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mercoledì 19 gennaio 2022

Le trasmissioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› denotano un modo diverso di fare cultura e perfino di intenderla


Delle milletrecentonovantasette trasmissioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› trasmesse in radio <516 rimangono solo una decina di bobine, il resto andò distrutto. <517 Il GRAP, un gruppo di ricercatori dell’Università di Firenze, sotto la direzione di Anna Dolfi ha catalogato i copioni degli ultimi venti anni del programma radiofonico (mancano testimonianze relative al periodo che va dal 1945 al 1957). <518 Si tratta di un lavoro molto utile e meticoloso, che tuttavia non ci restituisce né l’integralità dei contenuti trattati, né la pienezza e il fascino del potere evocativo, intimo e profondo, tipico della radio. Quella peculiarità comunicativa che nasconde la mimica ed enfatizza la voce, inserendola in un intercedere immediato e consequenziale di una oralità semplice, che rapisce il pensiero e dove la lotta ai dialetti e o più verosimilmente all’inflessione dialettale, <519 almeno nel caso de ‹‹L’Approdo››, sembra placarsi di fronte all’‹‹altisonanza›› del letterato.
Analizzando alcune trasmissioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› <520 si è subito rapiti da una molteplicità di aspetti che, nell’insieme, denotano innanzitutto un modo diverso di fare cultura e perfino di intenderla. Per spiegarlo, scegliendo di restare nelle più solerti considerazioni di ambito umanistico, di notevole interesse risultano le interviste realizzate per ‹‹L’Approdo›› dallo scrittore franco-algerino Jean Amrouche intorno alla metà degli anni Cinquanta. Alle sue domande, in realtà sempre le stesse, risposero alcuni fra i più noti scrittori dell’epoca: Ungaretti, Moravia, Contini, Montale, Vittorini, Bacchelli, Cecchi. Con un evidente inflessione francese, Amrouche accompagnava gli ascoltatori verso una conoscenza più profonda di questi autori che con la propria voce ripercorrevano ai microfoni de ‹‹L’Approdo›› l’inizio della loro esistenza, la loro carriera, parlando dei libri scritti, delle loro amicizie con gli altri letterati, del rapporto con i loro maestri e con i colleghi apprezzati come pure con quelli non apprezzati. Dai microfoni della radio, narratori, poeti, saggisti, studiosi di arti figurative, musicologi, storici, si confrontavano per la prima volta non più con la pagina bianca, ma con un mezzo inatteso: un mezzo tecnico con proprie regole e con i propri tempi. E poi con un pubblico diverso e con aspettative differenti: un pubblico da sorprendere e coinvolgere, da incrementare e trattenere. Di particolare interesse sono risultate le conversazioni ai microfoni de ‹‹L’Approdo›› con i poeti Mario Luzi, Andrea Zanzotto, con gli storici della letteratura Giancarlo Ferretti, Folco Portinari, con i saggisti Manlio Cancogni e Giuseppe Pontiggia, con lo storico Franco Cardini, con gli scrittori Vincenzo Cerami, Giorgio Van Straten, Lidia Ravera, Maurizio Maggiani, Marco Ferrari. Significativi risultano anche l’intervista a Leone Piccioni sulla storia de ‹‹L’Approdo››, o gli interventi di Gian Battista Angioletti e di Carlo Betocchi. <521
‹‹Io non sono esattamente un intellettuale, sono uno che sa che esiste una mente e una memoria, una mente razionale e una memoria che non è precisamente razionale. Nella memoria abita il passato, abitano le esperienze che ci sono passate davanti e che ci sfuggono, abitano i numi della vita, quelli che stanno con noi, ma che non vediamo, stanno con noi, ma rispondiamo loro di rado, stanno con noi, ma certe volte ci sfuggono e ci lasciano. Io sto invecchiando e anche i numi della vita mi stanno lasciando. Io non posso altro che insistere sul fatto che se qualche cosa che mi è stato dettato da lì dentro, sono riuscito a tradurlo in parole e ho scritto dei versi››. <522
Voci alla radio, lontane, ma solo in apparenza. Voci che sanno restituire - stavolta sì - la potenza della cultura, il valore, il rispetto e la memoria senza tempo, di allora come di oggi. Voci che raccontano ‹‹la grande cultura alla radio››, volendo prendere a prestito il titolo del libro di Andrea Mugnai, dedicato per l’appunto a ‹‹L’Approdo››. Voci sì, ma anche dibattiti alla radio. <523 E si sa, dopo ogni discussione, nessuno resta più com’era prima. Perché la radio (adesso come allora) accompagna, quasi inavvertitamente, per tutto il giorno, con le sue peculiarità di immediatezza e di facilità penetrazione.
Da queste registrazioni radiofoniche de ‹‹L’Approdo›› e, in particolare dai contenuti affrontati, emerge - per arrivare al punto - una concezione più alta della cultura, della letteratura, degli stessi intellettuali. <524 Intellettuali a cui venivano rivolte numerose domande personali o sulla loro vita privata, <525 proprio perché considerati dei veri e propri esempi da seguire. Erano uomini che avevano viaggiato, che si erano confrontati con altri autori, che avevano letto il meglio della letteratura nazionale e internazionale e che poi erano riusciti a esprimersi, grazie anche alla loro spiccata sensibilità, in alcune fra le più belle pagine della letteratura e della poesia degli anni Cinquanta e Sessanta. Verrebbe spontaneo chiedersene la ragione: si trattava forse di scrittori come, negli anni a venire, non se ne sarebbero più trovati? Leone Piccioni viene in soccorso, rispondendo a questa domanda ai microfoni de ‹‹L’Approdo››, mentre parlava della storia della rivista e della radio: ‹‹Io, interpellato, rispondevo che il nuovo Approdo non lo potevamo fare, perché non ci sono più maestri di quel livello e di quella grandezza disposti a collaborare insieme senza pregiudizi di carattere politico e sociale››. <526
Più complessa e interessante appare l’analisi delle trasmissioni radiofoniche dal punto di vista del linguaggio. In realtà agli esordi del programma, in particolare, si riscontrava lo scarso sforzo (o sarebbe forse meglio dire la scarsa capacità di adeguamento al mezzo?) di informare il pubblico radiofonico del tempo: si davano molte cose per scontate, senza la volontà di fornire quei dettagli necessari alla comprensione del messaggio da parte di un pubblico prevalentemente impreparato. Analizzando il linguaggio de ‹‹L’Approdo››, inteso come rivista letteraria alla radio, emergeva, da parte di direttori e collaboratori, una certa reticenza a sperimentare un linguaggio più ardito, più tecnico, più specificatamente radiofonico. Questo ricadeva a volte nel mero ascolto di una bella pagina letta alla radio, fatta di andamenti lenti, noiosi, o in dibattiti densi di retorica e pedanteria, oppure pregni di parole auliche e ricercate intervallate da pause, da formule di reticenza o da silenzi, spesso più eloquenti delle parole. <527 Inoltre vi era una struttura sintattica poco adatta all’oralità, con molte secondarie. Ne risultava un linguaggio articolato e pregno di contenuti alti, che si rivolgeva sostanzialmente a un pubblico di élite. <528 Aspetti questi che dimostrano che i testi radiotrasmessi fossero testi scritti, destinati alla lettura o al più alla interpretazione.
Più tardi, negli anni Sessanta, in concomitanza con l’introduzione nelle trasmissioni del telefono, che consentivano il contatto con gli ascoltatori, si cominciò in generale a dare spazio a una maggiore spontaneità alla radio, in cui il testo ‹‹parlato-scritto››, tipico dei primi decenni, venne sostituito da uno ‹‹parlato-parlato››, cioè privo di una base di scrittura. Da questo si può evincere che ‹‹L’Approdo›› radiofonico si sia contraddistinto, nel tempo, per una lingua non artificiosa, non multiforme, non dialogica, non ritmica, proprio perché scritta e dunque controllata, prevalentemente poco spontanea. <529 A conferma di questa considerazione ci sono ancora le parole di Leone Piccioni rilasciate nella nota intervista, di cui si parlava più sopra, dedicate alla storia de ‹‹L’Approdo››: ‹‹Quando decidemmo di pubblicare i testi de ‹‹L’Approdo›› Radiofonico, rimandavamo all’autore, nel caso volesse apportare correzioni per farne, più che un documento parlato, un documento scritto. Il più delle volte non ce n’era bisogno, i testi trasmessi da ‹‹L’Approdo›› Radiofonico andavano benissimo anche per la stampa››. <530
[NOTE]
516 Cfr. Leone Piccioni, La linea editoriale de ‹‹L’Approdo››, in ‹‹L’Approdo Letterario››…, cit., p. 117.
517 Risulta difficile fare una cernita precisa riguardo alle puntate de ‹‹L’Approdo››: oltre alle dieci bobine (del biennio 1968-1969) presenti nella nastroteca centrale di Roma e rimaste ancora integre, dal Catalogo multimediale delle Rai risultano a migliaia le tracce de ‹‹L’Approdo›› radiofonico alla sezione ‹‹programmi nazionali››, ma si tratta di sequenze e stralci della trasmissione, materiale a volte difficile persino da catalogare.
518 Cfr. Anna Dolfi, Michela Baldini, Teresa Spignoli, Nota introduttiva, in L’Approdo. Copioni, lettere, indici…, cit., pp. 7-12
519 In un articolo di Bruno Migliorini si legge al riguardo: ‹‹la lingua degli annunziatori deve essere trasparente, impersonale e perciò quant’è possibile uniforme: mi sembra perciò che convenga insistere energicamente perché nella parola degli annunziatori non si avverta alcuna ombreggiatura dialettale. […] Ma tutto questo presuppone, che si sia data una risposta affermativa al punto fondamentale: che cioè la Rai si decida ad assumere anche nel campo dell’ortofonia un compito educativo››. Bruno Migliorini, La lingua e la radio, in ‹‹Annuario Rai 1952››, pp. 45-46.
520 Cfr. cd-room contenuto nel volume in Angelo Sferrazza, Fabrizio Visconti (a cura di), Memoria e Cultura per il 2000. Gli anni de L’Approdo…, cit., come pure si veda, ovviamente, l’Archivio Rai, oggi, per altro, disponibile (almeno in parte) anche nella versione telematica, consultabile in tutte le sedi centrali e regionali della Rai.
521 Cfr. Andrea Mugnai, L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit. In questo volume l’autore ci ripropone diversi testi integrali di conversazioni con autori avvenute ai microfoni dell’omonima trasmissione radiofonica.
522 Carlo Betocchi, Intervento ai microfoni de ‹‹L’Approdo›› radiofonico in Andrea Mugnai, L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit., p. 79.
523 Cfr. Silvio D’Amico, I dibattiti alla radio, in ‹‹Annuario Rai 1952››, pp. 68-74.
524 Un concetto questo che appartiene alla consapevolezza degli stessi letterari, si legga al riguardo l’articolo di Leone Piccioni, L’inflazione letteraria, in ‹‹L’Approdo Letterario››…, cit. L’articolo apre a un’osservazione sulle scelte compiute dai curatori di antologie dedicate alla narrativa e alla poesia contemporanee e sulla crisi della critica letteraria, a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, in concomitanza dunque alle trasformazioni dell’editoria verso una dimensione industriale.
525 Jean Amrouche rivolge agli autori prevalentemente sempre le stesse domande. Ad esempio: ‹‹Caro Emilio Cecchi, lei sa che in ogni artista c’è una forza interiore che lo costringe ad esprimersi. In quale momento ha scelto di accettare la sua vocazione d’artista e di rispondervi?››. Oppure: ‹‹Ma lei voleva scrivere o invece voleva esprimersi in altro modo?››. Ancora: ‹‹Famiglia, insegnanti o altri hanno posto ostacoli al compimento di tale vocazione?››. E ‹‹Potrebbe parlare di scrittori stranieri che lei ha incontrato?››. Cfr. Andrea Mugnai, Conversazione con Emilio Cecchi 7 giugno 1954 in L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit., pp. 3-10. È possibile ascoltarla anche tramite cd-room contenuto all’interno dello stesso volume.
526 Andrea Mugnai, Conversazione con Leone Piccioni 1 luglio 1996, in L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit., p. 82.
527 Cfr. Remo Cesarini, Il linguaggio radiofonico, in Memoria e cultura per il 2000…, cit., pp. 92-99.
528 Ibidem.
529 Si vedano al riguardo i testi integrali delle trasmissioni riportate da Andrea Mugnai nel libro, più volte citato, L’Approdo. La grande cultura alla radio…, cit.
530 Ibidem, Conversazione con Leone Piccioni 1 luglio 1996, p. 83. Si veda inoltre Filippo Sacchi, Il giornale scritto e il giornale parlato, in ‹‹Annuario Rai 1952››, pp. 55-60.
Giulia Bulgini, Il progetto pedagogico della Rai: la televisione di Stato nei primi vent’anni. Il caso de "L’Approdo", Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2018

Fig. 1 - L’Approdo alla TV, “Radiocorriere”, 20-26 gennaio 1963 - qui ripresa da Raffaella Perna, art. cit. infra

Il sabato sera del 2 febbraio 1963, alle ore 22.20, la Rai trasmette sul Programma Nazionale la prima puntata de L’Approdo. Settimanale di Lettere e Arti, a cura di Leone Piccioni, con la collaborazione di Raimondo Musu e la regia di Enrico Moscatelli. La trasmissione, che andrà in onda con conduttori, curatori, registi e in fasce orarie, giorni e canali diversi sino al 28 dicembre del 1972 <1, è parte di un progetto culturale più ampio, avviato all’indomani della Seconda guerra mondiale, il 3 dicembre del 1945, con l’omonimo programma radiofonico trasmesso da Radio Firenze, curato da Adriano Seroni, giovane critico letterario allievo di Giuseppe De Robertis, e diretto dal 1949 dallo scrittore e capo dei servizi culturali della Radio Giovanni Battista Angioletti <2. Superate brillantemente le difficoltà materiali degli inizi, L’Approdo radiofonico diventa nel giro di pochi anni un appuntamento atteso da una platea di radioascoltatori sempre più vasta. Nel 1952 il prestigio culturale e la fortuna della trasmissione spingono la dirigenza Rai ad affiancare al programma radiofonico una rivista trimestrale di lettere e arti, pubblicata dalle Edizioni Radio Italiana di Torino sino al 1977 (con un’interruzione tra il 1955 e il 1958), nella quale trovano spazio i migliori contributi trasmessi alla radio, interventi scritti appositamente per l’edizione a stampa, importanti anticipazioni editoriali (Eugenio Montale, ad esempio, nel 1968 vi pubblica in anteprima i quattordici componimenti di Xenia II) e, dal 1963, la trascrizione di servizi trasmessi alla TV. Sino al 1951 la guida de L’Approdo radiofonico è affidata unicamente a Seroni e Angioletti, ma con l’avvio della rivista cartacea i due vengono affiancati da Piccioni, e nel contempo viene costituito un comitato di redazione composto da intellettuali di primo piano, di cui fanno parte Roberto Longhi, Riccardo Bacchelli, Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis, Nicola Lisi, Giuseppe Ungaretti, Diego Valeri. Si aggiungono poi, in momenti diversi, Gianfranco Contini, Gino Doria, Carlo Bo, Diego Fabbri, Alfonso Gatto e Goffredo Petrassi; al posto di Cecchi, venuto a mancare nel 1966, subentrerà Carlo Emilio Gadda. Nel 1958 Carlo Betocchi, già esponente del gruppo di letterati cattolici riuniti attorno alla rivista fiorentina “Il Frontespizio”, è designato come responsa-bile della sezione radiofonica e nel 1961, alla morte di Angioletti, assu-merà anche la direzione della rivista. Con la nascita de L’Approdo televisivo, nel 1963, il comitato non subisce variazioni (Fig. 1): la linea culturale perseguita dal cenacolo fiorentino, improntata a un modello di cultura alta e aperta a suggestioni provenienti dal panorama europeo, trova un nuovo canale di diffusione nella trasmissione televisiva, dove molte delle formule già sperimentate alla radio vengono riprese e adattate al piccolo schermo. Benché sin dalla composizione del comitato risulti chiaro come il ruolo prioritario sia riservato alla letteratura, le arti visive hanno un peso significativo nella storia de L’Approdo, nelle sue tre vesti. Nell’edizione televisiva il numero di servizi dedicati all’arte, in particolare a quella novecentesca, ambito su cui si concentra questo contributo, è molto ricco: in alcuni momenti della travagliata storia della trasmissione, in special modo durante la direzione di Attilio Bertolucci (1965-1966) quando il programma si scinde nelle due distinte sezioni L’Approdo Arti e L’Approdo Letteratura <3, l’arte avrà uno spazio uguale a quello della letteratura.
[NOTE]
1 Nei quasi dieci anni di vita L’Approdo televisivo andrà incontro a molti cambiamenti. Dallo spoglio del “Radiocorriere” e dalla consultazione delle puntate digitalizzate è possibile ripercorrerne gli snodi principali: il programma, curato da Leone Piccioni, viene inaugurato, dopo un rinvio di una settimana, il 2 febbraio del 1963 di sabato sera sul Programma Nazionale; dal 10 gennaio del 1965 la trasmissione viene mandata in onda di domenica. La cura del programma passa a Giuseppe Lisi, che si avvale della collaborazione di Alfonso Gatto e Silvano Giannelli e della regia di Siro Marcellini. Due mesi dopo, dal 2 marzo 1965, il programma verrà spostato al martedì sera. Dal mese di novembre la direzione passerà ad Attilio Bertolucci e la regia a Paolo Gazzarra. In questo frangente la trasmissione si dividerà in due appuntamenti, L’Approdo Arti e L’Approdo Letteratura, curati rispettivamente da Silvano Giannelli e da Giulio Cattaneo, entrambi coadiuvati da Franco Simongini. Dal 27 dicembre del 1966 L’Approdo è in onda sul Secondo Programma, sempre di martedì sera, ma nella veste originaria di Settimanale di Lettere e Arti. La cura viene affidata ad Antonio Barolini e Giannelli, con la collaborazione di Mario Cimnaghi e Simongini, per la regia di Enrico Moscatelli. La nuova presentatrice è Graziella Galvani. Dal 15 maggio 1967 il programma viene spostato al lunedì sera, mentre dal 14 febbraio 1968 al mercoledì. Anche la squadra di lavoro si rinnova: il programma viene ora curato da Barolini, Massimo Olmi e Geno Pampaloni, con la collaborazione di Cimnaghi e Walter Pedullà, ed è coordinato da Simongini e presentato da Maria Napoleone. Quest’ultima verrà poi sostituita dal più noto attore teatrale e drammaturgo Giancarlo Sbragia. Nel 1971 la cura del programma passa a Giorgio Ponti con la collaborazione di Pedullà e Giuliano Gramigna e la regia di Gabriele Palmieri. Sulla storia de L’Approdo televisivo vedi Grasso (1992); Bolla, Cardini (1994); Grasso, Trione (2014); per una visione d’insieme su L’Approdo nelle sue tre edizioni vedi Sferrazza, Visconti (2001).
2 Sulla storia de L’Approdo letterario e radiofonico vedi Mugnai (1996); Dolfi, Papini (2006); Baldini, Spignoli, (2007).
3 Ognuna delle due rubriche ha cadenza bisettimanale.
Raffaella Perna, L’Approdo televisivo e l’arte del Novecento, Piano B. Arti e Culture Visive, vol. 3 n. 2 - 2018  

L’Approdo è stata una delle rubriche di letteratura, arti, cinema, più illustri e longeve della storia della radiotelevisione italiana, nacque su impulso di Adriano Seroni come programma radiofonico settimanale o quindicinale nella sede Rai di Firenze nel dicembre 1945 e andò in onda fino al giugno 1977. Era la proposta culturale più prestigiosa del Programma Nazionale: «mezz’ora di informazione letteraria e inedito connubio fra parola scritta e suono» (Ferrari 2002, 85), vantando un comitato di redazione in cui figuravano personalità molto rilevanti della scena culturale del secondo dopoguerra, da Riccardo Bacchelli a Emilio Cecchi a Folco Portinari, Ungaretti, Longhi, Bo, tra gli altri. Si sviluppò in maniera che oggi diremmo multimediale poiché si espresse in tre forme differenziate che ebbero una vita di durata diversa: alla trasmissione radiofonica fiorentina si affiancò una rivista cartacea trimestrale, che fu stampata dal 1952 al 1954 e, con il titolo L’Approdo Letterario, dal 1958 al 1977; una trasmissione televisiva settimanale di letteratura e arte che andò in onda dal 1963 al 1972, condotta nella fascia oraria che precedeva la prima serata.
La rivista fu diretta fino al 1961 da Giovanni Battista Angioletti e poi, fino alla fine della pubblicazione, da Carlo Betocchi; entrambi coltivarono un’aspirazione, che non ne abbandonerà mai lo spirito, a uno standard piuttosto elitario della informazione letteraria. L’auspicio nasceva nel seno di possibilità che in qualche modo risentivano in maniera accentuata degli effetti di una concezione probabilmente classica della trasmissione del sapere che mal si adattò all’istanza imperante di una cultura popolare e di qualità, nel passaggio da una prima militanza accademica all’impegno politico degli anni Sessanta e Settanta.
Nei diversi gruppi di redazione che si avvicendarono fu molto forte da subito il legame con una società della cultura in un certo senso istituzionale che riusciva a rappresentare con non poche difficoltà la crescita esponenziale della quantità dei prodotti letterari che diversificarono caleidoscopicamente il mercato editoriale; tra la fine degli anni Cinquanta e i Settanta la relazione tra letteratura e bisogni sociali divenne centrale fino a rappresentare anche qualitativamente le trasformazioni e i cambiamenti più significativi dei paradigmi novecenteschi. Tali cambiamenti finirono con il rendere minoritaria la lunga esperienza dell’Approdo che, poiché nel 1977 non riuscì a convertirsi al canone di una rete generalista di volta in volta più diffusamente popolare (Dolfi 2007, 11), chiuse i battenti, o meglio, fu in certa misura assorbita, per spirito e intenti, in quel Terzo Programma che nasceva nella prospettiva specifica del canale culturale.
Il canale che nel 1975 sarebbe diventato Radio Tre e che sulla differenziazione degli ambiti di un palinsesto molto ben articolato riuscì a equilibrare un’offerta in grado di rinnovarsi pur mantenendo un notevole livello, che dura a tutt’oggi, nell’ambito dei mezzi delle telecomunicazioni nazionali.
Le letterature straniere furono come sempre uno dei campi privilegiati della vitale ricerca di informazione e rinnovamento che caratterizzò la programmazione della Rai; furono rappresentate in diverse rubriche ma prevalentemente nelle specifiche rassegne divise per area linguistica e collocate in conclusione ai numeri della rivista.
Nancy De Benedetto, Le letterature ispaniche nelle riviste della RAI in Le letterature ispaniche nelle riviste del secondo Novecento italiano, (a cura di) Nancy De Benedetto e Ines Ravasini, Biblioteca di Rassegna iberistica 19, Edizioni Ca' Foscari

giovedì 13 gennaio 2022

Comunque esiste una rete di rapporti tra le scritture femminili che inizia a crearsi anche all'interno del contesto letterario italiano


Accanto alla paura di essere interpretate attraverso griglie di lettura riduttive vi è però anche l'esigenza delle donne che scrivono di confrontarsi con una tradizione letteraria formata anche da scritture femminili. Questo bisogno di ricercare dei modelli femminili esplode a livello sociale negli anni Settanta, ma è presente anche prima, in diverse scrittrici. Si può considerare ad esempio l'antologia progettata da Cristina Campo nel 1953, che indica il bisogno di ricostruire un rapporto di filiazione anche a partire da scritture femminili. Margherita Pieracci Harwell, amica di Cristina Campo ha affermato che: “I primi anni Cinquanta sono dedicati a un lavoro di traduzione in prosa e in versi assai vasto per chi amò dir di sé: “Scrisse poco e vorrebbe aver scritto ancor meno”. Cristina prepara per l'editore Casini il Libro delle Ottanta Poetesse, alcune delle quali traduce lei stessa. Di questa opera mai pubblicata ci resta, oltre alla presentazione che ne faceva l'editore nel catalogo del 1953, qualche frammento: poesie di Christina Rossetti e della Dickinson (introvabili invece altre, che Cristina Campo elenca come pubblicate, di Maria Stuarda). Il rapporto con queste donne fu intenso e durevole. Mi prestò anni dopo libri di Louise Labé e di Marceline Desbordes Valmore, mi regalò i sonetti della Browning, La Princesse de Clèves, Wuthering Heights. Le due Emily le restarono vicine tutta la vita, come la sua Gasparina (che a un certo punto si incarnò in una umanissima gatta).” <140
La descrizione del "Libro delle ottanta poetesse" pensato per l'editore Casini è affidata a una scheda anonima, forse, come suggerisce Anna Nozzoli, <141 attribuibile alla stessa Vittoria Guerrini (nome anagrafico di Cristina Campo):
“Una raccolta mai tentata finora delle più pure pagine vergate da mano femminile attraverso i tempi. Versi, prose, lettere, diari, scritti rari o mal conosciuti, nuove scelte e traduzioni di testi famosi. L'incomparabile forza e semplicità della voce femminile, sempre nuova nella sua freschezza, sempre identica nella sua passione, vibra da un capo all'altro di questo vasto e pure intensamente raccolto panorama di poesia, dalla scuola di Saffo alla Cina classica, dal Giappone dei Fujiwara al deserto premaomettano, da Bisanzio al Medioevo, dal Rinascimento al secolo XVIII, dal grande Romanticismo ai giorni nostri.” <142
Delle autrici selezionate ci è giunto soltanto l'elenco. Sappiamo che erano previsti interventi di Mario Luzi, Gabriella Bemporad e Leone Traverso per quanto riguarda la traduzione. I testi che Cristina Campo doveva tradurre sono identificabili con alcuni componimenti di Emily Dickinson, Christina Rossetti e Virginia Woolf pubblicati dall'autrice su alcuni periodici. Anna Nozzoli ha notato come il progetto del libro delle Ottanta poetesse sia profondamente diverso dalle antologie femminili pubblicate prima del 1953: “La mira di Vittoria Guerrini è, evidentemente, più alta: al di là di certe suggestioni che possono forse essere state esercitate dalla tradizione anglosassone, particolarmente ricca sin dalla metà dell'Ottocento di sillogi di eminant women e di women poets, sullo sfondo del Libro delle ottanta poetesse sta, essenzialmente, il Libro degli amici di Hofmannsthal, fatto oggetto (e la circostanza non è di poco conto) di una declinazione al femminile che non ne rovescia ma certo ne sposta significativamente il baricentro: a dire le cose nel modo più breve, l'antologia di Vittoria è davvero, in questa prospettiva un “libro delle amiche.” <143
Il libro alla fine non venne alla luce. Successivamente anche Cristina Campo cambiò idea su alcune delle scrittrici selezionate. <144 Ciò che è importante, e non sembra essere intaccato dai ripensamenti della Campo, è il bisogno di avere dei punti di riferimenti anche femminili, dei testi e delle voci autorevoli di donne con cui confrontarsi, riconoscere affinità e differenze attraverso l'esercizio della poesia.
Le prime antologie degli anni Settanta hanno anche questa funzione. Oltre al tentativo di promuoversi, vi è il bisogno di riconoscere altre voci femminili all'interno della tradizione poetica. Poetesse che hanno scritto versi notevoli sono sempre esistite, anche se in numero contenuto, manca invece un loro pieno riconoscimento a livello dell'istituzione letteraria italiana, se è vero che anche chi in vita sia riuscita a ottenere grande celebrità, sia stata presto dimenticata o abbia goduto di una fortuna critica alterna e contrastata.
Negli anni Settanta molte poetesse italiane alla ricerca di punti di riferimento femminili rivolgono lo sguardo verso la tradizione inglese. Ciò è particolarmente evidente se si considera il campo della traduzione. Molte poetesse italiane che svolgono attività di traduzione accanto a versioni di opere scritte da uomini, stabiliscono densi rapporti con poetesse di altre lingue. Questo non accade con la stessa frequenza per i poeti traduttori: le poche eccezioni al momento a mia conoscenza sono rappresentate da Eugenio Montale che traduce alcune poesie di Emily Dickinson, <145 Giovanni Giudici che traduce dei testi di Sylvia Plath <146 e Emily Dickinson <147 ed Edoardo Zuccato che traduce delle poesie di Anne Sexton. <148
Vi è poi il caso particolare di Antonio Porta che cura la versione italiana degli scritti in inglese di Amelia Rosselli. <149 La rete di traduzioni che si crea in ambito femminile è invece molto più fitta di corrispondenze, addirittura effervescente.
Con i versi di Emily Dickinson (1830-1886) si confrontano molte poetesse italiane: Amelia Rosselli, <150 Margherita Guidacci, Gabriella Sobrino, Sara Virgillitto, Bianca Tarozzi e Nadia Campana. <151 Gli scritti di Silvia Plath (1932-1964) vengono tradotti da Daria Menicanti, Marta Fabiani e di nuovo Amelia Rosselli. <152 Anne Sexton (1928-1974) conta tra i suoi traduttori Rosaria Lo Russo e Daniela Attanasio. <153 Elisabeth Bishop (1911-1979) è tradotta da Bianca Tarozzi e da Margherita Guidacci, <154 mentre, più di recente, Elisa Biagini ha curato la versione italiana di versi di Lucille Clifton (1936) e di Sharon Olds (1942). <155 Sul versante francese invece Maria Luisa Spaziani traduce Marceline Desbordes Valmore (1786-1859) <156 e Silvia Bre presenta una propria versione del canzoniere di Louise Labé (1524-1566). <157 Gli esempi potrebbero continuare a lungo e si susseguono dagli anni Sessanta-Settanta fino a oggi, a testimoniare la continuità di questa ricerca di dialogo con voci e modelli letterari anche femminili. <158
Si tratta di un lavoro solitario di confronto anche tecnico e stilistico con altre voci di donne, soprattutto in area linguistica inglese dove la presenza femminile nel canone poetico è più stabile e forte che in Italia.
“È giusto partire dalla nascita di misteriose, silenziose sorellanze che si generarono da una diaspora del pensiero femminile, prima o dopo quello politico: come Christa Wolf a Berlino fece, o la Bachmann in fuga a Roma, e come Clarice Lispector ne testimoniò, sulla passione del corpo femminile. Insieme ad altre, dalla Kavan alla Rosselli, alla Merini alla Insana, dalla Sexton alla Plath, alla Morante, alla Ortese, alla Prato, alla Sapienza, a tante altre, e più giovani, italiane. Si era alla ricerca di un linguaggio-passione, di un linguaggio verità, che sapesse immettere nuove significazioni nella lingua poetica in quanto tale.” <159
Si avverte il bisogno di nuove significazioni, che rappresentino anche le donne nella tradizione poetica. Che non significa naturalmente che le donne non abbiano letto con passione gli autori della tradizione. Con questi rilievi si intende piuttosto sottolineare che da un punto di vista generale e sociale, comincia ad essere visibile il bisogno delle donne che scrivono di riconoscere <160 accanto agli autori già inseriti nel canone anche delle voci femminili.
Questa ricerca di confronto poetico si rivolge spesso verso l'esterno, in particolare verso la tradizione inglese più avanzata da questo punto di vista. In area italiana il dialogo sembra essere più difficile. Difficile risalire prima di Amelia Rosselli, gli stessi nomi di Antonia Pozzi, di Margherita Guidacci, di Cristina Campo ma ancor più di Daria Menicanti e di Fernanda Romagnoli sono spesso poco noti e talvolta conosciuti solo dopo lunghe ricerche personali. Comunque esiste una rete di rapporti tra le scritture femminili che inizia a crearsi anche all'interno del contesto letterario italiano.
Amelia Rosselli presenta una raccolta di Sara Zanghì <161 e recensisce l'opera d'esordio di Antonella Anedda. <162 La stessa Antonella Anedda dedica diversi scritti ad Amelia Rosselli. <163 Gabriella Sica scrive una poesia in memoria di Amelia Rosselli <164 e un componimento nel quale cita apertamente un testo di Alda Merini. <165 Rosaria Lo Russo identifica in Amelia Rosselli e in Patrizia Vicinelli i suoi più autorevoli modelli. Elisa Biagini svolge delle ricerche su Alda Merini. <166 Ciò non significa naturalmente che le poetesse italiane non abbiano anche maestri e padri. Ma inizia ad essere attivo un sistema di relazioni dentro il quale un solido e autorevole modello è costituito da Amelia Rosselli. Nel questionario questa poetessa è citata come punto di riferimento da più della metà delle autrici intervistate. Ciò conferma peraltro l'idea che sia legittimo e sensato cominciare il percorso di indagine testuale proprio dall'opera rosselliana. <167
[NOTE]
140 Margherita Pieracci Harwell, Il sapore massimo di ogni parola, in Cristina Campo, La tigre assenza, Adelphi, Milano 1991, p. 284.
141 La studiosa formula questa ipotesi a partire da alcuni rilievi stilistici. Per un approfondimento dell'analisi del progetto, si veda Anna Nozzoli, Il libro delle ottanta poetesse di Cristina Campo in Id., Voci di un secolo, Bulzoni, Roma 2000, pp. 403-415.
142 Cristina Campo, Scheda editoriale per “Il libro delle ottanta poetesse”, in Id. Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti e Filippo Secchieri, Adelphi, Milano 1998.
143 Anna Nozzoli, Il libro delle ottanta poetesse di Cristina Campo, cit. pp. 408-409.
144 “[...] ho capito quel che si deve scrivere, e come tra le poetesse non possano assolutamente starci né Colette né altra roba del genere. Vede come è giusto tutto quello che accade? Se Casini avesse stampato il libro così com'era ...” (Lettera a Margherita Pieracci Harwell del 25 luglio 1956, in Cristina Campo, Lettere a Mita, Adelphi Milano 1999, p. 28).
145 Le traduzioni montaliane sono comprese in Emily Dickinson, Tutte le poesie, a cura di Marisa Bulgheroni, Mondadori, Milano 1998.
146 Sylvia Plath, Lady Lazarus e altre poesie, Mondadori, Milano 1976.
147 Le traduzioni di Giovanni Giudici si trovano con quelle di Eugenio Montale e Mario Luzi in Emily Dickinson, Tutte le poesie, a cura di Marisa Bulgheroni, cit.
148 Anne Sexton, L'estrosa abbondanza, a cura di Edoardo Zuccato, Crocetti, Milano 1997. Il volume comprende delle traduzioni di Edoardo Zuccato, ma anche di Rosaria Lo Russo e Antonello Satta Centanin (Aldo Nove).
149 Amelia Rosselli, Sonno sleep (1953-1966), versione italiana di Antonio Porta, Rossi & Spera, Roma 1989, ora con prefazione di Niva Lorenzini, San Marco dei Giustiniani, Genova 2003.
150 Le traduzioni di Amelia Rosselli sono comprese nel volume già citato di Marisa Bulgheroni. Sono state ripubblicate anche in Emmanuela Tandello, Giorgio Devoto (a cura di), Amelia Rosselli, “Trasparenze”, n. 17-19 2003, pp. 29-35 e, con una nota della stessa Marisa Bulgheroni, anche in Andrea Cortellessa (a cura di), La furia dei venti contrari, Le Lettere, Firenze 2007, pp. 262-266.
151 Emily Dickinson, Poesie e lettere, trad. Margherita Guidacci, Sansoni, Firenze 1961; Id. Le stanze di alabastro, trad. Nadia Campana, Feltrinelli, Milano 1983; Id., Poesie, trad. Gabriella Sobrino, Newton Compton, Roma 1987; Id., Poesie, trad. Sara Virgillito, Garzanti, Milano 2002; Id. La bambina cattiva Settanta poesie, trad. di Bianca Tarozzi, Marsilio, Venezia 1997. Anche Vivian Lamarque si sente molto vicina alla poesia di Emily Dickinson e cita spesso i suoi versi nelle sue raccolte. In uno scritto in prosa di qualche anno fa, racconta anche un viaggio nel paese della poetessa americana (Vivian Lamarque, Ad Amherst, nella casa di Emily Dickinson, “Almanacco dello Specchio”, n. 2007, pp. 205-208).
152 Daria Menicanti traduce il romanzo di Sylvia Plath: La campana di vetro, trad. Daria Menicanti Mondadori, Milano 1968. Amelia Rosselli presenta delle proprie versioni di versi della Plath su “Nuovi Argomenti”, n. 45-46 agosto 1975. Marta Fabiani traduce del materiale epistolare: Sylvia Plath, Lettere alla madre, trad. di Marta Fabiani, Guanda, Parma 1979.
153 Anne Sexton, Poesie su Dio, trad. Rosaria Lo Russo, Le Lettere, Firenze 2003 e Poesie d'amore, trad. Rosaria Lo Russo, Le Lettere, Firenze 2004; Daniela Attanasio traduce alcuni testi compresi in Anne Sexton, La doppia immagine e altre poesie, a cura di Marina Camboni, Caltanissetta, Sciascia, Caltanisetta 1989.
154 Elisabeth Bishop, L'arte di perdere, trad. di Margherita Guidacci, Rusconi, Milano 1982; Id., Dai libri di geografia, trad. di Bianca Tarozzi, Editore Sciascia, Caltanissetta 1993.
155 Sharon Olds, Satana dice, trad. di Elisa Biagini, Le Lettere, Firenze 2002 e Lucille Clifton, Un certo Gesù, trad. di Elisa Biagini, Medusa, Milano 2005.
156 Marceline Desbordes Valmore, Liriche d'amore, trad. di Maria Luisa Spaziani, Gallino, Milano
157 Louise Labé, Il canzoniere, trad. e note di Silvia Bre, Mondadori, Milano 2000.
158 Mi si permetta di citare ancora qualche esempio significativo: Elisabeth Barrett Browning, Sonetti dal portoghese, trad. di Rina Virgillito, Libreria delle donne, Firenze 1986; Christina Rossetti, Il mercato dei folletti e altre poesie, a cura di Marta Fabiani, Studio Editoriale, Milano 1986; Erica Jong, Frutta e verdura: poesie, trad. di Donatella Bisutti, Bompiani, Milano 1976; Erica Jong, Miele e Sangue, trad. Rosaria Lo Russo, Bompiani, Milano 2001; Sappho, Poesie, trad. di Jolanda Insana, Estro, Firenze 1985; Emily, Charlotte, Anne Bronte, Poesie, trad. di Serafina Bertoli e Erminia Passananti, Rispostes, Salerno 1989; Emily, Charlotte e Anne Bronte, Lettere inedite, trad. di Erminia Passannanti, Rispostes, Salerno 2000.
159 Maria Pia Quintavalla, Sulla scrittura femminile (e dintorni), cit. p. 15.
160 Ciò naturalmente non esclude che il riconoscimento di affinità non possa farsi amaramente ironico o non sia venato da un lampo di furbizia, come testimonia questa poesia di Jolanda Insana compresa nella raccolta Il collettame (1985). “- S.P. 1932-1963, suicida / - V.W. 1882-1941, suicida / - M.C. 1892-1941, suicida / - K.B. 1900-1941, suicida / - A.S. 1928-1974, suicida / -basta... smettila con tutti questi suicidi, è un'ossessione / -non sono suicidi /-va bene ....sono morti .... ho capito .... ma è un'ossessione lo stesso / - no, non hai capito: sono suicide, femmine, di genere femminile, plurale, senti: Sylvia Plath, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, Karin Boye, Anne Sexton .../ - ti prego basta è ossessivo / - ma no, io lo faccio per scaramanzia, capisci? / -non capisco / -vedi: sono tutte donne, tutte con la loro stanza faticosamente conquistata e qualche volta manco quella .... tutte poetesse e scrittrici, come vuoi chiamarle, e tutte, dico tutte, e sono tantissime, morte suicide ... ci sarà una ragione, non sarà mica un caso che..../ -capisco, d'accordo, ma che c'entra la scaramanzia? /-ah, c'entra.... non voglio fare la loro stessa fine” (Jolanda Insana, Il collettame, in Id. Tutte le poesie (1977-2006), Garzanti, Milano 2007, p. 194).
161 Amelia Rosselli, Prefazione a Sara Zanghì, Fort-da, Il lavoro editoriale, Ancona 1986, pp. 107-108.
162 Amelia Rosselli, Stringersi all'osso dei propri pensieri, “Il manifesto”, 8 maggio 1992, ora in Id. Scrittura plurale, a cura di Francesca Caputo, Interlinea, Novara 2004, pp. 125-126.
163 Ad Amelia Rosselli Antonella Anedda dedica una intensa poesia intitolata Per un nuovo inverno, ora raccolta in Antonella Anedda, Notti di pace occidentale, Donzelli, Roma 1999. La poetessa scrive un saggio su Diario ottuso, incluso in Id., Cosa sono gli anni, Fazi, Roma 1997, pp. 29-32. Di recente si è nuovamente confrontata con l'opera rosselliana scrivendo: Saggio ottuso (una lettura), in Andrea Cortellessa (a cura di), La furia dei venti contrari, cit., pp. 291-295.
164 Gabriella Sica, Amelia d’Iliade, “Nuovi Argomenti”, n. 37, gennaio - marzo 2007, ora in Id., Le lacrime delle cose, Moretti & Vitali, Bergamo 2009, pp. 129-130.
165 La poesia di Alda Merini è: “Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta. // Così Proserpina lieve/ vede piovere sulle erbe, / sui grossi frumenti gentili / e piange sempre la sera. / Forse è la sua preghiera.” (Alda Merini, Vuoto d'amore, Einaudi, Torino 1991). Gabriella Sica allude al componimento meriniano nel seguente testo incluso nella sezione intitolata Proserpina dell'ultima sua raccolta: “Sono nata il 24 in autunno / quando la terra si apre al buio / dove in fretta scendono le cose / ma ero li' mite a mettere un seme / nei solchi dei campi tra gli arati / ricurvi, sì, come gemma spuntare / tra la luce tra le foglie verdeggiare.” (Gabriella Sica, Le lacrime delle cose, Moretti & Vitali, Bergamo 2009, p. 81).
166 Dalla tesi e dalle ricerche svolte viene pubblicato il saggio: Elisa Biagini, Nella prigione della carne: appunti sul corpo nella poesia di Alda Merini, “Forum italicum”, anno XXXV, n. 2 , 2001, pp. 442-456.
167 Maura Del Serra, che oltre ad essere una conosciuta italianista è anche poetessa, si è attivata per ripubblicare i versi di Margherita Guidacci e ha dedicato a questa importante poetessa un interessante libro di saggi. A proposito del suo incontro con l'opera in versi di Margherita Guidacci Maura Del Serra ha affermato: “Queste vertiginose qualità mi colpirono precocemente, direi elettivamente, quando, liceale, in una libreria pistoiese vidi ed acquistai di slancio il volume appena uscito delle Poesie (Rizzoli 1965) che riunivano la sua produzione fino a quell'anno. Continuai da allora a seguirla con fedeltà “filiale”, nutrendo della sua lucente e fiera coerenza, antimondana e visionaria, la mia formazione anch'essa appartata ed orientata in senso europeo.” (Maura Del Serra, Le mie “eccentriche”: Lasker-Schüler, Kolmar, Weil, Woolf, Mansfield, Guidacci, in Anna Botta, Monica Farnetti, Giorgio Rimondi (a cura di), Le Eccentriche. Scrittrici del Novecento, Tre Lune, Mantova 2003, pp. 93-94).
Ambra Zorat, La poesia femminile italiana dagli anni Settanta ad oggi. Percorsi di analisi testuale, Tesi di dottorato, Université Paris IV Sorbonne in cotutela con Università degli Studi di Trieste, Anno accademico 2007/2008

giovedì 6 gennaio 2022

L'illusione viaggia in tranvai


Luis Buñuel, partito da feroci esperienze d’avanguardia, vale a dire i film sceneggiati con l’allora suo amico Salvador Dalì, sembrò presto abbandonare i precetti surrealisti: e cominciò, in Spagna, in Francia, in Messico, persino a Hollywood, a dirigere film narrativi, con trame talvolta avventurose o passionali, finanziati dai produttori del cinema e immessi nei circuiti commerciali. Ma in realtà l’intiera sua opera cinematografica ha un’interna coerenza e potremmo dire che in nessun film, anche in quelli apparentemente più innocui, don Luis viene meno ai suoi valori e alla sua poetica: se non sempre la zampata del leone, perlomeno qualche graffio ben assestato riusciamo sempre a percepirlo e a godercelo.
Alcuni suoi film della maturità, degli anni ’60 e ’70, poi, sono assai notevoli: apparentemente leggeri, svagati, divertentissimi. E usando quest’ultimo aggettivo non vogliamo cadere in equivoco: perché certe deliziose operette morali dell’ultimo periodo, se non sono divertenti nel senso etimologico del termine (non divergono, anzi, tengono ben salda la mira sugli obiettivi da colpire) sono però spumeggianti, trascinanti, umoristiche, e hanno dei momenti francamente comici. E di questo Buñuel ne era ben consapevole, anzi, teorizzava tutto ciò, e se non arrivò mai a girare, come pure ipotizzava insieme all’amico e collaboratore Jean-Claude Carrière, un film basato su gag da film muto, con le torte in faccia, alla Mack Sennett, però fu sempre - per così dire - sul punto di farlo, e in un certo senso lo fece, con altre forme e modi. Ma lasciamogli subito la parola. Una dichiarazione del 1965 ribadisce il suo credo anarchico: "È possibile che, oggi, il pronunciarsi come prima contro la Famiglia, la Patria, il Lavoro, sia un po’ demodè, poiché noi sappiamo per esperienza che la distruzione fisica della famiglia non è più necessaria per costruire una società nuova. Ma il mio atteggiamento nei confronti di questi principi non è cambiato: bisogna distruggerli in quanto categorie supreme, in quanto principi intoccabili".
E un’altra, del 1974, verte proprio sulla questione dell’umorismo: "Lo humour è sempre humour nero. È molto importante saper non prendere sempre tutto seriosamente. Detesto le freddure, non mi fanno ridere. Ma io non chiedo alle persone soltanto di ridere, chiedo anche di comprendere lo humour. Faccio sempre dello humour mio malgrado. Quando scrivo una sceneggiatura, se una storia mi fa ancora ridere il giorno dopo, la tengo, altrimenti la scarto. Ma mi è indifferente che il pubblico rida o non rida vedendo i miei film. C’è di tutto nel pubblico, è un’immagine della società. La sola cosa importante per me è che ai miei amici il film sia piaciuto".
Naturalmente, quando pensiamo a un Buñuel “che fa ridere”, ci viene subito da citare Simon del desierto (1965), Belle de jour (1966), La voie lactée (1969), Le charme discret de la bourgeoisie (1972).
Ironico, raffinato, dissacrante. Riesce a spiazzare, a capovolgere i luoghi comuni: è un autore satirico di prim’ordine. Con Le charme, per dire, attraverso i modi di una commediola borghese distrugge divertito tutta l’impalcatura ideologica su cui si regge la borghesia.
Quello che ci piace annotare, ora, è che il divertimento di Buñuel investe anche il linguaggio dei suoi film. Già. Perché girare le sequenze dello Charme con i toni appunto di una pochade, con tutti i modi e i convenevoli e le battutine salottiere, è già una bella trovata (e il finale di El, 1952, così ostentatamente edulcorato? E Belle de jour? Con una Catherine Deneuve nel parco, incerta sul da farsi, e il tutto sembra proprio un film commerciale, coi suoi colori morbidi e la diva e tutto il resto - e invece…).
Ma Buñuel va oltre, usa tutti i generi cinematografici: in qualche modo li deride, li sottolinea, li parodizza: e in Belle de jour si va dall’erotico al poliziesco sino a una sequenza western, e lo stesso discorso vale per lo Charme (c’è persino una strepitosa sequenza da cinema horror, con l’episodio della “notte del brigadiere insanguinato”).
Un’altra tecnica comica è quella dell’interruzione, dell’inciampo, del blocco. Personaggi che non riescono a portare a termine una certa operazione. Non riescono a uscire da un edificio, e non ne capiscono il perché (El angel exterminador, 1962) o semplicemente non riescono a finire un pranzo - e poi continuano a camminare su una strada, come senza una meta (il solito Charme, film impalpabile e profondissimo).
Sono cose già note, queste che stiamo dicendo, a chi ama i film del gran cineasta spagnolo. Ma ci piace rilevarle ancora una volta, in qualche modo ridelinearle, e concludere con un riferimento, un parallelismo, che non ci pare sia stato colto da molti.
Perché c’è una sorta di antecedente a Le charme discret de la bourgeoisie. È un film di cui Buñuel parlava malissimo. Egli spesso denigrava certe sue pellicole, negli ultimi anni ogni film che faceva era sempre accompagnato dalla dichiarazione che sarebbe stato l’ultimo, e l’autore si rammaricò persino di aver fatto il regista, quando gli sembrava sarebbe stata una scelta migliore fare lo scrittore. Ma di questo film parlava veramente male, come l’opera d’uno stolto.
Saremo stolti anche noi, che lo riteniamo un piccolo capolavoro. Si tratta de La ilusion viaja en tranvia, del 1953. Anche qui la compresenza di vari generi, le trovate stralunate, le sciabolate sarcastiche (il borghese che protesta: perché non si paga il biglietto? perché si viaggia gratis? cosa c’è sotto?), e un’ossessiva interruzione, che consiste in questo caso nel non riuscire a riportare un tram alla base (quel tram appunto su cui si è viaggiato in totale libertà), senza farsene accorgere, poiché prelevato abusivamente, durante una notte brava: e anche qui i più bizzarri e inaspettati casi intervengono a non rendere possibile l’operazione.
Marco Innocenti, Luis Buñuel si diverte in IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM), Anno X n° 3 (39), luglio-settembre 2019

[ tra i lavori di Marco Innocenti: articoli in Mellophonium; Scritti danteschi, Lo Studiolo, 2021; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l'Europa. L'immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d'occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 - 11/2013; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull'arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; Pensierini, Lepomene, Sanremo, 2010; Sgié me suvièn, Lepomene, Sanremo, 2010; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008;  con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006 ]

giovedì 30 dicembre 2021

Sull’estremo limite della linea di difesa di Stalingrado


Vasilij Grossman, ufficiale dell’Armata Rossa e corrispondente del giornale militare «Stella Rossa» scrisse nel suo diario che l’inizio dell’offensiva tedesca nell’estate del 1942 - quasi un anno esatto dall’inizio dell’invasione - «avrebbe deciso tutte le questioni e tutti i destini». La sua predizione si avverò. L’offensiva della Wehrmacht terminò con la battaglia di Stalingrado, il punto di svolta della guerra e del suo destino personale.
Il generale David Ortenberg, l’editore in capo della «Stella Rossa» durante la guerra, ci ha detto in un colloquio personale che questo periodo fu «il momento d’oro» della vita di Grossman.
La corrispondenza privata di Grossman conferma questa affermazione. Dopo due mesi del più intenso combattimento ravvicinato dell’intera guerra, egli scrisse a suo padre: «Non ho desiderio di lasciare questo posto. Anche se la situazione è migliorata, voglio ancora stare in un luogo dove ho potuto testimoniare i tempi peggiori» (Garrard 1996, p. 159).
Anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, egli proiettò le proprie emozioni riguardo alla battaglia nella fine di "Vita e destino", la sua ricostruzione romanzesca della battaglia.
Krymov, un commissario dell’Armata Rossa, a cui Grossman prestò molte delle sue esperienze personali, oltre che il suo grado nell’esercito, viene arrestato dall’Nkvd. Lo troviamo ora giacere alla Lubjanka, sanguinante, dopo essere stato preso a pugni. Krymov ricorda a come «libero e felice, solo qualche settimana prima se ne stesse spensierato dentro il cratere di una bomba e sulla sua testa fischiasse l’acciaio» (vd, p. 772).
«Libero e felice» non è proprio il modo in cui descriveremmo la condizione degli uomini che combattevano a Stalingrado. La visione di Grossman sulla paradossale natura della libertà di Stalingrado comporta la sua analisi più profonda della condizione umana e della unicità di ogni singolo individuo. Si tratta anche della sua accusa più lucida nei confronti dello Stato sovietico, il quale, salvato da questi stessi soldati, si preparava a trattarli in modo così ingiusto.
[...] «Libertà» a Stalingrado voleva dire innanzitutto libertà dall’Nkvd. La polizia segreta normalmente stazionava al sicuro nelle retrovie sparando a chiunque cercasse di ritirarsi. Ma non c’erano «retrovie» dentro la città, visto che l’Armata Rossa doveva combattere su tutti i fronti con alle proprie spalle il fiume Volga.
[...] Un commento dei quaderni di Grossman riassume la situazione: «nella difesa di Stalingrado i comandanti di divisione basarono i propri calcoli più sul sangue che sul filo spinato» (Grossman 1989, p.363). Tale affermazione è pressoché identica a quella che lo stesso Cujkov riferisce ai suoi comandanti riguardo alla missione: stavano guadagnando tempo e «il tempo è sangue».
[...] La situazione era altrettanto orrenda per entrambi i contendenti, eppure quando Vasilij Grossman scrive a suo padre in dicembre, quasi nello stesso identico momento, dichiara che «il peggiore di tutti tempi» è anche il migliore di tutti tempi.
I tedeschi alla fine occuparono il 99 per cento della città. L’1 per cento della città che non presero includeva un numero ad hoc di unità dell’Armata Rossa dislocate in punti strategici e una minuscola linea continua di terra ancora tenuta dal generale Cujkov e dai suoi uomini lungo il Volga. Questo «fronte » alla fine si riduceva a circa 300 metri di roccia bombardata e di fango. Ma includeva l’area di attracco per i traghetti del Volga e per la linea di rifornimento della guarnigione. Ogni rinforzo, cartuccia, medicazione e razione di cibo di cui Cujkov e i suoi uomini avevano bisogno doveva passare attraverso il fiume; ogni ferito doveva essere evacuato dai traghetti di nuovo attraverso il fiume. Se i traghetti del Volga fossero stati fermati definitivamente, la linea dei rifornimenti sarebbe stata tagliata. Se la linea dei rifornimenti fosse stata tagliata, allora la guarnigione di Stalingrado sarebbe stata effettivamente circondata. Una volta circondata, sparata l’ultima pallottola e mangiata l’ultima razione, non ci sarebbe stata scelta per questa piccola e coraggiosa banda di uomini se non arrendersi, vittima ancora una volta di un accerchiamento come quelli che avevano già stroncato intere armate come era successo a Gomel, Vjaz’ma-Brjansk, Smolensk e Kiev.
La strategia dei tedeschi  era semplice: ogni loro offensiva tendeva a conquistare l’attraversamento del Volga.
Cujkov, però, aveva elaborato un piano che impediva ai tedeschi di raggiungere il fiume. Aveva organizzato i suoi uomini in unità di combattenti che comprendevano dai 10 ai 20 elementi e aveva messo ogni squadra in edifici-chiave nel cuore della città, parte dell’1 per cento della mappa della città era tenuta dai sovietici. Ogni struttura fortificata era responsabile di alcune intersezioni cruciali delle strade. In "Vita e destino" il commissario Krymov visita uno di questi castelli in miniatura chiamato «la casa di Grekov». Queste strutture agivano come degli «spartiacque» incanalando i carri armati nazisti in percorsi obbligati sui quali Cujkov aveva puntato la sua limitata artiglieria.
Quando i carri armati apparivano in queste vie predisposte in cui si muovevano a fatica, si trovavano ad affrontare il fuoco delle armi pesanti di Cujkov. Una volta bloccati, le piccole unità combattevano corpo a corpo con la fanteria tedesca.
Il piano di Cujkov spezzò il pugno d’acciaio dei panzer e le colonne di carri armati poterono così esser rese vulnerabili in un combattimento ravvicinato. Fu un piano brillante che annullò la superiorità tedesca di uomini e di mezzi. Indebolì perfino la virtuale supremazia aerea perché la Luftwaffe non poteva bombardare visto che i propri uomini erano mischiati ai nemici nel combattimento corpo a corpo con i soldati dell’Armata Rossa.
[...] Krymov, l’alter ego di Grossman in quanto commissario dell’Armata Rossa, alla fine di "Vita e destino", dice ai suoi torturatori della Lubjanka: «dovreste essere mandati ad affrontare un attacco di carri armati senza nient’altro che i fucili» <1.
[...] Gli storici militari confermano il massacro: quando i tedeschi si arresero il 3 febbraio del 1943, molte delle divisioni dell’Armata Rossa formate da 10.000 uomini si erano ridotte a meno di 100 sopravvissuti, il che significa che della guarnigione di Stalingrado solo un uomo su 100 era sopravvissuto.
Questo era l’inferno nel quale Grossman voleva entrare a tutti i costi. Ne aveva avuto l’occasione ai primi di ottobre del 1942, quando il generale Ortenberg gli aveva mandato un messaggio urgente domandandogli del materiale sulla divisione delle guardie del generale Aleksandr Rodimcev. Grossman decise che la sua presenza fisica nella città era necessaria e, quindi, domandò a Ortenberg il permesso di attraversare il Volga da est a ovest. Una volta arrivato sulla riva ovest non trovò superiori della Sezione Politica a dirgli che cosa fare o dove andare, perché essi erano rimasti al sicuro sull’altro lato del Volga.
Per i successivi 100 giorni circa, egli fu libero di andare dovunque volesse, e approfittò appieno di questa pericolosa libertà.
Era estasiato dall’assenza dei papaveri di Partito e dell’Nkvd e si mosse senza risparmio. La sua totale assenza di paura gli conquistò il rispetto dell’Armata Rossa; i soldati non lo considerarono un giornalista, ma uno di loro. I suoi articoli scritti da Stalingrado gli assicurarono fama nazionale. Probabilmente il pezzo più rilevante per ciò che si vuole mettere in luce, “L’asse di tensione principale”, è un tributo allo straordinario coraggio della divisione siberiana del colonnello Gurt’ev. Questo resoconto apparve sulla prima pagina della «Stella Rossa» e fu subito ristampato sulla «Pravda». La sua frase «l’eroismo era diventato un fatto quotidiano, lo stile della divisione e dei suoi
uomini» (Grossman 1999, p. 74) fu abbreviato in uno slogan popolare: «l’eroismo è diventato un fatto quotidiano».
[...] Dopo che “L’asse di tensione principale” uscì sulla «Pravda», Il’ja Erenburg disse a Grossman: «ora puoi avere tutto quello che chiedi». Ma Grossman non chiese nulla. Qualche soldo [perks] in più avrebbe certamente aiutato sua moglie Olga Michajlovna o suo padre che si lamentava continuamente della situazione del luogo in cui era stato evacuato. La mancanza di egoismo di Grossman fu probabilmente una risposta personale al coraggio mostrato dalla divisione siberiana.
Per una singolare eccezione «il trentesimo del colonnello Gurt’ev fu la sola divisione russa ad aver combattuto in Stalingrado dopo la metà di settembre che non fu né promossa allo stato di guardia né ricompensata con l’encomio di un’unità» (Kerr 1978, p. 202) <2. È chiaro che cosa significhi questa omissione. Quasi certamente questi uomini provenivano dai battaglioni di punizione, gli infami ˇstrafbaty nei cui ranghi (non solo tra quelli inviati a Stalingrado) solo quattro uomini su 100 sopravviveranno alla guerra. Di nuovo, in "Vita e destino", Grossman ci introduce in questo pezzo di verità. Fa sì che Krymov urli contro i suoi ben pasciuti torturatori alla Lubjanka: «voi, porci, dovreste essere mandati in distaccamento penale... ad affrontare un carro armato senza nient’altro che i fucili» <3.
In questo passaggio Grossman rivela che cosa significa l’orrore del combattimento cittadino per molti soldati della guarnigione dell’Armata Rossa. Grossman conosceva questa verità e, anche se questi fatti sarebbero stati inaccettabili per la censura sovietica, era determinato a farli conoscere. Gli uomini di questo battaglione erano siberiani, famosi per essere taciturni. Tuttavia, ciascuno emerge nell’articolo di Grossman come un essere umano unico <4. Il colonnello Gurt’ev, un uomo dal quale ogni altro trovava difficile strappare più di un da o net, si confidò con Grossman per sei ore. La tecnica di intervista di Grossman era più simile al counseling che al giornalismo. Non prendeva appunti. Non voleva che gli uomini fossero attenti, mentre parlavano con lui. Preferiva che incidessero i loro famosi cucchiai di legno così che potessero concentrarsi sulle loro mani invece che guardare lui negli occhi. Questi uomini, così coraggiosi in combattimento, erano terrificati dall’essere intervistati da un commissario dell’Armata Rossa e dal poter dire qualcosa che mettesse un compagno nei pasticci. Allora Grossman li faceva rilassare parlando innanzi tutto della caccia o delle loro famiglie. Di notte avrebbe poi scritto l’intera conversazione registrata dalla sua formidabile memoria e poi l’avrebbe riformulata. La tecnica di Grossman permetteva a uomini in continua tensione di aprirsi. Ogni «Ivan» dell’Armata Rossa è idiosincratico.
[...] L’intero reportage di Grossman a Stalingrado mostra la futilità delle etichette. Ciò che importava a Stalingrado era il tipo di soldato che eri.
Grossman adottò deliberatamente un’istanza narrativa molto pacata. Egli richiama i suoi compatrioti a onorare il coraggio.
La sua voce non è mai stridente e ciò innalza «L’asse di tensione principale» al di sopra del livello della propaganda militare. Il basso profilo della voce narrativa corrisponde all’autoimmagine degli uomini descritti: "I suoi uomini non potevano rendersi conto dei cambiamenti psicologici prodottisi in loro nel corso del mese che avevano passato in quell’inferno, sull’estremo limite della linea di difesa di Stalingrado. Credevano di essere rimasti quel che erano sempre stati […]". (Grossman 1999, p. 73).
Ma se gli uomini non erano consapevoli del cambiamento o erano incapaci di esprimerlo a parole, Grossman non lo era.
Qui Grossman accenna a un altro tipo di «libertà» presente a Stalingrado, la libertà dal sospetto, dall’interferenza e dal costante assillo del Partito. Gli uomini della divisione siberiana erano uniti dalla fiducia, una qualità del tutto assente dalla vita sovietica.
In uno degli ultimi articoli che firmò sulla «Stella Rossa» prima di essere riassegnato, Grossman scrisse che «la fede reciproca unì l’intero fronte di Stalingrado dal comandante in capo ai soldati di ogni rango e di ogni linea». Da quella fede e da quella fiducia uscì la libertà che «generò la vittoria».
Secondo Grossman fu precisamente durante i giorni più terribili del combattimento che la città distrutta fu la capitale della terra della libertà.
La paradossale libertà garantita all’Armata Rossa durante il combattimento cittadino cambiò letteralmente il corso della storia.
Resistendo contro forze sovrastanti, la guarnigione di Stalingrado fece commettere ai tedeschi un errore catastrofico. Essi sovrastimarono le forze del generale Cujkov <5. Ciò li condusse a un fatale errore di calcolo. I tedeschi vedevano le proprie riserve esaurirsi nel combattimento, il loro orgoglio li convinse che i russi dovevano sprecare le proprie riserve nella battaglia allo stesso modo. Credendo che le forze dei russi si stessero esaurendo con uguale, se non con maggiore, rapidità, esclusero una controffensiva russa per mancanza di riserve. Per tutta la durata del combattimento cittadino, il ministero della propaganda di Goebbels vantava il fatto che a Stalingrado si stesse consumando la «più grande battaglia di logoramento» mai combattuta.
Era vero. Ma Goebbels commise un errore di presunzione. Erano i tedeschi, e non l’Armata Rossa, che stavano perdendo, per feriti e per stanchezza, tutte le proprie divisioni sul terreno.
Allo stesso tempo, il maresciallo Zukov, stava costruendo al di là del Volga un’enorme forza di uomini e mezzi su un fronte di attacco di 40 miglia.
[...] Vasilij Grossman era sul posto e in "Vita e destino" descrisse la natura dell’errore tedesco con la stessa chiarezza di uno storico professionista, ma con molto anticipo: "Stalingrado continuava a resistere, come prima gli attacchi tedeschi non fruttavano vittorie decisive benché i contingenti impiegati fossero massicci e dei logorati reggimenti sovietici rimanesse solo qualche decina di uomini. Queste poche decine di soldati si erano accollate tutto il peso di quegli scontri tremendi, e pure avevano in sé una forza che riusciva a disorientare tutte le aspettative del nemico. I tedeschi non riuscivano a capacitarsi del fatto che la loro potenza potesse essere disintegrata da un pugno di uomini. Erano convinti che le riserve sovietiche fossero destinate a sostenere ed alimentare la difesa di Stalingrado. I soldati che respinsero sulle rive del Volga gli attacchi delle divisioni di Paulus, furono i veri strateghi dell’offensiva di Stalingrado" (Vd, p. 485).
[...] Il generale Ortenberg ordinò a Grossman di lasciare Stalingrado il 3 gennaio 1943, quasi un mese esatto prima dell’arresa definitiva, ma sei settimane dopo l’accerchiamento del 23 novembre che aveva ipotecato la sconfitta finale della Germania. Konstantin Simonov, il perfetto ragazzo modello di Partito, lo sostituì. Quando Grossman partì, la città che era stata la capitale della “libertà” stava tornando a essere solo un insieme di rovine di un’altra città distrutta, ancora una volta sotto il controllo del Partito e dell’Nkvd.
In "Vita e destino" Grossman scrive la vera storia di come la libertà dal controllo di Partito avesse «generato la vittoria». Solo che era una visione che non poteva essere pubblicata all’interno dell’Unione Sovietica. Grossman se ne accorse lentamente.
Come ha riferito la sua stretta amica Ekaterina Zabolockaja in un’intervista: «era un bambino in queste cose». Parrebbe che Grossman pensasse che la mentalità da «banda di fratelli» della guarnigione di Stalingrado potesse permanere nel pieno degli anni ’60. Persino dopo che gli uomini del Kgb perquisirono il suo appartamento e si impadronirono di tutto ciò che trovarono di "Vita e destino" - comprese le bobine della macchina da scrivere - Grossman cercò di liberare il proprio libro dalla prigionia.
[...] Dopo l’incontro con Suslov, Grossman si rese conto che il manoscritto non gli sarebbe mai stato restituito né pubblicato durante la sua vita. I restanti due anni della sua vita furono estremamente difficili e pieni di dolore. La fama conquistata a Stalingrado, tuttavia, gli fornì qualche protezione. Non morì alla Lubjanka, ma in ospedale (il 14 settembre 1964), di cancro allo stomaco.
[...]  Ancora vivo nei suoi libri, Grossman ci chiama, ovunque noi siamo, a farci carico del fardello della storia e a ricordare i veri vincitori di Stalingrado: i soldati della 62ª armata di Cujkov, che cambiarono il senso della «forza del destino» <10 contro la Wehrmacht e salvarono il pianeta dal fascismo.
[NOTE]
1. Il testo è tratto dalla traduzione inglese (Grossman 1986, p. 786), che differisce leggermente da quella italiana nella quale non compare il riferimento ai «fucili», che è invece presente nell’edizione originale.
2. Secondo Kerr, la sola altra divisione a essere altrettanto maltrattata fu la 112ª, la divisione Sologub.
3. Si veda la nota 1.
4. Questa osservazione è vera per tutti i reportages di Grossman da Stalingrado. Nel suo altrettanto famoso «Vista da Cechov» (grossman 1999, pp. 52-62) egli ci dà un ritratto di un giovane cecchino dallo strano nome: Cechov. In Siberia era abituato a cacciare e sapeva come giacere immobile per ore nella neve. La sua infanzia difficile con un padre alcolizzato gli aveva insegnato molte cose della vita. Ora, egli era determinato a non permettere ai tedeschi di camminare orgogliosamente a testa alta nella sua città, essi avrebbero nascosto la testa tra le spalle, per la paura di essere colpiti. Cechov faceva chinare la testa alla «razza padrona», li faceva strisciare, nascondersi di luogo in luogo e infine collassare, morti, tra le macerie con una pallottola nel cranio. La freddezza di un cecchino professionista si combina nell’articolo di Grossman con gli affettuosi e particolareggiati dettagli su che cosa volesse dire essere un giovane soldato dell’Armata Rossa.
5. Alan Clark, lavorando sulle fonti primarie degli archivi tedeschi ha descritto l’errore in questi termini: «La VI armata, per un comprensibile desiderio di giustificare la richiesta di ulteriori rinforzi e di enfatizzare il compito che stava svolgendo, tendeva a riportare la presenza di divisioni nemiche laddove c’erano soltanto reggimenti o persino battaglioni, assumendo la presenza della divisione di appartenenza ogni volta che una delle formazioni subordinate venivano rilevate. Dato il numero delle unità che Cujkov aveva dislocato in parti diverse della città, il calcolo abituale della VI armata immaginò le forze russe cinque o sei volte più numerose di quelle reali […]».
10. Winston Churchill usò questa memorabile espressione «hinge of fate» come titolo di uno dei suoi libri in cui descrive la battaglia di Stalingrado.
John e Carol Garrard, Finalmente libero: Vasilij Grossman e la battaglia di Stalingrado, saggio ripreso da Il romanzo della libertà. Vasilij Grossman tra i classici del XX secolo, a cura di Giovanni Maddalena e Pietro Tosco, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2007, pp. 69-87 in Ricordare la seconda guerra mondiale, poloniaeuropae n. 1 2010

giovedì 23 dicembre 2021

Fu quello di Visconti un magico apprendistato


Prendere in esame la produzione critica di Guido Aristarco durante “gli anni neri” con l’obiettivo di ricostruirne la linea di svolgimento, identificando le tappe di svolta che hanno segnato una progressiva presa di coscienza tutt’ad un tempo civile, politica e culturale, ripercorrere insomma uno dei «lunghi viaggi attraverso il fascismo» che costituirono il sofferto percorso di scoperta di sé di tanta parte di quella che sarebbe diventata la nostra migliore, più nobile intelligenza, significa perseguire un compito pieno di insidie, esposto a costanti pericoli di sviamento, di uscite fuori strada, di imbocco di sentieri che non conducono da nessuna parte. Soprattutto se si pretende di orientarsi seguendo esclusivamente la stella polare della folgorante chiarificazione umana conseguita in seguito all’esperienza della guerra e della Resistenza, se ci si serve di bussole tarate su un Nord troppo univocamente teleologico (la conquista del senso necessario di un nuovo impegno, di una nuova cultura, di un nuovo cinema, senza che di tutto ciò siano specificati gli esatti termini e le forme) sì da spalancare l’illusione, per usare le parole di Claudio Carabba, di un «cammino di solito considerato tutto in ascesa, una sorta di lungo viaggio attraverso la notte fino alla conquista del sole e delle altre stelle» <1. Al contrario si trattò, per Aristarco come per tanti altri, non di una radiosa corsa verso i rosei orizzonti della rinascita e del riscatto ma di un itinerario tortuoso, faticoso, complicato da lente curve, soste paralizzanti, improvvise accelerazioni e inaspettati ritorni sui propri passi, contraddizioni, stenti, bivi ingannatori. Un tragitto le cui tracce possono essere rinvenute e decifrate non da un olimpico sguardo satellitare, ma da una microscopia attenta a rinvenire i segni di un passaggio in due o tre rami spezzati, in un leggero infossarsi dell’erba, nella corteccia sbrecciata di un albero… Fuor di metafora, si tratta di individuare i cenni premonitori e le emergenze preparatorie di un dissenso che, nel suo significato pieno e consapevole, si manifestò non precedentemente alla prima metà del 1943, in particolare con la recensione e poi la polemica su Ossessione, leggendo tra le righe di una produzione critico-recensoria su cui gravavano molteplici condizionamenti di diversa natura, estrinseci ed endogeni, che non permettono la ricostruzione dell’evoluzione di un pensiero e di una personalità se non tramite spie a volte lievissime, determinate soltanto da un inspessirsi quasi impercettibile della figura che tuttavia la stacca dallo sfondo e le fa acquisire un rilievo: uno spostamento di accenti su questo o quel tema, una particolare coloritura di tono, delle crepe, delle incrinature lessicali che screpolano il grigio e compatto frasario fascista, aprendo nella struttura, nell’apparato linguistico predisposto dal regime, spazi attraverso cui trasparivano allusioni, messaggi segreti, riconoscimenti. Carlo Lizzani, rievocando appunto il carattere esopico di gran parte della produzione critica “frondista” di allora, scrive: «Nessuna censura poteva dirci niente, eppure quando tra noi si leggevano, anche sui giornali dei GUF, un certo tipo di parole, non so perché, si sentiva che squillava un campanellino differente»2. E particolarmente significativa appare la narrazione del suo “arruolamento” presso il gruppo di «Cinema»: «[…] era, in fondo, anche affascinante leggersi e scoprirsi delle parentele attraverso parole che a tentoni, proprio nel buio, noi riuscivamo a individuare e che ci facevano da radar per sentirsi gli uni con gli altri. Io fui reclutato, si può dire così, dal gruppo di Cinema attraverso alcune stroncature che facevo anch’io nella terza pagina di Roma Fascista […] Grazie a certe parole che usavo anche io - non può essere avvenuto altro che in questo modo, attraverso una lettura, una radiografia linguistica - fui avvicinato dal gruppo di Cinema […] e attraverso discorsi cauti e allusivi fui invitato a collaborare. E questo fu un prodigio: sentirci attraverso la parola e lo scritto, riconoscersi» <3.
[...] non crediamo arbitrario accostare a quella di Aristarco questa rievocazione di Massimo Mida Puccini:
«Era l’età, come per tutti i ragazzi, dei primi tentativi di composizioni poetiche, dei componimenti in prosa <19: la nostra scuola di stampo storico-umanistico, il nostro sofisticato liceo classico, gli anni delle avide letture in pressing […] si tenga conto che l’opera di condizionamento iniziava dalla scuola con la sottile distorsione operata sulla verità storica; il fascismo, secondo gli insegnamenti che ci venivano impartiti, non aveva sopraffatto i movimenti e le dottrine precedenti, ma li aveva “superati”. Nessuno di noi giovani, allora, aveva sentito pronunciare i nomi di Gramsci, di Salvemini o di Gobetti, o degli altri capi storici dell’opposizione, fuoriusciti o in galera o confinati nelle isole […] eravamo venuti crescendo in un clima di idealismo senza sbocchi: educazione scolastica umanistica, il nostro liceo classico nozionistico, enciclopedico, tutto rivolto ai valori, magari distorti, del passato, di una storia interpretata a senso unico. Un modo facile per i nostri insegnanti di evitare compromissioni con il presente (e da questo vuoto nacque comunque un primo rigetto di quanto avveniva nel paese, la prima sensazione di nausea verso quel fascismo fatto di parate, di salti nel fuoco dei gerarchi, di aquile sui berretti, di bandiere al vento e di atteggiamenti marziali); e, accanto, e in conseguenza di questo, sopravvalutazione - inconscia o meno - dell’individuo teso verso l’arte, dell’artista al di sopra delle parti e del mediocre presente, magari isolato nella sua classica e famosa torre d’avorio» <20;
Per un altro verso invece, probabilmente amplificata dalla supervalutazione che la dimensione artistica assumeva nell’esistenza mutilata di chi si formava in quel tempo, traspare dalla rievocazione aristachiana l’esaltata scoperta del cinema come di una salvifica via d’uscita dal conformistico grigiore culturale dominante, un amore quasi morboso, la cui intensità cresceva quanto più la fame di sapere restava priva di sbocchi, e che accumunava tanta parte della giovinezza più intellettualmente inquieta.
[...] Ed è difficile anche trasmettere il senso di una comunità generazionale fatta di interessi, affetti e, col tempo, di battaglie condivise che si va man mano costruendo intorno a questa passione, il calore di una fratellanza che cementa congenialità e sodalizi quasi con la mistica forza di una fede. Se ne trova un’eco forse nel tono emozionato e grato con cui Aristarco rammenta il suo primo incontro col gruppo di «Cinema» (il primo contatto, epistolare, viene ricondotto ad una lettera di De Santis a lui indirizzata, datata 19 maggio 1942 <22): «Non ho mai dimenticato la mia prima calata nella Capitale, il mio approdo di qualche ora a piazza della Pilotta al numero 3, sede della rivista, e l’incontro con gli amici, compagni maggiori: Gianni Puccini, Francesco Pasinetti, Domenico Purificato; quel giorno così magico, numinoso ai miei occhi, c’eri anche tu, Massimo; fosti tu ad indicarmi la via per raggiungere Stazione Termini (chi avrebbe immaginato allora che, nell’immediato dopoguerra, avrei ospitato a Milano te e altri del gruppo, che in via Andreani sarebbe nata la sceneggiatura de Il sole sorge ancora e che poi avrei dato avvio a Cinema nuova serie?) I ricordi di Mida svegliano in me altri ricordi: l’incontro con Visconti e Giuseppe de Santis a Ferrara, mentre si gira Ossessione; l’ansia con la quale, all’edicola della stazione di Mantova, attendevo l’uscita di «Bianco e nero»; la nascita del sodalizio con Francesco Pasinetti, aperto e generoso all’ascolto degli esordienti, autentico e sicuro “nostromo” di un agognato “capo di buona speranza” cui ero approdato, la sua squisita ospitalità nella casa veneziana a San Polo…» <23.
Ora, Aristarco riconosce due tournants fondamentali nella storia dell’evoluzione collettiva di quella generazione e della propria in due celeberrimi scritti di Luchino Visconti, Cadaveri e Il cinema antropomorfico, pubblicati su «Cinema» rispettivamente nel giugno del 1941 e nell’ottobre del 1943:
«Scritti corsari per i tempi che correvano, provocatori per chi avesse saputo leggerli ed interpretarli […] Fu quello di Visconti un “magico apprendistato” non soltanto per chi intendeva esordire nella pratica del cinema ma anche per chi si limitava a scriverne» <24.
Non è certo un caso che un esponente altrettanto importante tra i giovani leoni della critica cinematografica del tempo, Massimo Mida Puccini, prenda proprio quei due articoli come punti di riferimento ideali per fissare i due tempi ideali dell’evoluzione del dibattito cinematografico più progredito e dello stesso gruppo di «Cinema»: c’è il momento puramente “negativo” del rifiuto, del rigetto del prodotto-tipo del cinema ufficiale oramai decrepito, del cinema grossolanamente manifatturiero dei telefoni bianchi, delle segretarie, dei bon viveurs in abito bianco, di tutto un corpaccione pellicolare esangue, futilmente cariatideo, di cui si auspica il rinnovamento, secondo i classici moduli della polemica generazionale, tramite massice trasfusioni di sangue giovane:
«Andando per certe Società cinematografiche capita che s’intoppi troppo sovente in cadaveri che si ostinano a credersi vivi […] vivono già morti, ignari del progredire del tempo, del riflesso di cose tutte estinte, di quel loro mondo trascolorato, dove si circolava impuniti sui pavimenti di carta e gesso, dove i fondalini vacillavano al respirare d’un uscio improvvisamente aperto, dove in perpetuo fiorivano rosai in carta velina, dove stile ed epoche si fondavano e confondevano magnanimi, dove, per intederci, Cleopatre liberty in toupè vampireggiavano (mettendoli alla frusta) ombrosi pezzi di marcantoni in busto di balene […] Che i giovani d’oggi, che sono tanti e che vengono su nutrendosi, per ora, solo di santa speranza, tuttavia impazienti per tane cose che hanno da dire, si debbano trovare, come bastoni tra le ruote, codesti troppo numerosi cadaveri, ostili e diffidenti, è cosa ben triste […] come non deplorare che ancora oggi a troppi di costoro sia consentito di tenere in mano i cordoni della borsa e di fare la pioggia e il bel tempo? Verrà mai quel giorno sospirato, in cui alle giovani forze del nostro cinema sarà concesso di dire chiaro e tondo: “I cadaveri al cimitero”?» <25.
C’è quello “positivo” del passaggio dalla rottura alla proposta di un cinema nuovo che soddisfi «l’impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose, non le cose per sé stesse […] un cinema antropomorfico» perché «il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola “cosa” che veramente colmi il fotogramma; e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa ad un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell’uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali s’inquadrano. Ogni diversa soluzione del problema sembrerà sempre un attentato alla realtà così come essa si svolge davanti ai nostri occhi: fatta dagli uomini e da essi modificata continuamente» <26.
Sempre Mida Puccini, ed è osservazione da tenere bene a mente, sente vibrare in questi due stadi di sviluppo l’influsso degli insegnamenti, rispettivamente, di Chiarini e di Barbaro (i quali furono, in modi molto diversi, i numi tutelari di questa generazione all’opposizione), precisando a ragione come la loro influenza e le linee di tendenza derivatene debbano essere comprese «naturalmente con tutte le ovvie diramazioni e differenziazioni del caso, che possono appunto riassumersi nell’essere soprattutto contro un certo modo di fare il cinema e nel pronunciarsi anche a favore di un particolare modo di farlo» <27. Si tratta di un secondo indicatore prezioso ai fini di un’esatta collocazione storica e della chiarificazione del significato di un’esperienza critica come quella aristarchiana.
Scrive Gian Piero Brunetta che il passaggio dal fascismo all’antifascismo di una generazione che toccava appena la maggiore età allo scoppio della seconda guerra mondiale non può essere pienamente inteso se non lo si considera anche come un processo di crescita naturale, un passaggio dalla minore alla maggiore età. Non per tutti la cosa avvenne nello stesso modo e contemporaneamente. Nella sua filogenesi questo tragitto è stato studiato fino alla saturazione. Quello che ci proponiamo, prendendo come oggetto di studio in questa tesi la linea di svolgimento della produzione critica aristarchiana, è dunque, seguendo l’auspicio di Brunetta, un’analisi ontogenetica di questo processo evolutivo; in tale prospettiva possiamo avanzare immediatamente, servendoci dei dati e dei punti di riferimento ideali reperiti nell’analisi fin qui condotta, una prima ipotesi di periodizzazione alla luce del quale organizzeremo la trattazione del materiale esaminato e la cui tenuta, coerenza e produttività verranno verificate nel proseguimento del nostro lavoro [...]
[NOTE]
1 C. Carabba, Il cinema del ventennio nero, Vallecchi, Firenze, 1974, p. 93.
2 C. Lizzani, De Santis e il gruppo «Cinema», in Il neorealismo nel fascismo, Ed. della tipografia Compositori, Quaderni della Cineteca n.5, Bologna, 1984, p.95.
3 Ivi, pp. 96-97.
19 Anche Aristarco si provò nella creazione letteraria, senza troppo successo a dire il vero: su «La voce di Mantova» del 15 aprile 1939 pubblica una breve novella, l’ingenua e patetica rievocazione di un primo amore giovanile finito in una triste disillusione, con la moralistica conclusione di rito. Segnaliamo come pura curiosità lo scritto, che non ha altro interesse se non forse quello di suscitare un’associazione con quanto Renzo Renzi scriverà ad Antonioni anni dopo, irritandolo non poco, circa il recondito significato politico di alcuni suoi film apolitici: «siccome alcuni di essi cominciavano con un amore andato a pezzi, constatando la qual cosa il protagonista iniziava un grande vagabondaggio nel nulla: perché non pensare che il primo amore è il fascismo e il resto un gioco che non torna più?» in R. Renzi, Al «Kinoglaz» in camicia nera, op. cit., p. 21. Antonioni rispose telegraficamente: «Del fascismo io ricordo soltanto mio padre picchiato dai fascisti».
20 M. Mida Puccini, L. Quaglietti, Dai telefoni bianchi al neorealismo, op. cit., p. 281.
22 «Roma, 19 maggio 1942. “Spero di conoscerti presto”, mi scriveva a Ferrara, dove allora risiedevo, Giuseppe de Santis. “Come avrai appreso dal “Padano”, in giugno inizieremo un film di ambiente ferrarese”», G. Aristarco, Il neorealismo italiano, op. cit., p. 189.
23 G. Aristarco, Prefazione a M. Mida Puccini, Compagni di viaggio, op. cit., p.II.
24 Ivi, p. III.
25 L. Visconti, I cadaveri al cimitero, in «Cinema», n.119, 10 giugno 1941.
26 L. Visconti, Il cinema antropomorfico, in «Cinema», n.173-174, 25 settembre-10 ottobre 1943.
27 M. Mida Puccini, L. Quaglietti, Dai telefoni bianchi al neorealismo, op. cit., p. 113.
Dario Portale, Ontogenesi di un linguaggio critico. La formazione cinematografica di Guido Aristarco tra dissoluzione del fascismo e rivoluzione neorealista, Tesi di Dottorato in Italianistica (Lessicografia e Semantica del Linguaggio Letterario Europeo), Università degli Studi di Catania, 2011

domenica 19 dicembre 2021

Nel 1957 Bianciardi viene licenziato dalla Feltrinelli ‘per scarso rendimento’


Dopo l’8 settembre 1943 e il conseguente sfaldarsi delle file dell’esercito italiano all’indomani dell’armistizio, Luciano Bianciardi si aggrega, in qualità di interprete, a un reparto di soldati inglesi; viene trasferito a Forlì, poi torna finalmente a Grosseto. Nel novembre dello stesso anno, deciso a continuare gli studi universitari, viene ammesso alla Scuola Normale di Pisa, in seguito a un concorso bandito per settanta tra reduci e partigiani. Successivamente, nell’autunno del ’45, si iscrive al Partito d’Azione, un’esperienza molto importante, rivelatrice di quella che agli occhi di Bianciardi è una profonda necessità per la politica: vale a dire lasciarsi guidare dagli intellettuali, tratto questo inscritto nella storia del partito. Bianciardi ricorda così quell’esperienza politica:
"Io mi ero iscritto […] al Partito d’azione; il qual partito non è facile ora dire che cosa sia stato, anche perché fu forse molte, troppe cose. Mi pare […] di poter dire che fu un altro tentativo di governo (l’ultimo?) della piccola borghesia intellettuale. Cadde per le contraddizioni interne e per la incapacità ormai accertata del nostro ceto, privo di contatti con gli strati operai e quindi largamente disposto a tutti gli sterili intellettualismi ed alla costruzione gratuita di problemi astratti".
Quando il Partito d’Azione si scioglie, nel 1947, Bianciardi rimane profondamente deluso.
Nel febbraio del 1948 si laurea discutendo con Guido Calogero una tesi dal titolo: "Il problema del conoscere nel pensiero di John Dewey". Nell’aprile dello stesso anno sposa Adria Belardi, contro il volere di sua madre, che voleva per il figlio una laureata e non la semplice figlia di una cappellaia; nell’ottobre del 1949 nasce il primogenito di Luciano, Ettore. La paternità a ventisette anni tocca corde profonde nell’uomo Bianciardi, come rivela un altro brano di "Nascita di uomini democratici":
"Venne anche mio padre, quel giorno, accanto alla nuova culla, e parlammo della nostra vita, e di quella nuova vita che era nata ora. Dovemmo concludere che avevamo fallito, lui ed io, e forse anche suo padre, se c’erano state due guerre mondiali con tanti morti, e la miseria e la fame, e così scarsa sicurezza di vita e di lavoro e di libertà per gli uomini del mondo. Io conclusi che non doveva più accadere tutto questo, che non volevo che mio figlio, come me e come mio padre, rischiasse un giorno di morire o di uccidere, di soffrire la fame o di finire in carcere per avere idee sue, libere. Non potevo neppure più rinunciare ad avere fiducia nel mio mondo e nei miei simili, chiudermi in un bel giardinetto umanistico e di ozio incredulo, soddisfatto dell’aforisma che al mondo non c’è nulla di vero. Dovevo scegliere, la presenza di mio figlio me lo imponeva, non potevo neppure pensare di risolvere il problema individualmente, o di rimandarlo a più tardi, cercare, al momento buono, di truffare l’Ufficio leva, o creare per mio figlio una situazione di privilegio, far di lui ‘il primo della classe’, come aveva voluto mia madre. Non ci sarà soluzione sicura per mio figlio se non sarà sicura anche per tutti i bambini del mondo, anche questo mi pareva abbastanza chiaro... non basta essere soli col proprio lavoro e con la propria miseria, ci vuole anche un figlio per desiderare l’avvenire e lavorare a costruirlo".
Dopo aver insegnato per qualche anno inglese in una scuola media, Bianciardi diventa professore di storia e filosofia nello stesso liceo che aveva frequentato come studente; nel 1951 accetta l’incarico di direttore della locale Biblioteca Chelliana, semidistrutta dai bombardamenti e dall’alluvione del 1946, dando avvio all’iniziativa del Bibliobus, un furgone carico di libri della biblioteca che viaggia per la campagna grossetana, andando a raggiungere anche gli abitanti dei paesi più isolati.
Bianciardi ricorderà sempre il periodo grossetano come quello più felice della sua vita e in effetti la sua vivacità, l’energia e l’entusiasmo che lo animano sono evidenti.
Sono questi gli anni nei quali si occupa attivamente di un cineclub, organizza cicli di conferenze e dibattiti insieme a Carlo Cassola, - che in quel periodo si era trasferito a Grosseto e insegnava nello stesso liceo di Bianciardi - e partecipa alla creazione del “Movimento di Unità Popolare”.
Nel 1953, un anno importante per Bianciardi, s’impegna concretamente in politica, legando il suo nome alla breve ma estremamente significativa esperienza della creazione del Movimento di Unità Popolare, “cartello elettorale” costituitosi il 18 aprile 1953 dalla confluenza “di due movimenti: il Movimento di autonomia socialista (Mas) e l’Unione di rinascita repubblicana (Urr) […] a seguito delle scissioni che avevano assottigliato il fianco sinistro rispettivamente del Partito Socialdemocratico (Psdi) e del Partito Repubblicano italiano (Pri) […] con il contributo del movimento di Giustizia e Libertà, ricostituito da Carlo Cassola nel grossetano” (Colozza).
Bianciardi, molto legato all’amico scrittore Cassola, collaborò con lui a questa breve ma significativa esperienza politica, nata per contrastare l’approvazione della cosiddetta ‘legge truffa.’ 
Come è noto, la finalità che questo cartello elettorale si diede, venne raggiunta: "L’esito della battaglia elettorale di Movimento di Unità Popolare (Up) fu vittorioso, nel senso che Up vide coronato l’obiettivo per cui era sorta: impedire che la maggioranza centrista ottenesse il 50% + 1 dei suffragi ed avesse quindi diritto al premio di due terzi dei seggi parlamentari previsto dalla nuova legge. Peraltro, ciò non deve indurre a pensare che il ruolo di Up sia stato decisivo nell’economia del risultato". (Colozza 1)
L’esperienza, al di là del suo effettivo contributo elettorale, è, come accennavo, importante perché fa ben comprendere come Bianciardi concepisca, fin dalla giovane età, il ruolo dell’intellettuale in intima connessione con l’impegno sociale e, ove necessario, direttamente politico: ogni tentazione di rinchiudersi in una torre d’avorio, dove occuparsi esclusivamente di disincarnate questioni intellettuali, disinteressandosi della vita politica e sociale, gli è pertanto del tutto estranea. La vicenda del Movimento di Unità Popolare viene infatti “generalmente associata a quella del Partito d’azione, di cui essa per certi versi rappresentò una riedizione”, così scrive Giovanni De Luna in Storia del Partito d’Azione 1942-1947. E, a corroborare questo aspetto del pensiero di Bianciardi, va messo in rilievo il nome che l’amico Cassola scelse per il movimento nel grossetano: Giustizia e Libertà, il nome del movimento antifascista fondato a Parigi dai fratelli Rosselli nell’agosto del 1929, di cui il Partito d’azione fu poi il principale erede politico. Come si vede, il cerchio si stringe e rivela la propria unità di ispirazione ideale.
Nei primi anni Cinquanta un ex collega di università di Bianciardi, Umberto Comi, assume la direzione della Gazzetta di Livorno e gli affida la cura di una rubrica intitolata “Incontri Provinciali”. Nello stesso periodo Bianciardi inizia a collaborare anche con altre testate: Belfagor, l’Avanti; nel 1953, inizia a scrivere per II Mondo mentre nel ’54, avvia la collaborazione con II Contemporaneo. Il 1954 è l’anno in cui Bianciardi, insieme a Carlo Cassola, scrive per l’Avanti un’inchiesta sulle condizioni di vita dei minatori. Con il già citato Bibliobus, i due scrittori si recano spesso a Ribolla, un piccolo agglomerato costituito dalle case dei minatori nei pressi di Grosseto. Bianciardi prende molto a cuore la condizione dei minatori: si informa sulle loro condizioni di lavoro, li intervista, ne scrive le biografie e ne diventa amico. Il 4 maggio 1954 salta in aria uno dei pozzi della miniera di Ribolla per un’esplosione di grisù uccidendo 43 persone: questa tragedia porterà Bianciardi alla decisione definitiva di partire per Milano. Quando il poeta Antonello Trombadori gli chiede se sia disponibile a partecipare alla costituzione di una nuova casa editrice, la Feltrinelli a Milano, Bianciardi accetta subito e parte frettolosamente per il capoluogo lombardo.
Nell’aprile del successivo 1955 gli nasce la figlia Luciana.
Inizia a collaborare a Nuovi Argomenti e l’Unità, nel frattempo lo raggiunge a Milano Maria Jatosti, che sarà la sua compagna per più di quindici anni e nel 1958 gli darà il terzo figlio, Marcello.
Nel 1956, insieme a Carlo Cassola, pubblica presso Laterza I minatori della Maremma, il libro inchiesta sulle condizioni di vita dei minatori, che porta avanti con ben altro respiro e maggiore ambizione gli articoli sul medesimo argomento scritti nel 1954 per le colonne de l’Avanti.
Contemporaneamente, comincia a lavorare a Cinema Nuovo, la rivista diretta da Guido Aristarco e finanziata dall’editore Feltrinelli, ma dopo un breve, infelice periodo di collaborazione con Aristarco, passa alla redazione della casa editrice vera e propria. Qui gli viene offerta la traduzione de Il flagello della svastica di Lord Russell, il secondo titolo pubblicato dalla neonata casa editrice Feltrinelli, che Bianciardi traduce in pochi mesi; è questo l’inizio della sua carriera di traduttore, che continuerà fino alla morte e che Bianciardi chiamerà “il mio diuturno battonaggio, carte su carte di ribaltatura”.
Nel 1957 Bianciardi viene licenziato dalla Feltrinelli ‘per scarso rendimento’: scrive in una lettera del febbraio 1958 all’amico Terrosi, “E mi licenziarono soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile”.
Feltrinelli gli garantisce però che continuerà ad affidargli lavori di traduzione e in fondo per Bianciardi è una liberazione: niente orari da rispettare e soprattutto niente ipocrisie inutili.
“La verità è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici: gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera, e riesce, non so come, a dare l’impressione, fallace, di star lavorando. Si prendono persino l’esaurimento nervoso.” 
Parallelamente al lavoro di traduzione, Bianciardi pensa a una cosa tutta sua, una sorta di autobiografia: realizza così II lavoro culturale, pubblicato da Feltrinelli nello stesso anno. Nel luglio del 1959, a Chianciano, in dieci giorni di ‘vacanza traduttoria’, Bianciardi scrive L’integrazione, pubblicato da Bompiani l’anno seguente. Bianciardi continua il lavoro di traduzione e si riserva soltanto la domenica per scrivere cose sue: nasce così Da Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille, pubblicata sempre dai tipi di Feltrinelli nel 1960, una prova narrativa che definisco importante per il piglio franco e vigoroso con cui si abbandona al puro piacere della narrazione, che segue le vicende della spedizione dei Mille dalla partenza da Quarto fino al momento in cui Garibaldi, l’amatissimo eroe del libro, abbandona il campo all’esercito dei Savoia. Traduce entusiasticamente entrambi i Tropici di Miller e scrive quello che diventerà il suo capolavoro: La vita agra.

Ilaria Muzzi, Il dilemma del prigioniero. Luciano Bianciardi e il disincanto del moderno, A dissertation submitted to the Graduate Faculty in Comparative Literature in partial fulfillment of the requirements for the degree of Doctor of Philosophy, The City University of New York, 2016, qui ripresa da academicworks.cuny.edu