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giovedì 1 luglio 2021

Quel ricciolo bianco dell'onda

Joffre Truzzi - Fonte

La casa di Joffre Truzzi é vicina al mare; da questo la divide la massicciata su cui corrono i binari della ferrovia; il mare qui non si vede dai piani bassi, lo si intuisce soltanto; quando é agitato si sente l’odore di salsedine. E’ un dolce settembre e il frastuono dell’estate si é appena spento lasciando ampi spazi ai rumori più famigliari, alle voci che giungono, nitide e solitarie, insieme allo scandire dei passi sui marciapiedi. Sono sceso dall’Aurelia per la piccola strada condominiale; la porta del piano rialzato, dove abita il pittore si é aperta prima che suonassi e subito é apparsa sorridente una bella signora bruna, che mi si presenta come nuora di Joffre. Mi ha indicato in fondo alla stanza la figura di un vecchio che si stava alzando dalla poltrona. La ricordavo quella testa bianca piena di riccioli e dallo sguardo fiero, un po’ inquieto, che si accende e si spegne, mi era noto, anche se non familiare. Non mi é parso molto cambiato dall’ultima volta che lo incontrai - nel gennaio scorso - quando andai ad invitarlo alla presentazione del carteggio Betocchi/Pazielli, nel quale figurava anche lui. Lo stesso portamento eretto, negli occhi la stessa fierezza, anche se oggi mi é sembrato intravedervi una più spiccata inclinazione alla dolcezza. « Io vengo senz’altro » disse quella volta, ringraziandomi, « se qualcuno mi accompagna » e dopo un momento d’esitazione, « e se no, vengo da solo!» accennando al suo bastone nero lì vicino. E da solo venne, infatti, presentandosi all’ingresso della Chiesa Anglicana un bel po’ prima dell’inizio; guardò bene tutt’intorno, mi salutò, parlò con due o tre persone e poi se ne andò. Anche ora ho di fronte un uomo schivo da ogni cerimoniale, attento solo all’essenziale, contrario al superfluo, ribelle di fronte ai convenzionalismi e ad ogni forma d’ipocrisia. Egli vede il bene, e lo apprezza, quando é scevro da ogni orpello, e soprattutto, quando può essere coniugato con l’arte e con la cultura autentiche. Quasi ad avvallare questo aspetto del suo carattere, mi dichiara con una certa fierezza che le sue origini canadesi non sono influenti; e che, invece contano assai di più quelle familiari che sono lombarde, o meglio ancora di confine, perché del mantovano, proprio a cavallo fra Emilia e Lombardia.
Intanto l’onda lenta del mare si ripropone nei momenti di maggiore quiete, come una carezza, nel volgere di uno sguardo; e ripenso allora a quell’onda ben più vigorosa e veloce, ricca di bianca schiuma che la corrente, delle nostre mareggiate di ponente, scaraventa fino ai muraglioni della passeggiata e oltre. Rivedo la bianca distesa di schiuma correre, ormai placata, verso terra e poi improvvisamente, incontrando un ostacolo, impennarsi con una forza inaspettata verso il cielo e rifrangersi quindi in mille rivoli bianchi ricchi di veemente allegria. Ecco, dico fra me, ecco: quel ricciolo impetuoso e arrabbiato potrebbe essere Truzzi, e tutti quegli schizzi bianchi successivi, la sua allegria e la sua raggiunta dolcezza. Così mi piace vederlo, affrontare la risacca della vita, e destreggiarsi in essa.
Ci spostiamo nello studio del pittore e qui, sulla soglia, sono investito da un’onda di luce calda senza che nessuna lampada fosse stata accesa. Le tele sono appoggiate per terra contro le pareti, alcune, appese lungo le stesse; Joffre non indugia a commentare i suoi lavori; ascolta e guarda con me. Alle sue spalle, come arrampicato su una scala di metallo, sento, e poi vedo, lo sguardo ammiccante di un suo bel autoritratto. Mentre usciamo dalla stanza gli chiedo di Bordighera, dei suoi amici, dei suoi  « colleghi» pittori, degli artisti in genere; di Bordighera degli anni prestigiosi (1950-1970), dei Premi 5 Bettole e degli avvenimenti importanti; non spende molte parole in proposito; ma ricorda volentieri alcuni nomi che gli sono cari, come Giuseppe Balbo, prezioso animatore di tante iniziative, e, altri, per il loro rilievo nel campo della cultura e dell’arte: Carlo Betocchi, di cui rievoca la grande ospitalità offertagli nella sua casa fiorentina di Borgo Pinti, nel 1957, Giacomo Ferdinando Natta, arguto e colto conversatore; Sbarbaro, Biamonti, Carlo Bo, Giancarlo Vigorelli, Lorenza Trucchi, Italo Calvino, tutti gravitanti qui e poi, quasi per un segreto appuntamento, tutti da Maria Pia Pazielli alla sua Piccola Libreria. Gli occhi, ad un certo punto, si intristiscono, un altro nome gli affiora sulle labbra: Luciano De Giovanni, il poeta sanremese scomparso da pochi anni cui lo legava una profonda amicizia. Riesco a stento a leggere alcune parole di una poesia che De Giovanni gli ha dedicato; uno dei suoi sonettini del 1986: «… e il cielo che vortica lento/ le sue nuvole e il suo azzurro / e  la barriera dei monti e gli ondulati dorsali/ e le segrete fonti».  Degli amici d’oggi Truzzi ricorda in particolare Enzo Maiolino, Sergio Gagliolo, Sergio Biancheri; nomi legati all’arte e alla vita, alla comune visione naturale di questa aspra e semplice terra di ponente. Ricorda Morlotti e ancora Biamonti, e la gita che fece con lui e Maiolino nei luoghi di Cézanne. Si illumina infine parlando di Piana, e batte la mano sul tavolo in segno di grande stizza e ribellione quando denuncia il persistente oblio che circonda questo pittore di grande valore e straordinaria modernità. Il commiato si avvicina e Joffre appoggia la sua mano sul mio braccio, mi fissa negli occhi e mi dice risoluto: «ricordati che chi non é sincero nella vita, non lo é neppure nell’arte», una bella verità pronunciata da un uomo «vero».
Starei ancora a lungo, accarezzando il silenzio come si accarezzano le nuvole che incorniciano i nostri tramonti nei loro inesorabili mutamenti. Un’ultima occhiata al tavolo di Truzzi: una fotocopia un poco gualcita ricorda una mostra del pittore alla Biblioteca di Ospedaletti nel 1996; una foto ricordo degli anni ’60 con Morlotti e Biamonti, un breve scritto di quest’ultimo, intenso e ricco di significato umano per Truzzi, «… un uomo sempre disponibile al lavoro, alla vita, sempre pronto a partire, verso una tomba, un rudere, un fiore. Poteva anche essere insopportabile, litigioso, in superficie, ma a Morlotti e a me, strappava sempre il sorriso, perché ne conoscevamo la malinconia fondamentale».
Luigi Betocchi, Quel ricciolo bianco dell'onda, Sito dedicato alla figura di Joffre Truzzi, settembre 2005

Da sinistra: Giuseppe Balbo, Giuseppe Piana e Joffre Truzzi - Fonte

Joffre Truzzi, Pescatori, 1955 (olio su tavoletta) - Fonte

[...] Presentiamo qui alcuni tra i primi allievi che hanno raggiunto maturità artistica e riconoscimenti sia in territorio nazionale che all’estero. Tra questi il pittore e grafico Enzo Maiolino e lo scomparso Joffre Truzzi. Dopo Balbo la scuola è stata seguita dal pittore Lilio Domenico Pagnini, suo allievo fin dal dopoguerra e insegnante e presidente per numerosi anni. Sergio Biancheri “Ciacio”, eletto successivamente e presidente per otto anni e Sergio Gagliolo [...].
Redazione, Un po’ di storia, Accademia Riviera dei Fiori "Giuseppe Balbo", 2011

Joffre Truzzi, Paesaggio - Fonte

Nel corso del decennio l’iniziativa, cui succedette, dopo l’edizione ibrida del 1962, il “Premio Bordighera” nel 1963 e 1964, ebbe un successo sempre crescente. Guido Seborga e Renzo Laurano, infaticabili promotori di queste manifestazioni, coinvolsero, tra gli altri, Italo Calvino e il critico Giancarlo Vigorelli. Vale la pena di notare che Biamonti, negli anni successivi, scrisse come critico d’arte su quasi tutti i pittori vincitori del premio: Enzo Maiolino, Joffré Truzzi, Mario Raimondo, Sergio Gagliolo.
[...]
1.5. SCRITTI DI CRITICA D’ARTE
[...]
1977
(1977a) = [Presentazione], in J. Truzzi, Teatro Comunale, Ventimiglia, 15-28 gennaio 1977 [dépliant della mostra].
[...]
1996
(1996a) = [Presentazione], in Joffré Truzzi. I pittori del Ponente 5, Biblioteca Civica, Ospedaletti, 5-25 aprile 1996 [dépliant della mostra]; poi, parte dello scritto (righe 25-33), in Joffré Truzzi, presentazione della mostra personale al Palazzo del Parco, Bordighera, 28 novembre-5 dicembre 2002 [dépliant della mostra]; poi, con il titolo Truzzi, i paesaggi sospesi nel vuoto, in SP (213).
Matteo Grassano, Il territorio dell’esistenza. Francesco Biamonti (1928-2001), Tesi di dottorato, Université Nice Sophia Antipolis, Università degli Studi di Pavia, 29 gennaio 2018 

Joffre Truzzi, Val Nervia, 1988 - Fonte

Ma il cielo e la luce della città delle palme incantano anche Ennio Morlotti, alla ricerca di una “nuova avventura” pittorica. Boschetti di ulivi e di limoni, rocce, cactus, lingue di spiaggia bagnate dal mare: è questo il paesaggio ligure che Francesco Biamonti e Sergio Biancheri, conosciuti nel 1959, mostrano al pittore lombardo durante i numerosi viaggi in automobile. Le campagne di Borghetto San Nicolò e Vallebona, la Val Nervia, gli scogli di Marina San Giuseppe, il pianoro di Punta Migliarese, Perinaldo e, ovviamente, San Biagio della Cima diventano mete da visitare ogni estate, alla scoperta della luce e dei grumi di colore di cézanniana memoria che tanto affascinano sia Morlotti sia Biamonti (si ricordi la loro visita, in compagnia di Maiolino e Truzzi, allo studio di Cézanne a Aix-en-Provence nel 1963).
Mara Pardini, La cultura nel ponente ligure ai tempi di Francesco Biamonti: un accenno, Terra ligure

[...] Il padre Satiro, lavorava alla costruzione della ferrovia Trans-Canada, che doveva unire la Costa Atlantica con il Pacifico, con temperature proibitive e condizioni di lavoro disumane; alla fine il povero Satiro non ce la fece, e dopo dieci anni dovette rientrare nella nativa Mantova, terra dei Gonzaga, dove fiorivano le arti e l'artigianato.
La madre Stella, donna indomita e coraggiosa, accudiva Joffre, i suoi fratelli e la casa di tronchi d’abete, e, per "fare la spesa", usciva a cavallo nei boschi con la doppietta e a volte tornava con un bottino di selvaggina o solo bacche del bosco.
Ancora adolescente, Joffre tornò nella terra dei suoi avi durante un viaggio periglioso, dove rischiarono di affondare e di contrarre qualche brutta malattia contagiosa, stipati com'erano nella stiva di un'ansimante piroscafo.
Nei ricordi di Joffre questo periodo della prima infanzia è vago, ma sempre presente, come visioni, fra sogno e realtà. E sono convinto che ha creato i prodromi di quest’inusuale artista e personaggio eccezionale, temprato dai grandi freddi, con la visione di grandi spazi e di aurore boreali,che a novant'anni dipingeva ancora attivamente.
Nelle mattine soleggiate lo trovavi al suo bar preferito dei Piani di Borghetto, a gustarsi uno "spruzzato" e a scambiare sagaci commenti sul via-vai del marciapiede, ma soprattutto, ti sorprendeva con la sua memoria e la profonda cultura, assimilata in viaggi e letture, con una sempre viva curiosità.
Scontroso e irascibile superficialmente, nascondeva un animo gentile e mite, timido, che proteggeva con questa "corazza" burbera e accigliata.
Spirito di contraddizione e in contraddizione con il mondo e con se stesso, anche con i suoi affetti e amici più cari, si realizza e trova sfogo e pace nei suoi dipinti. Che a veder bene, è una una vera stranezza, che non abbiano avuto il successo e i riconoscimenti che meritano.
Ci sono le ragioni di questo "tesoro" nascosto: sicuramente il carattere scontroso e introverso non ha favorito il necessario supporto di critici e galleristi, oltre alla scelta di vita e di lavoro nella dolce e pigra Riviera di Ponente, senza mai spingersi, non dico all'estero, ma nemmeno a Milano, a cercare e sviluppare contatti e amicizie.
Sono riuscito a portarlo a Parigi e Londra, solo dopo gli ottant'anni, dove ha visitato i grandi musei e ha avuto anche un grande successo con un'esposizione a Oxford.
Lo stesso Morlotti, che frequentava e lo stimava molto, era in continuo movimento pur passando molto tempo in Riviera ed aveva solidi rapporti con importanti galleristi che lo aiutarono ad affermarsi, anche con accordi commerciali, che il nostro Truzzi disdegnava.
Quando qualche critico o gallerista "scopriva" Truzzi, il rapporto quasi inevitabilmente si deteriorava e infine si interrompeva, grazie alle intransigenti posizioni del nostro integerrimo e scontroso Maestro!
Se non sei un buon diplomatico non vuol dire che non puoi essere un buon artista, anzi! Forse non avrai mercato e fama, ma le opere rimangono e testimoniano una produzione artistica di alto livello.
Truzzi ha visitato musei, esposizioni, chiese, paesi e, soprattutto, ha incontrato molta gente comune “la più vera”, con cui amava dialogare con vivace spontaneità e ha sempre letto molto.
Se Truzzi non ha accettato compromessi per affermare la sua arte, si é impegnato a soddisfare la sua cultura e curiosità e per guardarsi nello specchio ogni mattina serenamente.
La sua pittura è stata sicuramente ispirata dai grandi impressionisti, soprattutto Cezanne, di cui ha visitato lo studio a Aix-en-Provence con Morlotti e Francesco Biamonti, e da De Stael, di cui amava molto i cieli, ma anche dall'amico Morlotti.
In Truzzi si è sviluppato misteriosamente un fenomeno di osmosi, tra le atmosfere mediterranee del nostro entroterra, cosi amate e descritte da Biamonti, con i suoi paesaggi ventosi, e un post'impressionismo materico magistrale, che solo sfiora l'informale, vedi le bagnanti e i nudi, che sono un'amalgama poetico di carne, di terra, di acqua e di vegetazione, un'atmosfera e un pathos legato all'ultimo Cezanne, e oltre, proprio per quel suo sfiorare, accarezzare quasi l’informale, ma senza mai cedere alle sue facili lusinghe.
Come gli impasti materici, ma tenui, delicati, dei fiori di Truzzi, le "sue" rose canine che andava a cercare tra i muretti a secco, sopra Sasso e Seborga, o i limoni lucidi di humus, di una materia così viva e "profumata" lavorata con perizia tra spatole e ruvidi pennelli.
Truzzi ama dipingere su superfici dure, solide, dove sente il bisogno di "affondare" il suo segno con il pennello o la spatola, ma anche con la viva mano, l'indice che penetra nella materia ancora duttile e la segna in profondità: così Truzzi si lega alla sua opera, in un’indelebile simbiosi.
Quasi alla fine della sua lunga vita, Truzzi riscopre l’Eros e dipinge una serie di grandi bagnanti, Angeli-Maddalene di un sogno erotico, di carni impastate col fango, la vita, l’eros, e la morte... sul solco tracciato da Renoir, e prima ancora da Tiziano e Rubens,soggetto al quale si dedicò anche Morlotti, nelle ultime sue opere.
Ho avuto la fortuna di frequentare Truzzi per molti anni, da quando scorazzava altero sul suo Galletto-Guzzi. Abbiamo visitato Roma in lungo e in largo, dove amava passeggiare in via Giulia, perché gli ricordava un racconto di Caldarelli; a Firenze, dove riconosceva a prima vista gli affreschi delle Chiese, con nomi e date; a Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, per una grande mostra, la prima postuma, di Morlotti e a Venezia, dove amava rivedere più volte la "Resurrezione" del Tiziano, con quella luce verdastra, dipinta a novant'anni [...]
Daniel Audetto, Joffre Truzzi, Sito dedicato alla figura di Joffre Truzzi, luglio 2013

giovedì 24 giugno 2021

Lei, mio caro De Giovanni, mi scriva tutte le volte che ne ha voglia


La presente “notarella”, <1 mentre esibisce le incoraggianti impressioni di lettura che due grandi poeti del secolo scorso, Carlo Betocchi e Vittorio Sereni, affidarono a lettere scambiate fra loro su un giovane esordiente del ponente ligure o a lui, Luciano De Giovanni, indirizzate, si propone, tramite il recupero di documenti poco noti (alcuni inediti) e la ricostruzione di un piccolo episodio della società letteraria anni Cinquanta, d’illuminare la figura in ombra e l’opera in versi dello schivo “stagnino” sanremese che preferì starsene in disparte, pubblicando di rado e per raffinati editori in genere di provincia, affannandosi ancor meno per primeggiare o comunque presentarsi senza che terzi insistessero. A svantaggio di una poesia valida, già di per sé «prudentissima, e dosatissima, “a frazioni di pollice”, timorosa d’una lacrima troppo compiaciuta (troppo gonfia e cantata) come d’un possibile seme di inondazione ed allagamento», a voler citare un altro grande, Giorgio Caproni, che recensì Viaggio che non finisce. <2
Con la prima raccolta del 1957 De Giovanni avviò un percorso che riprese ben un trentennio dopo con la seconda raccolta, dal sintomatico titolo Cautamente presente, <3 e che raggiunse la “cima” solo nel 1993 con l’antologia Tentativo di cantare una nuvola, <4 uscita quando il poeta idraulico aveva superato i settantuno anni dei settantanove che l’incontrovertibile conteggio della vita gli concesse.
[...] Fra le cartelle della corrispondenza è conservata una singola lettera di Sereni a De Giovanni: un foglio bianco, oramai ingiallito, di formato A4 e senza intestazioni, riempito sul recto e per metà sul verso da una scrittura in penna stilografica che sigla il testo con la firma estesa del mittente e le coordinate «Milano, 10 marzo ’57 / via Mauro Macchi 35».
[...] Nell’estate del 1956 De Giovanni e Betocchi scrissero a Sereni, amico del secondo, in quanto poeta ammirato e, dal 1955, responsabile di un’altra esperienza editoriale milanese, quei «Quaderni di Poesia» delle Edizioni della Meridiana in cui uscirono opere di Giovanni Arpino, Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Umberto Bellintani, Bartolo Cattafi, Lalla Romano e Luciano Erba. Sereni ricevette, infatti, una cartolina fotografica (ora conservata a Luino fra la sua corrispondenza) con il seguente stringato messaggio: «Al caro caro poeta di Frontiera e di Diario D’Algeria, in visita al poeta Luciano de Giovanni (vedi «Letteratura» n. 21-22), di cui ti ho parlato per la possibilità di un volumetto nella tua bella collana». Spedita all’«Illustre» Vittorio Sereni da Borello, la cartolina è datata «19 Ag. 1956» e presenta un panorama della stessa località dell’entroterra sanremese dove De Giovanni ebbe modo di accogliere, in quella «straordinaria domenica» <6 estiva, Betocchi e non solo: attorno alle firme del principale invitato e mittente (con «un abbraccio») e del proprietario di casa («con ossequi»), si riconoscono anche i nomi di Mima e Silvia, moglie e figlia di Betocchi, e di Maria Pia Pazielli, la proprietaria della Piccola Libreria di Bordighera che, amica di entrambi i poeti (fu proprio lei a farli incontrare all’inizio del 1956), <7 era fra i protagonisti della cultura del ponente ligure in una particolarmente vivace - e probabilmente irripetibile - stagione. <8
Il numero di «Letteratura» (maggio-agosto 1956), a cui si fa riferimento nella cartolina, ospita quattordici poesie di De Giovanni presentate da Betocchi, <9 assiduo frequentatore di Bordighera (dove morì). <10
L’autore di Realtà vince il sogno tornava spesso nella cittadella di mare per trascorrere lunghi soggiorni, per ritrovare l’intimità degli affetti (lì viveva il fratello Giuseppe) e concedersi, magari, nuove conoscenze e scoperte poetiche: letti, grazie a Pazielli, alcuni testi di De Giovanni decise d’impegnarsi per farlo emergere, forzandone la tenace introversione. <11
A partire dalla pubblicazione sulla rivista romana diretta da Alessandro Bonsanti (venuta dopo, per la verità, l’esordio vero e proprio su «Il Ponte» diretto da Pietro Calamandrei): <12 «Se non era per l’affettuosa violenza che altri gli ha fatto», scrisse Betocchi su «Letteratura», «De Giovanni non mi avrebbe forse mai fatto leggere le sue poesie; timido com’è, occorre strappargliele di mano. Ho qui, ora, il nitidissimo dattiloscritto, che spero troverà il suo editore. In provincia, certi incontri casuali, in occasioni che sono anch’essi casuali: siamo così sbadati, così poco accessibili a quanto, genuinamente, ci viene offerto».
Un editore avrebbe potuto essere, appunto, Sereni al quale, forse di persona o forse per lettera, Betocchi aveva già accennato di De Giovanni prima della cartolina dell’estate 1956 («di cui ti ho parlato per la possibilità di un volumetto nella tua bella collana»).
[...]
Già il giorno successivo Betocchi, da Firenze, avvertì De Giovanni:
"Caro De Giovanni,
ho qui una lettera di Sereni, al quale mandammo una cartolina da Borello (che lui mi ricorda) e al quale avevo parlato del suo libro. Sereni non dirige più la Meridiana, che è finita, ma avrà a che fare presto con un’altra collana. E a ogni modo avrebbe piacere di vedere intanto i suoi versi stampati su «Letteratura» che, come si sa, non è spedita in omaggio, ma è diffusa in gran parte tra gli istituti di cultura attraverso la Pubblica Istruzione. Se lei ha una copia, fra quelle <20, ancora disponibile per Sereni, La prego di spedirgliela al suo indirizzo, con a parte una sua lettera di spiegazione richiamandosi a questa mia cartolina. […] Come stanno i suoi? Come lei? Come Maria Pia? Cordiali saluti dal suo Carlo Betocchi
. " <15
De Giovanni seguì le istruzioni di Betocchi - la lettera di spiegazioni non si trova - e gli rispose due giorni dopo con riconoscenza: «La ringrazio di questo Suo continuo interessarsi di me, anche quando è tanto occupato. Ho subito scritto al Prof. Sereni al quale ho pure inviato una copia di “Letteratura”. Speriamo che le poesie gli piacciano, in ogni caso devo a Lei la possibilità di un nuovo importante contatto». <16
Intanto Betocchi aveva invitato De Giovanni a farsi avanti anche con altri poeti, soprattutto liguri, i più “vicini”, come Camillo Sbarbaro <17 e Angelo Barile.
«Conobbi Angelo Barile nel 1956, quando egli aveva già sessantotto anni ed io esattamente la metà», ricordò De Giovanni: «Betocchi, che stava per pubblicare alcune mie poesie sulla rivista “Letteratura” di Roma, mi aveva convinto a scrivergli e a “mandargli qualcosa”. […] Con affettuosa insistenza, mi spronava a uscire dal mio isolamento. Io, a quei tempi, facevo l’artigiano e il mio mestiere mi pareva così lontano dal mondo letterario da sentire quasi un senso di colpa ogni volta che prendevo la penna in mano». <18
Anche Barile, che divenne poi amico di De Giovanni, si convinse prontamente del valore della sua poesia e dell’opportunità di entrare in contatto con Sereni e chiedergli consiglio: «Lei ha fatto molto bene a mandare a Vittorio Sereni le Sue poesie», scrisse Barile a De Giovanni il 20 dicembre 1956, «Sereni è un poeta sensibile e attento (ho letto proprio in questi giorni un interessante suo saggio su Solmi); e vorrà sicuramente risponderLe. Mi dirà poi il giudizio e il consiglio che Le avrà dato». <19
Sereni era anche un direttore editoriale affaccendatissimo, come si è detto e come andava confidando ad alcuni corrispondenti; se aveva definito, in una lettera del 19 gennaio 1957 ad Attilio Bertolucci, quello che stava attraversando «il peggior periodo pirelliano (peggio, molto peggio di qualunque anno militare)», <20 nella già citata lettera a Parronchi, anticipandogli i progetti con Mantovani, chiosò: «parlane il meno possibile in giro. Altrimenti chi mi salva più dalle richieste, segnalazioni eccetera? Perdo già troppo tempo in corrispondenza, figurati se poi ci si mettono quelli che vogliono giudizi e poi li sollecitano». <21
[...]
Il giorno di Santo Stefano Betocchi, paziente intermediario, spedì all’idraulico di provincia e poeta in cui credeva una lettera che concluse con una rassicurazione: «E Lei, mio caro De Giovanni, mi scriva tutte le volte che ne ha voglia: qualche volta, se non risponderò, lei mi perdonerà: ma penserà che le sue parole saranno lo stesso nel mio cuore, e vi lavoreranno. E stia di buon animo (Sereni mi ha chiesto un po’ di tempo ancora per leggere i suoi versi) e mi voglia bene». <23
Sereni sul serio aveva bisogno di tempo, si pensi che era proprio la collaborazione con Raimondo Mantovani a poter costituire «una molto chimerica via d’uscita dalla sempre più ingarbugliata situazione pratica» in cui si era infilato:
«Possibile», chiese a se stesso il 12 gennaio 1957 e a Parronchi, «che non si possa trovare un lavoro che mi dia da vivere e sia al tempo stesso più adatto a me? pare che non sia possibile». <24
A quasi sei mesi di distanza dalla cartolina di Borello spedita con Betocchi, De Giovanni ricevette la risposta tanto attesa, contenuta nella lettera di Sereni del 10 marzo 1957 conservata a Genova nell’archivio d’autore in costituzione e qui di seguito trascritta integralmente:
"Caro amico,
mi sono fatto vergognosamente aspettare e me ne scuso. Betocchi forse potrà spiegarle bene - o almeno rendere credibili - le ragioni del mio ritardo.
Ho letto più volte le sue poesie su «Letteratura» e la ringrazio di avermele fatte conoscere.
Non ho alcun dubbio circa la sua “necessità” di scrivere versi e sono convinto che non è tempo sprecato. È poesia che non si apprezza al primo colpo, e con la quale bisogna vivere un po’ perché ne sia intesa la forza di fondo, la bella coerenza - sottile e salda insieme.
La collezione di cui saltuariamente mi occupo va alquanto a rilento e alterna titoli tradotti ad altri originali. Questo è un anno sperimentale e oggi non sono in grado di offrirle un qualunque affidamento per il futuro. È così dubbia la fortuna… commerciale di un libro di versi che ho il dovere di andare coi piedi di piombo con l’Amico editore, persona carissima ma non animata (giustamente, del resto) da spiriti mecenatizi.
Stiamo a vedere e, la prego, non si ritenga in alcun modo impegnato con me. Sta di fatto che vedrò in seguito altre cose sue volentieri.
Ancora mi scusi e creda alla simpatia e all’augurio di
Vittorio Sereni
"
[...] il 27 [scrisse Betocchi]:
"Caro De Giovanni,
la sua precedente lettera è del 16 marzo […]. Il mio tavolo è ingombro di posta arretrata, fra cui tengono il campo una ventina di fascicoli di poeti che vogliono saper qualcosa dei fatti loro. Non ce la faccio più, e pretendo di rispondere a tutti. Lei vede la calligrafia, angariata dalla fretta, ma la fretta è nemica del bene. E lei sa se io, invece, ho stima, e quale stima! della vita contemplativa.
Iddio non ce l’ha voluta concedere. Siamo stati dietro alle passioni, e ne paghiamo lo scotto.
Cerchiamo almeno di pagarlo onoratamente. Mi scusi lo sproloquio, ed entriamo in argomento.
[…] Sono contento che anche le altre sue cose vadano meglio; e contento della risposta di Sereni, ma non tanto di queste difficoltà a stampare. Ho due tre poeti come Lei che restano così, e ne provo un dolore!
" <28
«Dopo diverse esplorazioni non riuscite», <29 Betocchi riuscì a trovare la persona giusta per l’esordio poetico di De Giovanni: Bino Rebellato. Un «editore coraggioso sino all’assurdo, al quale piaceva rischiare sui nomi nuovi più che speculare sui già affermati», annotò Caproni, il 7 febbraio 1960, nel proprio Taccuino dello svagato; un editore di provincia che riuscì, «con squisita arte militare, a far di Cittadella (la città più murata d’Italia) la città più aperta alle aspirazioni, e diciamo pure agli assalti e alle invasioni, di centinaia di giovani, cui egli era sempre pronto a offrire un consiglio schietto, se non addirittura il suo aiuto, e il suo nome». <30
Già in una lettera del 16 aprile 1957 <31 Betocchi pianificò con De Giovanni come procedere con Rebellato che, alla fine di quell’anno, pubblicò Viaggio che non finisce (di cui la Piccola Libreria di Maria Pia Pazielli divenne la principale distributrice, come si legge nella fitta corrispondenza con l’editore veneto conservata nell’archivio personale del poeta ligure).
Mentre il libro era in corso di stampa, Betocchi s’occupò anche della sua capillare e mirata diffusione, elencando, in una lettera-schedario del 28 novembre 1957, più di sessanta personalità a cui De Giovanni avrebbe dovuto spedire la raccolta («Indico accanto se sono / poeti, con una P / critici, con una C / scrittori, con una S / Se è opportuno scrivere “illustre” sulla busta aggiungo una I») [...]

1 Ringrazio, per la generosa disponibilità, Silvia Sereni, Giorgio e Anna Maria De Giovanni, figli dei poeti di cui sono qui citati brani epistolari anche inediti; inoltre Maria Novaro e Maria Comerci della Fondazione Mario Novaro di Genova, per la continua fiducia e la complicità, e Simona Corbellini e Tiziana Zanetti dell’Archivio Vittorio Sereni di Luino, per l’aiuto appassionato (ancor di più in un periodo d’accesso sospeso per gli studiosi a causa delle operazioni d’inventariazione e di condizionatura dei documenti); e “infine” Franco Contorbia e Andrea Aveto. Sono venuto a conoscenza, in chiusura della presente “notarella”, che è in corso di stampa presso Mimesis il carteggio tra Sereni e Betocchi : ringrazio la curatrice Bianca Bianchi per aver accettato e animato un veloce ma proficuo scambio di informazioni, e rimando al volume (il sesto della collana « Testi italiani commentati » della casa editrice milanese) per le trascrizioni complete di due lettere di Sereni a Betocchi qui citate (22 ottobre e 18 novembre 1956).
2 Luciano De Giovanni, Viaggio che non finisce, Padova, Rebellato, 1957. La recensione di Giorgio Caproni a Viaggio che non finisce uscì su «La Fiera Letteraria» del 9 marzo 1958 (p. 3); altre sue righe su De Giovanni si rintracciano, invece, sulla terza pagina del «Corriere Mercantile» del 29 settembre 1959 (nell’articolo-rassegna De Micheli, De Bono, Ghiglione, Del Colle, De Orchi, Milani, Bonino).
3 Luciano De Giovanni, Cautamente presente, Bordighera, Managò, 1987. Nel 1991, per lo stesso editore, uscì Il bosco; queste due raccolte di versi e la precedente Viaggio che non finisce sono state ripubblicate in un cofanetto
quadruplo contente anche Caro Domenico… Conversazioni di Luciano De Giovanni con Domenico Astengo
(Ventimiglia, Philobiblon, 2001).
4 Luciano De Giovanni, Tentativo di cantare una nuvola. Poesie scelte 1948-1990, con uno scritto di Carlo Betocchi, una postfazione di Stefano Verdino e i disegni di Enzo Maiolino, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1993.
6 «Non dimentico i bei giorni in cui ho potuto starle un po’ vicino, la straordinaria domenica a Borello»: così la lettera del 4 ottobre 1956 di Luciano De Giovanni a Carlo Betocchi edita in Il muro che ci separa. Carteggio di poeti liguri, a cura di Paola Mallone, Genova, De Ferrari, 2000, p. 56.
7 Per approfondire il primo incontro e il duraturo rapporto fra i due poeti si vedano un paio di scritti di De Giovanni: Carlo Betocchi: un amico di Bordighera, «Provincia d’Imperia», xi, 54, settembre-ottobre 1992, pp. 12-13 («Io, un clandestino delle lettere a tutti gli effetti, non fosse stato per l’affettuosa opera di convincimento della Pazielli, non mi sarei mai azzardato di avvicinare un “poeta ufficiale”»); e Carlo Betocchi: fede nella carità (con una lettera inedita di Carlo Betocchi), «Il Lettore di Provincia», xxiv, 85, dicembre 1992, pp. 19-22 ; ma si sfoglino anche testimonianze occasionali come quelle contenute nelle conversazioni di De Giovanni con Astengo (Caro Domenico…, cit., in particolare pp. 20-21). Per approfondire, invece, il rapporto dei due poeti con la “libraia” si vedano Il sorriso di Maria Pia. Ricordo di Maria Pia Pazielli di Luciano De Giovanni («Provincia d’Imperia », ix, 42, settembre-ottobre 1990, pp. 23-24) e l’epistolario Betocchi-Pazielli Io son come l’erba (a cura di Paola Mallone, con uno scritto di Luigi Betocchi, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2004).
8 A proposito dell’ultimo trasloco della Piccola Libreria (e dell’irripetibile stagione) si legga la Lettera da dovunque pubblicata il 7 settembre 1958 da Carlo Betocchi su «La Fiera Letteraria » (xiii, 35-36, pp. 1-2).
9 Nel fascicolo di «Letteratura» in questione (iv, 21-22, maggio-agosto 1956) la nota di Betocchi e i versi di De Giovanni si trovano alle pagine 108-114, fra le poesie e le presentazioni di Stefano D’Arrigo a cura di Giorgio Caproni (pp. 100-107) e di Alessandro Peregalli a cura di Sergio Solmi (pp. 115-119). Il testo di Betocchi è stato inserito in apertura dell’antologia di De Giovanni Tentativo di cantare una nuvola, cit., pp. 7-10.
10 Per approfondire il rapporto del poeta con Bordighera e con la Liguria, oltre ai saggi a lui dedicati e ampiamente noti, si vedano la raccolta delle sue Prose liguri (a cura di Paola Mallone, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2003) e Carlo Betocchi a Bordighera e dintorni (a cura di Luigi Betocchi, con una lettera di Mario Luzi, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1996), che raccoglie sostanzialmente note e commenti alla mostra documentaristica Carlo Betocchi: un amico di Bordighera, tenutasi nella cittadella ligure dal 25 maggio al 15 giugno 1996.
11 «[Betocchi] era, si può dire, il mio contrario», ebbe a ricordare De Giovanni, «effervescente, ottimista, aperto, disponibile. Il suo aspetto era quello di un uomo ancora giovanile, un po’ affaticato, forse, come chi ha dovuto affrontare molte battaglie e altre se ne aspetta, ma senza perdersi di coraggio. Capì subito ciò di cui avevo bisogno e mi prese, in maniera discreta, sotto la sua protezione, affascinandomi col suo fare deciso e la parlata fiorita del toscano» (Caro Domenico…, cit., p. 20).
12 De Giovanni aveva, infatti, già pubblicato alcuni versi su altre riviste: una dozzina di Liriche su «Il Ponte» di Firenze, prima sette (vii, 2, febbraio 1951, pp. 173-174) e poi cinque (vii, 7, luglio 1951, pp. 762-763), grazie
all’interessamento di Giovanni Ermiglia, professore di filosofia di Sanremo; una poesia (proprio quella che contiene il verso che diede il titolo a Viaggio che non finisce), con una foto del poeta e una nota a cura di Francesca Sanvitale, apparve sempre a Firenze ma sul «Giornale del Mattino» del 21 giugno 1956.
15 Il muro che ci separa, cit., p. 57.
16 Ivi, p. 58.
17 Si veda Luciano De Giovanni, Il mio incontro con Camillo Sbarbaro « Il Lettore di Provincia », xxi, 74, gennaio-aprile 1989, pp. 3-7 e, per un ulteriore approfondimento, Alessandro Ferraro, «Aprii, cauto, la porta». L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, « La Riviera Ligure », xxviii, 84, settembre-dicembre 2017, pp. 59-71.
18 Luciano De Giovanni, La poesia di Angelo Barile attraverso le sue lettere, «Bollettino della Comunità di Villaregia», i, 1, 1990, pp. 64-72 (65). 19 Il muro che ci separa, cit., p. 133.
20 Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, a cura di Gabriella Palli Baroni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1994, p. 213. Il dubbio che si tratti di una lettera del 19 gennaio 1957 e non 1956, come indicato nel carteggio - è quasi prassi, nei primi giorni di gennaio, confondersi e indicare il nuovo anno con il vecchio -, sorge per la collocazione nel carteggio della lettera fra quella del settembre 1956 e quella del 21 febbraio 1958 e per il riferimento nel testo all’imminente uscita (avvenuta nel 1957) delle Poesie scelte di Goethe tradotte da Giorgio Orelli per la «Collezione di Poesia».
21 Un tacito mistero, cit., p. 279.
22 Betocchi fece riferimento a una lettera del 18 novembre di Sereni, in cui si legge: «Ho ricevuto i versi di De Giovanni. Spero che non avrà fretta e che potrò trovare il tempo di leggerli nel modo giusto e di scrivergli»; si rimanda al carteggio Sereni-Betocchi in corso di stampa (cfr. nota 1).
23 Il muro che ci separa, cit., p. 60.
24 Un tacito mistero, cit., p. 287.
29 Sono parole di De Giovanni che, in una conversazione con Astengo, raccontò l’incontro con Betocchi e i suoi tentativi di trovare un editore per Viaggio che non finisce (cfr. Caro Domenico…, cit., p. 20).
30 Giorgio Caproni, Visita a Cittadella [rubrica Taccuino dello svagato], « La Fiera letteraria », xv, 6, 7 febbraio 1960, p. 3; ora in Id., Taccuino dello svagato, a cura di Alessandro Ferraro, Firenze, Passigli, 2018, pp. 186-189.
31 Il muro che ci separa, cit., p. 73. 32 Il muro che ci separa, cit., pp. 86-87.

Alessandro Ferraro, «Almeno il suo giudizio». L’esordio poetico di Luciano De Giovanni nello scambio epistolare con Carlo Betocchi e Vittorio Sereni, «Quaderni del '900», XVIII, 2018
 
 
[1049] Viaggio che non finisce, «La Fiera Letteraria», 9 marzo 1958, p. 3 [Recensione a Luciano De Giovanni, Viaggio che non finisce, Padova, Rebellato, 1957]
(a cura di) Michela Baldini, Giorgio Caproni. Bibliografia delle opere e della critica (1933-2020), con la collaborazione di Chiara Favati, MODERNA/COMPARATA 36, FIRENZE UNIVERSITY PRESS, 2021 

 

domenica 20 giugno 2021

Passo della Novena (di Giorgio Orelli)

Giorgio Orelli, Friburgo, 1941 - Fonte: Giorgio Orelli

A mezzo d’uno di quei giorni di primo settembre
che per cinti, selle e bocchette tiran fuori
dalla tana le finte pigre
marmotte e le addormentano sui sassi,
nel mio paese d’origine è ancora
tempo da fieno, tace
la madreperla della fisarmonica.
E lasciato l’ospizio (la donna dagli occhi
troppo azzurri, le teste dei camosci
da gran tempo caduti:
vita rappresa come dentro un quarzo!),
s’invecchia quanto più rari si fanno
gli alberi, quanto più il fiume
ringiovanisce.

Io e mio padre quando fu che bevemmo
la prima volta a questa fonte?
Già notturna è l’ombra
da cui risale il pastore a cacciare
le vacche ai cespi estremi.
E giunge con la riga del suo fischio
un uccello, s’arresta, gli trema
accanto l’erba mutellina.

Poi, sul passo, guardare, stancarsi di guardare,
chiudersi nel rumore fitto d’elitre,
scoscendere colà
dove al camoscio ultimo nato e incerto
volga gli occhi la madre,
soave per lo scoglio sconcio ed erto.

Giorgio Orelli, Passo della Novena in L’ora del tempo, Mondadori, 1962

 

mercoledì 16 giugno 2021

Anche se, come Brodskij, giudicavo più grande Ovidio


Inediti

[...]

Brodskij
22.11
Orazio ritrovato
C’è una «Lettera a Orazio» nello straordinario Dolore e ragione di Iosif Brodskij, appena uscito presso Adelphi. (L’edizione italiana contiene una prima parte dell’opera: la seconda uscirà l’anno prossimo).
Con la libertà che mi dà la passione per Brodskij e in questo caso anche per Orazio, oso avventurarmi in un minimo ma per me fortemente coinvolgente excursus di memoria. Considero la memoria un «eterno presente», e rivolgermi a Orazio un moto naturale dell’anima, come per il grande poeta russo che lo leggeva nella sua lingua, essendo lui, come dice, un «iperboreo».
Nel mio antico Diario di Grecia avevo annotato il significato profondo della Grecia per noi, lettori nella fanciullezza non della Bibbia ma di Omero.
Davanti alla Porta dei Leoni di Micene: qui - scrissi - è il segno della nostra colpa antica e forse del nostro riscatto.
Ma è stata una memoria della mia giovinezza, o meglio adolescenza, il ritrovamento di Orazio, letto da me in secondo liceo. Non ho cercato, anche se credo di averlo, il testo che usavo a scuola; ma ho conservato dai tempi dell’università una preziosa edizione di tutto Orazio, a cura di Ettore Stampini, mio professore di latino. A me fu regalata dal mio prozio Giuseppe Peano, il grande logico. Il testo reca la dedica «All’amico Giuseppe Peano, affettuosamente / Ettore Stampini». Il frontespizio: « Q. Orati Flacci Opera. Recognovit prefatus est adnotationes criticas addidit Hector Stampini. Mutinae an. MDCCCXCII» Il professor Stampini era piuttosto terribile: collerico, impaziente. Non era burbanza accademica: era insofferenza della mediocrità.
Io non dimentico né perdo niente; ma ho una debolezza: se mi si chiede in prestito qualcosa anche di raro, di prezioso, non so dire di no. Così il mio «Orazio» ha sofferto di qualche intrusione, ma la cosa grande per me oggi è stato proprio rileggere Orazio. La forte, quasi violenta impressione è stata la sua presenza in tutta la mia vita intellettuale.
« Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi/ Finem di dederint, Leuconoe…». Ecco i Dialoghi con Leucò, il capolavoro di Pavese! Sì, l’ho riletto, e non solo i Carmina; l’ho ritrovato, ancora amato. Anche se, come Brodskij, giudicavo più grande Ovidio.
Come ho trovato fraterno il grande Brodskij! Anch’io amo le Georgiche e le Bucoliche più che l’Eneide.
Quelli che segnarono la mia adolescenza di un effimero ma insieme imperituro momento di identificazione con un fantasma di poesia, sono gli ultimi versi del carme XXII del libro I: « Dulce ridentem Lalagen amabo, / Dulce loquentem».
Era il 1922. Secondo liceo. Circolarono bigliettini: « L. è conquistabile?»
Non significa nulla: i «ricordi» sono pettegolezzi. Ma «Lalage» vive nella memoria. In ognuno rivive la memoria: figlia, ma anche madre del tempo.
Torno a Orazio. Dovevo, era necessario violare il meraviglioso testo di Brodskij? Per me è stata l’occasione; ma tutta la «Lettera a Orazio» è una festa dell’intelligenza e della poesia. Non si può non leggerlo con passione e grandissimo divertimento. Ne citerò alcuni passi.
«…se è vero ciò che Svetonio ci dice del tuo aspetto fisico […] e se eri piccolo e corpulento, allora somigliavi probabilmente a Eugenio Montale o al Charlie Chaplin degli anni di Un re a New York».
« Quello al quale non riesco assolutamente a dare una faccia è Ovidio. […] non sono mai riuscito a evocare la faccia di Nasone. A volte lo vedo interpretato da James Mason - con un occhio bruno grondante di dolore e diffidenza; altre volte, però, è lo sguardo grigio, invernale, di Paul Newman.
[…] O forse, Orazio, in quello che vado dicendo c’è troppo Karl Marx e un po’ troppo cinema?»
«Nasone era più grande di voi due. […] in fatto di immaginazione Ovidio vi batte tutti».
«Un sogno, Flacco, è nel migliore dei casi una metamorfosi temporanea. […] E se ho deciso di mettermi a scrivere è perché l’interpretazione di un sogno […] è in fondo, a rigore, una lettura. […] Che è erotica perché è ripetitiva. Tutto un voltar pagine: ecco che cos’è; ed è quello che tu stai facendo o dovresti fare in questo momento, Flacco. Be’, è anche questo un modo di evocarti, non ti pare? Perché la ripetizione, vedi, è il tratto primario della realtà».
«…si trattava semplicemente di un sogno. Diciamo solo che, insieme alla morte, il sogno fa parte della realtà».
«Ah, Flacco! La realtà, come la Pax Romana, vuole espandersi. Ecco perché sogna, ecco perché tiene duro fino all’ultimo respiro».
Così termina Brodskij. Così termino e concludo il mio personale excursus nel mondo moderno-antico, perché immortale, della parola dei poeti.
[Lalla Romano]
Paolo Di Paolo, La scrittura critica di Lalla Romano, Tesi di laurea, Università degli Studi Roma Tre, 2012

Il lavoro di ricerca [quello di Paolo Di Paolo] nell’archivio di Lalla Romano (Milano, Via Brera) ha consentito di ricostruire una bibliografia complessiva dei suoi scritti di carattere critico (compresi fra il 1947 e il 2001): accanto all’attività di poetessa e pittrice prima e di narratrice poi, Romano ha costantemente collaborato con riviste e periodici. Per lunghi periodi è stata titolare di rubriche di recensioni e ha avuto quindi modo di analizzare un vasto numero di opere di autori suoi contemporanei. Dall’analisi dei testi pubblicati e dei rispettivi appunti preparatori, minute ecc., è possibile verificare come gli aspetti più peculiari - su un piano perfino di struttura sintattica - della sua scrittura “creativa” siano fondanti anche della sua scrittura critica. La recensione diventa, per Romano, un “diario di lettura” che risponde agli stessi criteri di un qualunque altro suo testo in prosa e che soprattutto non si piega alle esigenze giornalistiche (interessanti sono gli scambi epistolari con capiredattori e direttori di testata), rivendicando un assoluto stilistico senza deroghe. Gli scritti critici di Lalla Romano consentono di tratteggiare una sorta di “biografia intellettuale” della scrittrice piemontese, che evidenzia - accanto alle relazioni con i protagonisti della cultura italiana di oltre mezzo secolo - la vastità dei suoi interessi, il gusto severo e l’anticonformismo con cui affrontava le scritture altrui. Nel laboratorio di lettrice e critica entrano in gioco anche i numerosi testi - pubblicati o inediti - attraverso i quali Lalla Romano si confrontava con sé stessa e con la propria scrittura nel corso degli anni: prefazioni, note, conferenze che la portano a ripensare i propri stessi libri, a precisarne anno per anno gli intenti e il senso, a definire con consapevolezza un itinerario di coerenza estrema. L’intento dello studio - articolato in due parti (la prima che consiste nella trattazione e la seconda che offre i materiali ricostruiti, laddove possibile, in tutte le fasi di redazione d’autore) - si conferma quello di mettere meglio a fuoco la personalità di un’autrice che - come ha scritto Giulio Ferroni - “con la sua vita, con la sua scrittura […] ha riscattato tutto ciò che di prezioso ha trovato nel mondo e nel secolo che ha attraversato”. Ne risulta anche l’opportunità di un’ulteriore discussione del rapporto problematico tra scrittura e vissuto, centrale nell’opera di Lalla Romano e rispetto alle odierne tendenze delle letterature internazionali. Arcadia UniRoma

venerdì 11 giugno 2021

Giorgio Caproni: un poeta alla guerra sul fronte di Ventimiglia


Giorni aperti, scritto a Roma nel 1940, è un piccolo diario di guerra che narra l’esperienza del poeta Giorgio Caproni sul fronte occidentale e che, a buon diritto, si inserisce nella vasta produzione memorialistica riguardante la Seconda Guerra Mondiale.
Lo stesso Caproni lo definisce «un ingenuo sfogo della memoria» , recante i labili <10 segni stilistici del disimpegno con cui è stato scritto, ma che è invece emblema dei tratti più tipici di un narratore che ama raccontare per immagini, soffermandosi sulle minuziose descrizioni della natura e del paesaggio, che richiamano la poesia degli esordi in raccolte quali Come un’allegoria (1936), Ballo a Fontanigorda (1938) e Finzioni (1941).
 


Le pagine di Giorni aperti, scandite da un andamento anaforico che a tratti può rasentare la monotonia, si aprono ad incantevoli squarci lirici, tanto più efficaci quanto improvvisi, che introducono buona parte dei temi caratteristici del Caproni poeta. Del memoriale di guerra ho analizzato gli aspetti che con maggiore evidenza riprendono o anticipano alcune caratteristiche dell’opera in versi, come la descrizione della figura femminile o l’attenzione al paesaggio e agli agenti atmosferici, ai quali l’autore riserva una parte importante della narrazione che è soprattutto testimonianza di un lungo itinerario.
[...] Nell’autunno - inverno del 1940 Caproni pubblica, sempre sulla rivista «Augustea», il memoriale Primo fuoco che racconta l’esperienza militare vissuta sul fronte occidentale e che ricompare in volume con il titolo di Giorni aperti nel 1942. Tra le prime prose e il diario di guerra, si inserisce poi la scrittura di un romanzo che rimarrà incompiuto, e del quale, come verrà approfondito in seguito, solo pochi capitoli vedranno la luce nel dopoguerra.
Per più di un decennio prosa e poesia convivono strettamente nella penna dello scrittore, a volte influenzandosi in modo reciproco, trattando temi simili e ricostruendo immagini comuni. È quindi necessario valutare il Caproni narratore alla luce del lungo itinerario poetico che l’ha reso uno dei nomi più importanti ed originali del panorama letterario novecentesco ma, come ha giustamente sottolineato Adele Dei, non sarebbe opportuno ridurre lo studio dei suoi racconti ad un semplice confronto che ricerchi nella prosa le suggestioni tipiche della poesia, in quanto i due registri rimangono comunque separati a segnare percorsi autonomi ed entrambi di grande valore: "Sarebbe però certamente ingiusto limitarsi a cercare nel Caproni narratore le tracce della sua poesia, come se il suo faticoso impegno di quegli anni, quando la prosa supera per quantità di gran lunga i versi, fosse solo un percorso periferico, ancillare e subalterno alla nascita e alla prima maturazione di un grande poeta e non invece un itinerario parallelo, inestricabilmente intrecciato, eppure autonomo, divergente, e con una sua ben riconoscibile identità". <18
[...] Il giorno di Pasqua del 1939, un anno dopo il suo trasferimento a Roma <91, Giorgio Caproni è richiamato alle armi nel 42° Reggimento Fanteria e mandato a Genova. Nel giugno del 1940 partecipa alle operazioni di guerra sul fronte occidentale che dureranno per quattordici giorni, dal 10 giugno al 24 giugno, al termine dei quali il poeta verrà inviato prima a Vittorio Veneto e poi a Genova, per tornare a Roma alla metà di ottobre.
Come egli stesso racconterà a Carlo d’Amicis in un’intervista a «L’Unità» del 1995, all’arrivo a Genova venne mandato verso il confine francese a contrastare un esercito che avrebbe dovuto odiare, ma per il quale nutriva invece un profondo rispetto unito a profonda ammirazione per la cultura che quel paese rappresentava e che il poeta amava.
È importante a questo proposito non dimenticare come Caproni sia stato studioso e traduttore appassionato della letteratura francese.
[...] L’esperienza della guerra sul fronte occidentale segnò profondamente Caproni, lo scontro quasi disarmato <92 con un esercito più forte e agguerrito riempirono il suo animo di orrore e di paura, ma soprattutto di grande sdegno, tanto da portarlo a definire poi la guerra a Mentone «un capolavoro di insensatezza» <93.
Il ricordo di quei tragici momenti viene affidato alle pagine di un diario, Giorni aperti, scritto a Roma nel 1940 durante una breve licenza militare, pubblicato nel novembre del 1942 da Giambattista Vicari per le edizioni di «Lettere d’oggi», <94 dedicato ai familiari e all’amico Libero Bigiaretti e definito da Caproni stesso «Il mio piccolo De bello gallico»: "In guerra ho avuto paura: non sono mai stato un eroe, ma mi sono fatto coraggio. Ho combattuto sul fronte occidentale (ho scritto anche un diario, censurato a quel tempo e oggi introvabile)". <95
Alcune pagine di questo diario erano precedentemente comparse sulla rivista «Augustea» ma, a due anni di distanza dalla loro scrittura e dalla loro prima apparizione, Caproni aggiunge al volumetto una nota introduttiva nella quale sottolinea al lettore il carattere precario (la «insussistenza») di quelle pagine, scritte nel ricordo di una guerra la cui esperienza, viva e presente nella memoria, non può essere restituita appieno dalla scrittura
[...] Caproni racconta come il diario di guerra sia stato concepito in un periodo di “svago”, sia quindi lo sfogo della sua stessa memoria in un tempo di riposo, distante dalle vere pene descritte in quelle pagine e, proprio per questo, non può che risentire della leggerezza di quel momento, ben lontano dalle difficoltà della guerra. Anche se il nome del poeta non è da ricercare all’interno del memoriale, e non lo è nemmeno per quegli errori grammaticali che “divertiranno” il lettore, sta in ciò che Adele Dei, nella sua biografia caproniana, definisce «estraniamento dell’io» il motivo per il quale Caproni decide di pubblicarlo comunque. L’animo del poeta si trova infatti diviso tra la reale crudeltà dell’esperienza bellica, dura e viva nella memoria, e lo “svago” rappresentato vissuta e quella narrata.
[...] Probabilmente Giorni aperti non riesce a restituire in pieno l’esperienza, il dolore e l’insensatezza di quelle settimane di campagna militare contro i francesi anche perché, come riporta lo stesso autore in una intervista dei primi anni Settanta, il diario ha subito censure e tagli obbligati: "Giorni aperti (il mio piccolo De bello gallico) risente di tutte le mutilazioni allora imposte dalla censura. Ho purtroppo perso il manoscritto, e perciò non mi è stato possibile colmare le lacune. Così non v’è rimasta traccia di certe scene drammatiche o magari tragicomiche, che caratterizzano la “bella impresa” contro una Francia che noi giovani non riuscivamo in nessun modo - per affinità e per cultura - a sentire nemica". <97
L’autore rivela che ad essere censurate furono le parti più vitali del racconto concernenti i veri e propri atti bellici, considerate troppo sconvenienti dal regime fascista, e delle quali il testo risulta mancante; la narrazione si sviluppa infatti su un tono medio ed è totalmente priva di descrizioni eroiche o avvincenti. Osservando il manoscritto di Giorni aperti, conservato nel Fondo Caproni, Michela Baldini mostra però qualche perplessità riguardo l’attendibilità di queste dichiarazioni: per lei le parti censurate vengono modificate al fine di adattarsi maggiormente a quello che è lo stile dell’intero diario, sicuramente pacato, antiretorico e volto a mettere in evidenza l’insensatezza dell’impresa italiana sul fronte occidentale e la precarietà del reggimento a cui apparteneva l’autore rispetto a quello francese. A questo proposito Luigi Surdich ha evidenziato come: "L’atteggiamento di Caproni è improntato a una pacata ma ferma presa di distanza dalla celebrazione epica o eroica, e ciò avviene per un’inattitudine esistenziale all’immedesimazione col respiro profondo della realtà e della storia e per una coscienza di distacco, di estraneità, di lontananza". <98
Come si vedrà più avanti, è proprio l’antieroismo a caratterizzare la narrazione dell’impresa riportata in queste pagine, nelle quali l’attesa dello scontro con l’esercito francese, suscitata nel lettore dalla descrizione dei continui spostamenti del reggimento, viene poi delusa nelle poche righe in cui si esaurisce il racconto dell’attacco, dove il protagonista non è quasi mai il militare in azione ma è già narratore che osserva quanto accade intorno a lui. Rimane il fatto che, come ha rilevato Giuliano Manacorda, Giorni aperti è una delle poche testimonianze sull’esercito italiano provenienti dal fronte occidentale ed è «l’unico documento che abbia valore letterario, un testo scritto più da letterato che da soldato» <99; inoltre la prosa permette a Caproni di mettere in scena un’esperienza autobiografica che segnerà per sempre la sua vita ma anche di sviluppare quelle costanti che saranno caratteristiche della produzione poetica di ritorni, partenze e paesaggi, e che daranno all’autore la possibilità di trattare l’esperienza bellica anche nelle sue raccolte principali. Nel riadattamento per il volumetto Il labirinto, il diario di guerra compare con il titolo ampliato di Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali e Caproni indica anche il periodo di scrittura e il motivo (una breve licenza militare) che lo portarono a scrivere quelle pagine. Ne aggiunge anche gli estremi cronologici di composizione e pubblicazione, in modo che il lettore sia in grado di inquadrare le prose nel periodo giusto della sua opera in versi. <100
Uno dei generi più diffusi nella letteratura italiana tra il 1945 e l’inizio degli anni Sessanta è la memorialistica di guerra che si compone di memorie, diari e resoconti riguardanti gli eventi accaduti soprattutto sotto il regime fascista e nel periodo bellico e postbellico. Il diario rappresenta lo strumento attraverso il quale l’intellettuale chiamato alle armi denuncia l’esperienza di guerra o semplicemente la riporta sulla pagina perché non venga dimenticata, perché sia testimonianza di ciò che è accaduto. Si tratta quindi di un documento autobiografico che attesta quanto è stato vissuto in prima persona dall’autore attraverso un racconto veritiero condotto da un narratore che è allo stesso tempo il protagonista dell’intera storia.
Il sottotitolo Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali ben si presta a sintetizzare quanto viene descritto in Giorni aperti, vero e proprio memoriale di guerra che racconta gli spostamenti del protagonista a seguito del suo reggimento e che appartiene a buon diritto alla vasta produzione diaristica sulla Seconda Guerra Mondiale.
[...] A questo proposito è interessante notare come in alcune parti di Giorni aperti l’autore metta in evidenza il fatto che compagni ed avversari costretti con lui a combattere la stessa guerra non siano altro che soldati, non importa se appartenenti all’esercito nemico o a gradi più alti del suo: sono tutti semplici soldati nella tragicità dell’esperienza che li accomuna. Così viene ricordato come il maggiore ferito che parla al medico con parole “umane” non sia che un soldato nel suo momento di dolore, per nulla diverso rispetto ai molti altri feriti durante lo scontro, e lo stesso avviene quando il poeta incontra due “nemici” francesi: "Senonché un episodio ancor nuovo sollecitò la mia attenzione: dal sentiero che veniva giù dal costone dirimpetto scendevano quattro uomini che, come mi si avvicinarono (avevano il passaggio obbligato), riconobbi essere due dei nostri e due francesi; i quali, ultimi, disarmati, avanzavano con l’occhio franco, senza sgomento: due occhi nerissimi, la divisa a cachi e l’elmetto come quello dell’altra guerra. Uno aveva un braccio al collo, e s’aiutava con l’altra mano dove il sentiero era più scabroso. Ascoltavano senza batter ciglio, come lontanissimi, le parole che il tenente scandì in francese: né avviliti né alteri: e quando ripresero la via non un segno era mutato sul loro viso: erano anch’essi soldati". <103
Nella scarna limpidità della sua prosa, Caproni propone uno spaccato di ciò che significhi essere soldati: obbedire agli ordini e non lasciare spazio alle emozioni, rimanere combattenti prima che uomini. Così i militari francesi con in testa l’elmetto uguale a quello dell’«altra guerra», non hanno nulla di diverso dagli italiani, sono soldati in una guerra che, proprio perché tale, non si differenzia da quelle combattute in precedenza.
La narrazione del tragitto compiuto, dei paesi attraversati, degli ambienti e dei luoghi che caratterizzano la campagna militare a cui partecipa Caproni, si snoda per quaranta brevi capitoli che, come pagine di diario puntualmente aggiornate ma prive di qualsiasi datazione, forniscono al lettore un personale resoconto di ciò che il protagonista vive e vede e che, oltre alla loro importanza all’interno della biografia caproniana, rappresentano innanzitutto, come già detto, una rara testimonianza proveniente dal fronte occidentale nel primo anno di guerra. <104
 

Una vista dalle alture di Dolceacqua (IM)

Il memoriale racconta l’esperienza della battaglia contro l’esercito francese ripercorrendo l’itinerario del soldato a seguito del suo reggimento da Dolceacqua a Ventimiglia fino al monte Grammondo, che sarà lo scenario dello scontro, al quale seguono la sosta presso la valle del Roja, il rientro a Genova per una licenza di alcuni giorni e il successivo ritorno a Ventimiglia.
 

Villatella, Frazione di Ventimiglia ed il Monte Grammondo

La narrazione continua poi con lo spostamento lungo la costa ligure, l’attraversamento della Pianura Padana e l’arrivo prima a Vittorio Veneto e poi a Follina. Caproni ottiene infine una licenza che gli consente di tornare nuovamente a Genova.
Il racconto si apre in medias res con la descrizione della truppa militare in movimento verso il fiume Roja e prosegue con l’arrivo a Dolceacqua dove, senza nemmeno il tempo di accamparsi, i soldati vengono raggiunti da un nuovo ed improvviso comando che impone loro di marciare verso Ventimiglia per prepararsi al possibile attacco contro l’esercito francese. Questo sarà il primo dei molti e continui ordini e contrordini di spostamento che obbligheranno il reggimento di Caproni a compiere un viaggio in apparenza quasi senza sosta, nella descrizione del quale il narratore stesso sembra non avere il tempo di soffermarsi a raccontare i dettagli più importanti. È interessante notare come la velocità con cui il racconto passa da un luogo all’altro, da un accampamento a quello successivo, voglia rispondere ad un’urgenza di verità, ad un esigenza del Caproni narratore di suscitare nel suo lettore la fretta di quei giorni e l’esasperazione di una situazione che non lascia spazio a momenti di riposo e sollievo. Alle marce ininterrotte ed estenuanti, così come alle disposizioni di spostamento che giungono spesso nelle ore del sonno o dell’attendamento da poco compiuto, viene riservata all’interno del memoriale un’attenzione molto più ampia rispetto alla battaglia stessa che assume quasi l’aspetto di una tregua a quel continuo vagare che è la vera fatica di un’impresa militare anche storicamente priva di gesti eroici.
 

Alcune delle alture del ponente ligure, teatro di guerra nel giugno del 1940, viste da Dolceacqua

Alle prime luci dell’alba il reggimento si sposta nuovamente verso Grammondo che, dopo una lunga marcia forzata, viene scelto come luogo dell’attendamento in vista dello scontro imminente. Il mattino seguente, presso il greto del fiume Roja, inizia la battaglia, nella quale il protagonista ha il compito preciso di mantenere il collegamento tra il comando di battaglione e la compagnia di mitraglieri che avanza. Lo scontro con l’esercito francese, unico momento d’azione militare raccontato all’interno del memoriale, non occupa che un breve capitolo e si riduce essenzialmente alla descrizione del violento temporale che si abbatte sui due eserciti e dei molti feriti la cui debolezza determina la ritirata fino al comando di battaglione. All’azione militare contro i francesi vengono riservate due sole pagine eminentemente descrittive, quasi istantanee fotografiche nelle quali sono fissate poche immagini che restituiscono appena qualche notizia dello scontro: i colpiti stesi sulle barelle con il volto coperto, il tenente medico che lavora in difficoltà sotto il diluvio d’acqua, il maggiore con una gamba spezzata e il sangue versato sull’erba fredda e bagnata. All’interno della narrazione non viene dato spazio ai sentimenti del soldato Caproni né alle azioni che lo vedrebbero protagonista: il suo compito sembra essere quello di registrare l’accaduto, di osservare quanto avviene attorno a sé, attento comunque a non distrarsi troppo. La mancanza di una qualche riflessione profonda non deve però sorprendere il lettore il quale è avvertito da subito della volontà dell’autore di tenere privati i pensieri più intimi: "[…] il momento non ammetteva indugi; e in quattro e quattr’otto mi ritrovai in fila con gli altri, l’animo già rivolto ai più alti pensieri. I quali, per essere tutti miei, privatissimi, non metterò sulla carta: anche perché chi ha cuore li immagina agevolmente, senza necessità ch’io apra bocca. (E chi non ha cuore non li capirà mai, nemmeno s’io vi scrivessi su un trattato tirato con tutte le regole, dall’abc ai logaritmi.)". < 105
Sul far della notte al protagonista viene dato il nuovo incarico di recarsi a recuperare il rancio, spostandosi alcuni chilometri dal reparto, ed è quindi costretto ad allontanarsi dai compagni che perderà a causa di alcuni imprevisti e che ritroverà solo più avanti nel racconto. L’itinerario di Caproni, accompagnato ininterrottamente dalla pioggia battente e dal rumore dei mortai, riprende poi sotto il comando di un nuovo ufficiale e, cessata la pioggia ed insieme ad essa l’imminente pericolo (è stato infatti stipulato l’armistizio), i militari accendono un fuoco notturno attorno al quale scaldarsi e compiere l’appello dei morti. Anche in questo caso, come rileva Michela Baldini, la computa dei caduti assume la valenza di un rito: non vi è alcun dramma né alcuna tragedia, la descrizione dell’evento è pacata e la presenza del protagonista appare, più che una sentita partecipazione, l’adempimento di un dovere.
 

Varase, Frazione di Ventimiglia (IM)

Sulla destra Calvo, Frazione di Ventimiglia

Una vista su Bevera, altra Frazione di Ventimiglia, posta a valle sia di Varase che  di Calvo

All’arrivo del nuovo giorno la truppa si muove verso Calvo per poi raggiungere Varese [ndr: Varase, Frazione di Ventimiglia (IM)], dove le tende rimarranno stabili per due settimane consentendo un temporaneo radicarsi di abitudini e amicizie tra i soldati dello stesso reggimento. Un nuovo compito assegnato al protagonista, che sostituisce un compagno ferito, lo costringe ad alcune giornate di ozio che amplificano in lui sentimenti di nostalgia e malinconia. Al soldato che ha marciato per chilometri e chilometri, reduce dalla battaglia, con il solo desiderio di sopravvivere, si prefigurano lunghe giornate d’immobilità e ozio che finiscono per logorarlo nel corpo e nell’anima. Ai momenti di relativa calma, che consentono l’adattamento alla vita militare, consegue un’inattività spesso difficile da sostenere in quanto portatrice di pensieri tormentati e malinconici: "E come l’erba, per lunghe giornate di sole ed ozio, già s’era logorata lungo le piazzole, il sergente maggiore Bersano mi mandò a chiamare nella tenda della fureria, per rimpiazzare il posto di Baiardo ferito. […]. E da quel momento la mia vita rimase sul tavolo di rozzi assi, all’aperto, in un ozio in cui maturavano sentimenti e presentimenti malinconici, nutriti di nostalgie". <106
[...] Con l’apertura delle licenze, Caproni è tra i primi a poter tornare a casa per qualche giorno e, giunto alla stazione di Ventimiglia, prende insieme ad altri militari il treno diretto a Genova. All’arrivo in città rivede il padre, la moglie Rina, la madre, la sorella e la figlia Silvana ma, dopo pochi giorni di licenza, fa ritorno di notte a Ventimiglia, dove ritrova alcuni compagni ed un ufficiale, con i quali si dirige verso il blocco di Varese [sic!]. Il ricordo delle ore trascorse a casa svanisce in fretta e il protagonista segue il reggimento alla volta di Santo Stefano [ndr: Santo Stefano al Mare (IM), all'epoca comune di Riva-Santo Stefano], dove un vento improvviso costringe i reparti a disfare nuovamente le tende e a spostarsi verso Pompeiana. 

Pompeiana (IM)

Lì, riprese le normali istruzioni, Caproni trascorre alcuni giorni di solitudine al campo, che gli consentono di poter scrivere qualche lettera da inviare ai familiari e alle persone care. Una sera, in seguito all’ordine di trasportare il materiale al Deposito, il poeta si ritrova ancora a Santo Stefano, per prendere il treno diretto a Genova. Segue una sosta a Terralba dove ha l’occasione di rincontrare la moglie e la figlia, prima di ritirarsi in caserma nella quale sopraggiunge in lui una profonda nostalgia del campo. Ritornato poi a Pompeiana e ricongiuntosi con il reggimento, gli giunge durante la notte il nuovo ordine di trasferimento verso Santo Stefano dove, il mattino seguente, la truppa si muove in direzione di Genova. Alla stazione di Sampierdarena il convoglio riparte attraversando la Liguria e arrivando in Veneto alle prime luci dell’alba.
La descrizione dei paesaggi intravisti dal treno, come quella dei molti luoghi in cui il protagonista sosta durante le settimane di campagna militare, rappresenta uno dei momenti più lirici di tutta la narrazione. Come verrà approfondito più avanti, alla natura che fa da sfondo all’impresa militare, ai fenomeni atmosferici che accompagnano le marce dei soldati e ai paesi attraversati di notte o di giorno, viene riservata un’attenzione particolare all’interno del diario che, proprio in questi passaggi, custodisce la sua particolarità e racchiude in sé gli elementi distintivi del Caproni poeta.
A questo proposito risulta interessante un passo del memoriale in cui il soldato si sofferma ad ammirare un piccolo trifoglio nato tra l’erba dell’accampamento, proprio vicino ad una maschera antigas. Il potere della natura di saper fiorire nonostante la guerra, e quasi a dispetto della guerra stessa, trova un esempio importante nella pagine di Giorni aperti.
10 G. Caproni, Introduzione a Giorni aperti. Itinerario di un reggimento dal fronte occidentale ai confini orientali, Roma, Lettere d’oggi, 1942. Ora in A. Dei, Giorgio Caproni, Milano, Mursia, 1992, p.31.
18 A. Dei, Giorgio Caproni, cit. p.8.
91 Caproni si era trasferito a Roma, dove aveva vinto il concorso per un posto di maestro di prima categoria, il 1° novembre del 1938.
92 «[…] Fu un vero macello. Loro erano agguerritissimi, noi praticamente disarmati. Le pallottole erano di un calibro superiore alla canna, e il nostro colonnello, paternamente, ci sconsiglio di usarle perché ci sarebbe scoppiato il fucile tra le mani. Questa fu la nostra guerra a Mentone». cit. in G. Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti 1948-1990. A cura di M. Rota, introduzione di A. Dolfi, Firenze, Firenze University Press, 2014, p.446.
93 Dall’intervista rilasciata da G. Caproni a Carlo d’Amicis il 21 agosto 1995 per «L’Unità», ora in L’Opera in versi, cit. p. LVI.
97 Dall’intervista di G. Gigliozzi a G. Caproni, La nostalgia di narrare, cit. Ora in A. Dei, Giorgio Caproni, cit. p.32.
98 L. Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, cit. p.60.
99 G. Manacorda, Caproni prosatore: il trittico degli anni ’40-’50, «Resine», 2° trimestre 1991, n.48, pp. 3-7.
100 Il memoriale viene scritto nel 1940 e divulgato su rivista nel 1942, a cavallo tra la pubblicazione delle raccolte poetiche Finzioni (1941) e Cronistoria (1943).
103 G. Caproni, Il labirinto, Milano, Garzanti, 1992, p.24.
104 Nel volume Giorgio Caproni narratore, cit. Michela Baldini cita opportunamente le altre testimonianze provenienti dal fronte occidentale raccolte da G. Manacorda e scritte prevalentemente da ufficiali con l’intento di propaganda del regime: Vincere sul Fronte Alpino Occidentale, pubblicato a cura del Ministero della Guerra nel 1941, Dalle Alpi al Pindo del generale Alfredo Obici, Guerra alpina dell’ufficiale Tullio Giordana, La battaglia nel settore Germanasca-Pellice dell’ufficiale Adelmo Pederzani, e i volumi Ricordi di guerra di un alpino di Tonino Lupi e Rinascita. Confessioni di un combattente di Giulio Barsotti.
105 G.Caproni, Il labirinto, cit. p.18.
106 Ivi, p. 29.
Lucia Pasqualotto, «Del racconto però mi è sempre rimasta la nostalgia»: Giorgio Caproni narratore, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari, Venezia, anno accademico 2014/2015

 

sabato 5 giugno 2021

Come al solito ritrovo Bruno Fonzi


Il romanzo di Fonzi si ambienta sulla riviera ligure, dove un gruppo di ricchi sfaccendati recita - fra partite di tennis, cene e mondanità - una commedia imprevedibile che si rovescia in dramma.
Redazione, Bruno Fonzi, Tennis, Einaudi, 1973, Antro di Ulisse   

[...] Ricordo che quando veniva a trovarmi a Bordighera dimostrava un attaccamento a quei luoghi e ad un comune amico in particolare, lo scrittore Guido Seborga, l’Hess della Resistenza e dell’impegno socialista all’Avanti che aveva poi abbandonato per dedicarsi  alla pittura e alla scrittura nell’immediato entroterra bordigotto. Attorno al mitico locale “Che Louis” in viale Italia si trovavano intellettuali come lui, Betocchi, Navarro (affezionatissimo di Bordighera e di Venezia  per le sue vacanze) e Bruno Fonzi che a Bordighera dedicò il romanzo Tennis. Ero un giovane universitario ed ho potuto partecipare di quel clima solo   attraverso i suoi epigoni, notandone le profonde inquietudini esistenziali che non bastavano più bevute a rasserenare. Hess, sicuramente il più affascinante e libero, era profondamente deluso e si poteva cogliere con immediatezza. Massimo Novelli ha scritto di lui in modo raffinato, cogliendone l’arte e il travaglio interiore profondo [...]
Pier Franco Quaglieni, Quelle vacanze nella Liguria torinese, Lo Spiffero, 3 agosto 2015 


Il mio primo rapporto con Bruno Fonzi risale al dicembre del 1974. Nell’aprile di quell’anno aveva pubblicato, nei “Nuovi Coralli” di Einaudi, I pianti della liberazione, quel racconto suo bellissimo che faceva parte della prima raccolta Un duello sotto il fascismo del ’61. Il due dicembre mi scrisse per ringraziare dell’articolo dedicatogli. S’avviò così un’amicizia durata poco meno di due anni, ma intensissima e profonda. “Come se ci conoscessimo da molto”, diceva. Ci vedemmo di lì a poco a Milano per un breve incontro tra due librerie, la casa Garzanti, un ristorante. Portava la sua eleganza come il colore degli occhi e l’andatura nobile che lo contrassegnava. Era nato a Macerata nel 1914. A Macerata era rimasto fino al ’26 quando la famiglia si era trasferita a Torino. Dopo la laurea in Scienze Economiche e Commerciali, negli anni Quaranta sarà a Roma dove intreccerà amicizie che si interromperanno con il suo spegnersi: Moravia, Elsa Morante, Giorgio Bassani, Giacomo Debenedetti, Ennio Flaiano, Niccolò Gallo, Mario Pannunzio che lo chiamerà a collaborare, per circa un decennio, a “Il Mondo”. Nel ’49 fissa la residenza definitiva a Torino, dove sposerà Ada Fosco, e sarà chiamato, da Cesare Pavese, ad occuparsi della collana di narrativa inglese e nordamericana. Poco prima della morte, nel giugno del ’76, lascerà l’Einaudi per Garzanti. Le insidie dell’intelligenza si era intitolato il seminario di studi presso l’Università di Urbino, Istituto di Filologia Romanza, tenutosi il 10 e 11 maggio 1988, a cura di Gualtiero De Santi e al quale parteciparono Gina Lagorio, Mario Santagostini, Donatella Marchi, Massimo Raffaeli, Fabrizio Adanti, Maria Lenti e il sottoscritto.
A oltre dieci anni dalla sua perdita, tornava l’identità di scrittore e di traduttore superbo che era passato attraverso le regioni più intense e impervie della letteratura che gli premeva: il Sartre de La nausea (1947) e l’Hemingway di Un addio alle armi (’45), il Teatro di Arthur Miller (’59) e quello di O’Neill (1962), La fortezza di Singer (’72) e le Memorie di una maitresse americana della Kimball (’75), Ragtime di Doctorow 8’76) e I libri della mia vita di Henry Miller (’76), per citarne alcuni.Scese ad Ancona, provenendo da Firenze, nel marzo del ’76, per presentare alla Biblioteca “Benincasa” la raccolta dei suoi racconti di una vita, Equivoci e malintesi, che Einaudi aveva pubblicato poco prima. Poggiata la valigia da certi suoi parenti di Via Villarey, risalimmo in auto per raggiungere Portonovo e rammentare le pagine di Musil ne “Il viaggio in paradiso”, appendice de L’uomo senza qualità, nel quale quella baia è toccata dalla grazia della scrittura e dei sensi. Ripercorremmo l’itinerario della sua infanzia per la città ferita ancora dal terremoto del ’72 e con le tracce aperte dell’ultima guerra europea: la via delle carceri, i palazzi del Guasco, di San Pietro, l’arcivescovado, il porto.
Camminava nell’impermeabile scuro tutto abbottonato e raccontava una storia di brevi capitoli lasciando che crescesse il ritratto del ragazzino che era stato, occhi vivi e veloci, in quei luoghi tra l’Anfiteatro e Piazza San Francesco. Salendo per la Cattedrale gli dicevo che lungo quel percorso – e più sotto – Visconti aveva girato, nel ’42, le scene anconetane di Ossessione, con Girotti, la Calamai, Juan De landa, Elio Marcuzzo. Anche le vie di quel film erano, in gran parte, scomparse con i disastri dei bombardamenti. Poi Villa Bosdari verso il Trave, dove cenammo, da soli, nel conforto di una conversazione che durava da ore e che avrebbe occupato gran parte della notte. Sulla spiaggia di Portonovo mi parlò di Pavese, degli anni einaudiani. Consegnava figure e fatti oltre il mito e la leggenda, nell’asciutta evidenza delle cose. Non condivideva la pubblicazione de Il mestiere di vivere, il diario d’esistenza che si chiuderà con il suicidio dello scrittore nell’agosto del 1950, a quarantadue anni.
Appoggiati a una barca rovesciata vicino alla Torre De Bosis affrontammo i suoi libri. Ironico, discreto, attento, sfogliava le sue pagine e le pagine dell’Italia con la stessa andatura esatta della scrittura. Le Marche, per lui, erano elegia e memoria. Un suo romanzo del ’64, Il maligno, era stato ambientato “in quella zona dell’Italia centrale imprecisa e ibrida quant’altre mai, dove confinano l’alto Lazio, l’Umbria e le Marche” (Giorgio Bassani). La presentazione del giorno dopo, affollatissima e che gli piacque proprio per il carattere di imprevedibile festa composta, si chiuse in un ristorante di Piazza del Plebiscito. Poi uscimmo a camminare fino al Porto che ancora consentiva la passeggiata sulle banchine libere, tra bitte e gomene e l’odore d’acqua morta. Il giorno dopo raggiungemmo Recanati e Macerata, senza malinconia. La coscienza vigile del reale l’avvisava ogni volta degli smottamenti e dei rischi dell’emozione. Seppi, la mattina del 5 giugno, da un piè di pagina de “Il Giorno”, della sua improvvisa morte a Milano. La civiltà laica e l’educato anarchismo tacquero all’improvviso come la civile gentilezza, la pazienza dignitosa, la raffinata intelligenza. Nel suo lavoro di autore e nelle scelte del traduttore non c’è mai stata la volontà di piegare il reale, ma l’esigenza di approssimarsi alla verità delle immagini sensibili, delle situazioni, per “restituire ciò che abbiamo preso dal granaio della vita” secondo l’Henry Miller da lui stesso “doppiato” in italiano. L’abitava il bisogno di dire quel che aveva in testa mediante la forma più vicina a “come” lo sentiva. L’universo delle idee e degli sguardi: così si compone il giuoco di macchine linguistiche e di posizioni stilistiche del più controverso romanzo suo del ’73, Tennis. Dopo trentuno anni la voce morbida suggerisce: “Che lo scrittore sia interprete della società mi pare indubbio. Altrettanto indubbia mi pare la sua nessuna influenza sull’andamento delle cose: […] quasi sempre la sua testimonianza – e magari, quando c’è, il suo messaggio – vengono recepiti a posteriori. Troppo tardi”
Francesco Scarabicchi, Love in Translation: Bruno Fonzi, Le parole e le cose 2 



Nel maggio del 1958, dalle pagine de “Il Mondo”, Bruno Fonzi, scrittore che vale la pena riscoprire - con Einaudi ha pubblicato Il maligno e Tennis, ha tradotto, tra i tanti, Faulkner, Singer e Hemingway - racconta che “Gli americani hanno infine riconosciuto che Pound non è matto e l’hanno liberato dal manicomio”. Il pezzo è ben scritto, un robusto sketch narrativo, e costituisce una specie di cliché: lo scrittore dettaglia, per sommi capi, la cornice della vicenda poundiana - fascino, fascinazione per il fascismo, arresto, manicomio criminale -, e il suo incontro con il poeta, a Rapallo. La chiusa del pezzo è saporita - “Lo rividi di sfuggita a Roma… Aveva il cappello a larghe tese, un bastone dalla punta ferrata e un lungo sigaro. Mi parve proprio ammattito” - e dimostra, come altri articoli (pressoché esemplari, cioè aurei esempi di giornalismo narrativo) raccolti in È inutile che io parli, la quasi assoluta, appagata, indifesa incomprensione di Pound da parte della cultura italiana. Questa è una delle scabre scoperte del libro, edito da De Piante e curato da Luca Gallesi, che raccoglie “Interviste e incontri italiani” di Ezra Pound dal 1925, l’anno in cui il poeta si trasferisce a Rapallo, al 1972, l’anno della morte, che lo coglie a Venezia, dove è sepolto.
[...] Credo che il caso sia retto da un remota armonia, allora, perché nei giorni in cui De Piante manda in libreria È inutile che io parli, Massimo Bacigalupo, insigne studioso e traduttore di Pound, ha fatto ristampare il libro di suo padre, Giuseppe Bacigalupo, Ieri a Rapallo, che custodisce un mirabile ritratto di “Ezra Pound”. Il ritratto è bello perché privo di civetterie intellettuali e di tremori politici. Si racconta l’arresto di Pound – “Stava traducendo il Libro di Mencio il 3 maggio 1945 quando due partigiani lo prelevarono nella casetta di S. Ambrogio. Se lo mise in tasca e li seguì” –, il carcere, l’incontro, nel 1962, in Liguria, dopo un ricovero nella Casa di Cura di Martinsbrunn, vicino a Merano, “dimagrito, invecchiatissimo… in un mutismo quasi assoluto”. Giuseppe Bacigalupo è medico di fama e conduce Pound nella sua clinica, Villa Chiara: il poeta è operato dopo aver rilevato “una grave intossicazione uremica”. I ricordi più estasianti, però, affondano nel 1926, quando Bacigalupo conosce Pound “sui campi del Tennis Club di Rapallo. Ero agli inizi di uno sport che mi avrebbe dato molte soddisfazioni anche in campo agonistico, mentre Pound vi veniva a sfogare le energie non esaurite della sua vulcanica attività intellettuale, saltando e sudando copiosamente tra esclamazioni assai poco ortodosse”. Insieme a Pound, il giovane Bacigalupo partecipa “a qualche piccolo torneo nelle cittadine rivierasche, dove giungevamo sulla Fiat 509 torpedo, carichi di entusiasti del tennis e guidata da mia madre”. Quando Pound vinceva, insieme al giovane, talentuoso amico, “era giulivo come un ragazzo”. Sapeva giocare: “con poco stile ma con inesauribile energia e combattività”. Il poeta sul campo da tennis. Non avrebbe desiderato altro ricordo: lì, nel gioco, dove tutto è vento, volontà, vigore e verbo scomposto. E l’azzurro - si sa, siamo in Liguria - è una traccia di vetro.
Redazione, Mi parve proprio proprio ammattito. Ezra Pound in Italy: l’idolo incompreso, Pangea, 15 aprile 2021   

Anni fa, chiacchierando con un caro amico a proposito di racconti mi disse che gli era stato nominato da non ricordo chi questo Bruno Fonzi come uno dei migliori scrittori italiani di racconti del Novecento. Era un autore che non conoscevo (d’altronde ho molte lacune), così qualche tempo dopo in biblioteca presi un suo piccolo libro, I pianti della Liberazione, pubblicato da Einaudi singolarmente negli anni ‘70 ma che faceva parte della raccolta di racconti d’esordio del 1961, Un duello sotto il fascismo, pubblicata anch’essa dall’editore torinese. Mi piacque e mi ripromisi di approfondire ma, come mi capita spesso, sono facile alla distrazione e le mie letture vagolano. Un paio d’anni fa ero in questa piccola libreria in città, Les Bouquinistes, che ha un bel catalogo di libri usati, e dando un occhio come al solito ritrovo Bruno Fonzi. Due libri: uno era quello già letto, e l’altro era questo romanzo, Il Maligno, del 1964. Presi e portai a casa e misi a posto, lì tra le letture da fare. Ogni tanto mi guardava ma non era il momento, credo, e così l’ho letto solo adesso.
Siamo negli anni ‘30, in un piccolo paese appenninico a un centinaio di chilometri da Roma. Il Fascismo è un’ombra lontana vista perlopiù solo come opportunità di possibile potere.
Il Maligno invece è lì, da qualche mese, in una casupola di una sola stanza, vicina al bosco, dove abitano la Bibiana e la piccola figlia Settimina. Di notte accade qualcosa, la voce gira e le persone vanno a vedere, a sentire. Le autorità cercano di vigilare, ma è chiaro come solo l’intervento del parroco possa liberare il luogo e riportare la pace; la Bibiana però si deciderà a chiamarlo?
[...] Chi è, cosa è questo Maligno sulla bocca di tutto il paese ma che non si dovrebbe/potrebbe nominare? Di sicuro c’è, di sicuro “parla”, di sicuro scombussola e travolge la vita delle persone che vi si agitano intorno. Perché il Maligno non si sposta, il Maligno sta; il Maligno non appare, il Maligno è. Il Maligno è “la valvola rivelatrice” dei peccati e i peccatucci, esplicita i dubbi e rende reale ciò che si finge di non vedere.
Il Maligno è, da un punto di vista narrativo, l’escamotage che permette all’autore di indagare la natura umana, di occuparsi delle persone e del paese. Fonzi, traduttore dal francese e dall’inglese, cita esplicitamente nel testo Sotto il sole di Satana, romanzo di Bernanos, e non si può non tenerne conto, ma ho ripensato anche ai racconti di Winesburg, Ohio, di Sherwood Anderson perché in ogni capitolo presenta personaggi diversi, e via via li fa interagire tra loro e alcuni come ovvio ricorrono più frequentemente e prendono rilevanza mentre altri rimangono sullo sfondo ma sono essenziali per fornire il quadro generale.
Così c’è il vecchio principe nella dimora decaduta che ospita la cugina-contessina, donna repressa che sogna leggendo libri francesi in lingua (tra cui quello di Bernanos, in cui si immedesima portando il nome di una delle protagoniste), c’è il parroco goloso che ha meno fede dei suoi parrocchiani, c’è la maestra cattolica integerrima, c’è il nuovo norcino che ha da vincere le diffidenze della clientela, c’è l’amministratore del feudo che ha qualche mira, c’è la governante, ci sono i carabinieri, c’è l’oste del Dopolavoro e certo ci sono la Bibiana e Settimina e c’è il Maligno.
La scrittura di Fonzi non indugia né indulge e il paese cui dà vita lo si sente reale, prende forma mentre si avanza nella lettura e non ci viene risparmiato nulla, eppure anche le scene più forti non appaiono eccessive o fini a loro stesse. C’è qualcosa che va oltre i fatti che vengono narrati, qualcosa che fa dei personaggi persone, qualcosa che precede e che rimane [...]
Andrea Brancolini, Bruno Fonzi, Il maligno, Lankenauta, 11 dicembre 2020   


Una Roma sguaiata e alla fame, da poco liberata dagli americani e ancora sfigurata da vent'anni di regime, fa da quinta all'irresistibile racconto di una giornata nella vita del commendator Mastroluongo, «capodivisione al ministero», marito-padre tormentato e sospettoso di ogni cambiamento. Un funerale rocambolesco, l'assedio di un usciere che fa affari con la borsa nera, l'inopinata risoluzione di varcare l'ingresso del banco dei pegni prefigurano un finale cupo e inesorabile, finché un incontro fortuito apre al protagonista le porte di una casa incantata e ricca di sorprese. "I pianti della liberazione" uscì per la prima volta nella raccolta "Un duello sotto il fascismo", pubblicata da Einaudi nel 1961. Postfazione di Christian Raimo.
Presentazione, Bruno Fonzi, I pianti della Liberazione, Abbot, 2021, Libraccio.it

Siamo a Roma, nel momento del trapasso dalla monarchia clerico-fascista a una mai nata repubblica fondata sui valori della Resistenza. Trent’anni sono trascorsi sull’alto burocrate commendator Mastroluongo senza segnare una ruga: nulla è mutato nella sua mentalità. Pavido, bigotto, anche se in fondo di buon cuore, ridotto in miseria dal carovita, per soccorrere un suo coetaneo il commendatore finisce in una casa d’appuntamenti, e vi conosce quelle delizie che il menage coniugale gli aveva sempre negato. Nella sua avventura, raccontata con una ironia tagliente che diventa giudizio morale, si riflette il quadro di una Roma «anno zero», scardinata e arruffona. Ha scritto Arnaldo Bocelli: «Particolarmente bella è la figura della “signora” Speranza, la matura ma ancora godereccia padrona di quella casa, di un impudore così naturale da sembrare quasi pudico… E di vigoroso risalto è l’ambiente familiare del commendatore, con quel figliolo anticonformista, terrore dei genitori, eppur unico barlume in quel tenebrore. Un racconto felice, che è già un punto d’arrivo». Se l’impianto linguistico e il felice disegno dei personaggi ne garantiscono l’intatta validità, l’aver individuato nel momento di massima esplosione della retorica populisteggiante la vera «ala marciante» del sistema, fa di questo libro un piccolo classico nel panorama della narrativa italiana degli anni cinquanta.
Presentazione, Bruno Fonzi, I pianti della Liberazione, Einaudi, Nuovi Coralli, 1974, Einaudi    

Tra la fine del 1953 e l’inizio del 1954 Claudi, incoraggiato forse da alcuni amici <141, spedisce presumibilmente il manoscritto de L’anatra mandarina all’Einaudi. L’eventualità di pubblicare il testo viene considerata dall’autore come «una possibilità di lavoro ancora libera e felice, un’espressione di personalità» <142. L’opera si caratterizza come la realizzazione di «un “libro” da un diario di pensiero» <143, in cui l’autore cerca di mostrare la sua riflessione teorica a partire dalla sua dimensione biografica, operazione che gli costa la fatica di passare «da un problema a un altro, da un piano intellettuale ad un altro» <144.
Il 5 ottobre del 1954 Bruno Fonzi <145 e Renato Solmi <146 rispondono a Claudi ricusando la pubblicazione del testo. Le motivazioni del rigetto vengono individuate in problematiche di natura principalmente teorica. Solmi considera il testo «anacronistico» <147 e non in linea con l’impostazione ideologica della casa editrice torinese, in quanto l’individuo si caratterizza come «un prodotto della storia, e tutt’altro che “eterna luce trascendente”» <148. Oltre alle critiche di Solmi, Fonzi precisa come «alcuni capitoli mancano di quell’assoluto rigore stilistico, o concettuale, che il genere richiede; o meglio, l’approssimazione stilistica riflette l’imperfetta chiarezza concettuale» <149. Gli effetti psicologici di queste critiche sono devastanti e amplificano una situazione già difficile e dolorosa, come descritto nel diario 1954: "Il rifiuto del mio libro da parte di Einaudi è stato un colpo netto che ho avvertito come una pugnalata allo stomaco. Qualunque siano le ragioni è stato tuttavia un rifiuto, il colpo di ritorno di boomerang lanciato in una direzione sbagliata" <150.
141 «Ho dato in lettura quella specie di piccolo o grosso zibaldone che mi accade talvolta di indicare col nome di diario» (Diario 1949-1955, p. 49). E più avanti troviamo: «Pare che certo mio diario filosofico piaccia. Oggi ho sognato una bella edizione presso uno degli editori più importanti d’Italia» (Ivi, p. 50).
142 Diario 1954 gen, p. 20.
143 Ivi.
144 Ivi.
145 Bruno Fonzi (Macerata, 27 gennaio 1914 - Milano, 5 giugno 1976) è stato uno scrittore e traduttore italiano, collaboratore di case editrici.
146 Renato Solmi (Aosta, 27 marzo 1927 - Torino, 25 marzo 2015) è stato un germanista, traduttore e insegnante italiano.
147 F.C., Lettera Einaudi, 5 ottobre 1954. La lettera non è stata archiviata ed è conservata nei documenti personali di Claudi.
148 Ivi.
149 Ivi.
150 Diario 1954 lug., p. 29.

Gabriele Codoni, Claudio Claudi: un episodio sconosciuto di umanesimo nel secolo breve. Biografia intellettuale, introduzione critica ed edizione filologica di Realtà e valore, Tesi di dottorato, Università degli Studi Urbino Carlo Bo, anno accademico 2017-2018

[...] E’ significativo lo scambio di lettere che intercorre tra Elsa Morante, Luciano Foà e il redattore della casa editrice Einaudi, Bruno Fonzi (che stava curando la pubblicazione dell’Isola di Arturo), a proposito degli spazi bianchi da lasciare nel testo. Il 15 novembre 1956, la scrittrice «riscrive» a Luciano Foà «i particolari» sui quali era già stato preso un accordo verbale: "Ciascuno degli otto lunghi Capitoli richiede un occhiello (mi sembra che si chiami
così la pagina bianca con l’indicazione del Cap. e il titolo nel centro). Essendo ognuno degli otto Capitoli principali suddiviso in numerosi Capitoli più brevi, fra la chiusa di ciascuno di questi e il titolo del successivo si richiede uno Spazio di circa un terzo di pagina. Le suddivisioni interne che talvolta si trovano nei Capitoli brevi (e che da me sul testo sono indicate con delle lineette) richiedono, fra l’una e l’altra, uno Spazio minore, possibilmente segnato da qualche asterisco o simili. Scusami se insisto su questi particolari, ma lo faccio perché, nel mio testo, queste indicazioni prendono un valore non solo tipografico, ma anche poetico. Riguardo ai caratteri, quelli su cui già ci trovammo d’accordo (usati per il romanzo supercorallo di Natalia), mi sembrano i migliori per questo romanzo".
Il 19 novembre, Bruno Fonzi risponde alla Morante che sarebbe stato meglio fare incominciare «sempre a pagina nuova» i capitoli «più brevi entro i capitoli principali», piuttosto di «lasciare uno spazio di un terzo di pagina, che è molto brutto», tenendo conto del fatto che «all’interno di questi capitoli brevi ci sono già altre divisioni con spazio bianco».
La reazione della scrittrice è molto netta: "Non è possibile […] la modifica da Lei proposta riguardo agli spazi fra i Capitoli brevi. Il fatto è che questi spazi, così come io li ho indicati sul testo dattiloscritto, rispondono, nel mio racconto, a un determinato ritmo narrativo: per il quale ognuno dei capitoli principali - divisi da occhiello -, serba, attraverso le pause fra i capitoli brevi, una sua continuità di azione. E’ necessario, perciò, mantenere fra i successivi capitoli brevi, questi spazi sulla stessa pagina; li si potrà, magari, ridurre a un poco meno di quel terzo di pagina che si era deciso, se Leo lo giudica necessario per l’estetica tipografica".
Alberto Cadioli, Le diverse carte. Osservazioni sull’intermediazione editoriale e la trasmissione del testo in età contemporanea, Bollettino di italianistica, 1/2006, gennaio-giugno

I primi romanzi di Roberto Roversi e di Fulvio Tomizza, apparsi nella «Medusa degli italiani» diretta da Gallo (e a lui attribuiti nella tabella 1) transitarono per esempio in Mondadori a seguito della chiusura dei «Gettoni» di Vittorini, che aveva già selezionato quei libri per la sua collana. Fu invece Vittorini a pubblicare nel 1951, come primo numero dei «Gettoni», l’opera prima di Franco Lucentini, I compagni sconosciuti, ma avvalendosi, come era sua abitudine, della consulenza di numerosi colleghi, tra i quali ebbe un ruolo decisivo lo scrittore e traduttore Bruno Fonzi. Lucentini stesso, in una lettera al fratello, restituisce il sapore del lavoro di squadra, plurale e litigioso: «Mi hanno detto Fonzi e Pavese che i racconti sono molto piaciuti: Pare che al meeting editoriale con Einaudi, tutti, Ginzburg, Fonzi e Pavese, ne abbiano fatte lodi così alte che Einaudi, pur non avendolo letto, si è ribellato e ha detto che loro tre capiranno l’estetica ma non l’editoria, e che una breve raccolta di racconti, in quanto breve e soprattutto di racconti, non ha ragione di essere pubblicata. Ma non è finita lì perché adesso Einaudi leggerà i racconti lui stesso e loro scommettono che cambierà idea. Perché insomma, dice la Ginzburg, “gli dovranno piacere”».
Mariarosa Bricchi, L’età del benessere in I romanzi degli altri: scrittori-editori, editori-scrittori, Atlante della letteratura italiana 3, Einaudi, 2012