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martedì 14 settembre 2021

Cantare mi ha salvato la vita


Una chiamata fuori dalla cella poteva essere il segno della fine. Fuggito nel Ferrarese dalla sua città, braccato come ebreo, rinchiuso nel penitenziario di Codigoro nel dicembre del 1944, la confusione dei mesi che precedettero lo sfondamento da parte degli Alleati della linea Gotica aveva fatto finire quel ragazzo alla soglia dei 18 anni fra i detenuti comuni. Ma quanto sarebbe durata? In quel giorno freddo e cupo la differenza fra la vita e la morte era un soffio e infatti si rivelò tale. Spinto nei corridoi dai brigatisti neri, cacciato in uno stanzone, quel ragazzo capì allora che cantare può segnare una vita e anche salvarla. Su un palcoscenico improvvisato e malamente illuminato gli dissero di intonare qualcosa.
Di fronte a lui giovani feroci e disperati, ormai consapevoli di come sarebbe finita la guerra sbagliata che avevano combattuto e di come molti sarebbero stati chiamati a pagare per i crimini commessi sulla popolazione civile. Se siamo qui a parlarne, sospesi quasi settant’anni dopo nella luce sfavillante del monte Generoso e della valle di Muggio, in un sereno rifugio elvetico arrampicato sopra Chiasso, subito al di là del confine con l’Italia, è perché quella di Teddy Reno, divo degli anni ruggenti della ricostruzione, cantante, industriale discografico e scopritore di talenti, fu una storia a lieto fine.
Cosa si prova a passare dal terrore alla salvezza?
Evidentemente sollievo - risponde serio - ma vorrei dire che in quei giorni vidi giovani della mia età cui vennero da un momento all’altro i capelli bianchi. Eravamo ricercati, sfuggiti da Trieste e rifugiati in campagna grazie alle conoscenze di mio padre, l’ingegner Giorgio Merk, direttore generale delle industrie Arrigoni che da quelle parti avevano uno dei tanti stabilimenti. In quei mesi terribili si doveva solo sparire e attendere. Mia madre, ebrea, era ammalata e miracolosamente scampò alle ricerche. Mio padre e io infine fummo tratti in arresto come sospetti. I brigatisti neri mi costrinsero a cantare quello che potevano ascoltare i giovani nella Repubblica sociale, Lili Marlene, Camerata Richard, Vento portami via con te. Ero terrorizzato, non so dove ho trovato le forze. Il mio debutto fu la mia salvezza, mi salvò la vita. E da allora salire su una scena non mi ha più fatto paura.
Perché le chiesero di cantare?
Mi avevano sentito durante l’ora d’aria, quando i detenuti potevano allontanarsi un minimo dalla cella. Cantavo per ingannare il tempo, per non impazzire. Mi mancava da morire la radio clandestina che usavo per imparare l’inglese e per sapere cosa accadeva nel mondo libero. Quando vennero a prenderci ero riuscito per miracolo a far sparire tutti i miei appunti sugli orari dei programmi preferiti. E in carcere gli altri detenuti, molti erano dei semplici delinquenti comuni fra i quali cercavamo di mimetizzarci, mi battevano le mani. Pochi giorni dopo eravamo miracolosamente liberi, nella confusione generale eravamo riusciti a tornare nel nostro rifugio in campagna. Tornai a cantare solo quando vidi il primo soldato inglese. La fine della guerra offrì ai sopravvissuti l’occasione di partecipare a una stagione densa di speranze. Finito il conflitto rientrammo a Trieste. La città che aveva lungamente sofferto ed era rimasta sotto la diretta dominazione tedesca tornava alla vita, affrontando un incredibile decennio di amministrazione angloamericana e tornava ad essere un vulcano, un luogo di incontro di genti diverse e ricche di progetti. Ma soprattutto i militari inglesi e americani con le loro band portavano fra la gioventù un nuovo modo di vedere la musica e il divertimento. 


Teddy Reno naturalmente è un nome d’arte che nacque in quegli anni. Qual’è il suo vero nome?

Da bambino il mio nome era Ferruccio Merk, poi il cognome divenne Ricordi. Oggi sono Ferruccio Merk-Ricordi.
Perché questa mutazione?
Il fascismo decise, ancora prima di varare le leggi razziste del 1938, di italianizzare il cognome dei cittadini che portavano cognomi di origine non italiana. La famiglia di mio padre proveniva da un’antica stirpe dell’impero austroungarico. Da Merk il cognome fu tradotto in Ricordi. Mia madre, Paola Sanguinetti, veniva da una famiglia ebraica romana di industriali che possedevano le fabbriche di conserve alimentari Arrigoni, dove mio padre lavorava come direttore. Il cognome originario è tornato alla luce quando nel 1968 mi sono trasferito in Svizzera. Le autorità elvetiche hanno voluto vedere tutti i documenti e hanno cancellato gli effetti di quel provvedimento che negli anni Trenta ci aveva tolto il nostro vero cognome.
Lei da oltre quarant’anni risiede in Svizzera. Perché?
Sono arrivato in Svizzera mentre infuriavano le polemiche per la mia relazione con Rita Pavone. Lei era molto più giovane di me e io ero già sposato. Volevo sposarmi nuovamente con Rita e a Lugano è stato possibile. Da allora ci siamo fermati in Canton Ticino, un luogo pieno di fascino e di tranquillità, solo a un passo dal confine con l’Italia. Qui sono nati i nostri figli Alex, giornalista radiofonico alla Radio della Svizzera italiana e Giorgio, musicista (dal matrimonio con la mia prima moglie Vania Protti era nato precedentemente l’altro mio figlio, l’attore e regista Franco Ricordi).
E Teddy Reno?
Teddy Reno è nato quando dopo la guerra ho cominciato a cantare nei locali e a Radio Trieste. Avevo ormai deciso di fare il cantante e il musicista. Ma la vera svolta è stata quando sono riuscito a convincere Lelio Luttazzi a venire a Milano con me per fondare assieme una casa discografica. Lo conoscevo appena e lui mi rispose semplicemente: “Sì, andemo”. Era il 1947, avevamo appena vent’anni e tutti ci presero per matti.
E a Milano come andò?
Quando prendemmo un ufficio nella mitica Galleria del Corso, dove avevano sede tutte le case musicali di allora, credevano che fossimo due ragazzini allo sbaraglio. Ma la Compagnia Generale del Disco che avevo fondato con pochi accorgimenti divenne in breve uno dei protagonisti del mercato discografico italiano. Mi aiutò lo spirito imprenditoimprenditoriale ereditato dalla famiglia e anche una certa attenzione per quello che avveniva oltre le frontiere. Quando i dazi tenevano ferme anche per anni le novità discografiche americane noi eravamo rapidissimi a lanciare l’edizione pubblicata in Italia delle stesse canzoni. Cui aggiungevamo composizioni nostre e di nostri amici e repertorio tradizionale italiano.
Com’era l’industria musicale di allora?
Fra il 1948 e il 1961 mi sono affermato come interprete del genere confidenziale con canzoni di grande successo come Addormentarmi così, Trieste mia, Muleta mia, Aggio perduto o’ suonno, Accarezzame, Na voce na chitarra e o’ poco e’ luna, Chella lla, Piccolissima serenata. Nacquero nuove amicizie, alleanze con personaggi straordinari, come l’imprenditore musicale di origine ungherese Ladislao Sugar e innumerevoli altri protagonisti di allora. Mia madre, sulle prime disperata di avere un figlio cantante di musica leggera, fu infine conquistata dalla fama che mi ero guadagnato e a un certo punto l’ho colta vantarsi con qualche amica: “Sono la mamma di Teddy Reno”.
Oltre ai successi personali e in seguito a quello, travolgente, di Rita Pavone lanciata da un concorso per voci nuove inventato da Teddy Reno, lei ha messo assieme una folgorante carriera di attore, di showman radiofonico e televisivo concentrandosi infine sulla sua sulla capacità di scoprire i talenti dei più giovani.
Una passione che dura ancora oggi. Sia Rita che io stiamo organizzando iniziative che rilancino la canzone italiana. Fra pochi giorni, all’inizio di maggio, in migliaia di scuole italiane prende avvio la Festa di Gian Burrasca. Io sto lavorando anche su “Forza canzone d’Italia nel mondo”, un tour di 20 capitali mondiali per trovare nel mondo dei milioni di italiani che vivono all’estero l’ispirazione che faccia rinascere la grande musica leggera italiana.
La musica italiana è in crisi?
Chi si trova all’estero e accende una radio può facilmente constatare che oltre il 90 per cento della musica italiana trasmessa risale a molti anni fa. Evidentemente abbiamo perso terreno. Alla soglia degli 85 anni, ha ancora voglia di cantare?
Altro che. Anzi, non so come, ma mi sembra che mi sia anche migliorata la voce.
E alla festa del Libro ebraico di Ferrara, dove il 9 maggio è ospite d’onore assieme all’attore Arnoldo Foà, canterà?
Se mi hanno invitato forse se l’aspettano. Cantare mi ha salvato la vita, mi ha aiutato a superare gli anni difficili della mia gioventù, mi ha regalato il successo. Perché mai dovrei farne a meno?
Guido Vitale, Pagine Ebraiche, maggio 2011
Guido Vitale, Teddy Reno: “Ero braccato, la voce mi ha salvato la vita”, Stori@ il blog di Mario Avagliano, 9 maggio 2011 


venerdì 10 settembre 2021

Eppure l’Italia era tutta lì


Fonte: M. Bresciani, Op. cit. infra *

* M. Bresciani, Op. cit. infra: "Figura 1. Il rifugio svizzero (1943-45). Per ciascun personaggio si indica una sola sede di esilio, la più notevole o quella del soggiorno più prolungato; si privilegiano quindi le dimore stabili invece che i campi di smistamento o di quarantena (Adliswil, Balerna, Ringlikon, ecc.) dove i profughi furono condotti al loro primo ingresso nella Confederazione. Si tenga comunque presente che, per gran parte dei nomi censiti, i traslochi per ragioni politico-burocratiche furono frequenti. In maiuscoletto i personaggi esuli dall’Italia prima del 25 luglio 1943, ossia con il recollocazioni doppie o multiple riguardano unicamente i docenti e gli studenti dei corsi tenuti nei campi d’internamento per ufficiali (ad esempio Mürren), nei campi universitari (Friburgo, Ginevra, Losanna, Neuchâtel) o nei campi liceali di Davos e Trevano. I professori e gli studenti sono stati rappresentati con un simbolo".

La rappresentazione più sfaccettata della minoranza attiva che fece la Resistenza va cercata nelle pur effimere vicende della Repubblica partigiana dell’Ossola, instaurata tra il 10 settembre e il 23 ottobre 1944: nella sua giunta era commissario per la stampa e il collegamento con l’autorità militare Mario Bonfantini, francesista, socialista, il quale tenne lezioni di storia moderna per la cittadinanza di Domodossola fino all’ultima sera della Repubblica. Intorno a quella esperienza partigiana gravitarono inoltre lo scrittore Franco Fortini, il filologo Gianfranco Contini (autore con l’italianista Carlo Calcaterra del programma scolastico), il poeta Sandro Sinigaglia e il già menzionato Concetto Marchesi. Il 15 ottobre - poco prima che la Repubblica cadesse sotto l’assedio fascista - Contini riuscì a dare alle stampe il quarto numero della rivista «Lettres»; era dedicato alla letteratura italiana contemporanea, da Saba a Ungaretti, da Montale a Penna, da Gatto a Vittorini, tradotti in francese per l’occasione: del comitato redazionale della rivista faceva parte Jean Starobinski, a sua volta in stretto contatto con Fortini.
«La faccenda dell’Ossola, in settembre-ottobre, fu una cosa molto umana e importante. Abbiamo vissuto nell’ossigeno della libertà - esperienza che è certo mancata a tutti gli altri italiani. Unanimità, entusiasmo collettivo, esaltazione. Sono tornato al momento della seconda liberazione, per alcuni giorni, e ho visto la differenza di potenziale, la sfiducia, l’atonia, il psichismo amorfo e meschino, l’arrivismo dei botoli. Inutile dire che i migliori hanno totalizzato calci nel sedere. Già erano dei mazziniani: Tibaldi, presidente della Giunta provvisoria, Facchinetti, organizzatore da Lugano, ecc. Eppure l’Italia era tutta lì, in quei mesi e forse non si può ritrovarla altrove».
Più che il senno della delusione di poi va rimarcato, in questa lettera di Contini a Gianfranco Corsini - la data è il 21 agosto 1945 -, il calore di un presente vissuto, e anzi moralmente delibato. È una temperatura etica (e religiosa: la parola entusiasmo va intesa nel significato etimologico) tale da rintuzzare un argomento forte della storiografia revisionista: quello secondo cui le rade minoranze impegnate, nei venti mesi della guerra civile e nei primissimi anni della nuova Repubblica italiana, in un tentativo di palingenesi etica, di completa rifondazione dei costumi privati e pubblici, erano cupe minoranze di punitori di se stessi e del prossimo loro.
Vera e propria retrovia della Repubblica dell’Ossola fu la neutrale Svizzera, dove Contini, che dal 1938 vi insegnava filologia romanza all’Università di Friburgo, riprese le sue lezioni dopo la fine dell’esperienza partigiana. A seguire il grande filologo troviamo, fra gli altri, Dante Isella e Giansiro Ferrata, i quali, con Puccio Russo, figlio dell’italianista Luigi, realizzarono allora una traduzione a sei mani di A Farewell to Arms di Hemingway (poi pubblicata nel 1946 da Mondadori), romanzo la cui circolazione era proibita sotto il fascismo. Non è perciò sorprendente che, nell’Italia lacerata dalla guerra civile, fossero in corso altre tre traduzioni del capolavoro dello scrittore americano, centrato sulle traumatiche esperienze della prima guerra mondiale sul fronte italiano, intorno alla disfatta di Caporetto: una di Giorgio Bassani (realizzata nel 1943 e mai data alle stampe), una di Bruno Fonzi (la prima a uscire, nel dicembre 1945, presso l’editore romano Jandi Sapi), un’altra ancora di Fernanda Pivano (pubblicata anch’essa da Mondadori nel 1949; Pivano era stata arrestata a Torino, nel 1943, proprio a causa di questa traduzione clandestina).
Il fervore culturale della Svizzera non si limitava certo a Hemingway. Nel biennio 1943-45 essa accolse 45 000 italiani: oltre 29 000 militari e circa 15 000 civili (il maggior gruppo nazionale di profughi), tra i quali gli ebrei erano quasi la metà. Della Confederazione presentiamo una mappa (fig. 1) che ne fotografa la situazione complessiva di rifugio dell’antifascismo.
Il giovane editore Giulio Einaudi, riparato a Losanna, la definì «una sorta di limbo»; qui si è scelto di metterne in rilievo alcuni aspetti legati alla formazione della futura classe dirigente di un paese libero. Molti dei rifugiati sono infatti giovani militari, renitenti alla leva di Salò e destinati a divenire personaggi di primo piano nella vita intellettuale italiana del dopoguerra, come Luigi Comencini e Alberto Vigevani, direttori del giornale socialista ticinese «Libera Stampa ». Per altri invece (come ad esempio Altiero Spinelli o Umberto Terracini) la Svizzera è un asilo temporaneo, da cui ritornare in Italia per riprendere la lotta antifascista clandestina.
Il nucleo delle attività politiche antifasciste, che si svolgono soprattutto fra Bellinzona e Ginevra, è il Movimento federalista europeo di Ernesto Rossi e di Spinelli, con i quali collabora Adriano Olivetti: in quei mesi e in quei luoghi si discute dell’assetto di una futura Europa democratica e federalista.
Per altri ancora - giovanissimi e anziani - la Svizzera rappresenta un’opportunità, incongrua ma sfruttata pienamente, per insegnare e per studiare al livello più alto.
Campi universitari per i militari italiani vengono allestiti a Friburgo, a Ginevra, a Losanna, a Neuchâtel. Per limitarsi ai docenti di Losanna, intorno al rettore Gustavo Colonnetti, ingegnere, troviamo Luigi Einaudi, Amintore Fanfani, Stefano Jacini, Concetto Marchesi, Eugenio Mortara, Ernesto Nathan Rogers. Quanto agli allievi, il futuro pittore Enrico Baj e il futuro regista Dino Risi seguono corsi di medicina a Ginevra; nella stessa città studia diritto Giorgio Strehler, che intanto mette in scena Le tre sorelle di Cechov a Mürren, campo di internamento ufficiali dove studiano anche Franco Brusati e Livio Garzanti, e dove insegna il poeta Diego Valeri. Vico Magistretti, studente di architettura a Losanna, si prepara a diventare uno tra i maggiori designer del dopoguerra italiano, mentre ancora a Ginevra, nel 1944, il ventiquattrenne d’Arco Silvio Avalle è assistente di letteratura italiana nel campo universitario, dove si trova internato come pilota dell’aviazione.
Ma il percorso svizzero più tortuoso, e perciò stesso esemplare, è quello di Piero Chiara: nel febbraio 1945 il futuro autore de Il piatto piange sostituisce Giancarlo Vigorelli sulla cattedra di italiano, storia e filosofia dell’Istituto Montana di Zugerberg, mentre già dall’agosto precedente lavorava (grazie al vescovo di Lugano) come bibliotecario nell’Istituto Maghetti presso Mendrisio. Chiara era entrato nel territorio della Confederazione il 23 gennaio 1944: all’arrivo lo avevano atteso il carcere, vari campi di raccolta per profughi e una successione di campi di lavoro dove aveva prestato servizio come sguattero, addetto alle latrine, uomo di fatica nei giacimenti di torba.
Marco Bresciani (con Domenico Scarpa), Gli intellettuali nella guerra civile (1943-1945), in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. III. Dal romanticismo a oggi, Einaudi, 2012, pp. 703-717

lunedì 6 settembre 2021

Torino nella Resistenza

Un volantino tedesco del settembre 1943 rivolto ai soldati italiani - Fonte: Mostra fotografica: La Primavera della Libertà (1940-1945). Un borgo in guerra. La guerra, i bombardamenti, la resistenza, i partigiani e i caduti della Circoscrizione 6, Torino, ANPI VI circoscrizione, Auser, CGIL SPI, (1995) 2013

Un altro volantino tedesco - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

L’8 settembre 1943 il Piemonte viene occupato dalle truppe tedesche. Le violenze compiute nei confronti della popolazione civile (l’incendio di Boves vicino a Cuneo) e contro gli ebrei (gli eccidi sul lago Maggiore e le deportazioni di Borgo S. Dalmazzo) concorrono a determinare rapidamente un clima di terrore e di radicale ostilità in cui maturano le condizioni della resistenza armata. Torino ben presto diventa la sede naturale dell’attività clandestina per due ragioni evidenti: il peso naturale di un capoluogo regionale che si presenta con i tratti della grande città industriale, che porta dentro di sé, soprattutto nelle fabbriche che innervano il tessuto urbano, la tradizione antifascista e la memoria dei conflitti del primo dopoguerra. Ma Torino è anche il luogo che nella regione ha subito le conseguenze più gravi della guerra e, in particolare dall’autunno 1942, il peso devastante dei bombardamenti angloamericani. Le distruzioni e le morti, dopo le delusioni della guerra fascista, hanno finito con il segnare il distacco dal regime e dall’idea stessa della guerra. La pace diventa l’attesa e la speranza della popolazione: l’occupazione tedesca, sentita come aggressione, è vista anche come perdita, caduta della speranza di pace, così come la proposta politica della Repubblica Sociale, voluta da Hitler, nel sentire comune viene rifiutata, prima ancora che per dissenso ideologico antifascista, perché significa la continuazione della guerra accanto all’«alleato» tedesco. Questo elemento di fondo non va mai dimenticato perché fornisce all’opposizione clandestina, al di là dei contrasti fra le diverse componenti che costituiscono il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), un solido terreno comune. Il nemico è il tedesco, non più alleato ma invasore; il nemico è il fascista della Repubblica Sociale, collaboratore dei tedeschi, nemico interno pericoloso e odiato. Ciò fa sì che il movimento clandestino, oltre ad avere una notevole estensione e diffusione nella città, abbia anche una grande capacità di attrazione verso l’esterno: tutte le organizzazioni politiche e le formazioni partigiane avranno in Torino il centro «naturale» di riferimento e coordinamento. Accanto a queste motivazioni forti sul piano politico militare e psicologico, esistono altre ragioni, meno evidenti e tuttavia importanti, che possono spiegare la capacità di irraggiamento e coinvolgimento che Torino ha nei confronti di un territorio ampio. In particolare verso le vallate alpine che a occidente dal confine con la Francia si aprono verso la pianura, avendo come punto di attrazione convergente proprio il capoluogo regionale. Queste valli, allora molto più di oggi abitate anche a quote relativamente elevate, hanno rapporti con la città che derivano da fenomeni in atto da tempo, ma anche rapporti nuovi, nati con la guerra.
Tra i fenomeni che agiscono e rendono stretto il rapporto tra Torino e le vallate alpine in cui si insedieranno numerose e forti formazioni partigiane, il primo è costituito dai flussi migratori dalle valli alpine verso il fondovalle e verso la città capoluogo. Avviatisi nella seconda metà dell’Ottocento, questi movimenti si incrementano all’inizio del Novecento quando lo sviluppo industriale di vari settori richiama dalle valli operai artigiani che si occupano nelle fabbriche, ma anche molte persone, uomini e donne, occupate nei servizi. Migliaia di persone e migliaia di famiglie che fanno crescere Torino, ma che mantengono con le valli riferimenti e collegamenti. Lo sviluppo rapido, quasi violento dell’industria, in primo luogo l’industria meccanica nel corso della prima guerra mondiale, accelera il fenomeno che si attenuerà, senza tuttavia interrompersi, nel corso degli anni Trenta in conseguenza del controllo della mobilità sul territorio esercitata dal regime. Il fenomeno riprenderà slancio tra il 1939 e 1942, stimolato dall’incremento dell’attività delle industrie torinesi legate alla produzione bellica. La città si gonfia di presenze temporanee e permanenti.
 

Le conseguenze dei bombardamenti in Via Boito a Torino - Archivio Vigili del Fuoco - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

Una bomba d'aereo, inesplosa a Torino - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

Lo scatenarsi dei bombardamenti sulla città dal novembre 1942 invertirà rapidamente il movimento. Lo sfollamento coinvolge migliaia di persone e di famiglie, che abbandonano la città per trovare scampo nei centri minori. Una cospicua parte di sfollati troverà ospitalità nelle valli alpine, proprio in quei paesi che in anni non lontani erano stati abbandonati. Il dato interessante è che lo sfollamento ha almeno due volti: uno permanente che coinvolge quella parte della famiglia che non ha attività continue nella città, e una parte invece mobile, che riguarda i lavoratori e quanti hanno attività in città. La mobilità può essere giornaliera per chi può raggiungere in tempi ragionevoli di percorso (fino a due ore di viaggio) i centri di residenza. Riguarda i lavoratori dell’industria, degli impieghi e dei servizi, ma anche settori della borghesia produttiva (impiegati, commercianti, professionisti) che hanno nelle valli le residenze usate per le vacanze estive e invernali e che ora diventano la residenza principale, mentre la casa in città diventa secondaria. Si crea un artificiale rapporto tra città e campagna, uno scambio forzato che non si limita alle residenze ma coinvolge molti settori della vita quotidiana a cominciare dall’organizzazione del tempo, all’alimentazione, agli spostamenti che le strutture cittadine sconvolte dalla guerra e dalla sparizione dei beni di largo consumo non possono più garantire.
In questo territorio sconnesso si inserisce l’iniziativa politico militare che ha una dimensione cittadina e una dimensione esterna alla città, ma con questa raccordata. Nascono le strutture militari e politiche di coordinamento regionale come il Comitato Militare Regionale Piemontese e il Comitato di Liberazione Regionale e una fitta rete di strutture militari cittadine come i Gruppi di azione patriottica, le Squadre di azione patriottica, coordinate dal Comando Piazza e verso la fine della guerra gli organismi di coordinamento dell’insurrezione; di organizzazioni politiche come i CLN di quartiere, di fabbrica, di scuola, coordinati dal CLN cittadino; le organizzazioni sindacali (i Comitati di agitazione e i Comitati sindacali), e di massa come il Fronte della Gioventù per i giovani, o i Gruppi di Difesa della Donna.
Fuori della città, nelle valli a ovest di Torino nascono i primi gruppi di resistenti, in forme inizialmente instabili e via via più solide fino alla complessa articolazione delle formazioni che scenderanno sulla città nei giorni della liberazione.
 

La formazione Mauri nell'estate 1944 in Valle Maudagna (CN) - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

Il rapporto che si stabilisce tra città e valli è quindi un rapporto articolato e complesso, fatto di movimenti e spostamenti che hanno regole interne, ma che sono sottoposti alla forza di eventi improvvisi. Sono perciò evidenti flussi di andata dalla città alle valli, verso le formazioni partigiane che controllano il territorio di montagna e di fondovalle. Ma esistono anche flussi di ritorno in cui la città diventa rifugio per i militanti clandestini perseguitati, per gli sbandati, per i feriti, per tutti coloro che hanno bisogno di un momento di riposo o di distacco.
 

Gruppo Stellina. Valle di Susa. IV Div. Alpina G. L. Duccio Galimberti. Archivio Istituto Storico della Resistenza Torino - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

Le fasi dei movimenti in uscita sono abbastanza definite: in una prima fase, tra l’autunno e l’inverno 1943, due sono le componenti individuabili. La prima è costituita dai militari che dopo l’armistizio cercano rifugio sulle montagne per sottrarsi alla cattura. La maggior parte si disperde rapidamente. Una parte minoritaria, ma significativa, dà invece origine a formazioni partigiane stabili come in Valle di Susa e Val Sangone o nelle valli valdesi. La seconda componente è alimentata dai militanti politici, soprattutto comunisti, azionisti, socialisti che mandano verso la montagna i giovani con l’obiettivo preciso di farne dei partigiani, dei combattenti a tempo pieno. Questi ultimi sono in prevalenza giovani operai che trovano nella fabbrica i contatti per salire nelle formazioni in montagna; sono ben riconoscibili i percorsi soprattutto verso le formazioni Garibaldi delle Valli di Lanzo o delle plaghe del Montoso e le formazioni di Giustizia e libertà.
 

Partigiani garibaldini in Langa - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

La seconda fase è quella travolgente della tarda primavera ed estate del 1944 in cui i flussi dalla città si fanno intensi e trasformano i gruppi e le piccole aggregazioni dell’inverno in formazioni numerose. Sono i giovani che si sottraggono alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale. Danno vita a una crescita rapida, spesso troppo rapida che rafforza, ma appesantisce le formazioni e le espone alle rappresaglie dei tedeschi. Il fronte delle Alpi occidentali diventa strategico per i tedeschi a partire dall’agosto 1944; non possono tollerare minacce alle loro linee di comunicazione nelle valli dove si insediano. Attaccano perciò pesantemente le formazioni partigiane, costringendole a spostarsi in aree meno minacciate, come la pianura o i sistemi collinari a est di Torino.
È in questa fase, soprattutto nell’autunno 1944, che una quota consistente di partigiani rientra in città e trova soluzioni di sopravvivenza nei quartieri popolari e spesso nelle fabbriche, in cui molti proprietari, che vedono ormai vicina la conclusione della guerra, sono disponibili a occuparli nelle aziende, dando loro la copertura necessaria per sfuggire alla cattura. Questa presenza di partigiani in città è un elemento di crescita organizzativa delle formazioni paramilitari che nel corso dell’inverno vengono costituite nelle fabbriche e nei rioni in vista dell’insurrezione. È anche l’elemento che incrementa la guerra di città con gli agguati nelle strade del capoluogo e purtroppo la triste sequenza dei caduti.
La terza fase si ha nella primavera del 1945, quando l’avvicinarsi della conclusione della guerra alimenta di nuovo le formazioni partigiane con ritorni e nuovi arrivi.
 

Trattoria Casa Bianca. Chialamberto. Maggio 1945. Accoglienza della popolazione ai partigiani. Archivio Istituto Storico della Resistenza Torino - Fonte: La Primavera della Libertà cit.

L’insurrezione è l’ultimo movimento: la discesa verso la città delle formazioni delle valli, quasi a ricomporre in pochi giorni un equilibrio che la guerra aveva rotto e trasformato. Vista così l’insurrezione appare come un movimento «naturale»; è invece un piccolo miracolo militare e soprattutto una straordinaria prova politica, che unisce in un unico sforzo coordinato e vincente la resistenza cresciuta negli spazi aperti delle valli e il movimento cittadino. Le manifestazioni che si svolgono a Torino nei giorni immediatamente successivi a una liberazione conquistata prima dell’arrivo degli alleati, danno visibilità simbolica al compito di guida politico-militare e morale giocato dalla città subalpina nella resistenza italiana.
Claudio Dellavalle, Torino, capitale subalpina della resistenza in Alpi in Guerra, La Memoria delle Alpi

mercoledì 25 agosto 2021

Chissà dove si andrebbe a finire, se tutti si mettessero a studiare veramente


Se temete di essere magnificamente avvincenti e pensate che troppo entusiasmo da parte degli ascoltatori/interlocutori possa nuocervi, potete far uso di particolari accorgimenti - alcuni, peraltro, di facile applicazione e alla portata di qualsivoglia oratore o didatta - in grado di smorzare l’attenzione, la curiosità, il piacere e quindi di riportare il tutto su un normale tono di comunicazione vacua e burocratica.
Un metodo sempre valido è quello che potremmo definire delle “letture obbligatorie”. Lo si può applicare nei più svariati contesti, non solo nella scuola dove probabilmente ha avuto la sua origine (un esempio classico sono i compiti per le vacanze - che delizioso ossimoro! - imposti prima dal prof e in seconda istanza da un genitore), ma nelle esposizioni, nei concerti, in famiglia. Negli anni ’70 era assai diffuso in molti gruppi politici, specie in quelli di estrema sinistra. Consiste nel porre un determinato compito, non necessariamente una lettura ma anche la stesura di un testo, la visione di un film, ec., come un qualcosa da doversi eseguire assolutamente, al di là di qualsiasi motivazione esposta in chiaro o di ogni convincimento personale, pena l’incorrere in gravi conseguenze, che possono andare dal subire severi rimbrotti e reprimende sino all’essere considerato un reietto e un rifiuto della società. In questa classe di fenomeni potremmo far rientrare le letture punitive, imposte al reo per ammenda. Le cosiddette pene alternative saranno alternative, e vabene, ma sicuramente sono anche pene, e la pena è cosa ben diversa dal sacrosanto impegno che un soggetto si auto-impone per arrivare ad un certo risultato, od approssimarvisi, o volutamente mancarlo per decisa deviazione atta ad ottenere altro risultato che il quel momento lo aizza e scatena vie più. Invece, l’obbligo ci farà dispiacere tutto il nostro lavoro, che cercheremo di portare a compimento il più velocemente possibile onde passare ad altre attività e rimuovere al più presto tutti gli eventuali elementi appresi (o, più che appresi, appiccicati lì, come poveri ditteri sulla carta moschicida).
Un altro metodo, oggi molto in voga, è quello di fare discorsi o tenere lezioni seguendo le indi-cazioni dei corsi di Public Speaking. Ora, come un racconto scritto da un tizio che ha appena fatto un corso di scrittura creativa lo intercetti subito per la sua fragranza di finto, di sciapo, di com’è ben scritto, così, un oratore che vuol essere accattivante e probabilmente ha studiato tanto all’uopo, lo noti già nei primi secondi di loquela. Muove le mani, sorride, ha una voce ben impostata. Non è importante quello che dice, è importante come lo dice. A volte fa uso di buffe espressioni, sgrana gli occhi, fa le faccine e le faccette, si avvicina e si allontana dal pubblico (o dalla videocamera), mette qui e là dei punti esclamativi. Dice cose facili, magari già note od ovvie, che quindi sono ben accette perché si riesce a capire tutto all’istante. Escogita degli stratagemmi comunicativi, una spiritosata qui, una parolaccia là, per colorire un po’ l’insieme. Lo vedi, che fa l’autocompiaciuto, scherza, si fa l’autobiografia oppure fa il satirico, parla come si mangia (però bene, eh!), ha la sicurezza e la verità in tasca. È aggressivo, deciso, mima il pensiero (apre le virgolette con le dita, le chiude), dice “piuttosto che” in luogo di “oppure”, fa premesse e promesse da imbonitore, magari fa un lunghissimo preambolo per creare un senso di attesa, buon erede dei ciarlatani e del dottor Dulcamara. Vuole attirare, coinvolgere la platea, suscitare emozioni. Il tedio è assicurato.
Se però voi volete davvero annoiare, e a lungo, allora l’uso delle diapositive - oggi digitalizzate e definite slides - resta per ora insuperato. Tu spieghi una cosa e intanto si vede la slide: una sorta di tabella dove ci sono scritte proprio le cose che stai dicendo tu. Le diapositive di cartoline o quadri, poi, che meraviglia. Si fanno avanzare automaticamente, quindi hanno tutte un uguale tempo di visione, si procede con lo stesso monotono ritmo. Non ti soffermi quanto vuoi, secondo i tuoi interessi, ma sei costretto a seguire passivamente lo scorrere delle immagini. Purtroppo Emilio Praga, in una delle sue cronache d’arte, ahimè, scrive:
"Come giungere ad ordinare questo miscuglio di tele che ci opprimono e ci schiacciano tra loro, quest’orgia di colori che mutualmente si insultano e si distruggono? Calcolarli in categorie, quadri di storia, battaglie, paesaggi, mi sa troppo di espediente farmaceutico, e poi diventano inevitabili i confronti, mezzo di critica di cui non è bello abusare. Convien lasciarsi trascinare dalle proprie impressioni, far come il pubblico, gironzolare di sala in sala, fermarsi là dove l’attenzione è attratta o da un difetto o da una bellezza? Io mi appiglierò a questo ultimo partito, che mi sembra il migliore e potrò seguirlo ora che , aperta a tutti quanti l’esposizione, c’è modo e tempo di potervisi attendare. Per ora rassegniamoci a camminar difilati dall’uscio d’ingresso a quello d’uscita, e ci basti notare, come sono notati in una guida i principali monumenti di una città, le tele che ci balzeranno prime e così di sfuggita allo sguardo. Nei seguenti articoli ritornando su questi nomi, vi aggiungeremo quelli dimenticati nella fretta, o sottrattisi alle nostre ricerche".
Bisogna evitare atteggiamenti come questi del Praga. Non date retta ai teorici del disordine. Tutto deve essere sminuzzato, distribuito in parti uguali, imposto. Altro che lasciare libertà agli interessi soggettivi. La gente rischierebbe di imparare, acquisire capacità critiche, magari con uno studio che diventa anche piacere. Ma figuriamoci, ma non diciamo corbellerie! Chissà dove si andrebbe a finire, se tutti si mettessero a studiare veramente.

Marco Innocenti, Come annoiare il pubblico in IL REGESTO (Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo), Sanremo (IM), anno XII N° 3 (47), luglio/settembre 2021

 

[altri scritti di Marco Innocenti: articoli in IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM); articoli in Mellophonium; Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; articoli in Sanremo e l'Europa. L'immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d'occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sandro Bajini, Andare alla ventura (con prefazione di Marco Innocenti e con una nota di Maurizio Meschia), Lo Studiolo, Sanremo, 2017; La lotta di classe nei comic books, i quaderni del pesce luna, 2017; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Sandro Bajini, Libera Uscita epigrammi e altro (postfazione di Fabio Barricalla, con supervisione editoriale di Marco Innocenti e progetto grafico di Freddy Colt), Lo Studiolo, Sanremo, marzo 2015; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sandro Bajini, Del modo di trascorrere le ore. Intervista a cura di Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2012; Sull'arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; articolo in I raccomandati/Los recomendados/Les récommendés/Highly recommended N. 10 - 11/2013; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; C’è un libro su Marcel Duchamp, lepómene editore, Sanremo 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006]


sabato 21 agosto 2021

Sul vento proteso a cavallo


Si è già potuto notare come lo spazio cittadino assuma nei Frammenti lirici reboriani un ruolo centrale, diventando il polo opposto al paesaggio montano <169, nonché, nella sua dimensione notturna, un luogo sinistro dai rumori assordanti, spesso emblema della mercificazione del vivere. Più in generale, se si considerano i Frammenti nella loro totalità, è possibile notare come sussista una interessante corrispondenza tra le descrizioni d’ambiente cittadine e l’idea di moderno che esse mirano a veicolare, in una sorta di legame profondo tra lo spazio fisico e le sensazioni emotive, le contraddizioni, le ansie e i dubbi tipici del mondo contemporaneo. Già si era notato, analizzando il frammento XLV, come l’io che camminava di notte lungo le vie gremite di botteghe lucenti cercasse di definire la propria identità in un difficile processo di incontro con l’alterità cittadina che lo spingeva a preferire le zone oscure in cui tali angoscianti domande erano messe a tacere. Ne derivava una sorta di distanza tra il soggetto e la realtà esterna che rendeva difficile il processo di identificazione con questa, in un conflitto vivo, continuamente mutevole e sottoposto a ridefinizioni. Ecco dunque che, se la città novecentesca diviene il luogo in cui l’io cerca di definirsi e comprendersi, questo risulta una figura sempre in tensione che, come ha osservato la critica, deve in continuazione misurarsi con un mondo variegato e in crescita. <170 La città diviene quindi, in primo luogo, il simbolo della modernità in cui l’uomo non può più seguire il ritmo cadenzato, stagionale, della vita di campagna, ma si trova a confrontarsi con uno spazio sempre più esteso, difficilmente delimitabile e quindi comprensibile. Ecco dunque che:
"Le città dei secoli passati, odiate o amate che fossero, erano entità ben definite, situate generalmente in posizioni strategiche sul territorio e rinchiuse all’interno di mura di cinta e fortificazioni. Quando tra l’Otto e il Novecento le città cominciano ad assumere il carattere di metropoli, esse costrinsero l’individuo a confrontarsi con un orizzonte che arretrava in continuazione e con uno spazio sempre più esteso. <171
L’uomo nel Novecento perde dunque i punti di riferimento: ciò che prima è circoscritto e definito secondo una struttura conosciuta adesso diviene ambiguo; non sussiste più un confine che possa segnare con esattezza l’ambiente urbano, questo si è espanso oltre le sue barriere, inglobando una parte della campagna. È ciò che accade nel frammento III nel quale il moto del temporale sembra procedere facilmente dalla città alla campagna, in una sorta di legame spaziale tra le due realtà che impedisce di delimitare con facilità il termine di quest’ultima. La sensazione che viene a crearsi è quella di una vasta spazialità sebbene il poeta mantenga ben distinte le due entità: quella cittadina e quella rurale. Si considerino i seguenti versi:
Dall’intensa nuvolaglia […]
piomba il turbine e scorrazza
sul vento proteso a cavallo
campi e ville, e dà battaglia;
ma quand’urta una città
si scardina in ogni maglia,
s’inombra come un’occhiaia,
e guizzi e suono e vento
tramuta in ansietà
d’affollate faccende in tormento:
e senza combattere ammazza
<172
Qui la contrapposizione tra campagna e città viene evidenziata dall’avversativa, che nota come il temporale personificato sia libero di “scorrazzare” nei vasti prati campagnoli mentre è costretto ad incanalarsi nelle strettoie cittadine, perdendo in un certo senso la libertà che prima possedeva nel movimento tra gli edifici. Sebbene l’immagine della città superi lo spazio limitante delle mura <173, in un’accezione moderna dello spazio, questa viene percepita come distinta dal mondo di campagna, dove la natura sembra integrarsi più facilmente, esprimendosi con libertà in tutte le sue manifestazioni. Ecco dunque che nella città il turbine si trova a dover sottostare alle anguste e strette vie degli edifici, a spazi più ristretti e non agevoli, che mal si adattano alla sua presenza. Si noti inoltre come il frammento faccia affiorare un differente ritmo interno per le due tipologie di spazio: nel primo caso il vento viene paragonato ad un cavallo al galoppo e il paesaggio è pervaso dunque da suoni scanditi, ameni nella loro ritmica cadenza; nel secondo caso, invece, i rumori generati dall’incontro con gli edifici portano ad un’incalzante ritmo che aumenta sempre più dando vita a frenetici e sovrapposti rumori. Come è stato infatti osservato dalla critica, nel Novecento:
"i ritmi cadenzati della campagna vengono rapidamente sostituiti dai ritmi dissonanti della città, dove il ruolo dell’io è caratterizzato dall’indeterminatezza, contro uno sfondo dinamico e sempre mobile" <174
In questa situazione l’io si trova dunque perso nella vertiginosa vita cittadina, di qui forse il tormento e l’ansietà di cui parla il soggetto negli ultimi versi.
[...] Ecco dunque che Rebora, in questo frammento, riesce ad identificare una delle essenze del contesto urbano moderno: il brulicare di persone che si muovono nelle vie sempre affaccendate nei più disparati lavori, intente ad eseguire con ansia le proprie mansioni. Analogamente l’immagine di una città moderna, caotica e allo stesso tempo fortemente massificata, viene presentata anche nel frammento XXXVI in cui l’autore descrive le figure degli studenti intenti a recarsi a scuola come il «gonzo pecorume/dei ragazzi di scuola» <175, i quali possiedono «palloncini sugli spaghi» e «oscilla/ dai corpi smilzi il vuoto delle teste». <176 Al di là del particolare sguardo critico nei confronti dello studente poco diligente, immagine che non è certamente prerogativa del Novecento, si può dire che qui Rebora sottolinei l’idea di una modernità che massifica, figurata nel prototipo del ragazzo che non riflette e si appresta a seguire per consuetudine le tendenze dei compagni. Analogamente anche nel frammento LXVIII l’autore parla di «genti della gran plebaglia» <177 che seguono l’Utile senza porre in primo piano i veri valori, in una concezione fortemente critica della vita massificata dedita soltanto al guadagno. Ecco dunque che la città, nel caos delle cose, diventa l’ambiente in cui l’io facilmente perde l’identità dato che fisicamente si eclissa nella confusione indistinta di questa. Tale processo può essere spiegato anche come una conseguenza del continuo mutamento del contesto urbano stesso, che spinge il soggetto a doversi adattare a situazioni e spazi nuovi impedendogli di fissarsi in una forma specifica. Già era stato notato, infatti, come i ritmi cittadini, dalla sostenuta velocità, riducessero l’uomo ad un individuo costretto a sottostare ad un ritmo incalzante, delirante, spesso ciclico ed uguale a se stesso.
169 Sull’immagine della città come «polo negativo, distante dall’idea» si veda Giorgio Bàrberi Squarotti, La città di Rebora, cit., p. 42.
170 Laura Incalcaterra Mcloughlin, Spazio e spazialità poetica, Leicester, Trobadour Publishing, 2005, p. 17.
171 Ivi, p. 19
172 Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 97.
173 Cfr. Laura Incalcaterra McLoughlin, Spazio e Spazialità poetica, cit., p. 19.
174 Ivi, p. 22.
175 Clemente Rebora, Frammenti lirici, a cura di Gianni Mussini e Matteo Giancotti, cit., p. 428.
176 Ibidem.
177 Ivi, p. 751.

Anna Tieppo, “Ad ogni poesia fare il quadro”: figurazioni del paesaggio naturale e urbano nei «Frammenti lirici» di Rebora, nei «Canti orfici» di Campana, in «Pianissimo» di Sbarbaro, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2015/2016

mercoledì 11 agosto 2021

Pastonchi trova posto in antologie straniere di poesia italiana moderna

Francesco Pastonchi - Fonte: Wikipedia

Il 24 giugno 1933 Alessandro Pellegrini <1 scrive a Vjačeslav Ivanov che il poeta ligure Francesco Pastonchi scriverebbe “forse” per il numero speciale del “Convegno” a lui dedicato “alcune pagine, quasi un ritratto, impressioni personali” tratte dalle loro conversazioni. Le pagine di Pastonchi su Ivanov non sono mai state pubblicate e, probabilmente, neanche mai scritte; tutto ciò che rimane dell’incontro di queste due figure sono quattro lettere di Pastonchi conservate all’Archivio Romano di Ivanov (RAI) insieme ad una bozza di risposta di quest’ultimo, che coprono un arco temporale dal 1932 al 1935.
Se non possiamo avvalerci delle “impressioni” di Pastonchi su Ivanov per capire quanto i due condividessero in ambito artistico, è senz’altro utile tracciare il ritratto di Pastonchi per scoprire quali ruoli abbia rappresentato nel panorama letterario italiano della prima metà del XX secolo.
Giuseppe Francesco Flaminio Pastonchi nasce nel 1874 a Riva Ligure, <2 ma - pur restando sempre affettivamente e culturalmente legato alla terra natia - deve la sua formazione all’ambiente intellettuale della Torino dell’ultimo decennio dell’Ottocento. Qui frequenta la facoltà di Lettere sotto la guida di Arturo Graf (1848-1913) e diventa presto noto per l’abitudine di declamare in pubblico versi propri e altrui; conosce altri protagonisti della scena letteraria italiana come Giovanni Cena, Ferdinando Neri, Giulio Bertoni, Massimo Bontempelli <3 e nasce in lui “l’amore per la forma definita” in poesia, <4 ovvero per quella ricercatezza metrica che sarà sempre il suo vero tratto distintivo: <5 'gli interessava esclusivamente un ideale carducciano (e dannunziano) di far della poesia una pratica, né estetica né filosofica, ma metrica e linguistica: una pratica che quasi si risolve tutta nella parola, scelta e collocata là dove il “numero” la dispone'. <6
Appena diciottenne pubblica una prima raccolta di poesie intitolata Saffiche (1892); questo lavoro, le tre canzoni A mia madre (1900) e la poesia civica delle odi Italiche (1903) sono considerati “esercizi di buona scuola carducciana”, mentre La Giostra d’Amore e le Canzoni (1893-1895), <7 definite anni dopo da Pastonchi stesso “saggi metrici”, <8 risentono dell’influenza dei dannunziani Isotteo, Intermezzo e Chimera, sebbene vi sia poco di veramente “preraffaellita” e “stilnovista”. <9
Una delle migliori prove di quella che viene definita la ‘prima stagione lirica’ di Pastonchi sono sicuramente i sonetti di Belfonte (1903), salutati dal critico e scrittore Ugo Ojetti (1871-1946) come uno splendido esempio di “italianità”, perché scritti in quella che è la forma “più precisa, più singolare, più perfetta” e “più eterna” della poesia italiana, appunto il sonetto, rispetto alle “novità vandaliche” dei poeti dell’inizio Novecento. <10
Pensieri intimi, quelli di Belfonte, fusi a paesaggi italici, in particolare di montagna, una lotta tra io “randagio” e “fraternità universale”, cui seguono due anni dopo le limpide liriche di Sul limite dell’ombra (1905). Qui “come pochi suoi contemporanei” Pastonchi si lascia “incantare dall’abbagliante e transitorio fascino dell’impressionismo”, <11 per poi tacere qualche anno e riapparire con la meno riuscita raccolta Il pilota dorme (1913), influenzata stavolta dal più giovane Guido Gozzano (1883-1916). <12
Con queste raccolte Pastonchi trova posto in antologie straniere di poesia italiana moderna insieme ai grandi poeti cui si ispirava (Carducci, Pascoli, d’Annunzio) e ad Antonio Fogazzaro (1842-1911), Arturo Graf e Corrado Govoni (1884-1965); <13 rappresenta l’Italia con Pascoli, d’Annunzio e pochi altri in manuali di poesia contemporanea accanto a Poe, Swinburne, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud e Claudel. <14
Oltre che poeta, Pastonchi è attivo critico letterario e saggista fin dagli anni Novanta del XIX secolo sulle pagine di giornali e riviste. Collaboratore costante, dal 1901 fino alla morte, del “Corriere della Sera”, è anche fondatore di periodici di arte e letteratura quali “Il Piemonte” (1903) e “Il Campo” (1904-1905). Per il suo impegno di giornalista e scrittore trascorre quasi tutta l’esistenza negli ambienti intellettuali di Torino e Milano, ama talora allontanarsi dalla città per riposare in località meno mondane o nei piccoli paesi della nativa Riviera.
È proprio nell’amata Liguria che il poeta ha contatti con la folta colonia russa, avendo modo di frequentare la famiglia del cugino, il deputato sanremese Paolo Manuel-Gismondi, che sposa nel 1927 la pittrice Anna Svedomskaja. <15
Nei dintorni di Antibes incontra il granduca Dmitrij Pavlovič Romanov (1891-1942), complice nell’omicidio di Rasputin del principe Feliks Jusupov (1887-1967), <16 e Sergej Djagilev (1872-1929) durante le tournées dei Ballets Russes a Monte Carlo, nella villa del noto medico Sergej Voronov. <17
Gli amici russi insistono spesso perché il poeta parli loro di Gabriele d’Annunzio, avendo avuto la fortuna di conoscerlo di persona. <18
Pastonchi diventa così famoso per le sue frequentazioni mondane e per essere riuscito, fin dai primi anni del Novecento, a crearsi un nutrito seguito, 'dovuto all’abile costruzione del personaggio, che oltre alla nota eleganza e alla posizione di prestigio di critico del “Corriere”, aveva per sale e salotti d’Italia grande successo come dicitore di poesia, da Dante a se stesso. L’attenzione al “nuovo” aveva precocemente reso il giovane Francesco esperto di comunicazione (…) rispetto al protagonismo tribunizio del maestro avverso Gabriele'. <19 [...]
1 Alessandro Pellegrini (1897-1985), germanista, francesista, scrittore, saggista e traduttore. Estimatore del pensiero di Ivanov, di cui legge alcune opere in tedesco già negli anni Venti, decide di pubblicare un numero monografico su di lui sulla rivista “Il Convegno”, della quale è creatore e redattore.
2 Notizie sulla vita di Pastonchi sono pubblicate in Francesco Pastonchi, un ligure accademico d'Italia. Biografia, ricordi del poeta, brani scelti di prosa e poesia, a cura di B. M. Gandolfo, Sanremo, Tipolito La Commerciale, 1998; M. Pardini, Francesco Pastonchi: un percorso biografico, “La riviera ligure. Quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro”, 2005, n. 48, pp. 43-60; P. Rachetto, Francesco Pastonchi (il poeta), Torino, Petrini, 1952.
3 Giovanni Cena (1870-1917), poeta, prosatore e critico, redattore di “Nuova Antologia”, rivista fiorentina di letteratura, arti e scienze dal 1902 fino alla morte; Ferdinando Neri (1880-1954), francesista, critico letterario, presidente dell’Accademia delle Scienze di Torino, direttore di importanti periodici di letteratura come il torinese “Giornale storico della letteratura italiana” e il romano “La Cultura” (1928-1936); Giulio Bertoni (1878-1942), filologo, critico e linguista, direttore della sezione di Linguistica della Enciclopedia italiana dal 1925 al 1937, presidente dell’Accademia d’Italia; Massimo Bontempelli (1878-1960), scrittore, critico e drammaturgo, ideatore del “realismo magico” italiano.
4 U. Ojetti, Cose viste, Firenze, Sansoni, 1951, p. 784.
5 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, in La Musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, a cura di M. Masoero, Firenze, Olschki, 2007, p. 43.
6 Ivi, p. 38.
7 La Giostra d’amore è divisa in sette cicli “in onore” di altrettanti personaggi femminili, mentre le Canzoni sono divise in Canzoni libere, Sestine e Ballate. L’impianto è di ispirazione medievale e il richiamo a Dante si esplicita in un componimento intitolato La vita nuova.
8 Cf. U. Ojetti, Cose viste, cit., p. 784.
9 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, cit., pp. 41-42.
10 U. Ojetti, I sonetti di Francesco Pastonchi, “Fanfulla della Domenica”, XXV, 27, 5 luglio 1903.
11 F. Olivero, Studies in Modern Poetry, London, Milford, 1921, p. 251.
12 M. Guglielminetti, Francesco Pastonchi poeta, cit., p. 43. Cf. anche M. Guglielminetti, Pastonchi e Gozzano, in La Musa subalpina. Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, cit., pp. 349-363. Pastonchi dedica a Gozzano il saggio Il terzo Guido, in F. Pastonchi, Ponti sul tempo, Milano, Mondadori, 1947, pp. 141-171.
13 Cf. Cambridge Readings in Italian Literature, edited by E. Bullough, Cambridge, Cambridge University Press, 1920.
14 Cf. F. Olivero, Studies in Modern Poetry,  cit.                                                                                          15 Anna Aleksandrovna Svedomskaja (1898-1973), figlia del pittore Aleksandr Svedomskij (1848-1911), frequenta l’Italia fin da bambina. Studia disegno e scultura a Mosca, trasferendosi in Italia dopo la rivoluzione. Vive dal 1925 a Sanremo, dove espone le sue opere tra gli anni Venti e Trenta. Cf. la nota biografica in www.russinitalia.it.
16 F. Pastonchi, Danzò e piacque, in Ponti sul tempo, cit., pp. 253-260.
17 Sergej Abramovič Voronov (1866-1951), chirurgo e scienziato russo emigrato in Francia. Acquista nel 1925 una spaziosa villa a Grimaldi, frazione di Ventimiglia.
18 F. Pastonchi, Colazione con Voronoff, in Ponti sul tempo, cit., pp. 69-79.
19 S. Verdino, Ascolto di Pastonchi, in Pastonchi, ricordo di un poeta ligure (Atti del Convegno di Riva Ligure e Sanremo, 5-6 dicembre 1997), a cura di G. Bertone, Novara, Interlinea, 1999, pp. 66-67.
Giuseppina Giuliano, Il Sole, “signore del limite”. Lettere di Francesco Pastonchi a Vjačeslav Ivanov in Archivio Russo-Italiano VIII - Russko-ital’janskij Archiv VIII, Pag.105-139, Salerno, Europa Orientalis, 2011 

Già Pastonchi, all’indomani della pubblicazione della Via del rifugio, aveva esortato il giovane Gozzano a ricercare la propria voce e a liberarsi dalle fonti francesi, quelle che più spiccavano all’orecchio dei contemporanei, più ancora di d’Annunzio che aveva emanato tanto della propria personalità da essere difficilmente riconoscibile. Ma il critico <2 non sapeva che ancor prima di lui, a separare l’originalità dell’oro dall’argento del plagio, ci aveva  pensato Mario Vugliano <3, che eliminò dal fascio di poesie pronte per l’Editore Streglio, quelle in cui il magistero dannunziano era troppo invadente, per lasciare spazio a quel mazzetto di poesie intitolato La via del rifugio.
2 F. Pastonchi, in Primavera di poesia, in <<Corriere della sera>>, 10 giugno 1907, parla soprattutto di Jammes e conclude che Gozzano dovrebbe: <<liberarsi da certe coloriture [...] da influenze che ne alterano l’organismo e lo dispongono a imitazioni>>
3  Carlo Calcaterra, in Con Guido Gozzano e altri poeti, Bologna, Zanichelli, 1944, narra l’episodio della “censura” di Mario Vugliano: <<Così nel 1907 apparve smilza smilza la prima sua raccolta di rime. La via del rifugio, senza Il frutteto, senza il sonetto L’antenata, senza i versi al Bontempelli, senza L’altana, senza i sonetti Domani e altri componimenti>>, pp. 27 e 28

Sara Calì, Gozzano tra D'Annunzio e Pascoli. Legami intertestuali, Tesi di Laurea, Università degli Studi "Roma Tre", Ciclo XXII

Pastonchi Francesco: 26 L, 30 C. Carteggio 1920-1951.
Pastonchi legge di UB soprattutto gli scritti d’arte e i Precetti ai pittori. I due condividono l’amicizia con Papini, Soffici, Linati. Alla morte dell’amico, UB pubblica sulla «Provincia» di Como una Lettera in morte di Francesco Pastonchi [029].
L'Archivio Ugo Bernasconi, Carteggi, Manoscritti, Documenti a stampa (1874-1960). Inventario, Carteggi: elenco dei corrispondenti, a cura di Margherita d’Ayala Valva, Edizioni Scuola Normale Superiore Pisa, 2005

 

martedì 3 agosto 2021

Boine, Campana, Sbarbaro...


Nell’agosto 1915, Giovanni Boine pubblica una prosa intitolata Delirii: non ha nemmeno trent’anni e, nonostante le precarie condizioni fisiche, è riuscito ad affermarsi come critico letterario e studioso di mistica scrivendo per «Il Rinnovamento», organo ufficiale dei modernisti lombardi, per «La Voce» di Papini e Prezzolini e per «La Riviera Ligure» di Mario Novaro. Da qualche anno combatte coraggiosamente con la tubercolosi, malattia che non gli dà tregua e che lo costringe a frequenti e costosi soggiorni terapeutici in montagna che può permettersi solo grazie alla generosità dell’amico Alessandro Casati <1. Boine risiede in un paesino della Liguria, Porto Maurizio, un borgo di pescatori baciato dal sole che non è sufficiente a lenire il suo profondo disagio, un turbamento interiore e fisico che non smette di attanagliarlo anche nei pressi della profumata e ridente costa ligure. Tra gli ulivi, la malattia, lo stato d’animo angosciato che lo accompagna quotidianamente, finiscono per riflettersi sul paesaggio circostante e penetrano come spettri nelle pieghe più intime delle sue prose espressionistiche, condizionando in profondità lo sguardo stesso del narratore. Nei Delirii non vi è traccia degli scogli bianchissimi, del rassicurante vociare della gente, delle onde che si infrangono sulla battigia, ma il paese è descritto come un borgo semideserto, un ambiente urbano dai tratti lugubri e inquietanti animato da spettri che «escono quatti [...] dal cimitero» <2, mentre «lenti fiottando con molli dita ungon di febbre ogni via» <3. Perfino i fanali delle poche automobili in circolazione gli appaiono come penetranti «occhi di mostro» di una bestia feroce dalle «zanne» aguzze, che si muove furtiva nell’oscurità spinta da «chimeriche coscie» metalliche pronte a balzare sulla malcapitata preda <4. Attorno al narratore ogni cosa si deforma, in una terrificante convulsione da incubo che ha i tratti di un’«allucinazione» <5 che sembra evocare Les Campagnes Hallucinées di Verhaeren e quella Ville, già «tenteculaire» <6, che appare avvolta da «une lumière ouatée, / Trouble et lourde» <7: «ogni cosa si sfa di paura», mentre «gli alberi e le quadre facciate» delle case «si contorcono in visi d’angoscia» <8. Lo stato d’animo del narratore finisce per proiettarsi su un paesaggio urbano che ormai non ha più nulla della solare atmosfera della Riviera. Lungo le viottole del borgo, altre viscide figure indistinte strisciano come ombre nell’oscurità, errando «per gli spiazzi delciati» <9 del paese: sono figure senza volto, fantasmi senza pace che evocano gli «spectres baroques» de Les sept Vieillards di Baudelaire, con quella loro «décrépitude» <10 che sembra renderli eterni, nell’orrore. Ad avvolgere l’intero ambiente è «una corrente viscida come di fiati e di larve», un vento ostile e deformante che rende le finestre delle case simili a «nere bocche arrestate nell’urlo» <11. Sembra di essere di fronte alle medesime finestre scure, simili a occhi vuoti <12, che accolgono il protagonista di House of Usher di un Edgar Allan Poe che, nei dintorni della costruzione, respirava «an atmosphere which had no affinity with the air of heaven, but which had reeked up from the decayed trees, and the grey wall and in the silent tarn, a pestilent and mystic vapor - dull, sluggish, faintly discernible, and leaden-hued» <13. Le atmosfere gotiche di Poe, quella nebbia nociva e misteriosa, quella foschia «color del piombo» del racconto dell’autore americano, sembrano trasferirsi, come per un macabro sortilegio, nel paesino della costa ligure dove «ombre nel buio fuggono per amorfi addensamenti di nuvolaglia bassa» <14.
Boine avverte attorno a sé lo spandersi disorientante del «ronzio vasto dell’allucinazione», uno stato d’animo che assomiglia molto a quell’«hallucination» che nel Rimbaud della Saison en enfer sa evocare, all’improvviso, «monstres» e «mystères» <15. È una trasfigurazione, quella di Boine, permeata di riferimenti culturali, di una città che - agli albori del Novecento - inizia ad essere tema centrale della letteratura del tempo e che si configura sempre più nitidamente come «la forma generale che assume il processo di razionalizzazione dei rapporti sociali» <16, lo schermo sul quale gli autori proiettano il proprio punto di vista sulla società borghese e sulle contraddizioni insite nella modernità. Nel testo boiniano non è difficile rinvenire tracce degli amati poeti francesi, ma anche rimandi letterari alle opere degli amici e colleghi scrittori che proprio in quegli anni collaboravano con le riviste letterarie più autorevoli come il «Leonardo», «Il Regno» o la stessa «Voce» sulla quale Boine pubblica numerosi interventi. 


Tra gli amici del ligure c’è Camillo Sbarbaro che nel 1914 pubblica Pianissimo, raccolta poetica descritta da Boine con entusiasmo - sulla stessa «Riviera Ligure» che accoglierà i suoi Delirii - come una silloge che «appare il meno possibile canto di gioia e di vita» e che «non intoppa mai ricercando la bellezza, nel falso, nell’abbondevole della rettorica», ma che è arte «della plumbea disperazione, succinto velo, scarna espressione di un irrimediabile sconforto» <17. Altra atmosfera rispetto alle allucinazioni dei Delirii, ma anche nella raccolta sbarbariana ci si imbatte in una passeggiata notturna:
Quando traverso la città la notte
io vivo la mia vita più profonda. [...]
Mi trasformo nel cieco del crocicchio
che suona ritto gli occhi vaghi al cielo.
Voluttà d’esser solo ad ascoltarmi! […]
E voluttà di scendere più basso!
Rasentando le case cautamente
io sento dietro le pareti sorde
le generazioni respirare.
E so l’ostilità di certe vie
tozze,
la paura di certe piazze vuote... <18
Ci si immerge in un borgo che pulsa, respira e che a tratti è disorientante e ostile: Sbarbaro, tra quelle vie, sembra vivere drammaticamente sulla propria pelle «la condizione dell’individuo nella società contemporanea, o meglio, della sua figura storica decisiva, l’abitante della grande città creata dal rapido processo di industrializzazione e dallo sviluppo dell’economia di mercato» <19. Il poeta, come già accaduto al Boine de La città <20, finisce per estraniarsi da un ambiente urbano ormai incomprensibile, animato da «Fronti calve di vecchi, inconsapevoli / occhi di bimbi, facce consuete / di nati a faticare e a riprodurre, / facce volpine stupide beate, / facce ambigue di preti, pitturate / facce di meretrici» <21 che assomigliano molto a «le grand désert d’hommes» de La Modernité di Baudelaire <22, una massa di «maschere inerti» <23 che manifesta in modo sconcertante «il carattere fondamentale della grande città moderna, il vuoto sociale ed umano in cui proietta chi vi abita» <24. L’io lirico individua così «nello sguardo l’ultima forma di contatto con il mondo» <25, uno sguardo gelido che è l’ultimo appiglio per tentare di scorgere, tra la folla, un bagliore di quella solidarietà umana ormai irrimediabilmente smarrita tra le vie della città: cammina «fra gli uomini guardando / attentamente […] ognuno, / curioso di lor ma come estraneo» <26, una massa indifferente di «esseri / sigillati in sé stessi come tombe» <27 che lo sfiorano e che ispireranno analoghe atmosfere boiniane <28.
Tra i corrispondenti di Boine in quel periodo c’è anche Dino Campana che, nella Giornata di un nevrastenico, trasfigura un ambiente urbano. La Bologna di Campana non appare nella sua nobile veste «dotta e sacerdotale», ma si palesa, «agli occhi “nevrastenici” del poeta triste, monotona, cimiteriale, fangosa, sporca, percorsa da donne artificiosamente impellicciate e irrise» <29: è una città immersa nel «malvagio vapore della nebbia», in una foschia che «intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio» <30. Il poeta intravede alcune ragazze nella nebbia, giovani donne che gli appaiono come «tanti piccoli animali, tutte uguali, saltellanti, tutte nere», come bestiole ostili e sconosciute, pronte «a covare in un lungo letargo un loro malefico sogno» nell’oscurità della notte <31, incubi come quelli che popolavano le notti di un giovanissimo Rebora, amico e confidente di Boine, mentre «con la man sugli occhi» sudava, da bambino, «eterne notti di paura / Nell’ascoltare il passo d’un fantasma» <32: un breve e intimo ricordo, incastonato nel cinquantesimo componimento dei Frammenti lirici, silloge poetica uscita nel 1913 e recensita da Boine nella stessa «Riviera Ligure» che accoglierà, nell’agosto del 1915, i suoi Delirii <33. Ma Campana è anche attento lettore: tra i suoi libri prediletti non solo autori italiani ma anche numerosi stranieri e, grazie alla conoscenza di ben cinque lingue, confidava già nell’estate 1910 di offrirsi «volentieri per far passare un po’ di giovine sangue nelle vene di questa vecchia Italia» <34, aprendo la cultura nazionale alle influenze estere. Traduce dal francese, dal tedesco, lingua che dimostra di conoscere «abbastanza bene» <35, ma soprattutto dall’inglese: nel 1914 Papini gli offre la possibilità di pubblicare una versione italiana di The Problems of Philosophy di Bertrand Russell, impresa editoriale che non avrà seguito. Tra le letture del poeta di Marradi c’è l’amato Poe, autore che confiderà a Carlo Pariani di aver «letto molto» <36, ma soprattutto Walt Withman, a tal punto che, salendo sul bastimento che lo avrebbe condotto in Argentina nel 1907, sembra avesse portato con sé proprio una copia di «Leaves of Grass in tasca e nella cintura, una pistola belga calibro 38» <37. La prostituta morta abbandonata nell’«immortal house» di The City Dead-House <38 ricorda sì le cupe atmosfere «dalla impronta bodleriana» <39 dell’House of Usher di Poe <40, ma si proietta al contempo, come per un macabro sortilegio, nella triste e desolata Bologna campaniana, animata solo da sataniche «troie notturne […] in fondo ai quadrivii» <41. Il Campana che si imbarca per l’America, in fondo, ha già bene in mente le rapide sequenze di immagini di città e paesaggi, pullulanti di vita e di immagini improvvise, che scandiscono il ritmo di City of Orges, della seconda strofa di Song of the Broad-Axe o di City of Ships <42. Sono questi motivi inscindibili dall’ispirazione dell’intera silloge dei Canti Orfici che si arricchiscono dei rimandi alle passeggiate di Boine e Sbarbaro tra le vie - colme di gente - dei rispettivi contesti urbani <43, con un atteggiamento di osservazione attenta - quasi registrazione visiva - che ricorda l’incipit di Once I Pass’d Through a Populous City: «Once I pass’d through a populous city imprinting my brain for future use with its shows, architecture, customs, traditions» <44. D’altronde è proprio «attraverso il tema del viaggio […] che la poesia campaniana allaccia le proprie radici […] a quelle del naturalismo panico di Withman» <45 e non è certo un caso che il poeta di Marradi inserisca alcuni versi di Song of Myself di Withman a conclusione dei suoi Canti Orfici, offrendo «una possibile chiave di lettura» <46 della propria poesia e rivelando al contempo quel rapporto profondo che lo legava all’opera dell’autore americano che, già nel marzo 1916, confidava così a Cecchi: «Se vivo o morto lei si occuperà ancora di me la prego di non dimenticare le ultime parole They were all torn and covered with the boy’s blood che sono le uniche importanti del libro. La citazione è di Walt Withman che adoro nel Song of myself quando parla della cattura del flour of the race of rangers» <47.
Nelle esperienze artistiche di questi giovani autori, legati da fili sottili ma inestricabili, si scorge una complessa matassa di allucinazioni, incubi e citazioni letterarie, un flusso di immagini permeate di un dolore e di una solitudine che, attraverso le sperimentazioni della nuova generazione di intellettuali, trovano una direzione verso la quale essere convogliati e sfociare.
1 Casati è forse l’amico più costantemente vicino a Boine, tanto che, «con somma discrezione ed altrettanta generosità, dal 1906 al 1917 e sino al giorno della morte, è sempre intervenuto in tutto, ha provveduto a tutto, a lui, alla madre, anche al fratello. Studi, libri, viaggi, soggiorni di cura a Zurigo e poi a Davos, visite mediche e medicine, vacanze e traslochi, sempre ed in tutto» (G. VIGORELLI, Prefazione, in G. BOINE, Carteggio. III. Giovanni Boine – Amici del «Rinnovamento», a cura di M. Marchione e S. E. Scalia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, XVII).
2 G. BOINE, Frantumi, a cura di V. Pesce, Genova, Edizioni San Marco dei Guistiniani, 2007, 62.
3 Ibidem.
4 Ibidem. Si noti la profonda distanza da ciò che scriverà Marinetti, meno di un anno dopo, ne «L’Italia Futurista» a proposito dei veicoli a motore: «I motori a scoppio e i pneumatici d’un’automobile sono divini. Le biciclette e le motociclette sono divine. La benzina è divina. Estasi religiosa che ispirano le centocavalli» (F. T. MARINETTI, La nuova religione-morale della velocità, in ID., Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori - I Meridiani, 1998, 130-138: 133).
5 BOINE, Frantumi, 62.
6 E. VERHAEREN, La Ville, in ID., Les Campagnes hallucinées. Les Villes tentaculaires, prefazione di M. Piron, Parigi, Gallimard, 1982, Bruxelles, Edmond Deman, 1895, 21-24: 21.
7 Ivi, 23
8 BOINE, Frantumi, 62.
9 Ibidem.
10 CH. BAUDELAIRE, I fiori del male, traduzione e cura di L. de Nardis, Milano, Feltrinelli, 1999, 166.
11 BOINE, Frantumi, 63.
12 «I […] gazed down […] upon the remodelled and inverted images of the gray sedge, and the ghastly tree-stems, and the vacant and eye-like windows» (E. A. POE, The Fall of the House of Usher and other tales, a cura di S. Basso, Torino, Einaudi, 1997, 82).
13 Ivi, 86. «La mia immaginazione s’era eccitata al punto da persuadermi che attorno a quella dimora si raccoglieva una atmosfera specifica a quel luogo, che non aveva affinità con l’aria del cielo, ma che esalava dagli alberi corrotti, il grigio muro, la pozza taciturna, vapore arcano e torbido, greve, neghittoso, a mala pena avvertibile, color del piombo» (ivi, 87).
14 BOINE, Frantumi, 62.
15 «Je m’habituai à l’hallucination simple: je voyais très franchement une mosquée à la place d’une usine, une école de tambours faite par des anges, des calèches sur les routes du ciel, un salon au fond d’un lac; les montres, les mystères; un titre de vaudeville dressait des épouvantes devant moi» (A. RIMBAUD, Opere, Milano, Mondadori – I Meridiani, 2006, 244).
16 M. CACCIARI, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Roma, Officina Edizioni, 1973, 9. Cacciari, riprendendo Simmel, chiarisce come la grande città sia «la fase, o il problema, della razionalizzazione dei rapporti sociali complessivi, che segue a quello della razionalizzazione dei rapporti produttivi» (ibidem).
17 G. BOINE, Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano, Garzanti, 1983, 132. Sbarbaro gli ricorda il Leopardi de Le Ricordanze e il critico è colpito a tal punto «dalla secchezza, dalla immediata personalità, dalla scarna semplicità del suo dire» che sente di essere di fronte a «una di quelle poesie [...] di cui si ricordano gli uomini nella vita loro per i millenni» (ivi, 134).
18 C. SBARBARO, Pianissimo, a cura di L. Polato, Venezia, Marsilio, 2001, 77.
19 A. ROMANELLO, Il poeta nella grande città: introduzione a Pianissimo, «Lettere italiane», XLVIII (1996), 2, 230-251: 230.
20 «La gente era queta [...]: visi noti, andature note, voci note di tutti i giorni. […] E lo pigliò uno stupore inquieto, uno sbigottimento pauroso. Voglia di fuggire come di chi fiuta un pericolo al buio. […] Perché gli uomini e le cose gli parevano improvvisamente fatti sordi, come chi non s’accorga di una valanga o della fiumana che urlando arriva e s’indugi lieto. Ora, egli, dentro la sentiva la valanga e la fiumana angosciosamente urlare» (G. BOINE, La città, in L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e di letteratura, a cura di G. Benvenuti e F. Curi, Bologna, Pendragon, 1997, 185-198: 186-187).
21 SBARBARO, Pianissimo, 52.
22 «E così egli va, corre, cerca. Ma che cosa cerca poi? Si può essere certi, così come io l’ho ritratto, quest’uomo, questo solitario di un’immaginazione così attiva, sempre in viaggio attraverso il gran deserto d’uomini, persegue un fine più alto di quello di un semplice perdigiorno […]. Egli cerca quell’indefinito che ci deve essere permesso di chiamare modernità, giacché manca una parola più conveniente per esprimere l’idea a cui rimanda» (CH. BAUDELAIRE, Il pittore della vita moderna, in ID., Scritti sull’arte, Torino, Einaudi, 2004, 287-288).
23 ROMANELLO, Il poeta..., 235.
24 Ivi, 239.
25 Ivi, 237.
26 SBARBARO, Pianissimo, 43.
27 Ivi, 73.
28 Si ricordi a tal proposito l’immagine della «tomba del nome» che imprigiona l’io lirico nel terzo brano di Frammenti: «Mi fermi per via chiamandomi a nome, col mio nome di ieri. Ora cos’è questo spettro che torna (l’ieri nell’oggi) e questa immobile tomba del nome?» (BOINE, Frantumi, 47).
29 D. CAMPANA, Canti Orfici e altre poesie, a cura di R. Martinoni, Torino, Einaudi, 2003, 172.
30 Ivi, 83
31 Ibidem. Martinoni sottolinea come la notte offra a Campana l’«occasione di visioni rapide e improvvise», una fase del giorno in grado di rivelare al poeta «una atemporalità decantata, trasumanata, l’astoricità dell’inconscio, la sospensione del mito […], la ricerca dell’eterno» (ivi, XLVI).
32 C. REBORA, Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e V. Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1999, 95.
33 Boine scrive che quasi ogni verso della raccolta reboriana «è non sai se l’elegia o il peana della vita breve e dolorosa d’ogni giorno, la quale ti lascia in cuore lo sconforto e l’amaro ma è pregna dell’infinito, ma di cui il pensiero ti assicura ch’è il ritmo stesso dell’universo, ma in cui nella rinunzia del singolo, del gramo atto trovi l’esaltazione della divina pienezza» (BOINE, Il peccato..., 117).
34 D. CAMPANA, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti e rari, a cura di G. Cacho Millet, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985, 46. La lettera era indirizzata alla redazione della rivista fiorentina «La Difesa dell’Arte», diretta da Virgilio Scattolini.
35 G. PAPINI, Il poeta pazzo, in C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana. Con un’appendice di lettere e testimonianze, a cura di C. Ortesta, Milano, SE, 2002, 97-100: 98.
36 C. PARIANI, Vita non..., 39.
37 G. CACHO MILLET, Dino Campana sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-1918, Firenze, Leo S. Olschki, 2000, 34. Nel paragrafo Quando Dino Campana vide “l’altro sud”? (ivi, 32-35), si offre un’analisi puntuale e documentata delle diverse ipotesi in merito alla controversa vicenda del viaggio americano del poeta.
38 W. WITHMAN, Foglie d’erba, a cura di M. Corona, Milano, Mondadori - I Meridiani, 2017, 840.
39 PARIANI, Vita non..., 48. 40 Vedi nota 13.
41 CAMPANA, Canti Orfici..., 86.
42 WITHMAN, Foglie d’erba, 290-293, 426-429, 676-679. 43 Si vedano a tal proposito le note 20 e 21.
44 WITHMAN, Foglie d’erba, 258.
45 M. DEL SERRA, Dino Campana, Firenze, La Nuova Italia, 1974, 22. Si precisa qui che il «viaggio campaniano […] è […] centrato sulla restituzione oggettiva di polivalenza dinamica alle immagini umane o paesistiche che lo sostanziano, fissandole attraverso la memoria in un senso verticale, di ascesa e di approfondimento, tanto del loro valore iconico quanto della loro “apertura” simbolica» (ivi, 23).
46 PARIANI, Vita non..., 139.
47 CAMPANA, Souvenir..., 141-142. La confidenza che il poeta dimostra di avere con Cecchi è data dal fatto che il critico fiorentino, «fra la primavera del 1915 e l’autunno del ‘17» (CAMPANA, Canti Orfici..., XI), era - con Mario Novaro e Boine - uno degli ultimi amici rimasti al poeta. Cecchi, inoltre, era stato tra i primi a scorgere la centralità dei Canti Orfici nel panorama culturale del tempo, pubblicandone una recensione ne «La Tribuna» (E. CECCHI, C. Linati, D. Campana, «La Tribuna», 21 maggio 1916, 3).

Enrico Riccardo Orlando, «Allora ogni cosa si sfa di paura». Trasfigurazioni paesaggistiche nel primo ’900, in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018), a cura di A. Campana e F. Giunta, Roma, Adi editore, 2020


Dino Campana (1885-1932) rappresenta uno dei casi più controversi nel canone della prima metà del XX secolo. La sua opera principale, i Canti Orfici, si compone di poesie e prose. In questi testi nulla viene presentato ricorrendo a un piano di realtà e di esistenza ordinaria. Le poesie sono costruite soprattutto attraverso l’uso intensivo della ripetizione e dell’analogia, nonché grazie all’accostamento straniante di immagini esterne e sensazioni interiori. La poesia è una via per esporre una sensibilità disturbata, alienata, che insegue un mondo primitivo e sensuale, parla di una realtà turbata da un trauma. Consideriamo come esempio una prosa, La notte: "Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città".
[...] Le prime recensioni esaltano la componente visionaria di Campana (a partire da Boine nel 1915), e suggeriscono facili accostamenti a Rimbaud; questa lettura è amplificata dagli ermetici a partire da Carlo Bo.
Successivamente si contrappongono in modo netto due interpretazioni critiche. Per Sanguineti, Bo, Luzi, Anceschi e Luperini i Canti Orfici è una delle poche opere con cui la poesia italiana del primo Novecento si pone al livello dell’espressionismo europeo. Secondo Mengaldo, Fortini e Contini si tratta di un libro in cui è ancora presente un’eredità tardottocentesca, pesantemente simbolista e decadente, nonché carducciana. Mengaldo definisce Campana «un tramonto che poté sembrare un’alba» (Mengaldo, 1978, p. 279). Questa sottovalutazione costituisce uno dei punti più contestati dell’antologia; probabilmente è dovuta anche a una reazione alla lettura critica di Sanguineti, che fa di Campana il principale esponente di un espressionismo italiano.
[...]
La vicenda critica di Camillo Sbarbaro (1888-1967) è legata alla “Voce” fin dall’inizio: su questa rivista Sbarbaro pubblica i primi versi, e su quelle stesse pagine Giovanni Boine scrive una delle prime recensioni a Pianissimo, libro fondamentale per molti autori successivi, a partire da Montale. Nel 1920 lo stesso Montale commenta in modo molto positivo Trucioli (Vallecchi, 1920), una raccolta di prose liriche; e in quella recensione definisce alcune caratteristiche della poesia di Sbarbaro, che viene identificato come uno dei più grandi poeti del suo tempo. Tuttavia nei decenni successivi Sbarbaro diventa uno dei «maestri in ombra» del Novecento (Pasolini, 1960), e spesso viene considerato soltanto uno dei molti poeti vociani. La vicinanza con gli altri scrittori della “Voce”, spesso invocata sulla base di presunte tendenze etico-psicologiche comuni, è, in realtà, debole sia da un punto di vista stilistico, sia per le caratteristiche della voce poetica, sia per le stesse dichiarazioni dell’autore. I versi di Sbarbaro sono quasi prosastici, scarni, e si rifanno piuttosto all’endecasillabo di Leopardi, come notato per la prima volta da Cecchi già nel 1914. Ma la vera differenza è che i suoi testi fanno qualcosa in più rispetto a quelli di Soffici, Jahier, Slataper: introducono nella poesia del Novecento l’autobiografismo come rivelazione di uno straniamento dal mondo e di una lacerazione interiore. A questo proposito, si considerino le parole di Montale, risalenti al 1920: «C’è in questo poeta una gran voglia di piangere senza perché; egli non accetta la vita benché si aggrappi disperatamente alle apparenze e di queste soltanto sia ricco [...]. Spaesato e stupefatto Sbarbaro passa tra gli uomini che non trova» (Montale, 1997, p. 190).
Questo contenuto di sofferenza personale è presentato come una parte dell’esistenza fondamentale. Lo era già nei Canti (Starita, 1835) di Leopardi, che è senz’altro un autore di riferimento fondamentale per Sbarbaro, e lo sarà ancora di più nell’opera di Montale.
Claudia Crocco, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, Carocci, 2015