco dove ci passavamo, un buco fatto su misura, che non si vedeva» <22. Aggiunge poi che i due fratelli Calvino trascorrevano lì tutto il giorno per uscire la notte.
Risale a questo periodo un episodio importante per Italo: l’arresto dei genitori, interrogati e torturati per riuscire a fargli confessare dove si nascondessero i figli, altri partigiani e le armi. Ma entrambi non cedono, anzi, la forza e la determinazione della madre sarà ben descritta da Italo in Autobiografia politica giovanile:
"Non posso tralasciare di ricordare qui […] il posto che nell’esperienza di quei mesi ebbe mia madre, come esempio di tenacia e coraggio in una Resistenza intesa come giustizia naturale e virtù familiare, quando esortava i due figli a partecipare alla lotta armata, e nel suo comportarsi con dignità e fermezza di fronte alle SS e ai militari, e nella lunga detenzione come ostaggio, e quando la brigata nera per tre volte finse di fucilare mio padre davanti ai suoi occhi" (S, p. 2746).
Riguardo i giorni di prigionia dei genitori una grande testimonianza ci viene offerta dal racconto La stessa cosa del sangue che, insieme a Attesa della morte in un albergo e Angoscia in caserma, compongono un gruppo di racconti coeso che avrà una vicenda editoriale complessa <23, dove, tra le righe del racconto, c’è un chiaro rimando autobiografico.
Nella domanda dell’ANPI si legge che Italo è stato in carcere per tre giorni a Santa Tecla, dopo essere stato arrestato durante il rastrellamento di San Romolo. La fortezza settecentesca di Santa Tecla, costruita a seguito di una durissima repressione attuata verso la popolazione di Sanremo che si era ribellata al governo di Genova e che fu successivamente caserma, sede dell’arma dei carabinieri, base di idrovolanti e deposito di munizioni e che durante la Resistenza assunse la funzione di carcere dove i prigionieri aspettavano di conoscere il loro destino: salvati o uccisi. Durante i circa dieci giorni del rastrellamento, alcuni partigiani come Floriano Calvino riescono a scappare, altri uccisi come Aldo Baggioli <24, molti altri vengono catturati come Italo Calvino. Da un’intervista fatta a Sanremo il 17 ottobre 1985 al partigiano Massimo Porre raccolta da Ferrua <25, si legge che Calvino e il fratello Floriano, Jaures Sughi, lo stesso Porre e un certo Pino si trovavano nella grotta di San Giovanni quando vennero svegliati da forti rumori di porte sfondate nelle vicine abitazioni. Nel rastrellamento Santiago <26 e Leone, nome di battaglia rispettivamente di Italo Calvino e Jaures Sughi, vengono catturati ma, fortunatamente Italo sarà salvato dalla fucilazione immediata grazie ad un foglio di licenza datogli da un partigiano di Ancona, Guido Pancotti, il futuro «ingegner Travaglia» della Speculazione edilizia. Pancotti era andato via da Ancona portandosi dietro con sé dei fogli di licenza, uno dei quali lo aveva dato a Calvino. La città marchigiana in quel momento stava per essere occupata dagli americani.
Sul numero dei giorni effettivi che Calvino trascorre in carcere nella fortezza di Santa Tecla ci sono notizie contrastanti. Potrebbero essere effettivamente tre come si legge dalla domanda dell’ANPI, oppure una a Santa Tecla e due a Villa Auberg o Villa Giulia come sostiene Milanini dopo un colloquio con il partigiano Grignolio, o ancora al Castello Devachan <27. Una bella descrizione della fortezza sul porto servita precedentemente «da prigione di rigore per i soldati tedeschi» <28 e di un «grande albergo da poco degradato a caserma e prigione» (RR II, p. 228), la troviamo in Attesa della morte in un albergo: "Il carcere era una vecchia fortezza sul porto, dove allora era installata la contraerea tedesca. La cella dove erano stati rinchiusi era servita da prigione di rigore per i soldati tedeschi […]. Loro erano una ventina, nella stessa cella, stesi a terra l’uno a fianco all’altro […]. L’inferriata dava sulla scogliera; il mare rogliava tutta la notte spinto negli scogli, come il sangue nelle arterie e i pensieri nelle volute dei crani" (RR I, p. 230).
Anche la presenza di «un vecchio padre con la barba bianca, vestito da cacciatore, padre d’uno di loro» (RR I, p. 229) aumenta le correlazioni tra questo racconto e l’episodio realmente vissuto da Calvino.
Sempre nella domanda dell’ANPI si legge: «arruolato nella Rep. (dep. Prov. I)» vicino alla sezione riguardante l’arresto di Italo. Quindi non viene riconosciuto al momento dell’arresto come partigiano, ma semplicemente come renitente alla leva, perciò non fu mandato come molti compagni nel carcere di Marassi a Genova, ma arruolato d’ufficio nella Repubblica Sociale e rinchiuso nel Deposito Provinciale di Imperia.
Dei giorni trascorsi a Imperia abbiamo un lungo resoconto in Angoscia in caserma. Qui descrive come era suddivisa la caserma, sia da un punto di vista strutturale che riguardo la suddivisione in gruppi di prigionieri. Inoltre nella seconda parte del racconto espone le varie fasi della fuga iniziata grazie ad un guasto al camion che trasportava i prigionieri [...]
[NOTE]
16 Italo Calvino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Mario Barenghi, Mondadori, Milano, 2002, pp. 33-34. Intervista dal titolo La resistenza mi ha messo al mondo. (Risposte scritte alle domande di Enzo Maizza per il dibattito su La giovane narrativa, «La Discussione», 29 dicembre 1957).
17 Questo prezioso documento è stato ritrovato da Francesco Biga, direttore scientifico dell’Istituto Storico della Resistenza di Imperia (fino alla morte, avvenuta nel 2013), partigiano e autore insieme con altri della monumentale Storia della Resistenza imperiese in 5 volumi. Ho potuto visionare personalmente il documento conservato presso l’Istituto della Resistenza di Imperia.
18 Italo Calvino, La stessa cosa del sangue, in RR I, pp. 221-227 (227).
19 Le due azioni armate fanno parte di una serie di offensive partigiane concomitanti volte a liberare il litorale nella speranza che le truppe alleate che erano già sbarcate in Francia, arrivassero fino in Italia. L’attacco a Coldirodi coincise con quelli effettuati dai garibaldini anche a Pigna, Dolceacqua, Taggia, Bordighera, Vallecrosia, città del ponente ligure.
20 L’epopea dell’esercito scalzo, a cura di Mario Mascia, A.L.I.S. Sanremo, s.d. [ma 1945] (firmati da Calvino sono i capitoli su Castelvittorio paese delle nostre montagne, pp. 49-50, e Le battaglie del comandante Erven, pp. 235-244). Mario Mascia, nato a Ponticelli (Napoli) nel 1900, si iscrisse al partito socialista italiano nel 1919. Dopo la laurea in Giurisprudenza lascià l’Italia per gli Stati Uniti a causa del fascismo. Tornò in Italia dove si trasferì a Sanremo e insegnò inglese all’Istituto tecnico commerciale per ragionieri, dal quale venne sospeso perché lontano dai dettami fascisti. Fondò il primo comitato anti-badogliano italiano e divenne membro del Cln di Sanremo. Morì a Sanremo all’età di sessant’anni (Romano Lupi, Italo Calvino e la Resistenza, in La città visibile: luoghi e personaggi di Sanremo nella letteratura italiana, Philobon, Ventimiglia 2016, pp. 93-103 (93).
22 Pietro Ferrua, Italo Calvino a Sanremo, cit., p. 92.
23 Questi tre racconti fanno parte del trittico di racconti introspettivi in terza persona della Resistenza che nascono da episodi autobiografici. Usciranno nella prima edizione di Ultimo viene il corvo del 1949, ma successivamente saranno espunti dall’edizione del 1969 per rientrare nell’ultima: quella del 1976.
24 Aldo Baggioli, nome di battaglia Cichito, giovane comandante di brigata, venne ucciso con altri partigiani la mattina del 15 ottobre 1944 da una raffica di mitra, durante il rastrellamento dei tedeschi a San Romolo.
25 Pietro Ferrua, Italo Calvino a Sanremo, cit., p. 93.
26 Santiago è il nome di battaglia che avrà Calvino da partigiano e si rifà al nome della città cubana in cui nasce: Santiago de las Vegas.
27 Claudio Milanini, Appunti sulla vita di Italo Calvino 1943-1945, «Belfagor», LXI, 1, 2006, pp. 43-61 (p. 55).
28 Italo Calvino, Attesa della morte in albergo, in RR I, p. 228-235 (229). Secondo dei tre racconti sulla guerra e rimasto inedito fino alla sua pubblicazione nel 1949 in Ultimo viene il corvo.
Elisa Longinotti, Calvino e i suoi luoghi, Tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2022-2023

martedì 4 luglio 2023

Quando il gruppo partigiano di Tiberio assumerà un rilievo e una combattività notevoli, scoppierà il dissidio con il locale CLN che era in posizione attendista

Chiavenna (SO). Fonte: Wikipedia

Il CLN di Chiavenna, prima cittadina della provincia a costituire la società operaia, è influenzata da Greppi e da Febo Zanon, socialista. Poi, via via, sorgono gli altri. A Bormio, col dr. Adolfo Flora. Svolgono funzione di collegamento e di indirizzo strategico tra il CVL (Corpo Volontari della Libertà), che invia informazioni e detta disposizioni, e le varie formazioni, non sempre, tuttavia, disposte ad accoglierle. Col tempo, i CLN si trasformano in veri e propri centri di comando locali, e tendono sempre più ad armonizzare i loro comportamenti. Due fatti appaiono determinanti nella costruzione del movimento partigiano valtellinese e valchiavennasco. In Bassa Valle, l’interessamento delle Federazioni lombarde del PCI appare decisivo. Dopo alcuni tentativi riusciti solo parzialmente, si decide d’inviare Dionisio Gambaruto (Nicola), un ufficiale d’artiglieria, con esperienze anche nei Gap milanesi. Nicola riesce ad organizzare gruppi già esistenti e a guidarli nella lotta armata. Ha inizio, fin dalla tarda primavera del ’44, una intransigente azione contro i nazifascisti, dalla quale nasceranno due Divisioni “Garibaldi”. In Val Chiavenna, Tiberio (Pietro Porchera), nell’estate, riesce ad organizzare un comando volante, distinto in tre distaccamenti. L’Alta Valle è caratterizzata fin dagli ultimi mesi del ’43 dal VAI (Volontari Armati Italiani), il primo movimento partigiano apolitico, nella primavera successiva già armato ed in grado di battersi, che influenza anche altri gruppi spontanei. La necessità di unificare i vari schieramenti, con l’ausilio dell’intervento di Ferruccio Parri presso il Comando Alleato, porta alla costituzione della 1ª Divisione Alpina “Giustizia e Libertà”, comandata da un capitano di fanteria, Giuseppe Motta (Camillo). La Divisione, nell’insieme assume, almeno a livello di vertici, un atteggiamento di attesa, spesso contraddetto dalle azioni di gruppi partigiani combattivi. L’atteggiamento viene giustificato dalla necessità assoluta, peraltro condivisa da tutti, di salvaguardare gli impianti idroelettrici. A questo punto il quadro delle varie formazioni partigiane e dei loro compiti appare abbastanza definito.  Sergio Caivano, Resistenza e Liberazione nelle nostre Valli. La Medaglia d’argento alla provincia di Sondrio onora il suo secondo Risorgimento, ANPI Lombardia 

Per quanto riguarda la situazione in altre zone del futuro Raggruppamento Divisioni Garibaldi “Lombardia”, è interessante notare l’attività iniziale della resistenza in Valchiavenna: anche in questa zona la suddivisione tra due concezioni politiche si farà sentire, con una scissione tra politica del locale CLN e quella di una successiva formazione di carattere più avanzato, comandata da Pietro Porchera [Tiberio].
Avevamo precedentemente visto che il clima democratico era particolarmente vivo in Valchiavenna anche durante gli anni del fascismo, per la situazione di relativa industrializzazione della zona e per l’esistenza di una coscienza popolare libertaria che si basava su categorie come quella degli scalpellini della zona di Novate - Mezzola, di cui si ricordano le agitazioni e gli scioperi durante il ventennio, o del proletariato chiavennese in generale che aveva sempre costituito una zona “rossa” rispetto alla “bianca” Valtellina.
Il primo sorgere delle formazioni si verifica nella primavera del 1944. Leggiamo nel verbale d’interrogatorio della GNR di Colico, a Febo Zanon, il 10 dicembre 1944 <179: "[…] nel mese di maggio del c.a. ebbi occasione di conoscere un certo Lazzarini Leone, il quale aveva creato un gruppo di ribelli nella zona di Chiavenna, gruppo che sovvenzionava regolarmente fino al rastrellamento della GNR, epoca nella quale egli prima di fuggire a Milano, mi diede l’incarico di consegnare al capobanda Bellini Luigi con le istruzioni per l’ulteriore sovvenzionamento della banda; istruzioni che mi vennero affidate in un secondo tempo, tramite alcune signorine inviatemi da Milano per conto di un certo Ricci [questo è il nome di battaglia] con il quale in seguito a richiesta ebbi occasione di conoscerlo a Milano, la prima volta in Foro Bonaparte, ed avere successivi incontri in Silvio Pellico dove, strada facendo, mi consegnava una busta chiusa indirizzata al signor Luigi Bellini dicendomi che la somma era destinata ai ribelli che agivano nella zona di Chiavenna, somma che si aggirava a seconda delle volte sulle 100000 lire. Appena ricevuto l’incarico da Milano, ritornavo a Chiavenna dove a mio mezzo recapitavo la somma al comandante del Gruppo “Giustizia e Libertà”. Non ha mai dato l’incarico a nessun’altra persona di recapitare le somme destinate alla banda, perché io stesso le portavo in località Sasso de’ Cani, sopra l’albergo Crimea, dove mi incontravo con il Bellini una volta alla settimana e precisamente ogni sabato verso le 17. Al Bellini non consegnavo tutta la somma che mi veniva consegnata dal Ricci ma, secondo le istruzioni la ripartivo in diversi gruppi che consegnavo a seconda delle necessità della banda e in proporzione alla somma che ricevevo. Il numero dei componenti della banda si aggirava sui 7/8 uomini, tenuti esclusivamente come rappresentanti del gruppo “Giustizia e Libertà”, del Comitato demo - liberale, per contrapporli all’espansione delle Brigate Garibaldine composte da uomini di diverse idee politiche ma guidate da commissari politici comunisti, anche se di nazionalità italiana".
Notiamo in questo verbale d’interrogatorio [e dobbiamo appunto ricordarci che di questo si trattava, con tutte le componenti: infatti, si trova allegato al verbale anche un certificato medico, di due giorni successivo datato 12 dicembre 1944, in cui si dichiara il tentativo di suicidio avvenuto il giorno precedente, e cioè dopo l’interrogatorio di Febo Zanon] che la situazione nella zona era basata da un lato su piccole formazioni, collegate con il CLN locale [Pench del partito comunista, Zanon di quello socialista, Greppi del partito d’azione, Corbetta del partito liberale, Ratti per la democrazia cristiana] e aderenti alle brigate G.L., per le quali lo Zanon andava a Milano a prendere i finanziamenti, precisando [in altro passo del verbale d’interrogatorio] che questi provenivano da Foro Bonaparte e cioè dalla Edison. Questo non può certo sembrare strano se pensiamo all’importante centrale di Mese della Edison e al suo interesse perciò ad avere nella zona formazioni “controllate”. É su questa base che anche qui si porrà il dissidio con le formazioni che facevano capo a Tiberio, per via appunto che i gruppi nati sin dal maggio 1944 e poi sempre esistiti, anche se assolutamente inconsistenti sul piano partigiano, hanno rappresentato una posizione o di solo controllo alla suddetta centrale, o di non attività. Quando perciò da fine luglio-inizi agosto il gruppo di Tiberio assumerà un rilievo e una combattività notevoli, scoppierà il dissidio con il locale CLN che era in posizione attendista.
In una circolare del 20 maggio 1944 dell’Ispettore Federale Silvio Cincera, del partito fascista repubblicano, al commissario federale del partito stesso, e in risposta a una comunicazione di questi che proclamava la necessità di riunire i cittadini “puri” per discutere con loro l’importanza di obbedire al bando mussoliniano in scadenza qualche giorno dopo, leggiamo <180: “Rispondo alla tua del 19 maggio 1944 che ha destato in me non poca sorpresa e meraviglia.
Premetto che ho obbedito a un ordine, che da me e dai miei collaboratori è ritenuto assurdo. Osservo, prima di tutto, che un’iniziativa del genere mi sarebbe dovuta essere notificata almeno cinque giorni prima, per invitare personalmente i capi di famiglia interessati. Ho diffuso nei caffè, nei negozi, nei cantieri, nei teatri e dovunque mi fu ordinato. Credo che un sistema ottimo avrebbe potuto essere quello di chiedere il permesso ai parroci, di cui sono ben noti i sentimenti filo-fascisti, affinché un tributo del PFR potesse persuadere [?!?!] questi buoni italiani a fare il loro dovere nei confronti della Patria! Se noi pensiamo che una piccola raffica di mitragliatrice, qualche ritiro di licenza di commercio, avrebbe dato migliori risultati, ci asteniamo dal seguire una strada errata. É arrivato il camerata maggiore Gardini, il quale ha trovato un locale ben attrezzato per ricevere i “puri”; dopo mezz’ora di attesa si sono presentate unicamente due persone, coi figli regolarmente in Svizzera. É certo, caro Rodolfo [Parmeggiani], che di questo passo noi faremo poca strada nel senso fascista. Il nostro atteggiamento di longanimità è stato interpretato come un calamento di braghe e cosa poco seria. Per dirti fino a qual punto di sfrontatezza e di spudoratezza si arriva, mi vedo sul tavolo un gruppo di domande per guardialinee telefoniche e telegrafiche, di certi individui che, non avendo obblighi militari immediati, cerca di stornare un’eventuale minaccia e di mettersi al coperto da colpi. Il camerata maggiore Gardini ci riferirà verbalmente sulla situazione che ha prospettato e che si riassume nella constatazione che la maggior parte dei renitenti alla leva si trova in Svizzera e che tutti godono di ottima salute, e che i genitori, ormai tranquilli sulla loro sorte, continuano indisturbati nei loro traffici al solo scopo… del “bene inseparabile del Re e della Patria”. Scusami lo sfogo. Ma ne ho… [indovina].”
La lettura del documento ci dà uno spaccato evidente dell’isolamento in cui si trovava il fascismo nei confronti della popolazione valtellinese. Inevitabile che di fronte a un così disastroso atteggiamento, prendesse posizione il desiderio di risolverla “fascisticamente”, tagliando i nodi “gordiani” mussolinianamente, con una “piccola raffica di mitragliatrice” [come consigliava Buffarini Guidi, “sparando nel mucchio”]. Ed è questa una constatazione importantissima ai fini della comprensione della Resistenza in generale. La lotta partigiana era combattuta “dal punto di vista delle masse popolari”, rispecchiava il loro interesse e la loro volontà di finirla col fascismo. Se la punta di diamante erano le formazioni armate, territoriali e di montagna, tuttavia queste non avrebbero potuto creare una situazione militarmente e politicamente vincente, senza l’appoggio “generale” della popolazione. La Resistenza esprimeva cioè l’interesse individuale del cittadino globale della nazione.
18.5 Poi ci sono anche i sacerdoti
É pure interessante notare quel riferimento al clero “filofascista”, in cui si denotava la rabbia del repubblicano di vedersi tradito anche in Valtellina, zona tradizionalmente cattolica, da quel Vaticano che dai patti lateranensi in poi […l’uomo inviato dalla provvidenza…] era stato un valido puntello al regime. Nello specifico, il Cincera si riferiva alle posizioni di antifascismo del clero locale, culminate [in quell’inizio di primavera] nell’arresto del parroco di Sondalo.
[NOTE]
179 Cfr. Documenti della Resistenza Valtellinese. Febo Zanon venne arrestato in seguito alla delazione di una spia, Alberto della Pedrina. Quest’ultimo, dopo la Resistenza sarà oggetto di atti d’accusa da parte dello stesso Zanon.
180 Cfr. Documenti della Resistenza Valtellinese.

Marisa Castagna, La Resistenza politico-militare sulla sponda orientale del Lario e nella Brianza Lecchese, Tesi di Laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Anno Accademico 1974-1975, tesi qui ripresa da Associazione Culturale Banlieu 

A riprova di quanto affermavo poc'anzi circa il nostro desiderio di collaborazione, sollecitai una missione del comando della 52/a. La riunione avvenne verso la metà di novembre e della nostra delegazione facevano parte oltre a Sardo, Rumina e Mosé. Io non vi partecipai perché non mi andava per il momento di mettermi ancora a discutere con gente che mi aveva definito un comunista e in quanto tale un sanguinario che non teneva conto della reazione che i fascisti con le loro rappresaglie potevano arrecare danni incalcolabili nella zona. Ma anche tale tentativo si risolse in una nuova rottura ed il C.L.N. mandò un rapporto allo stesso organismo provinciale di presunto tentativo nostro di disarmare e catturare il gruppo G.L. Tale rapporto faceva parte della ossessionante campagna denigratoria nei nostri confronti poiché non ci era mai balenata per cervello una simile ipotesi. La verità è che tale gruppo ricevette l'ordine di sciogliersi e passare in Svizzera anche armato. Zanon ai primi di dicembre venne arrestato (da un’informazione di Maio della metà del mese risulta invece che si sarebbe consegnato spontaneamente) mentre noi gli avevamo offerto protezione con eventuale accompagnamento in Svizzera, non ritenendolo in grado di affrontare la durezza della vita in montagna. E dai fascisti di Chiavenna venne trasferito all'U.P.I. di Colico, dove dopo gli interrogatori in cui aveva riferito sulla costituzione del gruppo G.L, sui finanziamenti che riceveva e da chi a Milano allo scopo di contrapporlo allo sviluppo delle brigate Garibaldi “comandate da commissari comunisti anche se italiani” tentò di svenarsi, come si seppe e come risultava da un certificato medico con prognosi di qualche giorno. Da qui venne trasferito all'infermeria del carcere di S. Vittore a Milano, dove vi rimase fino alla Liberazione [...] Facendo un passo indietro in riferimento ai dissidi ideologici tra le varie componenti della Resistenza in Valtellina fomentati dagli esponenti moderati dei C.L.N. con l’appoggio dei notabili delle formazioni dell’Alta Valtellina si verificarono anche nelle formazioni comandate da Nicola, degli attriti, che portarono alla secessione capitanata da Giumelli e Ghislanzoni, che furono gli epigoni forse anche non del tutto consapevoli del piano più vasto in atto per la tranquillità della borghesia locale. Giumelli e Ghislanzoni nel loro tentativo di organizzare un forte reparto da contrapporre a Nicola al grido di “La Valtellina ai valtellinesi” si spinsero anche in Val Chiavenna prendendo contatto con il nostro distaccamento dislocato sui monti di Verceia. Avuto sentore della cosa mi precipitavo subito in quel reparto con Rumina giungendo poco dopo l’arrivo dei due che stavano esponendo i motivi della secessione ed i programmi di contrapposizione alle formazioni Garibaldine di Nicola che egemonizzavano tutta la Bassa Valtellina da Sondrio in giù.
Pietro Porchera  (Tiberio), Testimonianza, Associazione Culturale Banlieu 

sabato 17 giugno 2023

Prime missioni alleate in Toscana


Nella nostra regione [la Toscana] esistevano, certamente fin da prima dell’inizio della guerra, cellule dei servizi di informazione alleati, soprattutto di quello britannico <62, che potevano trovare un’efficace mimetizzazione nella consistente e autorevole colonia anglosassone presente in Toscana e almeno in una parte della cerchia di parentele e di amicizie da questa intessute. Una parte di tale colonia si disperse all’inizio del conflitto, ma un’altra, italianizzata per matrimoni ecc, rimase, come rimase in piedi la trama di rapporti stabiliti in precedenza; appare infatti plausibile che questi ambienti abbiano fornito un supporto determinante per la preparazione e la riuscita iniziale dell’evasione dal castello di Vincigliata degli alti ufficiali britannici prigionieri di guerra ivi detenuti, verificatasi alla fine di marzo 1943, poiché la ricostruzione dell’impresa effettuata dalle autorità militari italiane presenta vari punti oscuri <63. In Toscana, ovviamente, erano presenti anche centri dei servizi informativi militari italiani ed è doveroso rilevare che le sezioni locali di tali organismi non passarono in blocco al servizio della Repubblica di Salò e dei nazisti e quelle rimaste fedeli alla casa reale svolsero una preziosa attività per contrastare gli intendimenti germanici: valga per tutti l’esempio della rete messa in piedi da Rodolfo Siviero, che a Firenze operò intensamente, ma sulla cui attività sappiamo qualcosa, non molto, solo in virtù delle avare notizie che egli ha reso note, soprattutto circa il salvataggio delle opere d’arte, anche se non si occupò solo di queste <64. Allo stato attuale non è chiaro se fossero in contatto anche con il gruppo di Siviero o altro gruppo analogo, i livornesi don Roberto Angeli e suo padre, che sembra si siano collegati con l’avvocato Eliso Antonio Vanni già nell’ottobre per provvedere al salvataggio degli ex prigionieri di guerra alleati <65. Ma durante il governo Badoglio alcuni ambienti romani vicini alla casa reale avevano provveduto a stabilire contatti con persone appartenenti alla borghesia medio alta, fedeli alla monarchia, per porre le condizioni atte a dar vita ad altri nuclei informativi, molto probabilmente non agganciati alla rete preesistente, facendo ricorso a figure politicamente appartenenti al mondo moderato-conservatore prefascista, anche se nel loro passato figurava una partecipazione all’iniziale movimento fascista, poi divenuta dissidenza e infine «separazione dal partito al potere, gravida di risentimenti di natura privata [...] nell’intento di determinare una crisi intestina che valesse a reintrodurli nel gioco politico» <66.
Uno di tali personaggi fu il giornalista e finanziere Filippo Naldi <67, coinvolto nelle indagini relative al delitto Matteotti ed espatriato nel 1925 per sottrarsi alle minacciose intenzioni del regime; questi al suo rientro in Italia, avvenuto subito dopo la destituzione di Mussolini, prima di recarsi a Romasi fermò nei pressi di Pescia, dove abitava l’ingegner Tullio Benedetti, con il quale dopo le elezioni del 1921 aveva militato nelle file del gruppo parlamentare della Democrazia liberale; tornò a Pescia alla fine di agosto o ai primi di settembre, dopo che a Roma aveva stabilito contatti ai massimi livelli con la casa reale e aveva incontrato lo stesso Vittorio Emanuele III, cui aveva sottoposto un progetto di coinvolgimento delle sinistre in un ampliamento della base politica del governo Badoglio. Sorpreso a Pescia dall’armistizio, sembra che Naldi abbia elaborato col suo ospite il progetto di collegare il nascente movimento partigiano locale con il governo badogliano di Brindisi e gli Alleati - operazione che avrebbe consentito a entrambi di tornare sulla scena politica - stabilendo verso la metà del mese un primo contatto con una delle prime formazioni partigiane pistoiesi, quella di Silvano Fedi, tramite Vanni La Loggia <68.
Tenuto conto dello spregiudicato pragmatismo del Naldi e del Benedetti, della loro conoscenza degli ambienti governativi e della comune appartenenza alla massoneria, che offriva loro la possibilità di molteplici contatti a livelli, in direzioni e per canali diversificati, appare difficile pensare che essi abbiano escogitato un simile piano senza avere un consistente margine di sicurezza sull’effettiva realizzabilità del collegamento con il governo di Brindisi e gli angloamericani, poiché se ciò si fosse rivelato un bluff la reazione dei resistenti avrebbe potuto essere assai sgradevole, soprattutto per il Benedetti, che, a differenza del Naldi, rimase nel Pesciatino <69.
Nacque così una delle prime maglie della rete informativa messa in piedi all’Office of Strategic Services (OSS) statunitense, rivelatasi in seguito assai utile per gli angloamericani, alla quale Naldi, giunto a Brindisi e divenuto autorevole componente degli ambienti della corte reale, provvide ad agganciare il gruppo pistoiese <70.
La scelta e l’impegno nel rischiosissimo campo della raccolta e trasmissione al Sud delle notizie sul regime e le forze armate nazifascisti furono decisioni prese autonomamente e senza secondi fini, ma solo per riscattare l’onta della guerra condotta dalla parte sbagliata e dell’occupazione germanica, anche da numerosi altri cittadini della nostra regione.
Firenze, in quei mesi a cavallo fra il 1943 e il 1944, era affollata da persone provenienti un po’ da tutta l’Italia, soprattutto da quella meridionale: profughi, persone che vi cercavano rifugio nella speranza che i tesori d’arte ivi raccolti allontanassero le offese belliche, perseguitati politici o razziali e militari fuggiaschi che speravano di far perdere le loro tracce allontanandosi dalle loro città. In questa folla in continuo movimento gli agenti dei servizi d’informazione alleati riuscivano a mimetizzarsi con una certa facilità, potendo inoltre contare sulla diffusa ostilità verso tedeschi e fascisti. Infatti proprio a Firenze il Partito d’Azione, mettendo a punto il suo apparato clandestino, dette vita a una Commissione per gli aiuti ai prigionieri di guerra alleati fuggiaschi e, soprattutto, a una Commissione radio, presto divenuta nota come CORA, che aveva l’obiettivo di mettere in piedi un sistema di collegamenti radio con i centri dirigenti azionisti milanesi e romani, con gli Alleati e con le nascenti formazioni partigiane; entrambi questi organismi nell’esplicazione della loro attività avrebbero avuto modo di entrare in rapporto e collaborare con missioni informative provenienti dall’Italia del Sud. Della prima commissione divenne, fin dall’inizio, parte attiva Ferdinando Pretini, un noto parrucchiere per signora di Firenze, il quale era entrato in contatto con una missione informativa, sbarcata nei pressi di Pesaro da un sottomarino britannico, capeggiata dal capitano Giovanni Tolleri, fiorentino, che egli pose subito in contatto con Max Boris e Luigi Belli, due responsabili dell’apparato militare clandestino azionista; la sera del 24 novembre 1943, giorno in cui fu arrestato dalla Banda Carità, Pretini doveva effettuare il collegamento fra la missione Tolleri e una "seconda missione badogliana, proveniente dall’Italia del Sud, incaricata, con mezzi finanziari a sua disposizione, di proteggere e mettere al sicuro prigionieri alleati, evasi dai campi di concentramento, e di stabilire contatti con il centro di resistenza dei Patrioti [...] La missione in parola era composta da un reverendo e da un signore, che dichiarava di esserne lo zio (era un generale)..." <71.
Non risulta che l’arresto di Pretini abbia avuto conseguenze sulla sorte di queste due missioni, delle quali però non è nota l’ulteriore attività. La Commissione radio, invece, i cui obiettivi comportavano ovviamente un’attività di intelligence, divenne il supporto fondamentale di una missione dell’8a Armata britannica dotata di radio ricetrasmittente, giunta a Firenze nel gennaio 1944, divenuta nota come Radio CORA dopo che uno degli animatori della commissione azionista, l’avvocato Enrico Bocci, di fronte alle esitazioni dei dirigenti locali del suo partito, del resto rapidamente superate, aveva accettato di assumersi personalmente la responsabilità di una collaborazione organica con detta missione, divenendo il capo riconosciuto di un’organizzazione, che riuscì a ramificarsi in ogni settore, civile e militare, potendo contare sullo spontaneo contributo di funzionari e semplici cittadini <72. L’importanza dell’attività svolta da Radio CORA ebbe il riconoscimento di un encomio - trasmesso per radio e quindi intercettato anche dai nazifascisti, da parte dello stesso generale Alexander, di cui i componenti della missione avrebbero anche fatto volentieri a meno - che, forse, contribuì in qualche misura alla tragica conclusione dell’impresa, ormai ampiamente nota <73.
Nel ribollente calderone umano di Firenze fra il dicembre 1943 e gli inizi di gennaio 1944 trovarono ricettacolo altri agenti e varie missioni provenienti dal Sud: agli inizi di dicembre vi era Giangiacomo Vismara, emissario dell’OSS, che ristabilì regolari collegamenti con il Benedetti a Pescia e venne raggiunto pochi giorni dopo dalla coppia Mario Rivano e Giovanni Fabbri - rispettivamente sottotenente d’artiglieria il primo, sottufficiale di marina e operatore radio il secondo - la quale faceva parte, con l’altra coppia formata da Renato Parenti, anch’egli sottotenente d’artiglieria, e il suo radiotelegrafista “Renatino”, sottufficiale di marina, della missione Pescia <74, posta alle dipendenze del Benedetti <75. Tra la fine del mese e i primissimi giorni di quello successivo giunse in città una missione del Servizio informazioni militari (SIM) italiano, di cui facevano parte il guardiamarina Antonio Fedele e il suo operatore radio Alfredo Shermann, destinati a rimanere in città, il sottotenente Dante Lenci, l’allievo ufficiale Ezio Odello e il radiotelegrafista Giuseppe Jacopi, destinati a operare sulla costa fra Livorno e Carrara <75.
[NOTE]
62 Interessanti a tale proposito, anche se, ovviamente, non espliciti, risultano i ricordi di K. Beevor, Un’infanzia toscana, La Tartaruga, Milano 2002, passim. Secondo un documento dello Special Operation Executive (SOE) del febbraio 1943, risulterebbe addirittura attivo a Firenze, oltre che in altri capoluoghi italiani, un gruppo di tale organizzazione, che aveva tra i suoi compiti principali la sovversione e il sabotaggio; la notizia, priva di riscontri oggettivi a oggi noti, deve essere presa con molta cautela, poiché non confermata da altri documenti della stessa fonte, cfr. P. Sebastian, I servizi segreti speciali britannici e l’Italia, Bonacci, Roma 1986, pp. 94-96.
63 La documentazione relativa a quest’evasione si trova in AISRT, Fondo Regione Toscana; NAW, T821, bob. 100, Ministero della Guerra, fasc. «Evasioni prigionieri di guerra»; per sintetiche notizie al riguardo cfr. Verni, Popolazione e partigiani dall’Alpe della Luna all’Abetone, cit., p. 169, nota 1.
64 Cenni sull’attività dell’organizzazione Siviero in R. Siviero, Seconda mostra nazionale delle opere d’arte recuperate in Germania, Sansoni, Firenze 1950, pp. 13-31; S. Ungherelli [Gianni], Quelli della “Stella rossa”, Polistampa, Firenze 1999, pp. 121, 129, 321, 334; Frullini, La liberazione di Firenze, cit., p. 98; qualche notizia in più in W. Lattes, ...E Hitler ordinò: “Distruggete Firenze”. Breve storia dell’arte in guerra, 1943-1948, Sansoni, Milano 2001, passim.
65 AISRT, Fondo CVL, b. 17, fasc. «Gruppo bande Teseo», s.fasc. «Banda di Pozzolatico», relazione dell’avvocato Eliso Antonio Vanni per il SIM allegata alla copia di attestato rilasciato al Vanni.
66 M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 37.
67 Per sintetiche note biografiche su Naldi, ivi, p. 39 e nota 7.
68 G. Petracchi, Al tempo che Berta filava, Mursia, Milano 1995, pp. 46-51, passim.
69 Ivi, pp. 50-52.
70 Ivi, pp. 65-66.
71 AISRT, Carte processo Banda Carità, fasc. «Ferdinando Pretini», «Il mio diario. Deposizione resa all’Ill.mo Presidente della Corte d’Assise di Lucca al processo della banda Carità il 9 maggio 1951», dattiloscritto, pp. 2-3. Sui due componenti della seconda missione non disponiamo di altre notizie, ma le indicazioni fornite da Pretini suggeriscono che potrebbe forse essersi trattato di don Angeli e di suo padre.
72 G. Larocca, La “radio CORA” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Giuntina, Firenze 1985, pp. 39-44. Circa la spontanea partecipazione alla raccolta delle notizie, essa ricorda, ad esempio, le informazioni relative alla Linea Gotica, fornite a Bocci da un suo cliente residente in Mugello, ivi, p. 50.
73 Ivi, p. 67. Oltre a tale opera, fondamentale poiché l’autrice fece parte fin dall’inizio del gruppo, ci limitiamo a segnalare, fra gli altri testi C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1962, passim; L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci. Una vita per la libertà, Barbera, Firenze 1969; Contini Bonacossi, Ragghianti Collobi (a cura di), Una lotta nel suo corso, cit., pp. 313-318.
74. Petracchi, Al tempo che Berta filava, cit., pp. 70-73.
75 AISRT, Fondo CVL, b. 17, fasc. «Gruppo bande Teseo», s.fasc. «Banda di Pozzolatico», relazione dell’avvocato Eliso Antonio Vanni per il SIM allegata alla copia di attestato rilasciato al Vanni. Sull’attività e la sorte del gruppo comandato dal Lenci cfr. F. Bergamini, G. Bimbi, “Per chi non crede”. Antifascismo e Resistenza in Versilia, ANPI Versilia, Viareggio 1983, p. 79.
Giovanni Verni, La resistenza armata in Toscana in (a cura di) Marco Palla, Storia della Resistenza in Toscana. Volume primo, Carocci editore, 2006

Tullio Benedetti era il leader nazionale dei monarchici, che avevano formato la lista denominata Blocco della Libertà.
Ma chi era Tullio Benedetti, l’agente “Berta” collegato con lo spionaggio alleato durante il periodo bellico?
[...] Intorno all’8 settembre 1943 era suo ospite, nella villa di S.Lucia, l’amico Filippo Naldi, già suo collega parlamentare nel 1921. Entrambi monarchici e massoni “pensarono che, aiutando concretamente la gestazione di un movimento di resistenza sulle falde dell’Appennino, avrebbero allargato la base del consenso al governo Badoglio” <5.
Benedetti presentò Naldi a La Loggia (a cui Naldi disse essere un agente dell’Intelligence Service) per parlare della possibilità di aiuti aviolanciati per i partigiani. Fu così che Benedetti (in codice “Berta”) si trovò al centro di un’attività di collegamento tra l’OSS (Office of Strategic Services) dell’esercito americano e una parte delle forze partigiane, quelle che facevano capo ai “libertari” di Silvano Fedi e La Loggia e, dopo gli iniziali tentennamenti di “Pippo”, quelle dirette da Manrico Ducceschi. Ma quando nella primavera del 1944 lo smascheramento di Tullio Benedetti (“Berta”) fu totale e la minaccia perentoria e incombente, egli non ebbe altra scelta che sottrarsi alla cattura lasciando Pescia e riparando dietro le linee alleate a sud di Roma. Egli effettuò il passaggio del fronte, nella prima decade di maggio del 1944, comodamente trasportato in un’ambulanza che il genero, dottor Scanga (membro del Consiglio Nazionale delle Ricerche e commissario provinciale della Croce Rossa Italiana del Lazio) aveva inviato apposta da Roma per prelevarlo.
5 Giorgio Petracchi: Al tempo che Berta filava - MURSIA Editore - Milano, 1995 - pag.50
Pier Luigi Guastini, Tullio Benedetti: il quinto costituente, QF Quaderni di Farestoria Anno X - N. 2-3 maggio-dicembre 2008 

Anche il sessantacinquenne Filippo “Pippo” Naldi, personaggio controverso <54, riuscì a oltrepassare le linee nemiche verso gli Alleati allo scopo di offrire i suoi servigi alla causa comune. Naldi presentò a Bourgoin uno degli uomini 'più utili che io abbia utilizzato durante la campagna dei servizi segreti americani in Italia (…), esponente molto agiato della finanza e dell’industria' <55: Tullio Benedetti, denominato “Pippo”. Residente a quel tempo a Santa Lucia Uzzanese in Toscana, Benedetti aveva formato il primo gruppo di resistenti immediatamente dopo l’8 settembre, i quali erano collocati sulle regioni montuose degli Appennini, in attesa di ricevere aiuto dagli Alleati nella guerra contro il nemico.
[NOTE]
54 Secondo la testimonianza di Bourgoin, il 'gentleman' Filippo Naldi, noto giornalista prima del ventennio e impegnato in missioni di pace con il Governo Giolitti, fu esiliato dal regime fascista nel 1925 e fino al 9 agosto 1943 visse a Parigi. A. Bourgoin, From 20th September 1943 to 26th January 1945 cit., p. 36. Peter Tompkins, invece, ha scritto che “Pippo” Naldi aveva procurato a Mussolini finanziamenti francesi per il suo 'Popolo d’Italia'. Poi, in disaccordo con il Duce, si era rifugiato a Parigi, dove nel 1937 aveva incontrato un altro esule, Indro Montanelli, che, nel 1953, in un elzeviro fece un ritratto alquanto impietoso di 'Pippo Naldi faccendiere'. Per Tompkins, anche il Naldi era stato mandato da Badoglio per controllare la missione dell’OSS aggregato alla V Armata. Cfr. P. Tompkins, L’altra Resistenza cit., p. 395.
55 Bourgoin, così, lo definisce 'a very wealthy financier and industrialist, Tullio Benedetti'. A. Bourgoin, From 20th September 1943 to 26th January 1945 cit., p. 36. In un rapporto dell’OSS, Tullio Benedetti è ritratto quale 'uomo d’affari, monarchico, con uno spiccato carattere impetuoso e deciso. Dirige Il Giornale della sera'. P. Tompkins, L’altra Resistenza cit., nt. 5, p. 395.

Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012 

Il 28 [dicembre 1943] cinque operatori del S.I.M. di due missioni dirette in Toscana (Livorno e Firenze), furono sbarcati dal MAS 510, partito dalla Maddalena, vicino al punto di sbarco di Castiglioncello (Buca dei Corvi) <94.
[NOTA]
94 Quella diretta a Firenze era formata dal guardiamarina Antonio Fedele, Tonino, e dal radiotelegrafista Alfredo Scirman. Di quella diretta a Livorno facevano parte il sottotenente del Genio Navale Dante Lenci (che aveva già preso parte alla resistenza fin dal 29 settembre 1943), il sergente universitario, ex-allievo dei corsi normali dell’Accademia Navale, Ezio Odello, e il secondo capo radiotelegrafista Lorenzo Iacopi. Svolgendosi nel periodo di massimo contrasto nazi-fascista all’attività della Resistenza nell’Italia Centrale, le due missioni furono molto accidentate. Alcuni dei collaboratori reclutati sul posto furono arrestati, anche a Roma, dove erano stati inviati per portare informazioni e ricevere istruzioni. Ai primi di aprile alcuni membri dell’organizzazione di Livorno, compreso Lenci e Iacopi, furono arrestati. Odello lasciò Livorno e avvertì personalmente Fedele di quanto accaduto; quindi, con le notizie in suo possesso, e con quelle fornitegli da Fedele relative alle fortificazioni e agli armamenti tedeschi, Odello si recò, in compagnia del partigiano Emilio Angeli, il nonnino, a Roma. Qui giunti i due furono arrestati, il 10 maggio 1944, e furono condannati a morte. Ai primi di giugno furono riuniti, con altri 26 condannati, nel cortile del carcere di via Tasso. Un primo gruppo di condannati fu caricato su un camion e raggiunse Bologna. Un secondo gruppo, che comprendeva Bruno Buozzi e Brandimarte, giunto alla Giustiniana, fu trucidato da uomini della G.N.R. in fuga. L’ultimo camion fece avaria, ciò che impedì di trasferire i 12 superstiti rimasti nel carcere di via Tasso, fra cui l’Odello, che furono liberati dalla popolazione il 4 giugno. Lenci fu fucilato l’11 settembre 1944 nel campo di concentramento di Bolzano.

Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale - Anno XXIX - 2015, Editore Ministero della Difesa