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domenica 19 novembre 2023

La nascita dei GAP


Il 20 settembre 1943 a Milano in casa dei coniugi Morini nacque il Comando generale delle Brigate Garibaldi, alla presenza di Massola, Roasio, Novella, Negarville, Scotti, appena rientrato dalla Francia, e Secchia, giunto da Roma. Nei giorni successivi sarebbe arrivato anche Longo, mandando Negarville a Roma e assumendo la responsabilità militare delle Brigate del Pci, mentre Secchia era incaricato della guida politica. Nonostante la mancanza di un'effettiva struttura di partito in Italia, si scelse di rompere l'attesismo e lanciare nell'immediato l'attacco all'occupante e al suo collaboratore. Pur con supporti logistici da socialisti e azionisti, in Italia come in Francia, i comunisti risultano gli unici fautori del terrorismo urbano, mentre gli altri partiti antifascisti "non sono convinti della sua produttività, in termini di consenso da parte dei cittadini, e della praticabilità, in termini morali, del terrorismo urbano" <16. Per il PCI invece, l'esperienza di vita clandestina e di lotta in Francia fu di centrale importanza nella decisione di ricorrere a tale pratica, di cui conosceva già le modalità e i fini, ma anche i rischi e le difficoltà. La scelta di ricorrere alla guerriglia in città fu adottata consapevolmente, in accordo con il comportamento dei comunisti a livello europeo e con la convinzione di costituire l'avanguardia del movimento operaio nella liberazione. Una filiazione delle azioni dei GAP da quelle dei FTP, un filo diretto com'è dipinto da Amendola nel suo panegirico di Ilio Barontini, può forse essere valido sul piano strettamente personale, apparirebbe invece sul piano storiografico un salto deduttivo, in relazione alle scarse informazioni ufficiali sull'operato degli italiani a Marsiglia.
Per Amendola "l'azione all'albergo Terminus divenne l'azione compiuta dai Gap romani contro l'albergo Flora, con la stessa tecnica e l'ordigno gettato davanti alla coda della casa di tolleranza di Marsiglia, divenne l'ordigno gettato da Bentivegna davanti al cinema Barberini a Roma" <17.
Questi eventi potevano forse essere legati nella memoria del protagonista, che si servì del precedente di alcune azioni realizzate in Francia da comunisti italiani per la guerriglia in patria, ma, in assenza di testimonianze e riscontri documentari, tali parallelismi non possono valere sul piano storiografico. Si può tuttavia riconoscere che le strutture di un organismo già noto servirono da modello alla preparazione delle squadre deputate al terrorismo nelle città italiane. Santo Peli riconosce l'imprescindibilità dell'esperienza francese all'inizio della sua storia dei GAP, asserendo che "senza questi dirigenti, senza l'esperienza della concreta organizzazione della lotta armata nelle città di Lione, a Marsiglia, progettare la formazione dei Gap sarebbe stato impensabile" <18.
I comunisti passati per la Francia costituirono lo scheletro dei Gap ma dovettero scontrarsi in Italia con i nodi già presentatisi ai comunisti francesi, il timore delle rappresaglie, l'impreparazione della classe operaia italiana a questo tipo di lotta, la scarsità cronica dei reclutati. Com'era successo oltralpe infatti, la previsione di versare alla lotta armata in città il 10% dei propri effettivi fu impossibile da realizzare per tutta la durata dell'occupazione. La direzione comunista decise comunque che bisognava agire e i più versati nella lotta armata furono impiegati nell'attuazione della direttiva, colpire e sabotare il nemico in città sin dalle prime settimane. Anche i problemi logistici sorti in Francia, la necessità di documenti falsi, armi, vettovagliamenti e appartamenti, si ripresentarono in Italia, aggravati però dalla mancanza di una struttura clandestina preesistente alla lotta, come quella del PCF. I finanziamenti per i Gap vennero dai contributi richiesti ai tesserati al partito, ma anche dalle cosiddette azioni di recupero, ovvero rapine in banca o assalti alle caserme fasciste, esponendo i patrioti alla mescolanza con criminali comuni e con individui di dubbia moralità.
Ad ogni modo, il 25 ottobre Longo, telegrafando a Mosca sulle novità dell'estate e l'armistizio, poteva riferire sinteticamente "Sta nascendo la guerriglia" <19. Infatti le risorse umane più attive del partito erano mobilitate: sotto la guida di Longo e Secchia, Scotti era ispettore generale incaricato dell'organizzazione della lotta in Piemonte, Lombardia e Liguria, mentre a Roasio spettavano il Veneto, l'Emilia e la Toscana. Ritroveremo molti dei militanti addestrati in Spagna e Francia incaricati della costituzione delle singole brigate, mentre Ilio Barontini, prima di assumere la responsabilità militare in Emilia, viaggiò nelle principali città italiane per dare consigli ai comandanti di formazione e insegnare come fabbricare gli ordigni. Come in Francia quindi, non si attese di avere i mezzi e gli uomini necessari alla lotta, ma furono ampiamente dispiegate le risorse disponibili, nella convinzione che bisognasse agire subito, poiché spettava al partito il compito di innescare la miccia per l'azione delle masse.
Il 24 ottobre Ateo Garemi e l'anarchico Dario Cagno colpirono a morte Domenico Giardina, seniore della Milizia a Torino, e, catturati in seguito all'azione, lasciarono spazio al I Gap del Piemonte, guidato da Giovanni Pesce. Le prime azioni di Garemi e Cagno, che, pur avendo avuto contatti con il partito, non ne dipendevano, rientravano nell'ambito di azioni di disturbo da parte di un gruppo anarco-comunista, i cui obiettivi risultavano abbastanza casuali, come per altre cellule autonome, ad esempio Stella Rossa. Appunto per portare sotto la propria autorità la lotta urbana, il PCd'I convocò a Torino Remo Scappini in qualità di responsabile federale, Arturo Colombi, responsabile regionale, e Romano Bessone, commissario politico dei Gap per la città <20. Tutti e tre militanti di vecchia data, i primi due passati per Mosca, per l'emigrazione in Francia e la detenzione a Civitavecchia, Colombi anche per il confino a Ventotene. Bessone invece era nato nel vercellese nel 1903, operaio comunista dalla gioventù, era stato deferito al Tribunale Speciale nel 1927 per aver partecipato ad una riunione comunista nei pressi di Torino. Resosi latitante, fu arrestato il 25 ottobre 1930 e condannato a 16 anni di reclusione e 3 di libertà vigilata, ridotti poi a 7 per amnistia, fu scarcerato nell'ottobre 1935. Al momento dell'arresto dichiarò di essere tornato da Mosca e fu trovato in possesso di volantini comunisti. Durante la reclusione, a partire dal '32, gli fu impedito di tenere corrispondenza con Elodia Malservigi, dattilografa residente in Russia che dichiarò di aver sposato con rito sovietico a Nowieltz nel 1928. La sua scheda personale riporta che in carcere "tenne cattiva condotta politica, appalesandosi pericolosissimo comunista. Pertanto è stato incluso nel 2° elenco di sovversivi pericolosi da arrestare in determinate contingenze" <21. Infatti, dopo l'ingresso in guerra, il 20 luglio 1940, era stato inviato al confino a Ventotene, dove aveva ripreso contatto con i dirigenti confinati e da cui sarebbe stato liberato nell'agosto '43, poche settimane pima di ricevere la responsabilità della formazione dei Gap torinesi. La direzione fu invece affidata al venticinquenne Giovanni Pesce, che abbiamo incontrato tra i giovani accorsi in Spagna sette anni prima. Al rientro in Francia era tornato dalla famiglia nella regione della Gran Combe ma, vista la difficoltà di trovare lavoro e il timore di essere internato per la propria condizione di straniero comunista, entrò clandestinamente in Italia e fu arrestato a Torino il 23 marzo 1940. Trasferito a Ventotene sei mesi dopo, vi trovò compagni vecchi e nuovi: "Terracini, Scoccimarro, Secchia, Roveda, Frasin, Camilla Ravera, Spinelli, Ernesto Rossi, Li Causi, Pertini, Bauer, Curiel, Ghini" <22. In assenza di militanti provati da versare alla nascente formazione, Bessone e Pesce si volsero agli appartenenti a queste cellule di fabbrica spontanee, comuniste ma non legate alla linea di partito, reclutando giovani provenienti soprattutto dall'ambiente operaio.
In Lombardia invece, il comando regionale era assegnato alla metà di ottobre a Vittorio Bardini, responsabile politico, a Cesare Roda, responsabile tecnico, e ad Egisto Rubini, addetto alle operazioni. Il profilo di questi uomini è quello spesso incontrato nel nostro percorso: tutti sopra i 35 anni, divenuti nell'esilio rivoluzionari professionali, passati per la Spagna, e Rubini anche per i FTP del Sud della Francia. In questi parametri generali rientravano tutti i comandi regionali e i principali istruttori dei distaccamenti, che si esposero in un primo momento per dare l'esempio ai nuovi, sotto i trent'anni, che sarebbero stati i fautori del terrorismo urbano. Il primo obiettivo di grande rilievo fu Aldo Resega, responsabile della federazione del fascio a Milano, colpito dal primo nucleo operativo dei GAP milanesi, che sarebbe diventato il distaccamento Gramsci (Validio Mantovani Barbisìn, Carlo Camesasca Barbisùn, Antonio La Fratta Totò e Renato Sgorbaro Lupo). Come rileva Borgomaneri, autore del lavoro più completo sul terrorismo urbano a Milano, "il primo gappismo milanese nasce dalla fabbrica e affonda le proprie radici in quell'oscuro lavoro di agitazione, di propaganda e di proselitismo che l'organizzazione comunista è riuscita a tessere nel ventennio,[inoltre…] la prima forza combattente dei Gap è costituita da operai non più giovanissimi" <23. Essi erano infatti tutti operai dell'area di Sesto San Giovanni, il più giovane, Mantovani, aveva 29 anni, il più anziano, La Fratta, 35. I ragazzi, inesperti poco più che ventenni, sarebbero subentrati tra il gennaio e la primavera. Il 18 dicembre 1943, in concomitanza con uno sciopero che bloccava da giorni i principali stabilimenti milanesi, il federale venne atteso all'uscita della propria abitazione. La Fratta e Mantovani erano di guardia, uno accanto al portone e l'altro all'angolo della via, Camesasca e Sgorbaro nei pressi di un edicola leggevano un giornale, dietro il quale erano nascoste le armi. Resega venne colpito nel momento in cui il proprio cammino incrociava quello dei terroristi, che si affrettavano poi a raggiungere le biciclette e fuggire nel trambusto creato dagli spari. Le prime azioni, spesso improvvisate, rappresentavano per questi militanti, provati ma non temprati nella lotta, una prova del fuoco, lo scoglio da superare per altre azioni. Borgomaneri individua alla fine del '43 due distaccamenti, il Gramsci di Mantovani e il Cinque giornate di Oreste Ghirotti, composti ciascuno da tre squadre. Con le azioni iniziarono però anche le prime cadute. Il 19 dicembre Arturo Capettini, addetto alla logistica e ai rifornimenti di armi, fu arrestato. In seguito al rinvenimento di materiale bellico ed esplosivo nel suo magazzino di riparazione per biciclette, esso divenne una trappola per alcuni ragazzi del Cinque giornate, come Stefano Brau e Augusto Mori. L'individuazione di Sgorbaro portò inoltre all'isolamento del gruppo di Sesto, lasciando spazio alle azioni dei distaccamenti Matteotti e Rosselli, autori in gennaio di attacchi nei ritrovi tedeschi e mordi e fuggi in bicicletta. All'inizio di febbraio, per l'omicidio del nuovo questore di Milano, Camillo Santamaria Nicolini, fu richiamato il distaccamento Gramsci, del quale Camasasca e Mantovani erano stati promossi responsabile militare e politico. In questa fase più avanzata della guerriglia in città però, le autorità non si muovevano a piedi senza protezione: il piano prevedeva perciò di colpire Nicolini in auto da un'altra auto in corsa, una lancia Aprilia appositamente rubata a due tedeschi. L'azione, affidata ai giovani di Niguarda (Elio Sammarchi, Dino Giani e Sergio Bassi) ricorda ancora una volta come la riuscita di un colpo fosse questione di attimi, in cui non mancava l'intervento del caso. Un tram si interpose tra le due vetture e una frenata dell'autista di Nicolini impedì che venisse colpito. L'ultima azione di questa prima fase del gappismo milanese fu un attacco alla casa del fascio di Sesto San Giovanni il 10 febbraio 1944, compiuto con l'aiuto di un operaio della Breda infiltrato, Lacerra. Egli però, invece di lasciare la città (come previsto) si recò sul proprio posto di lavoro, dove fu arrestato due giorni dopo, portando ad una catena di arresti e delazioni che sbaragliò i gruppi di città, giungendo sino al vertice con la cattura di Bardini, Roda e Rubini. Quest'ultimo e Ghirotti si suicidarono in carcere dopo giorni di tortura. Il terrorismo urbano a Milano si sarebbe riacceso in estate, grazie alla riorganizzazione di Giovanni Pesce, che nell'inverno '43 era però ancora a Torino.
[NOTE]
16 Santo Peli, Storie di Gap, op.cit., pag. 31.
17 Amendola, Comunismo, Antifascismo, Resistenza, op.cit., pag. 364.
18 Santo Peli, Storie di Gap, op.cit., pag. 33.
19 Longo, op.cit., pag. 100-101.
20 Nicola Adduci, Il mito e la storia: Dante Di Nanni, in Studi Storici, fascicolo 4, settembre-ottobre 2012, pag. 260-262.
21 Acs, Cpc, fascicolo personale, busta 591
22 Giovanni Pesce, Senza Tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, Milano 1967, pag. 161.
23 Luigi Borgomaneri, Due inverni, un'estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia. 1943-1945, Franco Angeli, Milano, 1995, pag. 24.
Elisa Pareo, "Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019

domenica 6 novembre 2022

Il 5 giugno 1945 si riuniscono a Reggio Emilia i rappresentanti di tutte le federazioni provinciali del Partito comunista


Il Partito comunista italiano fu interprete di un originale esperimento di comunismo nazionale che si caratterizzò per un singolare intreccio, difficilmente dipanabile, di riformismo e ideologia rivoluzionaria, di senso delle istituzioni e anticapitalismo, di ricerca di autonomia politica e culturale e di persistenza di un solido legame con l’Unione Sovietica. Ciò gli consentì di raggiungere un grado di radicamento sociale e di consenso elettorale non molto dissimile da quello dei grandi partiti del socialismo democratico europeo ma al tempo stesso, dopo lo scoppio della guerra fredda, gli precluse la legittimazione a governare. <1
Se il quadro di riferimento è quello nazionale tale constatazione è senza dubbio condivisibile; calandosi a livello regionale, in particolar modo per l’area che qui ci interessa, l’Emilia-Romagna, occorre puntualizzare: il Pci, sostanzialmente, esercitò una profonda egemonia. Infatti, senza soluzione di continuità, dal 1945 fino alla propria dissoluzione e pure nelle realtà in cui non rappresentava la maggioranza assoluta, imprescindibile era confrontarsi con esso, con le sue ramificazioni, con la sua influenza politica e sociale.
Indubbiamente qui più che altrove il partito era cresciuto in corrispondenza con l’estendersi della lotta partigiana. Nel periodo immediatamente precedente la caduta del fascismo, la forza più decisa e combattiva, ed in Emilia-Romagna l’unica a disporre di un certo apparato organizzativo, restava il Pci. <2  Alla sua nascita, qui, contava 7.850 iscritti, pari a oltre il 18% del totale nazionale. Nell’estate 1944 nell’Italia occupata erano già arrivati a 70.000, di cui circa 18.000 nella sola Emilia-Romagna, dove la componente contadina - mezzadri, braccianti ecc. - era molto forte, e dove pure tra Bologna e provincia si contavano 32 cellule di fabbrica; è la stessa regione dello sciopero generale delle mondine, mentre iniziano le azioni dei fratelli Cervi e di Arrigo Boldrini, il comandante Bulow. <3
Qui, come scrive Giorgio Amendola nella stessa estate del 1944, «le difficoltà sono certo grandi»: «ci troviamo sulle immediate retrovie e sulla stessa linea del fronte» e «la densità di occupazione è assai forte». <4 Tuttavia, se fin dalla presa del potere da parte del fascismo si era verificato un calo numerico, durante i lunghi anni di leggi eccezionali, stando alle parole di Pietro Secchia, il lavoro organizzativo si era sviluppato con poche interruzioni e nell’immediato dopoguerra la forza numerica dei comunisti era aumentata notevolmente: nel dicembre 1945 si contavano 345.171 iscritti, pari a quasi il 20% del totale nazionale. <5
L’egemonia del Pci in Emilia-Romagna non può non essere, dunque, ricondotta al lungo lavoro di radicamento, alla costante tessitura e ritessitura di una seppur esile rete organizzativa corrispondente al mantenimento in vita di un minimo di legame sociale che instancabilmente migliaia di militanti e quadri avevano portato avanti durante il regime e nella clandestinità. Un paziente e oscuro lavorio che aveva consentito di predisporre quella trama che entrerà in azione nella Resistenza.
È la terra, questa, che, come scrive nel 1949 un anonimo liberale al segretario regionale della Democrazia cristiana Bruno Rossi, «quando fosse giuridicamente riconosciuta, diventerebbe la prima repubblica sovietica d’Italia e potrebbe ben servire a modello per le altre». <6 È la terra, secondo il vescovo di Reggio Emilia Beniamino Socche, macchiata di «sangue per l’odio implacabile dei senza Dio». <7 Ancora nel 1951, un militante democristiano romagnolo scrive a Rossi che l’incontro con i comunisti è un’esperienza «da evitare tutte le volte che si può»; «il comunista mi disse che loro avrebbero trattato quelli là fuori (indicando me) come li hanno sempre trattati (alludendo maniere forti)». <8
Nella «lunga liberazione italiana» <9 come si muoveva dunque il Pci emiliano-romagnolo con «quelli là fuori», con chi in tasca non aveva la tessera del partito? Come veniva rappresentato? E «quelli là fuori» come interpretarono, politicamente, la storia così ricca e complessa dei comunisti, la conflittualità, ampliata e deformata dal ruolo schiacciante del Pci in molte aree della regione?
Una serie di temi e problemi, piuttosto che un profilo - meno che mai un profilo unitario - è quanto si tenterà di mettere in luce, seguendo una linea descrittiva piuttosto che interpretativa.
1. La «diabolica organizzazione». Fra Resistenza e Repubblica
Il 5 giugno 1945 si riuniscono a Reggio Emilia i rappresentanti di tutte le federazioni provinciali, alla presenza di Luigi Longo per la Direzione nazionale. L’ordine del giorno è assai amplio ma numerosi interventi si concentrano sui rapporti con gli altri partiti. Nello specifico, a Ferrara questi sono descritti come «abbastanza buoni»; a Parma non viene taciuta «qualche difficoltà» dopo la smobilitazione; a Modena «hanno le stesse caratteristiche che si riscontrano nel campo nazionale»; a Forlì «i rapporti con i socialisti sono buoni e così pure con i democristiani: quelli con i carabinieri ed il prefetto ottimi»; a Piacenza «la situazione della provincia non può essere definita brillante» ma «è stato elaborato un accurato piano di lavoro diretto a stringere sempre più i rapporti». È Longo a trarre le conclusioni, assunto il presupposto che «vi sono stati anche dei lati negativi», e a indicare la linea per il futuro. Si chiede «se in tutti i compagni vi sia una esatta, profonda convinta persuasione della linea politica del partito o se non ci sia qualche atteggiamento, non ancora errore o deviazione ma qualche germe che potrebbe svilupparsi poi in qualche deformazione della linea politica». Nei confronti degli altri partiti, in un momento delicato come quello del «passaggio dallo stato di guerra a quello di pace», «è necessario sforzarsi di ottenere l’unità anche con quegli elementi che tendono a staccarsi», però «non confondendo le forze sane con quelle reazionarie». Con gli Alleati occorre «manifestare loro i nostri sentimenti di riconoscenza per quanto hanno fatto per noi; però non è detto che dobbiamo accettare supinamente e senza resistenza qualsiasi loro decisione»; nei confronti dei democristiani «non si deve tenere un atteggiamento di ostilità, ma di persuasione»; per quanto riguarda gli azionisti «si deve tendere verso la parte più progressiva di loro»; il lavoro, insomma, è «enorme». <10
In Emilia-Romagna il Pci non aveva mai cessato di sostenere che l’unità della Resistenza aveva un valore storico assoluto, che però poteva esistere solo mantenendo in essa la loro presenza attiva, persino la loro egemonia ideologica. <11 I comunisti, qui, si considerano - e comunicano con forza di essere - «l’anima e la guida, la pattuglia più avanzata di questa battaglia»; <12 «oggi, come sempre», i «primi all’attacco per guidare il popolo tutto al combattimento»; <13 «forgiati dal leninismo e dallo stalinismo», è stato creato «un uomo di tipo nuovo, provato ad ogni lotta e ad ogni avversità che ha dato i quadri migliori della battaglia partigiana» e che, «spoglio da ogni romanticheria, semplice, umano, legato al popolo, uomo fra gli uomini», è e sarà «una delle principali forze della ricostruzione». <14 I comunisti piacentini raccontano di nazifascisti «terrorizzati» dalle loro «leggendarie gesta», descrivendone i protagonisti come «eroi», «martiri», «sempre vivi», persino «immortali»; <15 a Ferrara il partito ricorda di essere «punto d’appoggio», in grado di indicare la «strada giusta», «fiero di essere in prima linea»; <16 a Reggio Emilia, pur sottolineando che «nessuna distinzione di fede politica o religione dovrà ostacolare in questo momento lo sforzo comune», i comunisti mettono in chiaro che «la salvezza, la resurrezione dell’Italia non è possibile se non interviene nella vita politica italiana, come elemento di direzione di tutta la nazione» il partito guida della classe operaia; <17 a Forlì si scrive che il Pci «è all’avanguardia dell’insurrezione popolare perché questa è la sua missione storica»; <18 a Cesena, il 31 dicembre 1944, Giovanni Zanelli, partigiano e segretario della Federazione provinciale di Forlì, sostiene che «nessun partito conosce le sofferenze delle masse popolari così come le conosce il nostro partito che vive in mezzo alle masse e ne è l’espressione e la guida» e che «non vi sarà nessuna democrazia vera e popolare se la classe operaia ed il suo partito, il Partito comunista, ne sarà esclusa». <19
Nella stampa comunista dell’epoca è forte il richiamo all’Unione Sovietica. <20  Nella difficoltà di dare un contenuto preciso al desiderio generico di un mutamento radicale e nella parsimonia delle indicazioni sul futuro fornite dal partito, il mito dell’Urss e di Stalin si presentava infatti come particolarmente atto a riempire il vuoto. <21 Della terra dei soviet si celebrano, ad esempio, i successi economici: per «La lotta», organo delle federazioni comuniste romagnole, «lo sviluppo economico e politico europeo riafferma la giustezza delle previsioni del marxismo-leninismo». Ricordando Lenin a 20 anni dalla morte, il giornale clandestino ricorda che «gloriosamente e con sicurezza» proseguono la propria lotta «la Russia sovietica e le sue potenti armate» e «i partiti comunisti saldamente costituiti alla testa della classe operaia lavoratrice», <22 sospingendo l’Armata rossa «con impeto inusitato». <23 A Parma, la «Voce del partigiano» nel gennaio del 1945 scrive che «in Urss non vi sono più classi sfruttatrici, che abbiano interessi distinti e contrastanti con quelli di tutto il popolo»: le vittorie dei popoli dell’Unione Sovietica sono «le vittorie della democrazia. L’Urss ha vinto e vince le sue battaglie perché, sotto la guida della classe operaia, i popoli dell’unione sovietica hanno realizzato una forma superiore di democrazia». <24
Di pari passo con il ribadire la correttezza della dottrina va da un lato la celebrazione di Stalin - simbolo riassuntivo del mito sovietico - definito nel luglio 1944 dall’edizione regionale de «l’Unità» come «il più grande stratega di questa guerra», <25 e dall’altro dello «sforzo glorioso dell’Armata rossa» che dimostra come «l’ordinamento economico-politico instaurato con la Rivoluzione abbia dato vita all’eroismo di massa ed alla storica vittoria delle forze e dell’ideologia proletaria». <26 «Perfettamente e potentemente armata», «la gloriosa Armata rossa avanza con la forza e la velocità di una valanga che tutto travolge», scatenando «la più grande offensiva che la storia ricordi»: così l’Unione Sovietica, «dopo aver salvato l’umanità dallo schiavismo hitleriano dilagante, prosegue e sviluppa con eroismo la sua missione liberatrice e progressista», così, «dopo averli liberati, essa unifica i popoli, ne favorisce e potenzia il contributo alla lotta al nazi-fascismo, la rapida e larga democratizzazione, la rinascita e la libera espressione». <27
Al di là della retorica, tali affermazioni potevano alimentare i sospetti che le direttive togliattiane della svolta di Salerno non fossero altro che una battuta d’arresto momentanea, in attesa di una futura fase. Nella riunione di Bologna del Comitato di liberazione nazionale regionale dell’11 maggio 1945, ad esempio, il colonnello americano Floyd J. Thomas, commissario dell’Allied Military Government, mette in guardia i presenti nei confronti di coloro i quali «desiderino accelerare le cose»: gli alleati «hanno dato il loro impegno di aiutare come è stato fatto per il passato e come sarà per il futuro» ma ciò sarà possibile esclusivamente in «una atmosfera di legge e di ordine nella quale si possa lavorare in cooperazione al massimo grado». Per Thomas «le discussioni politiche devono essere svolte a tempo e luogo debito» e se «ci sono molte cose che possono essere fatte dai partiti», queste non interferiscano «con le funzioni di governo oppure con la legge e con l’ordine». «Nei comuni la responsabilità della cosa comune è nelle mani dei sindaci», prosegue il colonnello, e i Cln «hanno il privilegio di dare consigli e di assistere i pubblici funzionari» ma «non hanno potere per conto loro e si devono assolutamente astenere dall’emettere ordini».
Il comunista ed ex partigiano Paolo Betti puntualizza in risposta l’intenzione del partito di «entrare nella legalità, di rompere tutte quelle che sono le azioni incontrollate» ma «per tale riteniamo anche la mutua collaborazione degli alleati verso di noi»; chiede che sia sanato tutto quello che è stato fatto «di giusto e di logico» dai Cln, «che non sia gettato tutto per aria tutto quello che di buono è stato fatto» e che «gli alleati non usino indulgenze verso gli industriali che hanno stroncato gli scioperai durante la guerra di liberazione». Tocca allora a Giuseppe Dozza, che da soli quattro giorni era stato legittimato sindaco della città dallo stesso governo alleato: «l’appello per la normalizzazione deve essere accolto da tutti e non soltanto da noi». Dozza «non ha l’impressione che ciò avvenga» e che «dinanzi agli alleati non dobbiamo mai dimenticare la nostra dignità di uomini e di italiani», rilevando «qualche episodio di incomprensione assoluta». <28
Da tempo si credeva di intuire, fra sospetto e preoccupazione, che «da parte comunista esisteva già un disegno preordinato». È questa la sensazione che Vittorio Pellizzi, azionista e tra i primi a promuovere e a costruire nel reggiano gli organi politici della Resistenza, sostiene di aver provato durante un incontro del 26 luglio 1943 con il dirigente del Pci Aldo Magnani. Pellizzi aggiunge che quell’occasione gli rivelò che «l’organizzazione comunista clandestina - di cui sapevo l’esistenza, ma di cui ignoravo l’efficienza e l’importanza - veniva ora alla ribalta con i suoi uomini, i quali dimostravano di possedere una grande maturità politica»; sempre Pellizzi constatò come Magnani fosse «preparato e già in possesso di un disegno strategico» e «anche dei mezzi tattici per attuarlo».
«Ad eccezione dei comunisti, noi come cospiratori si era dei novellini», ricorda emblematicamente un altro protagonista della Resistenza reggiana, il democristiano Pasquale Marconi. <29 Gli azionisti emiliani si rivolgono ai comunisti nel marzo del 1944 per sottolineare che «questo tesoro vivo di esperienze altrove maturate» è di certo apprezzato ma guai a utilizzarlo «con intenti servili o peggio ancora con l’idea di applicarle ipso facto al nostro paese». Si pone dunque un problema di libertà, «conditio sine qua non anche per la libertà degli altri paesi europei». <30 È la questione della libertà a scavare un solco ideologico anche con i repubblicani; i comunisti «si fermano all’eguaglianza, e per l’eguaglianza sono disposti a rinunciare alla libertà, accettando la dittatura»; <31 i repubblicani intendono escludere categoricamente che «la nazione abbia per una seconda volta a soggiacere schiava di una dittatura, sia essa della minoranza sulla maggioranza (esempio tipico il fascismo) o della massa sulla minoranza dei cittadini come vorrebbe il comunismo». <32
Dal giogo di una dittatura a quello di un’altra: è ciò che teme anche un antico liberale cattolico come il conte Malvezzi Campeggi scrivendo una lettera a Tommaso Gallarati Scotti, poi reindirizzata al rappresentante del Partito liberale nel Comitato di liberazione nazionale Alessandro Casati, all’indomani della Liberazione. Nel bolognese, secondo il conte, «la situazione è preoccupante: tirate le somme ci accorgiamo di essere passati senza transizioni dal fascismo nero a quello rosso. Medesima mentalità. Medesimi sistemi di violenza, prepotenza, intimidazione, minacce. Tutti i posti di potere sono in mano ai comunisti». Nelle campagne «i contadini vietano ai proprietari di mostrarsi nelle loro proprietà ed impongono taglie», ma la cosa più preoccupante è che «seguitano a scomparire misteriosamente persone, anche notissime, senza che se ne abbiamo più notizie». Due inchieste di «Risorgimento liberale», intitolate rispettivamente 'Il borghese emiliano vive fra queste paure' del gennaio 1946 e 'La psicosi del mitra nell’Emilia rossa' del settembre 1946, trasmettono in controluce la sensazione della circolazione della leggenda dell’invincibilità del Pci e della «diabolica organizzazione comunista diretta da uomini formati nelle scuole di partito sovietiche e che avevano partecipato alle guerre civili europee», evocando il problema del disarmo delle bande partigiane sostenendo che alle loro spalle vi fosse una precisa «organizzazione politica». <33
Nel «magma dell’illegalità del dopoguerra», <34 sempre a Bologna all’inizio del 1946 il liberale Antonio Zoccoli, presidente del Cln, ribadisce che l’organismo da lui presieduto «ha cercato con tutti i suoi mezzi, qualche volta inadeguati, ma sempre spontaneamente generosi, di curare le ferite, ha cercato e cerca di riportare negli animi la calma, la tranquillità, la concordia». Nella medesima riunione, alla presenza di prefetto e questore, il segretario della Camera del lavoro Onorato Malaguti avverte però che ci si trova tutti, ora, «in una delle situazioni più critiche, più critiche di alcuni mesi fa». È evidente, a suo avviso, che «vi è una compressione nella massa operaia» ma anche alla compressione «vi è un limite». Betti esprime ai presenti la propria sensazione che a Bologna si muovano «delle squadre armate per colpire degli uomini politici dei partiti che hanno fatto parte della lotta di liberazione»; il democristiano Angelo Salizzoni, in risposta, non ha timore allora di parlare specificatamente di «delitto»: è «interesse della democrazia» che venga spezzata la catena del delitto, alimentata dal fatto che, a quasi un anno dalla fine del conflitto, «ci sono troppe armi in giro». <35
È presente, certo, un problema pressante di «attività criminosa comune» che, come scrive il questore di Forlì al prefetto e al maggiore Baldwin della polizia alleata, tracciando un quadro della situazione della sua provincia ma descrivendo anche quella di Cesena e Rimini, «ha subito una certa recrudescenza». «I partiti estremisti», i quali «contano il maggior numero di aderenti, si mostrano malcontenti per la lentezza con la quale viene effettuata l'epurazione»: il malcontento, conclude il questore, sfocia «di tanto in tanto con bastonature», a cui è difficile opporsi visto un personale di polizia «tuttora insufficiente armato, disponendo di un numero irrisorio di moschetti e di pistole» e che «scarsi e scadenti sono i mezzi di comunicazione di cui dispone la Questura». <36
L’assimilazione non argomentata e quasi istintiva tra il regime fascista e quello comunista si era verificata, come si diceva, in Emilia-Romagna già nei mesi immediatamente successivi alla Liberazione, coi primi tentativi di produzione propagandistica da parte di gruppi ostili al Pci, alcuni senza filiazione chiara. A Bologna, a fine 1945, erano apparsi slogan come «ieri in camicia nera, oggi in camicia rossa», o «che cos’era il fascismo? Niente altro che il comunismo interpretato da Mussolini», mentre si inveiva contro il «fascismo rosso». Giuseppe Dozza, che aveva intercettato i volantini e li aveva spediti a Togliatti, si dichiarava preoccupato, perché a suo dire essi erano indizi di un clima piuttosto diffuso. <37 In alcuni volantini diffusi in regione da ambienti che confluiranno nella Democrazia cristiana si scrive che il bolscevismo, «con tutti i suoi inimmaginabili terrori, distende avidamente la mano verso la patria»; <38 «la rivoluzione e i rapporti di violenza tra i Partiti non fanno che accrescere malanni e distruzione agli uomini e alle cose» e che «la rivoluzione non sarebbe che la continuazione della lotta fratricida iniziata dal fascismo»: «Guai», allora, «se avesse la maggioranza un partito totalitario, sia di destra che di sinistra: diventeremmo nuovamente schiavi di un dittatore e i nostri fratelli che sono morti per la libertà ci griderebbero dalla tomba tutto il loro sdegno». <39 L’anno successivo, ancora attraverso un volantino, la Dc regionale mette in guardia i lavoratori dal non farsi «abbagliare dalle illusioni, dalle parole grosse e dalle promesse di mari e monti alle quali seguono le più amare delusioni»; infatti, «altrove», nei paesi in cui è stata portata a termine la «rivoluzione, con le fucilazioni e con le deportazioni», «praticamente non sono riusciti ad abolire le disuguaglianze», «si sono tolti di mezzo i vecchi ricchi e ne sono sorti altri, non meno sfruttatori». <40
I comunisti in Emilia, scrive un anonimo militante democristiano modenese, «rubano cibo e vestiti per l’inverno» poi «li rivendono o li regalano a chi pare loro, agli altri comunisti». <41 I comunisti, in Romagna, secondo i repubblicani riminesi, sono i responsabili della partenza di «navi cariche di grano», «in segreto», «dall’Italia affamata verso porti stranieri a est» e «questo traffico frutta del denaro a coloro che lo esercitano, e delle armi ad un movimento… “progressivo” che per ciò proteggerebbe col grande bandierone della propria incosciente omertà la losca opera di questi affamatori del popolo». <42
 


[NOTE]
1 Roberto Gualtieri, L’Italia dal 1943 al 1992. Dc e Pci nella storia della Repubblica, Roma, Carocci, 2006, p. 21.
2 Pietro Alberghi, Partiti politici e Cln, Bari, De Donato, 1975, p. 49.
3 Antonio Gibelli, Flaviano Schenone, L’organizzazione nell’Italia occupata, in Il Partito comunista italiano. Struttura e storia dell’organizzazione, 1921/1979, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 1048-1049.
4 Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 390.
5 Luciano Casali, Dianella Gagliani, Movimento operaio e organizzazione di massa. Il partito comunista in Emilia-Romagna (1945-1954), in La ricostruzione in Emilia-Romagna, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Parma, Pratiche Editore, 1980, p. 255.
6 Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi Asbo), Archivio Democrazia cristiana - Comitato regionale Emilia-Romagna (d’ora in poi Adcer), fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera al segretario regionale Bruno Rossi, 13 ottobre 1949.
7 Triangolo della morte, in «La Libertà», 3 aprile 1955.
8 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera al segretario regionale Bruno Rossi, 27 gennaio 1951.
9 Così Inge Botteri, Dopo la liberazione. L’Italia nella transizione tra la guerra e la pace: temi, casi, storiografia, Brescia, Grafo, 2008, p. IX.
10 I comunisti in Emilia-Romagna. Documenti e materiali, a cura di Pier Paolo D’Attorre, Bologna, Istituto Gramsci Emilia-Romagna, 1981, pp. 41-46.
11 Paolo Pombeni, La ricostruzione politica in Emilia-Romagna nel quadro del contesto nazionale. Una rilettura, in Angelo Varni, La ricostruzione di una cultura politica: i gruppi dirigenti dell’Emilia-Romagna di fronte alle scelte del dopoguerra, Bologna, Il Nove, 1997, p. XXXI.
12 Comunisti, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 5, settembre 1944.
13 L’ora dell’Emilia, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 12, agosto 1944.
14 Lenin è morto: il leninismo vive!, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 1, 21 gennaio 1945.
15 Le Sap, in «La Falce. Organo dei contadini e salariati agricoli di Piacenza», 10 giugno 1944.
16 Rinascita, in «La nuova scintilla», 15 gennaio 1945.
17 Il compito e la funzione del Cln e il «Partito nuovo», in «La stampa libera. Bollettino della federazione comunista reggiana, zona montana», 1 aprile 1945.
18 Fuori dalle fabbriche, in «La nostra fabbrica», 25 luglio 1944.
19 Istituto storico di Forlì-Cesena (d’ora in poi Isfc), Archivio Comitato di liberazione nazionale, b. 3, Partiti e pubblicazioni, Conferenza dei rappresentanti comunisti nelle giunte municipali della provincia di Forlì, 31 dicembre 1944.
20 L’elemento della disciplina internazionale, occorre ricordarlo, giocò un ruolo essenziale nella condotta di tutti i partiti comunisti anche nel secondo dopoguerra tenendo pur sempre presente che né la tesi dell’autonomia, né quella della catena di comando appaiono adeguate a una ricostruzione storica. Cfr. Silvio Pons, L’impossibile egemonia. L’Urss, il Pci e le origini della Guerra fredda (1943-1948), Roma, Carocci, 1999, p. 19.
21 Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 404.
22 21 gennaio 1924. Morte del compagno Lenin, in «La lotta. Organo delle federazioni comuniste romagnole», 15-31 gennaio 1944.
23 Per l’insurrezione, in «La lotta. Organo delle federazioni comuniste romagnole», 30 giugno 1944.
24 Cosa ci insegnano le vittorie dell’Unione Sovietica?, in «La voce del partigiano», a. I, n. II, 25 gennaio 1945.
25 L’Esercito rosso ai confini della Germania, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 11, 20 luglio 1944.
26 Evviva il glorioso Esercito rosso! Evviva Stalin!, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 14, 8 novembre 1944.
27 L’Armata rossa, in «l’Unità. Edizione dell’Emilia e Romagna», n. 2, 22 gennaio 1945.
28 Fondazione Gramsci Emilia-Romagna (d’ora in poi Fger), Archivio Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna, b. 1, fasc. 1, Verbale riunione Cln e sindaci provincia dell’11-5-1945. Il comunista Decio Mercanti, per citare un altro esempio, ricorda che a Rimini nell’immediato dopoguerra «l’attività politica dei partiti era seguita attentamente dalle forze alleate, in particolare veniva seguita l’attività del Pci e quella del Psi anche attraverso la corrispondenza. Ci furono multe e processi a danno dei dirigenti di questi due partiti. Gli alleati, possiamo affermarlo, non agirono con la stessa imparzialità nei confronti dei diversi partiti»; cfr. Decio Mercanti, Attività del Comitato di liberazione di Rimini dalla Liberazione al suo scioglimento, in «Storie e Storia», 13 (1985), pp. 95-96. È da segnalare che, almeno per quanto riguarda il periodo resistenziale in Emilia, le carte dell’intelligence inglese ci conducono a osservazioni più sfumate; cfr. Messaggi dall’Emilia. Le missioni n. 1 Special Force e l’attività di intelligence in Emilia 1944-1945, a cura di Marco Minardi e Massimo Storchi, Parma, Edizioni dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, 2003, pp. 37-39. Per quanto riguarda, infine, i Cln, è ben noto ormai che a prescindere dall’unità di lotta e dallo sforzo bellico unitario, il dibattito al loro interno è caratterizzato, fin dai primi mesi, dai contrasti e dalle divergenze di natura politica fra chi era favorevole a una loro più puntuale valorizzazione e al loro inserimento in una struttura statuale di tipo nuovo e chi era, invece, propenso a sostenere il carattere provvisorio e straordinario, limitato ai soli compiti di direzione politica del movimento di liberazione; cfr. Pierangelo Lombardi, L’illusione al potere. Democrazia, autogoverno regionale e decentramento amministrativo nell’esperienza dei Cln (1944-45), Milano, Franco Angeli, 2003, p. 50.
29 Origini e primi atti del Cln provinciale di Reggio Emilia, Reggio Emilia, Cooperativa operai tipografi, 1974, p. 28 e p. 67.
30 Propositi nostri, in «Orizzonti di libertà. Periodico emiliano del Partito d’Azione», n. 1, marzo 1944.
31 Libertà ed eguaglianza, in «La Voce repubblicana. Organo dei repubblicani dell’Emilia e Romagna», n. 3, luglio 1944.
32 Libera associazione, in «La Voce repubblicana. Organo dei repubblicani dell’Emilia e Romagna», n. 4, agosto 1944.
33 Fabio Grassi Orsini, Guerra di classe e violenza politica in Italia. Dalla Liberazione alla svolta centrista (1945-1947), in «Ventunesimo Secolo», 12 (2007), pp. 79-80.
34 Mirco Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 77. Zone calde come l’Emilia, dove il protrarsi di azioni violente ebbe proporzioni allarmanti nel cosiddetto «triangolo rosso», furono oggetto di un particolare monitoraggio da parte dello stesso Togliatti. Proprio a Reggio Emilia, com’è noto, nel settembre 1946, il segretario tenne un discorso molto netto sul rifiuto della violenza e assunse anche una posizione autocritica, facendo capire che nelle file del Pci si sarebbe dovuto vigilare di più per estirpare la mentalità illegale; cfr. Gianluca Fiocco, Togliatti, il realismo della politica, Roma, Carocci, 2018, pp. 183-184. Già a fine agosto del 1945 lo stesso Togliatti si lamentava con l’ambasciatore sovietico in Italia per l’allarmante «degenerazione del movimento partigiano al nord»; secondo il segretario molti ex partigiani si davano sempre più spesso a veri e propri episodi di banditismo che rischiavano di screditare il movimento comunista italiano nel suo complesso; cfr. Elena Aga Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 110.
35 Istituto storico Parri di Bologna (d’ora in poi Isbo), Archivio Comitato di liberazione nazionale Emilia-Romagna, b. 3, fasc. “Ordine pubblico durante il periodo elettorale”, verbale della riunione del Cln regionale del 20 febbraio 1946.
36 Isfc, Archivio Comitato di liberazione nazionale, b. “1945. Questioni economiche, amministrative, situazione comuni post-liberazione, ordine pubblico, epurazione”, Rapporto riservato del questore di Forlì, 25 aprile 1945. È difficile, quando non impossibile, per le forze dell’ordine, distinguere fra atti di violenza politica e di criminalità comune; lo scenario romagnolo di quegli anni è ricostruito in Patrizia Dogliani, Romagna, periferia e crocevia d’Europa, in Carlo De Maria, Patrizia Dogliani, Romagna 1946. Comuni e società alla prova delle urne, Bologna, Clueb, 2007, pp. 36-49.
37 Andrea Mariuzzo, Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana (1945-1953), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, p. 125.
38 Istituto storico di Parma, Fondo Lotta di Liberazione, b. 2, Volantino a firma Democrazia cristiana, novembre 1945.
39 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, volantino con data 1946.
40 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, volantino dal titolo Lavoratore, tu devi ragionare!.
41 Asbo, Adcer, fasc. 1, Carteggio e atti 1943-1948, lettera anonima datata 28 ottobre 1945.
42 Affamatori del Popolo, in «Il Dovere. Periodico della consociazione circondariale riminese del Partito repubblicano italiano», 10 agosto 1946.
Andrea Montanari, Il Pci e le altre forze politiche: temi e problemi nel lungo dopoguerra in (a cura di) Carlo De Maria, Storia del PCI in Emilia-Romagna. Welfare, lavoro, cultura, autonomie (1945-1991), Collana "OttocentoDuemila", Italia-Europa-Mondo, 9, Bologna, Bologna University Press, 2022, testo qui ripreso da Clionet - Associazione di ricerca storica e promozione culturale