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domenica 6 agosto 2023

Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani


Il 1° luglio del 1944 era uno splendido sabato. All'improvviso nel cielo azzurro comparve un aereo. Qualcuno, tra i partigiani, pensò a un aviolancio - non ve ne erano ancora stati dall'inizio della Resistenza - era invece un ricognitore tedesco diretto chissà dove e non destò allarme. La giornata trascorse tranquilla. Verso sera il cielo si oscurò e nella notte un violento temporale si scatenò in valle èSusa] sradicando alberi e scoperchiando alcune baite meno protette. La notte passò serenamente nel distaccamento dei cremonesi, "nella baita illuminata da un paio di candele si levò un fievole coro che poi si irrobustì. Erano canzoni note, ma l'atmosfera era nuova, di una dolcezza infinita" <270 che i partigiani intonavano per combattere il freddo e il temporale che stavano rattristando la serata.
Verso le sette del mattino del 2 luglio si sentì un colpo di fucile seguito da una raffica di mitra. Era il segnale di allarme convenuto della 17a brigata Garibaldi. Arrivò concitato e trafelato dalla Frassa, Sauro Faleschini, cremonese diciottenne buon camminatore che "Deo" aveva voluto con sé come staffetta: "stanno venendo su, numerosi e armatissimi, tedeschi e camicie nere" <271. La "Felice Cima" stava per essere attaccata dai nazifascisti. La notizia del rastrellamento giunse presumibilmente prima ai distaccamenti stanziati all'imbocco della Valle di Rubiana, interamente occupata dalla brigata. Tra quelli c'era il distaccamento comandato da Mauro Ambrosio "Bil" di cui faceva parte Federico Del Boca. Del Boca nel suo diario, scrivendo del rastrellamento del 2 luglio, non cita il luogo dove era alloggiato il distaccamento, ma dice che era "un posto pericoloso, vicino alla strada, eravamo come l'avanguardia di tutti (…) c'erano poche casupole in parte disabitate; però aveva un belvedere magnifico, si vedeva la strada che andava al Col del Lys e, sottostante il paese di Rubiana, si dominava tutta la valle" <272.
All'alba le pattuglie del distaccamento di "Bil" portarono la notizia che ad Almese vi erano una ventina di carri armati e autoblinde che stavano per proseguire verso Rubiana. I tedeschi e i fascisti stavano risalendo la valle per effettuare il rastrellamento. Secondo la testimonianza di Del Boca giunse al loro distaccamento un partigiano appartenente ad un distaccamento stanziato sull'altro versante della valle, alle pendici della Rocca della Sella, in località Rubiana, che riferì ai partigiani di "Bil" come i nazifascisti avessero raggiunto già quella zona della valle e avessero catturato molti partigiani <273.
Quindi le truppe tedesche e quelle italiane stavano risalendo la valle da entrambi i versanti e, superiori in mezzi e armi, superarono facilmente i tentativi di contrastare la loro avanzata messi in atto dai primi distaccamenti della brigata messi a presidio della valle. Il comandante "Bil" dispose subito il distaccamento in posizione difensiva. Le armi erano poche, il distaccamento faceva affidamento su due mitragliatrici una da 7 mm e l'altra da 20 mm, sprovviste di piedistallo e di munizioni. Gli uomini di "Bil" attendevano che i fascisti e i tedeschi si avvicinassero per aprire il fuoco, "i loro elmi cominciarono a brillare sotto il sole; avanzavano lentamente a scacchiera avvicinandosi sempre più, perché prevedevano un attacco di sorpresa; intanto a noi faceva paura il modo in cui, avanzando, si allargavano; si finiva col rimanere circondati" <274.
"Bil" ordinò allora, per scongiurare l'accerchiamento dei propri uomini, come mossa difensiva, la disposizione a ferro di cavallo, tenendo così il più a lungo possibile la posizione che avrebbe permesso ai compagni delle retrovie di portare in salvo i feriti e i pochi rifornimenti di cui i partigiani disponevano. Gli uomini di "Bil" riuscirono a mantenere le posizioni per poco tempo, i nazifascisti numerosi e meglio armati avanzano inesorabilmente. A quel punto ai partigiani non rimaneva che disperdersi. Qualcuno cercò di nascondere la roba più ingombrante che si aveva dentro a delle buche scavate nei pressi del magazzino del distaccamento, gli oggetti più facilmente trasportabili i partigiani li portarono con sé. Il gruppo di "Bil" ripiegò verso il castello di Mompellano, la sede del comando della 17a brigata Garibaldi, inseguiti dai nazifascisti che, superato l'ostacolo dei primi distaccamenti, procedevano verso il Col del Lys. Durante il ripiegamento verso il colle "vedemmo su una altura un gruppo di uomini che agitavano le braccia in segno di saluto. "Sono dei nostri compagni". (…) ci avvicinammo con gran fatica, eravamo carichi, chi aveva le armi pesanti, chi le cassette di munizioni, chi i viveri; ogni tanto i nuovi compagni ci salutavano: "venite siamo della squadra di Carlo". Io l'avevo conosciuto, il nome era di battaglia; sentendolo mi sentii subito meglio, mi ricordo che lo dissi a Bil; intanto si vedevano le divise da partigiani, erano ben armati, c'erano delle mitraglie che sembravano rivolte verso di noi, altri uomini erano stesi a terra come pronti a far fuoco; ogni tanto un richiamo e persino qualche parola in torinese; arrivati ad una cinquantina di metri tutti raggruppati, all'improvviso aprirono il fuoco in massa; io che ero tra i primi fortunatamente mi trovai dietro ad una piccola sporgenza e vidi quei maledetti che si toglievano le divise da partigiani ridendo a squarciagola e sparando" <275.
Decimati dall'agguato fascista i superstiti del gruppo di "Bil" riuscirono a raggiungere Mompellato, unendosi ai gruppi di partigiani comandati da "Deo" che cercavano di difendere il comando di brigata che era posto in una buona posizione strategica, tutto intorno non vi erano alberi o rocce dietro cui proteggersi (il nome Mompellato deriva proprio da questa caratteristica morfologica), chi voleva attaccare doveva compiere l'azzardo di avanzare allo scoperto. La squadra comandata da "Bil" si pose sul fianco destro della squadra comandata da "Deo". I partigiani resistettero fino a quando i militi della Repubblica sociale utilizzarono l'artiglieria. A quel punto il primo distaccamento a ripiegare fu quello di "Deo", seguito poi dal gruppo di "Bil" entrambi diretti verso il monte Civrari, montagna rocciosa e ben riparata dall'artiglieria che continuava a sparare. La nebbia, provvidenzialmente scesa in quel momento, aiutò i partigiani nel ripiegamento, ma non tutti riuscirono a mettersi in salvo.
Quando tre giorni dopo il rastrellamento il distaccamento di "Deo" riuscì a ricomporsi mancavano all'appello i partigiani del gruppo dei fratelli Scala. Notizie confuse giungevano dai contadini circa la situazione lasciata dal rastrellamento. Sul Col del Lys era confermato che vi era stato un agghiacciante massacro di partigiani. I garibaldini della 17a brigata Garibaldi giunti sul posto si trovarono davanti a 26 giovani compagni massacrati in modo indescrivibile. Il parroco don Stefano Mellano di Bertesseno, località nei pressi del Col del Lys, che con il parroco don Evasio Lavagno di Mompellato era giunto sul posto per dare i sacramenti alle vittime, ha scritto: "Al due luglio vi fu una strage al Col del Lys. Arrivarono vestiti da partigiani, cantando le canzoni dei partigiani, ed i partigiani nel Castello non se ne accorsero. Quando ebbero sentore del pericolo erano chiusi da tre parti: essi, quelli che fuggirono verso Bertesseno andarono nelle loro mani. Furono presi in numero di 23 dal mio versante e massacrati con le baionette e bastonate; infine li portarono sulla strada di Niquidetto e lì li fucilarono. Via i tedeschi andai con alcuni uomini e ne trovammo tre gruppi di morti giù della scarpata della strada. Gli uomini li portarono sulla strada ed il giorno cinque luglio vennero molti partigiani dai dintorni e tutti i compagni per il riconoscimento; cinque, purtroppo furono irriconoscibili. Con il parroco di Mompellato benedicemmo un pezzo di terreno secondo il rituale. Intanto giunsero le casse e ad ognuno fu posto un'ampolla con il nome oppure con i connotati, che si poterono prendere. Molti mi diedero l'indirizzo e scrissi io ai loro parroci, che avvisassero le famiglie dell'accaduto" <276.
[...] Dei ventisei partigiani trucidati sul Col del Lys solo di diciannove è stato possibile ricostruirne la carriera partigiana nella 17a brigata Garibaldi perché i loro nominativi sono presenti nel database del partigianato piemontese. Fatta eccezione per Guerrotto di cui è nota solo la data e il luogo di nascita, per i sei sovietici, dei quali si conosce solo l'onomastica, sappiamo invece che appartenevano tutti allo stesso distaccamento formatosi il 1° maggio 1944, quando una quarantina di prigionieri sovietici adibiti alla riparazione del tronco ferroviario Rivoli-Avigliana, dopo aver preso contatto con Maria Lazzaretto, suo fratello Franza e con il comandante "Alessio", decisero di passare nella 17a brigata Garibaldi. Costituirono un loro distaccamento comandato da Andrei Gretčko, ufficiale dell'esercito sovietico, e si stanziarono oltre il villaggio di Courmayan, un punto strategico di estrema importanza che conduceva al valico per la Francia, dove operavano altre formazioni partigiane. Molti erano ucraini e georgiani, alcuni di Mosca e di Leningrado. Quasi tutti erano stati fatti prigionieri sul fronte del Don. Secondo la testimonianza di Osvaldo Negarville "se ne stavano appartati, difficilmente erano loro a cercare il contatto con i distaccamenti italiani, e la cosa sulle prime ci stupì. Ma in seguito ne capimmo il motivo: non volevano forzare i tempi, non volevano pretendere la nostra fiducia senza averci dato valide prove; attendevano l'occasione per dimostrare coi fatti che erano veramente nostri fratelli di lotta" <277. I sovietici, impiegati in Val di Susa dai tedeschi prevalentemente a presidio della linea ferroviaria Torino-Modane, erano ben organizzati e soprattutto ben armati. "Alessio" parlando dei partigiani che entravano nella sua brigata ha detto che "i russi e i cecoslovacchi erano armati, i cremonesi no" <278. Circostanza confermata dalla Gobetti che passando in rivista i partigiani della brigata Gl "Stellina" ne aveva avuto una grande impressione: "i cechi se ne son venuti su senza colpo ferire, portandosi l'equipaggiamento completo, divise, armi, coperte, tende, pentolini. Qui han montato le loro tende e tengon tutto in ordine perfetto: pentolini lucidissimi, divise ben pulite, armi perfettamente forbite. Formano un gruppo a sé con un proprio capo e sono organizzati e disciplinatissimi (- Si lavano i piedi tutti i giorni, - m'ha sussurrato un nostro partigiano valsusino con accento non ho ben capito se di compianto o di ammirazione). Vedemmo anche le postazioni delle mitragliatrici, molto ben occultate" <279.
L'occasione per dimostrare tutto il loro valore militare ai partigiani sovietici della "Felice Cima" non tardò a presentarsi.
[NOTE]
270 Fogliazza, Deo e i cento cremonesi in Val di Susa, cit., p. 43
271 Ibidem
272 Del Boca, Il freddo, la paura e la fame, cit., p. 76
273 Ivi, p. 108
274 Ivi, p. 109
275 Ivi, cit., p. 112
276 Giuseppe Tuninetti, Clero, guerra e resistenza nella diocesi di Torino (1940 – 1945). Nelle relazioni dei parroci del 1945, Edizioni Piemme, Torino 1996, cit., p. 269
277 Galleni, I partigiani sovietici nella Resistenza italiana, cit., p. 135
278 Testimonianza di Alessio Maffiodo in, Armando Ceste e Chiara Sasso (a cura di), Mai tardi. La Resistenza in Val di Susa, Index Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Torino 1996.
279 Gobetti, Diario partigiano, cit., p. 167
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi "Felice Cima". Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

domenica 23 luglio 2023

Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill


Mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola italiana, gli inglesi approfittando della situazione della resa italiana, stavano studiando uno sbarco in Istria, per dare la possibilità di effettuare operazioni militari attraverso la regione e la provincia di Lubiana in direzione dell'Europa centrale. Lo sbarco avrebbe avuto non solo conseguenze militari importanti, ma anche in ambito politico, e proprio per questo motivo rappresentava un problema, perché uno sbarco in quella parte della penisola dove viveva la gran parte della minoranza italiana, poteva provocare un peggioramento delle relazioni politiche, rendendo più difficili e sfavorevoli i rapporti e i problemi ancora irrisolti fra gli jugoslavi e gli italiani dell'Istria. Inoltre, lo sbarco venne respinto da Stalin e da Roosevelt alla conferenza di Teheran, perché ritenuto di poca importanza militare, giustificando la bocciatura classificando l'operazione di scarso valore militare, nascondendo le loro preoccupazioni politiche: gli americani consideravano la zona dei Balcani e il fronte italiano era considerato un fronte secondario, a differenza della Francia, mentre per i sovietici l'obiettivo, oltre a Berlino, era anche la presa di Vienna. <14
Mentre per la resistenza slovena e croata, la notizia dell'armistizio italiano, rappresentò una sorta di miracolo: perché da una parte i soldati italiani abbandonarono le caserme, lasciando l'Istria e la provincia di Lubiana sguarnite senza dare una presenza militare seria, permettendo così l'inizio della vendetta degli slavi contro i responsabili fascisti, che si macchiarono del tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia, durante il ventennio fascista, e delle violenze perpetuate dall'esercito italiano nei Balcani durante la guerra, ad esempio la circolare 3C del generale Mario Roatta <15: questa vendetta, verrà ricordata come i massacri delle foibe. In più da quella data le forze partigiane ampliarono il loro raggio delle operazioni militari, considerando che vennero abbandonate migliaia di armi, veicoli blindati e pezzi d'artiglieria italiani, riutilizzate dalle forze partigiane (secondo quanto detto dal generale cetnico Draza Mihajlović). Oltre al materiale bellico abbandonato, diversi reparti italiani si unirono ai partigiani jugoslavi, che subito diedero un contributo significativo nella battaglia di Turjak, contro i nazionalisti sloveni. Questi reparti si unirono alla resistenza, a seguito delle voci, fatte circolare dai titini, di uno sbarco alleato in Istria, che in realtà non ci sarebbe stato, e chiesero agli italiani in zona di unirsi alle forze partigiane e di affrontare il nemico comune, i tedeschi. <16
L'OF, “Osvobodilna fronta”, in sloveno fronte di liberazione, a seguito dell'ampliamento delle loro operazioni, divulgarono, tramite una commissione composta da diversi geografi, militari, politici e storici, teorie nazionalistiche tra la popolazione slava dell'Istria, dichiarando che i territori italiani, dall'Istria fino al fiume Tagliamento, erano territori storicamente appartenuti ai croati e agli sloveni, strappati dagli italiani dopo la Prima guerra mondiale. Queste rivendicazioni non  avevano solo motivi ideologici, ma anche strategici, nel senso che, dopo la sconfitta del nazi-fascismo, in previsione di un nuovo conflitto in Europa, la regione avrebbe svolto un ruolo cruciale per la difesa dello stato Jugoslavo. <17
Il Foreign Office aveva scoperto che se gli alleati avessero continuato a supportare militarmente sia le forze cetniche del governo jugoslavo in esilio a Londra, che le forze comuniste guidate da Tito, avrebbero creato due stati jugoslavi separati tra loro, provocando così una guerra civile, come avverrà nel caso della Grecia nel 1946. Pertanto, gli alleati da una parte avevano dei dubbi sulle forze cetniche guidate da Mihajlović, sospettando che collaborasse con le forze dell'Asse, ipotesi all'epoca falsa, ma che si rivelerà esatta in futuro a causa dell'abbandono del supporto degli inglesi a partire nel 1944. Tito, per cercare il pieno appoggio militare alleato, ingannò Churchill usando la propaganda internazionale, dichiarando che il movimento comunista era l'unico che poteva fronteggiare i tedeschi e che godeva del pieno appoggio del popolo jugoslavo, anche se in realtà in quel momento, i titini non controllavano il Montenegro e la Serbia (roccaforte dei cetnici). <18
Il 28 novembre 1943, si tenne la conferenza di Teheran, per decidere sulle prossime operazioni alleate in Francia, sul fronte occidentale e sulla questione balcanica. Churchill e Stalin volevano che le forze jugoslave unissero le forze sotto un unico comando, per combattere contro i tedeschi. Secondo Churchill per cercare di trovare una tregua tra le forze partigiane, i cetnici dovevano unirsi sotto il comando di Tito e il re Pietro II doveva abdicare in favore delle forze comuniste. Stalin invece, dopo la conferenza, sollecitò i comunisti jugoslavi a prendere contatto con il governo in esilio di Šubasic, poiché l'AVNOJ (Antifašističko vijeće narodnog oslobođenja Jugoslavije - Consiglio Antifascista di Liberazione Popolare della Jugoslavia) aveva stabilito che il re Pietro II non poteva più ritornare in patria, poiché ritenuto un traditore <19. Inoltre raccomandò ai comunisti jugoslavi di muoversi con discrezione per evitare di suscitare sospetti tra gli alleati sul nascere di un nuovo stato comunista nei Balcani. <20
Il 12 settembre 1944 re Pietro II, sotto la pressione di Churchill, esortò i serbi, croati e sloveni a riconoscere il nuovo governo sotto la guida di Tito. Il primo ministro inglese, dopo gli accordi, temeva che, non appena fosse arrivata l'Armata Rossa ai confini della Serbia, i sovietici avrebbero instaurato un regime comunista sotto la guida di Tito, per cui sospese i rifornimenti ai cetnici, nonostante la promessa di Mihajlović di continuare a combattere i tedeschi, e li indirizzò ai titini. Per questo motivo, chiese a Tito di incontrare il re per formare un nuovo governo in Jugoslavia per decidere quale sarebbe stato il nuovo sistema politico in Jugoslavia, ma Tito evitò l'incontro con il re, assicurando a Churchill che il suo sistema politico non sarebbe stato di stampo comunista. <21
Per cui, con le dimissioni del re, e con l'avanzata dell'Armata Rossa in Bulgaria e in Romania (che avevano firmato un armistizio con le forze sovietiche), Tito viaggiò segretamente in aereo, all'insaputa degli inglesi, per arrivare a Mosca per chiedere aiuti militari a Stalin e addestrare le sue truppe in modo da poter combattere efficacemente i tedeschi e cacciarli dalla Jugoslavia. Stalin approvò la richiesta <22, e il 20 ottobre 1944 l'Armata Rossa lanciò la sua terza offensiva verso l'Ungheria. In seguito divisioni sovietiche si riversarono su Belgrado e insieme alle forze titine la liberarono. Questa offensiva, l'offensiva di Belgrado, permise a Tito di stabilire il suo quartier generale nella capitale, diventando così il nuovo capo della Serbia, che insieme agli accordi diplomatici, già descritti, furono il suo primo grande successo in campo internazionale. <23 Tuttavia rimaneva la questione irrisolta della Venezia Giulia occupata.
[NOTE]
14 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
15 Rossi-Giusti, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Il Mulino, 2011, pp. 59-60
16 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
17 Pupo. Trieste '45. p. 42
18 Diego de Castro. Vol 1. p. 154
19 Diego de Castro. Vol 1. p. 156
20 Novak, p. 96
21 Novak, pp. 97-99, ma non lo menzionò nei suoi discorsi politici al pubblico.
22 Consultare B. B. Dimitrijević and D. Savić (2011) Oklopne jedinice na Jugoslovenskom ratištu 1941-1945, Institut za savremenu istoriju, Beograd 23 Novak, p. 99
Matteo Boggian, La questione triestina 1945-1954, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2020-2021 

La crescente iniziativa dei partigiani dell'esercito di liberazione nazionale guidato da Tito e la sanguinosa guerra nazionale e civile delle diverse fazioni politiche attive in Jugoslavia, impegnate in una lotta senza quartiere al fianco o contro le forze di occupazione al fine di garantirsi una posizione di forza favorevole alla fine del conflitto, costrinsero Mussolini a dichiarare la Dalmazia, assieme al Montenegro, alla Slovenia e ai territori croati e bosniaci occupati, “zona di operazioniˮ. <187
In Dalmazia queste misure determinarono in primo luogo una selvaggia competizione per il potere tra il governatore Giuseppe Bastianini ed il generale Quirino Armellini, comandante del XVIII Corpo d'armata che si concluse a favore del primo. L'occupazione della Slovenia ebbe implicazioni cariche di conseguenze sulle sorti dei territori di confine: nella provincia di Lubiana il fascismo perseguì in un primo tempo una politica di moderazione nei confronti della popolazione civile.
Questa politica si differenziava notevolmente dalla prassi di germanizzazione violenta messa in atto dai tedeschi nella Slovenia settentrionale, in seguito alla quale circa 21.000 sloveni provenienti dalla zona di occupazione germanica si erano rifugiati nella zona italiana. Questi fatti suscitarono notevoli malumori da parte degli occupanti tedeschi della parte settentrionale della Slovenia, che dal canto loro andavano attuando un programma complessivo di germanizzazione delle aree adiacenti al confine austriaco attraverso deportazioni di massa della popolazione slovena. L'Italia venne accusata in tale frangente di aver favorito il formarsi a Lubiana del centro dell'irredentismo sloveno <188.
Lo stesso Mussolini in un primo tempo non intendeva procedere all'italianizzazione forzata della provincia: «Inizialmente le cose parvero procedere nel modo migliore. La popolazione considera il minore dei mali il fatto di essere sotto la bandiera italiana. Fu dato alla provincia uno statuto, poiché non consideriamo territorio nazionale quanto è oltre il crinale delle Alpi, salvo casi di carattere eccezionale» <189.
[...] Rispetto alla condizione in cui versava il paese, la situazione che venne a crearsi nell'area di confine fu ben diversa: qui andò dissolvendosi ogni simulacro di presenza statuale italiana; l'8 settembre non significò solo, nella Venezia Giulia, lo sbandamento di massa dell'esercito, ma anche la scomparsa delle articolazioni dello Stato italiano, cosicché il carattere di cesura vi si presentò in forme assai più accentuate che nel resto d'Italia <231 .
La firma dell'armistizio provocò un'accelerazione dei processi che erano andati delineandosi già a partire dal 1942, quando l'attività partigiana aveva trasformato la parte orientale del territorio in zona di guerra: i numerosi episodi di aggressione e disarmo di gruppi di soldati da parte di unità partigiane e le preoccupate reazioni degli alti comandi rappresentano infatti un indicatore dello stato di demoralizzazione delle truppe e delle conseguenze che avrebbero potuto sortirne. In seguito alla diffusione della notizia della firma dell'armistizio, varie unità si lasciarono sopraffare da contadini croati disarmati. Ad Albona, 1200 soldati si arresero a 30 croati, tra le quali diverse donne, mentre a Pisino circa 1000 effettivi si sbandavano, dopo aver abbandonato un armamentario composto da pezzi di artiglieria, mitragliatrici e mortai <232. Altri soldati si arresero nel villaggio dell'Istria interna di Pinguente, nella provincia di Lubiana, a Trieste, a Fiume e a Pola. A Gorizia si verificò invece un tentativo di resistenza e di cooperazione con le unità partigiane che circondavano la città: gli operai dei cantieri di Monfalcone, rifornitisi di armi raccogliticce, organizzarono la divisione Proletaria, che si oppose assieme ai partigiani sloveni all'avanzata tedesca; la maggioranza dei soldati che si arrendevano vennero internati in Germania, contro le precedenti assicurazioni dei comandi tedeschi. In Istria le cose andarono diversamente: qui ebbero luogo diverse sollevazioni, sia nei centri italiani sia in quelli croati; Giovanni Paladin, nel suo La lotta clandestina di Trieste, ricostruisce nei termini seguenti il passaggio dei poteri in Istria: «I partiti politici italiani non esistevano, la vecchia classe dirigente era scomparsa da lungo tempo, gli italiani dell'Istria, pur essendo in maggioranza, non disponevano più alcuna istituzione autonoma intorno alla quale raccogliersi e resistere. La disgregazione morale e politica aveva dissociato tutti i gangli vitali della comunità italiana dell'Istria. […] Nel vuoto lasciato libero, prima dal fascismo e poi dalle autorità civili e militari, si precipitarono dopo l'8 settembre i nuclei partigiani slavi, instaurando l'ordine nuovo per mezzo dei cosiddetti «poteri popolari» senza incontrare resistenza alcuna da parte degli italiani dell' Istria. La Venezia Giulia era diventata terra di nessuno…[…]. Quel giorno finiva di fatto la sovranità italiana sull'Istria e incominciava la dominazione balcanica che sovvertiva da cima a fondo l'ordine costituito <233».
Il 13 settembre 1943 si riunì a Pisino un'assemblea del neoistituito Comitato popolare di liberazione, composto da una trentina di quadri: il Comitato proclamava l'unione dell'Istria alla «madrepatria croata»; in seguito una più ampia assemblea, a cui parteciparono anche numerosi italiani, ratificò queste decisioni. Il 20 settembre, il Consiglio territoriale antifascista di liberazione nazionale della Croazia (Zavnoh), emise un decreto che dichiarava decaduti tutti i trattati e le convenzioni stipulate con l'Italia. L'Istria, la Dalmazia e le isole erano annesse ipso facto alla Croazia <234. Il proclama di Pisino era stato preceduto da numerose sommosse locali, in cui una prima rudimentale ossatura di contropotere partigiano, integrata poi da quadri comunisti provenienti dalla Croazia, aveva provveduto a disarmare le guarnigioni e le forze di polizia italiana, insediando i nuovi poteri e rafforzando le fila partigiane.
[NOTE]
187 M. Cantaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 216.
231 M. Cattaruzza, L'Italia e il confine orientale, cit., p. 241.
232 Ivi, p. 241 ss.
233 G. Paladin, La lotta clandestina di Trieste. Nelle drammatiche vicende del CLN della Venezia Giulia, Del Bianco, Udine 1960, p.74.
234 M. Pacor, Confine orientale. Questione nazionale e Resistenza nel Friuli Venezia Giulia, cit., p. 211.

Margherita Sulas, Il confine orientale italiano tra contesto internazionale e lotta politica: 1943-1953, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2013

sabato 15 luglio 2023

Calvino non viene riconosciuto al momento dell’arresto come partigiano, ma semplicemente come renitente alla leva

Sanremo (IM): ex fortezza di Santa Tecla

«Per quel che mi riguarda, la Resistenza mi ha messo al mondo, anche come scrittore. Tutto quello che scrivo e penso parte da quell’esperienza» <16: con queste poche parole si percepisce l’importanza che assumeranno questi ventuno mesi per Calvino, mesi dettati dal profondo entusiasmo di poter partecipare attivamente alle fasi del cambiamento di regime. Si trova presso il campo della milizia universitaria di Mercatale di Vernio, costretto al servizio militare che aveva provato a disertare molte volte, quando arriva la notizia del ritorno di Badoglio al governo. Subito la sua reazione è di estremo entusiasmo, ma da alcune lettere indirizzate al padre e a Eugenio Scalfari, si percepisce tutto il suo dispiacere di essere «fuori dal mondo, […] lontano dal mio paese» (L, p. 140). Sente quindi forte il richiamo della sua Liguria e decide di partecipare attivamente alla lotta anti-fascista.
Ad agosto 1944, dopo aver sostenuto alcuni esami, tornerà a Sanremo dove, nominato caporale maggiore, verrà posto in licenza illimitata dopo l’8 settembre. Dopo questa data, per sfuggire alla leva della repubblica di Salò, trascorse molti mesi nascosto per non essere arrestato dalla polizia fascista come disertore e per combattere la solitudine si buttò a capo fitto su varie letture che influenzarono la sua vocazione di scrittore. In questi quarantacinque giorni, giorni di profondo fervore, prese la decisione di entrare «nell’organizzazione comunista clandestina» (S, p. 2744).
I primi mesi del 1944 lo vedranno sottoporsi a diverse visite presso l’ospedale militare di Genova e quello di Savona e a maggio presterà servizio presso il Tribunale militare di Sanremo in qualità di scritturale (ubicato presso Piazza Colombo e completamente distrutto durante un bombardamento), come si evince dalla domanda di ammissione presentata all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia <17. Si farà sempre più pressante, in questi mesi, la necessità di agire, così deciderà di entrare nel partito comunista considerato da Italo «la forza più attiva e organizzata» (S, p. 2744) contro il fascismo:
"Quando seppi che il primo capo partigiano della nostra zona, il giovane medico Felice Cascione, comunista, era caduto combattendo contro i tedeschi a Monte Alto nel febbraio del 1944, chiesi a un amico comunista di entrare nel partito" (S, p. 2745).
Così, insieme al fratello Floriano, prenderà la decisione di salire sui monti per apportare il proprio contributo alla causa della Resistenza, testimoniata anche dalle parole che il fratello maggiore rivolgerà al fratello minore nel racconto La stessa cosa del sangue, uscito inedito nella raccolta del 1949 Ultimo viene il corvo: «Questa vita di ribelli di lusso non ho più testa a farla. O facciamo il partigiano o non lo facciamo. Uno di questi giorni sarà bene che pigliamo la via dei monti e saliamo con la brigata» <18. I racconti di questo periodo, scritti tutti in terza persona, sono in realtà un chiaro indicatore degli eventi che Calvino affronta come partigiano, e pur nella trasfigurazione letteraria offrono indizi preziosi per ricostruirne la biografia di quegli anni, le scelte effettuate.
Ripercorrere esattamente i mesi che seguirono la scelta di entrare a far parte dei vari distaccamenti partigiani dell’entroterra ligure non è facile visto lo scarso materiale a disposizione, ma la ricostruzione di alcuni studiosi come Claudio Milanini, Francesco Biga, Domenico Scarpa, Pietro Ferrua e di altri, possono aiutarci a delineare, pur con qualche dubbio o lacuna, la sua esperienza partigiana.
Dalla domanda dell’ANPI, datata 7 ottobre 1945, i primi dati certi sono da far risalire all’agosto-settembre dello stesso anno [n.d.r.: invece si trattava del 1944]. Durante questo periodo di effettiva presenza come partigiano nelle località di Beulle, Baiardo e Ceriale nel distaccamento Alpino guidato dal comandante Umberto, all’anagrafe Candido Bertassi, Calvino prenderà parte alle azioni armate di Coldirodi (3 settembre) e Baiardo (5 settembre) <19. Prima di queste date abbiamo solo le dichiarazioni del comandante Erven, Bruno Luppi, che sostenne la presenza di Italo Calvino nella IX Brigata garibaldina durante il combattimento di Carpenosa del 16 giugno. Il piccolo paese di Carpenosa è un agglomerato di case adagiate sulla strada che da Badalucco e Montalto Ligure porta a Molini di Triora e Triora. Al suo fianco scorre il fiume Argentina che dà il nome alla vallata e che fu al centro della lotta resistenziale. Il 27 giugno il comandante Erven venne ferito nel combattimento di Sella Carpe e i garibaldini subirono forti perdite, così il suo gruppo si sciolse per aggregarsi ad altre formazioni. La battaglia di Sella Carpe fu l’inizio di dieci giorni tempestosi per tutta la Resistenza nella provincia di Imperia. Da ciò si evince che Calvino potrebbe essere stato quindi con i garibaldini, prima di entrare a far parte della brigata guidata dal comandante Umberto che guidava un gruppo badogliano.
[...] In questo mese, dal 15 agosto al 20 settembre 1944, Calvino insieme al fratello Floriano milita nel gruppo del comandante Umberto nel bosco delle Beulle sul Monte Ceppo e poi nella zona di Ceriana (nel documento dell’ANPI appare scritto Ceriale invece di Ceriana, ma è presumibilmente un errore di trascrizione) per poi entrare nella brigata cittadina «Giacomo Matteotti», distaccamento «Leone», al secolo Juares Sughi, guidato dal comandante Aldo Baggioli che aveva base a San Giovanni. Non ci sono molti documenti che comprovino il periodo in cui Calvino si trova a far parte di questo distaccamento, ma alcuni suoi racconti ci possono chiarire alcuni episodi, come quello relativo all’arresto della madre. In questo periodo i fratelli Calvino si nascondevano di giorno in una grotta creata dal padre Mario nelle campagne di San Giovanni. Era un nascondiglio segreto che ricreava una vera e propria cameretta in muratura, dove i due si nascondevano insieme ad altri partigiani. Questa grotta, come riporta Ferrua attraverso la voce di Pierto Sughi, fratello di Jaures, era stata costruita dal padre di Calvino, Mario, per i figli Italo e Floriano e si trovava in prossimità di una concimeria. Era una vera e propria cameretta dove c’era «una tonnellata di legname e c’era un buco dove ci passavamo, un buco fatto su misura, che non si vedeva» <22. Aggiunge poi che i due fratelli Calvino trascorrevano lì tutto il giorno per uscire la notte.
Risale a questo periodo un episodio importante per Italo: l’arresto dei genitori, interrogati e torturati per riuscire a fargli confessare dove si nascondessero i figli, altri partigiani e le armi. Ma entrambi non cedono, anzi, la forza e la determinazione della madre sarà ben descritta da Italo in Autobiografia politica giovanile:
"Non posso tralasciare di ricordare qui […] il posto che nell’esperienza di quei mesi ebbe mia madre, come esempio di tenacia e coraggio in una Resistenza intesa come giustizia naturale e virtù familiare, quando esortava i due figli a partecipare alla lotta armata, e nel suo comportarsi con dignità e fermezza di fronte alle SS e ai militari, e nella lunga detenzione come ostaggio, e quando la brigata nera per tre volte finse di fucilare mio padre davanti ai suoi occhi" (S, p. 2746).
Riguardo i giorni di prigionia dei genitori una grande testimonianza ci viene offerta dal racconto La stessa cosa del sangue che, insieme a Attesa della morte in un albergo e Angoscia in caserma, compongono un gruppo di racconti coeso che avrà una vicenda editoriale complessa <23, dove, tra le righe del racconto, c’è un chiaro rimando autobiografico.
Nella domanda dell’ANPI si legge che Italo è stato in carcere per tre giorni a Santa Tecla, dopo essere stato arrestato durante il rastrellamento di San Romolo. La fortezza settecentesca di Santa Tecla, costruita a seguito di una durissima repressione attuata verso la popolazione di Sanremo che si era ribellata al governo di Genova e che fu successivamente caserma, sede dell’arma dei carabinieri, base di idrovolanti e deposito di munizioni e che durante la Resistenza assunse la funzione di carcere dove i prigionieri aspettavano di conoscere il loro destino: salvati o uccisi. Durante i circa dieci giorni del rastrellamento, alcuni partigiani come Floriano Calvino riescono a scappare, altri uccisi come Aldo Baggioli <24, molti altri vengono catturati come Italo Calvino. Da un’intervista fatta a Sanremo il 17 ottobre 1985 al partigiano Massimo Porre raccolta da Ferrua <25, si legge che Calvino e il fratello Floriano, Jaures Sughi, lo stesso Porre e un certo Pino si trovavano nella grotta di San Giovanni quando vennero svegliati da forti rumori di porte sfondate nelle vicine abitazioni. Nel rastrellamento Santiago <26 e Leone, nome di battaglia rispettivamente di Italo Calvino e Jaures Sughi, vengono catturati ma, fortunatamente Italo sarà salvato dalla fucilazione immediata grazie ad un foglio di licenza datogli da un partigiano di Ancona, Guido Pancotti, il futuro «ingegner Travaglia» della Speculazione edilizia. Pancotti era andato via da Ancona portandosi dietro con sé dei fogli di licenza, uno dei quali lo aveva dato a Calvino. La città marchigiana in quel momento stava per essere occupata dagli americani.
Sul numero dei giorni effettivi che Calvino trascorre in carcere nella fortezza di Santa Tecla ci sono notizie contrastanti. Potrebbero essere effettivamente tre come si legge dalla domanda dell’ANPI, oppure una a Santa Tecla e due a Villa Auberg o Villa Giulia come sostiene Milanini dopo un colloquio con il partigiano Grignolio, o ancora al Castello Devachan <27. Una bella descrizione della fortezza sul porto servita precedentemente «da prigione di rigore per i soldati tedeschi» <28 e di un «grande albergo da poco degradato a caserma e prigione» (RR II, p. 228), la troviamo in Attesa della morte in un albergo: "Il carcere era una vecchia fortezza sul porto, dove allora era installata la contraerea tedesca. La cella dove erano stati rinchiusi era servita da prigione di rigore per i soldati tedeschi […]. Loro erano una ventina, nella stessa cella, stesi a terra l’uno a fianco all’altro […]. L’inferriata dava sulla scogliera; il mare rogliava tutta la notte spinto negli scogli, come il sangue nelle arterie e i pensieri nelle volute dei crani" (RR I, p. 230).
Anche la presenza di «un vecchio padre con la barba bianca, vestito da cacciatore, padre d’uno di loro» (RR I, p. 229) aumenta le correlazioni tra questo racconto e l’episodio realmente vissuto da Calvino.
Sempre nella domanda dell’ANPI si legge: «arruolato nella Rep. (dep. Prov. I)» vicino alla sezione riguardante l’arresto di Italo. Quindi non viene riconosciuto al momento dell’arresto come partigiano, ma semplicemente come renitente alla leva, perciò non fu mandato come molti compagni nel carcere di Marassi a Genova, ma arruolato d’ufficio nella Repubblica Sociale e rinchiuso nel Deposito Provinciale di Imperia.
Dei giorni trascorsi a Imperia abbiamo un lungo resoconto in Angoscia in caserma. Qui descrive come era suddivisa la caserma, sia da un punto di vista strutturale che riguardo la suddivisione in gruppi di prigionieri. Inoltre nella seconda parte del racconto espone le varie fasi della fuga iniziata grazie ad un guasto al camion che trasportava i prigionieri [...]
[NOTE]
16 Italo Calvino, Sono nato in America… Interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Mario Barenghi, Mondadori, Milano, 2002, pp. 33-34. Intervista dal titolo La resistenza mi ha messo al mondo. (Risposte scritte alle domande di Enzo Maizza per il dibattito su La giovane narrativa, «La Discussione», 29 dicembre 1957).
17 Questo prezioso documento è stato ritrovato da Francesco Biga, direttore scientifico dell’Istituto Storico della Resistenza di Imperia (fino alla morte, avvenuta nel 2013), partigiano e autore insieme con altri della monumentale Storia della Resistenza imperiese in 5 volumi. Ho potuto visionare personalmente il documento conservato presso l’Istituto della Resistenza di Imperia.
18 Italo Calvino, La stessa cosa del sangue, in RR I, pp. 221-227 (227).
19 Le due azioni armate fanno parte di una serie di offensive partigiane concomitanti volte a liberare il litorale nella speranza che le truppe alleate che erano già sbarcate in Francia, arrivassero fino in Italia. L’attacco a Coldirodi coincise con quelli effettuati dai garibaldini anche a Pigna, Dolceacqua, Taggia, Bordighera, Vallecrosia, città del ponente ligure.
20 L’epopea dell’esercito scalzo, a cura di Mario Mascia, A.L.I.S. Sanremo, s.d. [ma 1945] (firmati da Calvino sono i capitoli su Castelvittorio paese delle nostre montagne, pp. 49-50, e Le battaglie del comandante Erven, pp. 235-244). Mario Mascia, nato a Ponticelli (Napoli) nel 1900, si iscrisse al partito socialista italiano nel 1919. Dopo la laurea in Giurisprudenza lascià l’Italia per gli Stati Uniti a causa del fascismo. Tornò in Italia dove si trasferì a Sanremo e insegnò inglese all’Istituto tecnico commerciale per ragionieri, dal quale venne sospeso perché lontano dai dettami fascisti. Fondò il primo comitato anti-badogliano italiano e divenne membro del Cln di Sanremo. Morì a Sanremo all’età di sessant’anni (Romano Lupi, Italo Calvino e la Resistenza, in La città visibile: luoghi e personaggi di Sanremo nella letteratura italiana, Philobon, Ventimiglia 2016, pp. 93-103 (93).
22 Pietro Ferrua, Italo Calvino a Sanremo, cit., p. 92.
23 Questi tre racconti fanno parte del trittico di racconti introspettivi in terza persona della Resistenza che nascono da episodi autobiografici. Usciranno nella prima edizione di Ultimo viene il corvo del 1949, ma successivamente saranno espunti dall’edizione del 1969 per rientrare nell’ultima: quella del 1976.
24 Aldo Baggioli, nome di battaglia Cichito, giovane comandante di brigata, venne ucciso con altri partigiani la mattina del 15 ottobre 1944 da una raffica di mitra, durante il rastrellamento dei tedeschi a San Romolo.
25 Pietro Ferrua, Italo Calvino a Sanremo, cit., p. 93.
26 Santiago è il nome di battaglia che avrà Calvino da partigiano e si rifà al nome della città cubana in cui nasce: Santiago de las Vegas.
27 Claudio Milanini, Appunti sulla vita di Italo Calvino 1943-1945, «Belfagor», LXI, 1, 2006, pp. 43-61 (p. 55).
28 Italo Calvino, Attesa della morte in albergo, in RR I, p. 228-235 (229). Secondo dei tre racconti sulla guerra e rimasto inedito fino alla sua pubblicazione nel 1949 in Ultimo viene il corvo.
Elisa Longinotti, Calvino e i suoi luoghi, Tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, Anno Accademico 2022-2023

martedì 4 luglio 2023

Quando il gruppo partigiano di Tiberio assumerà un rilievo e una combattività notevoli, scoppierà il dissidio con il locale CLN che era in posizione attendista

Chiavenna (SO). Fonte: Wikipedia

Il CLN di Chiavenna, prima cittadina della provincia a costituire la società operaia, è influenzata da Greppi e da Febo Zanon, socialista. Poi, via via, sorgono gli altri. A Bormio, col dr. Adolfo Flora. Svolgono funzione di collegamento e di indirizzo strategico tra il CVL (Corpo Volontari della Libertà), che invia informazioni e detta disposizioni, e le varie formazioni, non sempre, tuttavia, disposte ad accoglierle. Col tempo, i CLN si trasformano in veri e propri centri di comando locali, e tendono sempre più ad armonizzare i loro comportamenti. Due fatti appaiono determinanti nella costruzione del movimento partigiano valtellinese e valchiavennasco. In Bassa Valle, l’interessamento delle Federazioni lombarde del PCI appare decisivo. Dopo alcuni tentativi riusciti solo parzialmente, si decide d’inviare Dionisio Gambaruto (Nicola), un ufficiale d’artiglieria, con esperienze anche nei Gap milanesi. Nicola riesce ad organizzare gruppi già esistenti e a guidarli nella lotta armata. Ha inizio, fin dalla tarda primavera del ’44, una intransigente azione contro i nazifascisti, dalla quale nasceranno due Divisioni “Garibaldi”. In Val Chiavenna, Tiberio (Pietro Porchera), nell’estate, riesce ad organizzare un comando volante, distinto in tre distaccamenti. L’Alta Valle è caratterizzata fin dagli ultimi mesi del ’43 dal VAI (Volontari Armati Italiani), il primo movimento partigiano apolitico, nella primavera successiva già armato ed in grado di battersi, che influenza anche altri gruppi spontanei. La necessità di unificare i vari schieramenti, con l’ausilio dell’intervento di Ferruccio Parri presso il Comando Alleato, porta alla costituzione della 1ª Divisione Alpina “Giustizia e Libertà”, comandata da un capitano di fanteria, Giuseppe Motta (Camillo). La Divisione, nell’insieme assume, almeno a livello di vertici, un atteggiamento di attesa, spesso contraddetto dalle azioni di gruppi partigiani combattivi. L’atteggiamento viene giustificato dalla necessità assoluta, peraltro condivisa da tutti, di salvaguardare gli impianti idroelettrici. A questo punto il quadro delle varie formazioni partigiane e dei loro compiti appare abbastanza definito.  Sergio Caivano, Resistenza e Liberazione nelle nostre Valli. La Medaglia d’argento alla provincia di Sondrio onora il suo secondo Risorgimento, ANPI Lombardia 

Per quanto riguarda la situazione in altre zone del futuro Raggruppamento Divisioni Garibaldi “Lombardia”, è interessante notare l’attività iniziale della resistenza in Valchiavenna: anche in questa zona la suddivisione tra due concezioni politiche si farà sentire, con una scissione tra politica del locale CLN e quella di una successiva formazione di carattere più avanzato, comandata da Pietro Porchera [Tiberio].
Avevamo precedentemente visto che il clima democratico era particolarmente vivo in Valchiavenna anche durante gli anni del fascismo, per la situazione di relativa industrializzazione della zona e per l’esistenza di una coscienza popolare libertaria che si basava su categorie come quella degli scalpellini della zona di Novate - Mezzola, di cui si ricordano le agitazioni e gli scioperi durante il ventennio, o del proletariato chiavennese in generale che aveva sempre costituito una zona “rossa” rispetto alla “bianca” Valtellina.
Il primo sorgere delle formazioni si verifica nella primavera del 1944. Leggiamo nel verbale d’interrogatorio della GNR di Colico, a Febo Zanon, il 10 dicembre 1944 <179: "[…] nel mese di maggio del c.a. ebbi occasione di conoscere un certo Lazzarini Leone, il quale aveva creato un gruppo di ribelli nella zona di Chiavenna, gruppo che sovvenzionava regolarmente fino al rastrellamento della GNR, epoca nella quale egli prima di fuggire a Milano, mi diede l’incarico di consegnare al capobanda Bellini Luigi con le istruzioni per l’ulteriore sovvenzionamento della banda; istruzioni che mi vennero affidate in un secondo tempo, tramite alcune signorine inviatemi da Milano per conto di un certo Ricci [questo è il nome di battaglia] con il quale in seguito a richiesta ebbi occasione di conoscerlo a Milano, la prima volta in Foro Bonaparte, ed avere successivi incontri in Silvio Pellico dove, strada facendo, mi consegnava una busta chiusa indirizzata al signor Luigi Bellini dicendomi che la somma era destinata ai ribelli che agivano nella zona di Chiavenna, somma che si aggirava a seconda delle volte sulle 100000 lire. Appena ricevuto l’incarico da Milano, ritornavo a Chiavenna dove a mio mezzo recapitavo la somma al comandante del Gruppo “Giustizia e Libertà”. Non ha mai dato l’incarico a nessun’altra persona di recapitare le somme destinate alla banda, perché io stesso le portavo in località Sasso de’ Cani, sopra l’albergo Crimea, dove mi incontravo con il Bellini una volta alla settimana e precisamente ogni sabato verso le 17. Al Bellini non consegnavo tutta la somma che mi veniva consegnata dal Ricci ma, secondo le istruzioni la ripartivo in diversi gruppi che consegnavo a seconda delle necessità della banda e in proporzione alla somma che ricevevo. Il numero dei componenti della banda si aggirava sui 7/8 uomini, tenuti esclusivamente come rappresentanti del gruppo “Giustizia e Libertà”, del Comitato demo - liberale, per contrapporli all’espansione delle Brigate Garibaldine composte da uomini di diverse idee politiche ma guidate da commissari politici comunisti, anche se di nazionalità italiana".
Notiamo in questo verbale d’interrogatorio [e dobbiamo appunto ricordarci che di questo si trattava, con tutte le componenti: infatti, si trova allegato al verbale anche un certificato medico, di due giorni successivo datato 12 dicembre 1944, in cui si dichiara il tentativo di suicidio avvenuto il giorno precedente, e cioè dopo l’interrogatorio di Febo Zanon] che la situazione nella zona era basata da un lato su piccole formazioni, collegate con il CLN locale [Pench del partito comunista, Zanon di quello socialista, Greppi del partito d’azione, Corbetta del partito liberale, Ratti per la democrazia cristiana] e aderenti alle brigate G.L., per le quali lo Zanon andava a Milano a prendere i finanziamenti, precisando [in altro passo del verbale d’interrogatorio] che questi provenivano da Foro Bonaparte e cioè dalla Edison. Questo non può certo sembrare strano se pensiamo all’importante centrale di Mese della Edison e al suo interesse perciò ad avere nella zona formazioni “controllate”. É su questa base che anche qui si porrà il dissidio con le formazioni che facevano capo a Tiberio, per via appunto che i gruppi nati sin dal maggio 1944 e poi sempre esistiti, anche se assolutamente inconsistenti sul piano partigiano, hanno rappresentato una posizione o di solo controllo alla suddetta centrale, o di non attività. Quando perciò da fine luglio-inizi agosto il gruppo di Tiberio assumerà un rilievo e una combattività notevoli, scoppierà il dissidio con il locale CLN che era in posizione attendista.
In una circolare del 20 maggio 1944 dell’Ispettore Federale Silvio Cincera, del partito fascista repubblicano, al commissario federale del partito stesso, e in risposta a una comunicazione di questi che proclamava la necessità di riunire i cittadini “puri” per discutere con loro l’importanza di obbedire al bando mussoliniano in scadenza qualche giorno dopo, leggiamo <180: “Rispondo alla tua del 19 maggio 1944 che ha destato in me non poca sorpresa e meraviglia.
Premetto che ho obbedito a un ordine, che da me e dai miei collaboratori è ritenuto assurdo. Osservo, prima di tutto, che un’iniziativa del genere mi sarebbe dovuta essere notificata almeno cinque giorni prima, per invitare personalmente i capi di famiglia interessati. Ho diffuso nei caffè, nei negozi, nei cantieri, nei teatri e dovunque mi fu ordinato. Credo che un sistema ottimo avrebbe potuto essere quello di chiedere il permesso ai parroci, di cui sono ben noti i sentimenti filo-fascisti, affinché un tributo del PFR potesse persuadere [?!?!] questi buoni italiani a fare il loro dovere nei confronti della Patria! Se noi pensiamo che una piccola raffica di mitragliatrice, qualche ritiro di licenza di commercio, avrebbe dato migliori risultati, ci asteniamo dal seguire una strada errata. É arrivato il camerata maggiore Gardini, il quale ha trovato un locale ben attrezzato per ricevere i “puri”; dopo mezz’ora di attesa si sono presentate unicamente due persone, coi figli regolarmente in Svizzera. É certo, caro Rodolfo [Parmeggiani], che di questo passo noi faremo poca strada nel senso fascista. Il nostro atteggiamento di longanimità è stato interpretato come un calamento di braghe e cosa poco seria. Per dirti fino a qual punto di sfrontatezza e di spudoratezza si arriva, mi vedo sul tavolo un gruppo di domande per guardialinee telefoniche e telegrafiche, di certi individui che, non avendo obblighi militari immediati, cerca di stornare un’eventuale minaccia e di mettersi al coperto da colpi. Il camerata maggiore Gardini ci riferirà verbalmente sulla situazione che ha prospettato e che si riassume nella constatazione che la maggior parte dei renitenti alla leva si trova in Svizzera e che tutti godono di ottima salute, e che i genitori, ormai tranquilli sulla loro sorte, continuano indisturbati nei loro traffici al solo scopo… del “bene inseparabile del Re e della Patria”. Scusami lo sfogo. Ma ne ho… [indovina].”
La lettura del documento ci dà uno spaccato evidente dell’isolamento in cui si trovava il fascismo nei confronti della popolazione valtellinese. Inevitabile che di fronte a un così disastroso atteggiamento, prendesse posizione il desiderio di risolverla “fascisticamente”, tagliando i nodi “gordiani” mussolinianamente, con una “piccola raffica di mitragliatrice” [come consigliava Buffarini Guidi, “sparando nel mucchio”]. Ed è questa una constatazione importantissima ai fini della comprensione della Resistenza in generale. La lotta partigiana era combattuta “dal punto di vista delle masse popolari”, rispecchiava il loro interesse e la loro volontà di finirla col fascismo. Se la punta di diamante erano le formazioni armate, territoriali e di montagna, tuttavia queste non avrebbero potuto creare una situazione militarmente e politicamente vincente, senza l’appoggio “generale” della popolazione. La Resistenza esprimeva cioè l’interesse individuale del cittadino globale della nazione.
18.5 Poi ci sono anche i sacerdoti
É pure interessante notare quel riferimento al clero “filofascista”, in cui si denotava la rabbia del repubblicano di vedersi tradito anche in Valtellina, zona tradizionalmente cattolica, da quel Vaticano che dai patti lateranensi in poi […l’uomo inviato dalla provvidenza…] era stato un valido puntello al regime. Nello specifico, il Cincera si riferiva alle posizioni di antifascismo del clero locale, culminate [in quell’inizio di primavera] nell’arresto del parroco di Sondalo.
[NOTE]
179 Cfr. Documenti della Resistenza Valtellinese. Febo Zanon venne arrestato in seguito alla delazione di una spia, Alberto della Pedrina. Quest’ultimo, dopo la Resistenza sarà oggetto di atti d’accusa da parte dello stesso Zanon.
180 Cfr. Documenti della Resistenza Valtellinese.

Marisa Castagna, La Resistenza politico-militare sulla sponda orientale del Lario e nella Brianza Lecchese, Tesi di Laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Anno Accademico 1974-1975, tesi qui ripresa da Associazione Culturale Banlieu 

A riprova di quanto affermavo poc'anzi circa il nostro desiderio di collaborazione, sollecitai una missione del comando della 52/a. La riunione avvenne verso la metà di novembre e della nostra delegazione facevano parte oltre a Sardo, Rumina e Mosé. Io non vi partecipai perché non mi andava per il momento di mettermi ancora a discutere con gente che mi aveva definito un comunista e in quanto tale un sanguinario che non teneva conto della reazione che i fascisti con le loro rappresaglie potevano arrecare danni incalcolabili nella zona. Ma anche tale tentativo si risolse in una nuova rottura ed il C.L.N. mandò un rapporto allo stesso organismo provinciale di presunto tentativo nostro di disarmare e catturare il gruppo G.L. Tale rapporto faceva parte della ossessionante campagna denigratoria nei nostri confronti poiché non ci era mai balenata per cervello una simile ipotesi. La verità è che tale gruppo ricevette l'ordine di sciogliersi e passare in Svizzera anche armato. Zanon ai primi di dicembre venne arrestato (da un’informazione di Maio della metà del mese risulta invece che si sarebbe consegnato spontaneamente) mentre noi gli avevamo offerto protezione con eventuale accompagnamento in Svizzera, non ritenendolo in grado di affrontare la durezza della vita in montagna. E dai fascisti di Chiavenna venne trasferito all'U.P.I. di Colico, dove dopo gli interrogatori in cui aveva riferito sulla costituzione del gruppo G.L, sui finanziamenti che riceveva e da chi a Milano allo scopo di contrapporlo allo sviluppo delle brigate Garibaldi “comandate da commissari comunisti anche se italiani” tentò di svenarsi, come si seppe e come risultava da un certificato medico con prognosi di qualche giorno. Da qui venne trasferito all'infermeria del carcere di S. Vittore a Milano, dove vi rimase fino alla Liberazione [...] Facendo un passo indietro in riferimento ai dissidi ideologici tra le varie componenti della Resistenza in Valtellina fomentati dagli esponenti moderati dei C.L.N. con l’appoggio dei notabili delle formazioni dell’Alta Valtellina si verificarono anche nelle formazioni comandate da Nicola, degli attriti, che portarono alla secessione capitanata da Giumelli e Ghislanzoni, che furono gli epigoni forse anche non del tutto consapevoli del piano più vasto in atto per la tranquillità della borghesia locale. Giumelli e Ghislanzoni nel loro tentativo di organizzare un forte reparto da contrapporre a Nicola al grido di “La Valtellina ai valtellinesi” si spinsero anche in Val Chiavenna prendendo contatto con il nostro distaccamento dislocato sui monti di Verceia. Avuto sentore della cosa mi precipitavo subito in quel reparto con Rumina giungendo poco dopo l’arrivo dei due che stavano esponendo i motivi della secessione ed i programmi di contrapposizione alle formazioni Garibaldine di Nicola che egemonizzavano tutta la Bassa Valtellina da Sondrio in giù.
Pietro Porchera  (Tiberio), Testimonianza, Associazione Culturale Banlieu 

sabato 17 giugno 2023

Prime missioni alleate in Toscana


Nella nostra regione [la Toscana] esistevano, certamente fin da prima dell’inizio della guerra, cellule dei servizi di informazione alleati, soprattutto di quello britannico <62, che potevano trovare un’efficace mimetizzazione nella consistente e autorevole colonia anglosassone presente in Toscana e almeno in una parte della cerchia di parentele e di amicizie da questa intessute. Una parte di tale colonia si disperse all’inizio del conflitto, ma un’altra, italianizzata per matrimoni ecc, rimase, come rimase in piedi la trama di rapporti stabiliti in precedenza; appare infatti plausibile che questi ambienti abbiano fornito un supporto determinante per la preparazione e la riuscita iniziale dell’evasione dal castello di Vincigliata degli alti ufficiali britannici prigionieri di guerra ivi detenuti, verificatasi alla fine di marzo 1943, poiché la ricostruzione dell’impresa effettuata dalle autorità militari italiane presenta vari punti oscuri <63. In Toscana, ovviamente, erano presenti anche centri dei servizi informativi militari italiani ed è doveroso rilevare che le sezioni locali di tali organismi non passarono in blocco al servizio della Repubblica di Salò e dei nazisti e quelle rimaste fedeli alla casa reale svolsero una preziosa attività per contrastare gli intendimenti germanici: valga per tutti l’esempio della rete messa in piedi da Rodolfo Siviero, che a Firenze operò intensamente, ma sulla cui attività sappiamo qualcosa, non molto, solo in virtù delle avare notizie che egli ha reso note, soprattutto circa il salvataggio delle opere d’arte, anche se non si occupò solo di queste <64. Allo stato attuale non è chiaro se fossero in contatto anche con il gruppo di Siviero o altro gruppo analogo, i livornesi don Roberto Angeli e suo padre, che sembra si siano collegati con l’avvocato Eliso Antonio Vanni già nell’ottobre per provvedere al salvataggio degli ex prigionieri di guerra alleati <65. Ma durante il governo Badoglio alcuni ambienti romani vicini alla casa reale avevano provveduto a stabilire contatti con persone appartenenti alla borghesia medio alta, fedeli alla monarchia, per porre le condizioni atte a dar vita ad altri nuclei informativi, molto probabilmente non agganciati alla rete preesistente, facendo ricorso a figure politicamente appartenenti al mondo moderato-conservatore prefascista, anche se nel loro passato figurava una partecipazione all’iniziale movimento fascista, poi divenuta dissidenza e infine «separazione dal partito al potere, gravida di risentimenti di natura privata [...] nell’intento di determinare una crisi intestina che valesse a reintrodurli nel gioco politico» <66.
Uno di tali personaggi fu il giornalista e finanziere Filippo Naldi <67, coinvolto nelle indagini relative al delitto Matteotti ed espatriato nel 1925 per sottrarsi alle minacciose intenzioni del regime; questi al suo rientro in Italia, avvenuto subito dopo la destituzione di Mussolini, prima di recarsi a Romasi fermò nei pressi di Pescia, dove abitava l’ingegner Tullio Benedetti, con il quale dopo le elezioni del 1921 aveva militato nelle file del gruppo parlamentare della Democrazia liberale; tornò a Pescia alla fine di agosto o ai primi di settembre, dopo che a Roma aveva stabilito contatti ai massimi livelli con la casa reale e aveva incontrato lo stesso Vittorio Emanuele III, cui aveva sottoposto un progetto di coinvolgimento delle sinistre in un ampliamento della base politica del governo Badoglio. Sorpreso a Pescia dall’armistizio, sembra che Naldi abbia elaborato col suo ospite il progetto di collegare il nascente movimento partigiano locale con il governo badogliano di Brindisi e gli Alleati - operazione che avrebbe consentito a entrambi di tornare sulla scena politica - stabilendo verso la metà del mese un primo contatto con una delle prime formazioni partigiane pistoiesi, quella di Silvano Fedi, tramite Vanni La Loggia <68.
Tenuto conto dello spregiudicato pragmatismo del Naldi e del Benedetti, della loro conoscenza degli ambienti governativi e della comune appartenenza alla massoneria, che offriva loro la possibilità di molteplici contatti a livelli, in direzioni e per canali diversificati, appare difficile pensare che essi abbiano escogitato un simile piano senza avere un consistente margine di sicurezza sull’effettiva realizzabilità del collegamento con il governo di Brindisi e gli angloamericani, poiché se ciò si fosse rivelato un bluff la reazione dei resistenti avrebbe potuto essere assai sgradevole, soprattutto per il Benedetti, che, a differenza del Naldi, rimase nel Pesciatino <69.
Nacque così una delle prime maglie della rete informativa messa in piedi all’Office of Strategic Services (OSS) statunitense, rivelatasi in seguito assai utile per gli angloamericani, alla quale Naldi, giunto a Brindisi e divenuto autorevole componente degli ambienti della corte reale, provvide ad agganciare il gruppo pistoiese <70.
La scelta e l’impegno nel rischiosissimo campo della raccolta e trasmissione al Sud delle notizie sul regime e le forze armate nazifascisti furono decisioni prese autonomamente e senza secondi fini, ma solo per riscattare l’onta della guerra condotta dalla parte sbagliata e dell’occupazione germanica, anche da numerosi altri cittadini della nostra regione.
Firenze, in quei mesi a cavallo fra il 1943 e il 1944, era affollata da persone provenienti un po’ da tutta l’Italia, soprattutto da quella meridionale: profughi, persone che vi cercavano rifugio nella speranza che i tesori d’arte ivi raccolti allontanassero le offese belliche, perseguitati politici o razziali e militari fuggiaschi che speravano di far perdere le loro tracce allontanandosi dalle loro città. In questa folla in continuo movimento gli agenti dei servizi d’informazione alleati riuscivano a mimetizzarsi con una certa facilità, potendo inoltre contare sulla diffusa ostilità verso tedeschi e fascisti. Infatti proprio a Firenze il Partito d’Azione, mettendo a punto il suo apparato clandestino, dette vita a una Commissione per gli aiuti ai prigionieri di guerra alleati fuggiaschi e, soprattutto, a una Commissione radio, presto divenuta nota come CORA, che aveva l’obiettivo di mettere in piedi un sistema di collegamenti radio con i centri dirigenti azionisti milanesi e romani, con gli Alleati e con le nascenti formazioni partigiane; entrambi questi organismi nell’esplicazione della loro attività avrebbero avuto modo di entrare in rapporto e collaborare con missioni informative provenienti dall’Italia del Sud. Della prima commissione divenne, fin dall’inizio, parte attiva Ferdinando Pretini, un noto parrucchiere per signora di Firenze, il quale era entrato in contatto con una missione informativa, sbarcata nei pressi di Pesaro da un sottomarino britannico, capeggiata dal capitano Giovanni Tolleri, fiorentino, che egli pose subito in contatto con Max Boris e Luigi Belli, due responsabili dell’apparato militare clandestino azionista; la sera del 24 novembre 1943, giorno in cui fu arrestato dalla Banda Carità, Pretini doveva effettuare il collegamento fra la missione Tolleri e una "seconda missione badogliana, proveniente dall’Italia del Sud, incaricata, con mezzi finanziari a sua disposizione, di proteggere e mettere al sicuro prigionieri alleati, evasi dai campi di concentramento, e di stabilire contatti con il centro di resistenza dei Patrioti [...] La missione in parola era composta da un reverendo e da un signore, che dichiarava di esserne lo zio (era un generale)..." <71.
Non risulta che l’arresto di Pretini abbia avuto conseguenze sulla sorte di queste due missioni, delle quali però non è nota l’ulteriore attività. La Commissione radio, invece, i cui obiettivi comportavano ovviamente un’attività di intelligence, divenne il supporto fondamentale di una missione dell’8a Armata britannica dotata di radio ricetrasmittente, giunta a Firenze nel gennaio 1944, divenuta nota come Radio CORA dopo che uno degli animatori della commissione azionista, l’avvocato Enrico Bocci, di fronte alle esitazioni dei dirigenti locali del suo partito, del resto rapidamente superate, aveva accettato di assumersi personalmente la responsabilità di una collaborazione organica con detta missione, divenendo il capo riconosciuto di un’organizzazione, che riuscì a ramificarsi in ogni settore, civile e militare, potendo contare sullo spontaneo contributo di funzionari e semplici cittadini <72. L’importanza dell’attività svolta da Radio CORA ebbe il riconoscimento di un encomio - trasmesso per radio e quindi intercettato anche dai nazifascisti, da parte dello stesso generale Alexander, di cui i componenti della missione avrebbero anche fatto volentieri a meno - che, forse, contribuì in qualche misura alla tragica conclusione dell’impresa, ormai ampiamente nota <73.
Nel ribollente calderone umano di Firenze fra il dicembre 1943 e gli inizi di gennaio 1944 trovarono ricettacolo altri agenti e varie missioni provenienti dal Sud: agli inizi di dicembre vi era Giangiacomo Vismara, emissario dell’OSS, che ristabilì regolari collegamenti con il Benedetti a Pescia e venne raggiunto pochi giorni dopo dalla coppia Mario Rivano e Giovanni Fabbri - rispettivamente sottotenente d’artiglieria il primo, sottufficiale di marina e operatore radio il secondo - la quale faceva parte, con l’altra coppia formata da Renato Parenti, anch’egli sottotenente d’artiglieria, e il suo radiotelegrafista “Renatino”, sottufficiale di marina, della missione Pescia <74, posta alle dipendenze del Benedetti <75. Tra la fine del mese e i primissimi giorni di quello successivo giunse in città una missione del Servizio informazioni militari (SIM) italiano, di cui facevano parte il guardiamarina Antonio Fedele e il suo operatore radio Alfredo Shermann, destinati a rimanere in città, il sottotenente Dante Lenci, l’allievo ufficiale Ezio Odello e il radiotelegrafista Giuseppe Jacopi, destinati a operare sulla costa fra Livorno e Carrara <75.
[NOTE]
62 Interessanti a tale proposito, anche se, ovviamente, non espliciti, risultano i ricordi di K. Beevor, Un’infanzia toscana, La Tartaruga, Milano 2002, passim. Secondo un documento dello Special Operation Executive (SOE) del febbraio 1943, risulterebbe addirittura attivo a Firenze, oltre che in altri capoluoghi italiani, un gruppo di tale organizzazione, che aveva tra i suoi compiti principali la sovversione e il sabotaggio; la notizia, priva di riscontri oggettivi a oggi noti, deve essere presa con molta cautela, poiché non confermata da altri documenti della stessa fonte, cfr. P. Sebastian, I servizi segreti speciali britannici e l’Italia, Bonacci, Roma 1986, pp. 94-96.
63 La documentazione relativa a quest’evasione si trova in AISRT, Fondo Regione Toscana; NAW, T821, bob. 100, Ministero della Guerra, fasc. «Evasioni prigionieri di guerra»; per sintetiche notizie al riguardo cfr. Verni, Popolazione e partigiani dall’Alpe della Luna all’Abetone, cit., p. 169, nota 1.
64 Cenni sull’attività dell’organizzazione Siviero in R. Siviero, Seconda mostra nazionale delle opere d’arte recuperate in Germania, Sansoni, Firenze 1950, pp. 13-31; S. Ungherelli [Gianni], Quelli della “Stella rossa”, Polistampa, Firenze 1999, pp. 121, 129, 321, 334; Frullini, La liberazione di Firenze, cit., p. 98; qualche notizia in più in W. Lattes, ...E Hitler ordinò: “Distruggete Firenze”. Breve storia dell’arte in guerra, 1943-1948, Sansoni, Milano 2001, passim.
65 AISRT, Fondo CVL, b. 17, fasc. «Gruppo bande Teseo», s.fasc. «Banda di Pozzolatico», relazione dell’avvocato Eliso Antonio Vanni per il SIM allegata alla copia di attestato rilasciato al Vanni.
66 M. Franzinelli, I tentacoli dell’OVRA, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 37.
67 Per sintetiche note biografiche su Naldi, ivi, p. 39 e nota 7.
68 G. Petracchi, Al tempo che Berta filava, Mursia, Milano 1995, pp. 46-51, passim.
69 Ivi, pp. 50-52.
70 Ivi, pp. 65-66.
71 AISRT, Carte processo Banda Carità, fasc. «Ferdinando Pretini», «Il mio diario. Deposizione resa all’Ill.mo Presidente della Corte d’Assise di Lucca al processo della banda Carità il 9 maggio 1951», dattiloscritto, pp. 2-3. Sui due componenti della seconda missione non disponiamo di altre notizie, ma le indicazioni fornite da Pretini suggeriscono che potrebbe forse essersi trattato di don Angeli e di suo padre.
72 G. Larocca, La “radio CORA” di piazza D’Azeglio e le altre due stazioni radio, Giuntina, Firenze 1985, pp. 39-44. Circa la spontanea partecipazione alla raccolta delle notizie, essa ricorda, ad esempio, le informazioni relative alla Linea Gotica, fornite a Bocci da un suo cliente residente in Mugello, ivi, p. 50.
73 Ivi, p. 67. Oltre a tale opera, fondamentale poiché l’autrice fece parte fin dall’inizio del gruppo, ci limitiamo a segnalare, fra gli altri testi C. Francovich, La Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1962, passim; L. Tumiati Barbieri (a cura di), Enrico Bocci. Una vita per la libertà, Barbera, Firenze 1969; Contini Bonacossi, Ragghianti Collobi (a cura di), Una lotta nel suo corso, cit., pp. 313-318.
74. Petracchi, Al tempo che Berta filava, cit., pp. 70-73.
75 AISRT, Fondo CVL, b. 17, fasc. «Gruppo bande Teseo», s.fasc. «Banda di Pozzolatico», relazione dell’avvocato Eliso Antonio Vanni per il SIM allegata alla copia di attestato rilasciato al Vanni. Sull’attività e la sorte del gruppo comandato dal Lenci cfr. F. Bergamini, G. Bimbi, “Per chi non crede”. Antifascismo e Resistenza in Versilia, ANPI Versilia, Viareggio 1983, p. 79.
Giovanni Verni, La resistenza armata in Toscana in (a cura di) Marco Palla, Storia della Resistenza in Toscana. Volume primo, Carocci editore, 2006

Tullio Benedetti era il leader nazionale dei monarchici, che avevano formato la lista denominata Blocco della Libertà.
Ma chi era Tullio Benedetti, l’agente “Berta” collegato con lo spionaggio alleato durante il periodo bellico?
[...] Intorno all’8 settembre 1943 era suo ospite, nella villa di S.Lucia, l’amico Filippo Naldi, già suo collega parlamentare nel 1921. Entrambi monarchici e massoni “pensarono che, aiutando concretamente la gestazione di un movimento di resistenza sulle falde dell’Appennino, avrebbero allargato la base del consenso al governo Badoglio” <5.
Benedetti presentò Naldi a La Loggia (a cui Naldi disse essere un agente dell’Intelligence Service) per parlare della possibilità di aiuti aviolanciati per i partigiani. Fu così che Benedetti (in codice “Berta”) si trovò al centro di un’attività di collegamento tra l’OSS (Office of Strategic Services) dell’esercito americano e una parte delle forze partigiane, quelle che facevano capo ai “libertari” di Silvano Fedi e La Loggia e, dopo gli iniziali tentennamenti di “Pippo”, quelle dirette da Manrico Ducceschi. Ma quando nella primavera del 1944 lo smascheramento di Tullio Benedetti (“Berta”) fu totale e la minaccia perentoria e incombente, egli non ebbe altra scelta che sottrarsi alla cattura lasciando Pescia e riparando dietro le linee alleate a sud di Roma. Egli effettuò il passaggio del fronte, nella prima decade di maggio del 1944, comodamente trasportato in un’ambulanza che il genero, dottor Scanga (membro del Consiglio Nazionale delle Ricerche e commissario provinciale della Croce Rossa Italiana del Lazio) aveva inviato apposta da Roma per prelevarlo.
5 Giorgio Petracchi: Al tempo che Berta filava - MURSIA Editore - Milano, 1995 - pag.50
Pier Luigi Guastini, Tullio Benedetti: il quinto costituente, QF Quaderni di Farestoria Anno X - N. 2-3 maggio-dicembre 2008 

Anche il sessantacinquenne Filippo “Pippo” Naldi, personaggio controverso <54, riuscì a oltrepassare le linee nemiche verso gli Alleati allo scopo di offrire i suoi servigi alla causa comune. Naldi presentò a Bourgoin uno degli uomini 'più utili che io abbia utilizzato durante la campagna dei servizi segreti americani in Italia (…), esponente molto agiato della finanza e dell’industria' <55: Tullio Benedetti, denominato “Pippo”. Residente a quel tempo a Santa Lucia Uzzanese in Toscana, Benedetti aveva formato il primo gruppo di resistenti immediatamente dopo l’8 settembre, i quali erano collocati sulle regioni montuose degli Appennini, in attesa di ricevere aiuto dagli Alleati nella guerra contro il nemico.
[NOTE]
54 Secondo la testimonianza di Bourgoin, il 'gentleman' Filippo Naldi, noto giornalista prima del ventennio e impegnato in missioni di pace con il Governo Giolitti, fu esiliato dal regime fascista nel 1925 e fino al 9 agosto 1943 visse a Parigi. A. Bourgoin, From 20th September 1943 to 26th January 1945 cit., p. 36. Peter Tompkins, invece, ha scritto che “Pippo” Naldi aveva procurato a Mussolini finanziamenti francesi per il suo 'Popolo d’Italia'. Poi, in disaccordo con il Duce, si era rifugiato a Parigi, dove nel 1937 aveva incontrato un altro esule, Indro Montanelli, che, nel 1953, in un elzeviro fece un ritratto alquanto impietoso di 'Pippo Naldi faccendiere'. Per Tompkins, anche il Naldi era stato mandato da Badoglio per controllare la missione dell’OSS aggregato alla V Armata. Cfr. P. Tompkins, L’altra Resistenza cit., p. 395.
55 Bourgoin, così, lo definisce 'a very wealthy financier and industrialist, Tullio Benedetti'. A. Bourgoin, From 20th September 1943 to 26th January 1945 cit., p. 36. In un rapporto dell’OSS, Tullio Benedetti è ritratto quale 'uomo d’affari, monarchico, con uno spiccato carattere impetuoso e deciso. Dirige Il Giornale della sera'. P. Tompkins, L’altra Resistenza cit., nt. 5, p. 395.

Michaela Sapio, Servizi e segreti in Italia (1943-1945). Lo spionaggio americano dalla caduta di Mussolini alla liberazione, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, 2012 

Il 28 [dicembre 1943] cinque operatori del S.I.M. di due missioni dirette in Toscana (Livorno e Firenze), furono sbarcati dal MAS 510, partito dalla Maddalena, vicino al punto di sbarco di Castiglioncello (Buca dei Corvi) <94.
[NOTA]
94 Quella diretta a Firenze era formata dal guardiamarina Antonio Fedele, Tonino, e dal radiotelegrafista Alfredo Scirman. Di quella diretta a Livorno facevano parte il sottotenente del Genio Navale Dante Lenci (che aveva già preso parte alla resistenza fin dal 29 settembre 1943), il sergente universitario, ex-allievo dei corsi normali dell’Accademia Navale, Ezio Odello, e il secondo capo radiotelegrafista Lorenzo Iacopi. Svolgendosi nel periodo di massimo contrasto nazi-fascista all’attività della Resistenza nell’Italia Centrale, le due missioni furono molto accidentate. Alcuni dei collaboratori reclutati sul posto furono arrestati, anche a Roma, dove erano stati inviati per portare informazioni e ricevere istruzioni. Ai primi di aprile alcuni membri dell’organizzazione di Livorno, compreso Lenci e Iacopi, furono arrestati. Odello lasciò Livorno e avvertì personalmente Fedele di quanto accaduto; quindi, con le notizie in suo possesso, e con quelle fornitegli da Fedele relative alle fortificazioni e agli armamenti tedeschi, Odello si recò, in compagnia del partigiano Emilio Angeli, il nonnino, a Roma. Qui giunti i due furono arrestati, il 10 maggio 1944, e furono condannati a morte. Ai primi di giugno furono riuniti, con altri 26 condannati, nel cortile del carcere di via Tasso. Un primo gruppo di condannati fu caricato su un camion e raggiunse Bologna. Un secondo gruppo, che comprendeva Bruno Buozzi e Brandimarte, giunto alla Giustiniana, fu trucidato da uomini della G.N.R. in fuga. L’ultimo camion fece avaria, ciò che impedì di trasferire i 12 superstiti rimasti nel carcere di via Tasso, fra cui l’Odello, che furono liberati dalla popolazione il 4 giugno. Lenci fu fucilato l’11 settembre 1944 nel campo di concentramento di Bolzano.

Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale - Anno XXIX - 2015, Editore Ministero della Difesa

lunedì 5 giugno 2023

Il romanzo "Il Clandestino" è attento anche alla stratificazione sociale


Come Il partigiano Johnny, anche Il Clandestino <12 di Mario Tobino è un affresco della Resistenza - in particolare dei suoi inizi - in cui l'evento storico in questione non è più allontanato e demonizzato ma assunto come momento positivo del riscatto di un'umanità fino a quel momento soffocata dal regime. È il primo romanzo in cui Tobino affronta questo nodo tematico, che toccherà tangenzialmente nel racconto Una giornata con Dufenne <13 e riprenderà poi con Tre amici. <14 Opera dalla lunga gestazione <15 e dall'origine autobiografica, Il Clandestino racconta i primi passi del movimento partigiano nato nell'immaginario paese di Medusa, dietro cui si distingue Viareggio. Al centro non è più un singolo personaggio come nei romanzi fenogliani ma un'intera comunità, che rivive nell'impostazione corale di un intreccio in cui le figure centrali sono alter ego di donne e uomini realmente esistiti. Il titolo stesso guida il lettore a far attenzione non ad un solo personaggio, come per il Partigiano, ma ad un protagonista collettivo: questo fa del romanzo di Tobino una tappa evolutiva da segnalare nel percorso della narrativa sulla Resistenza.
Non ci si concentra più sulle reazioni di un individuo che si trova perso ed isolato di fronte ad un evento più grande di lui; al contrario, la voce narrante pone l'accento su un cenacolo di persone, diverse per cultura ed estrazione sociale, che si uniscono, con entusiasmo e determinazione, nella lotta contro un nemico comune.
L'abilità pittorica dello scrittore si esercita nel ritrarre una gamma di personaggi molto diversi l'uno dall'altro. Guida l'organizzazione clandestina della lotta il Summonti, giovane di estrazione borghese ma convinto comunista - è conosciuto da tutti come il “prete rosso” - spesso frenato nelle sue decisioni da un credo politico che non lo aiuta a risolvere i tanti interrogativi della guerra civile; gli fa da spalla e da contrappeso il Mosca, ingegnere lontano dalle strette di partito e votato all'impeto, all'azione. Altro intellettuale e pensatore è Gustavo Duchen, docente di filosofia altruista e riflessivo, spesso riservato, che si lascia trasportare dall'entusiasmo della lotta; come lui Marino, scrittore e poeta che rifiuta la sua torre d'avorio e si unisce al gruppo clandestino, svincolandosi così dal ruolo iniziale dell'intellettuale inetto.
Il romanzo è attento anche alla stratificazione sociale: Adriatico, umile calafato orfano dei genitori, rappresenta la voce popolare di una città votata al mare e all'attività marinara. Uno spazio è riservato all'elemento nobiliare, con Saverio - ammiraglio nostalgico del Risorgimento e degli ambienti monarchici radiato dalla Marina per discorsi sovversivi - e l'amante Nelly, contessa civettuola e apparentemente superficiale, accompagnati dal loro entourage. Non mancano i rappresentanti della parte avversa: i fascisti bastonatori di Medusa, il podestà e i repubblichini.
Con pochi tratti descrittivi o sfruttando episodi salienti, la voce narrante sa mantenere tutti i personaggi su uno stesso livello di approfondimento caratteriale, tanto che risulta impossibile individuare un protagonista che svetti sugli altri. Il romanzo, inoltre, si apre grazie all'ampio respiro del narratore onnisciente ad abbracciare l'intera collettività che in esso si agita.
Si deve ammettere certo che il romanzo di Tobino è popolato da personaggi così calati nel loro ruolo, così solidali gli uni con gli altri e decisi nelle loro azioni da risultare irreali: la determinazione priva di qualsiasi paura, l'indomito coraggio che li smuove, l'universale accordo nato tra loro rasenta un ideale che difficilmente può essere creduto possibile. Nel mondo di Tobino, i buoni e i cattivi, i valorosi e gli opportunisti sono divisi con l'accetta, senza chiaroscuri.
La coralità del romanzo coinvolge anche la cittadina di Medusa con le sue vie, il mare e il territorio circostante, tanto che può essere considerata una protagonista alla pari degli altri. Apre il primo capitolo, infatti, la descrizione della città, con le sue passioni e i suoi difetti, che reagisce al messaggio radio del 25 luglio allo stesso modo di una persona, in carne ed ossa: "A questi messaggi Medusa, come avvenne in tutte le città d'Italia, si risvegliò, immediatamente fu dimenticata la stagione balneare; Piazza Grande riebbe tutti i suoi diritti. Medusa oltre la celebrità balneare è giustamente nota per essere sensibile alla politica, per partecipare agli impeti ribelli e anarchici della regione dove è situata. Forse è il rischio del mare e il duro lavoro dei calafati che la sospinge a generose intemperanze; e la frequenza con gli oziosi bagnanti estivi oltre a donare ai medusiani il senso dell'ingiustizia sociale obbliga a constatare come la ricchezza di rado si accompagna alla virtù". <16
Lungo il romanzo, la voce narrante getta spesso uno sguardo alle sorti della cittadina, inerme spettatrice e vittima delle scelte umane. Ecco come la città è descritta, attraverso gli occhi di Anselmo, dopo l'arresto di alcuni componenti del gruppo clandestino. Medusa è come morta, privata dell'impeto della sua gioventù di ribelli: " 'Li hanno arrestati! Chi è stato? Da chi è partito, che gli faranno?' e rientrando in casa Anselmo ebbe la sensazione che la città fosse stata dissanguata, orbata della sua linfa gentile, ignobili mani l'avessero profanata, udì nella testa un brusio di pensieri, uno sciame che vola caldo nel sole". <17
Ulteriore esempio è la descrizione della città dopo la partenza degli antifascisti del gruppo clandestino, decisi a creare una formazione in montagna. Qui si legge chiaramente l'importanza che l'uomo riveste nel dare vita e storia allo spazio. Denudata dalle ruberie dei tedeschi e priva dei suoi combattenti, la città resta indifesa, quasi stupita di quel vuoto: "Laggiù Medusa era rimasta sola, senza neppure un cittadino. Chi poi per caso straordinario ci capitò raccontava che era immersa in un silenzio, uno stupore; lungo i marciapiedi erano cresciute delle erbe, dei ramoscelli. Se si percorrevano in bicicletta le strade risuonava netto e quasi pauroso il fruscio delle gomme, il ticchettio della ruota libera. Tutte le porte delle case erano aperte, c'entrava l'aria, la luce, il buio. Quando si alzava il libeccio le porte sbattevano. Sulla spiaggia si erano formate le dune, i pesci arrivavano indisturbati alla riva. I tedeschi avevano fatto crollare tutti i campanili delle chiese, anche il più antico, quello di Santa Rosalia; i rottami giacevano su un lato". <18
La città vive, quindi, nei suoi abitanti: privata di essi, risulta un corpo vuoto, inerte. Ambientato per la più parte in una città marittima, di marinai e calafati, raramente nel romanzo si intravede l'ambiente, collinare o montuoso, tipico dei racconti partigiani. Nelle poche pagine in cui questo avviene, anche il paesaggio naturale, come la città, assume connotati e sentimenti umani, razionali, e porta l'impronta della comunità che vi si muove: elemento, questo, che differenzia molto Tobino da Fenoglio, per il quale la natura è invece una forza indipendente dall'uomo, che agisce su di lui inducendolo ad assumere comportamenti ferini, fino alla completa disumanizzazione.
Nel Clandestino la montagna, per esempio, è sempre collegata all'immagine della famiglia di Duchen, che lì vive; il prato scelto per il lancio è detto «il prato della Teresa», <19 e come il prato anche la caverna individuata per nascondere la merce ha un nome: la caverna «della Scimmia Pelosa». <20 La grotta stessa è descritta con termini più adatti ad illustrare un'abitazione o uno spazio antropizzato piuttosto che un luogo scavato dalla natura dentro al cuore della montagna: "Gli parve di essere tornati ragazzi, quando la prima volta si ascolta la descrizione della casa dell'orco. Si entrava nella caverna per un varco, giusto la misura di un uomo. Al di là c'era un atrio di pochi passi; dirimpetto iniziava un cunicolo, un corto e stretto corridoio. Per percorrerlo si scontrava nelle gibbosità delle pareti. Al di là si apriva il salone, un largo; la volta in certi punti era schiacciata, in altri era nera d'ombra come un camino, tanto era alta. In terra si scontrava in sassi aguzzi. Un uccello notturno cominciò a stridere e a volare; quando era investito dalla luce delle lampade gli si vedeva il ventre color topo, tumido. Il salone era largo numerosi metri". <21
È la presenza dell'individuo, quindi, ad essere preponderante e non la forza vitale della natura. Anche quando non è antropico, l'ambiente perde i suoi attributi naturali per assumere sentimenti tipicamente umani. Ciò rende ancora più evidente che il romanzo ha al suo centro la coralità di un gruppo variegato di uomini e donne, i quali animano spazio e tempo con i loro progetti, errori e traguardi.
Il racconto si snoda tra i primi tentativi di organizzazione del gruppo, gli iniziali fallimenti causati dall'eccessivo impeto, il trasferimento inconcludente a Saltocchio, il ritorno in città. Dall'altra parte, si vedono anche i movimenti dei repubblichini, ma sono descritti in trasparenza, come se questi ultimi fossero già dati per perdenti, votati al fallimento ancora prima che la lotta inizi. L'azione dei partigiani, per quanto alle prime armi, e l'entusiasmo positivo che li sostiene, sono invece centrali: la prima operazione ben riuscita è la bomba innescata al Balipedio di Medusa, deposito dei proiettili dell'esercito italiano.
In seguito, il gruppo si attiva per stabilire un contatto con gli Alleati, avvalendosi del coraggio di Rosa - dietro di lei si nasconde la medaglia al valore militare Vera Vassalle - che attraverserà le linee e tornerà a Medusa con una radio e con le istruzioni per poterla utilizzare.
[NOTE]
12 MARIO TOBINO, Il Clandestino, Milano, Mondadori, 1962, da cui citerò.
13 M. TOBINO, Una giornata con Dufenne, Milano, Bompiani, 1968.
14 M. TOBINO, Tre amici, Milano, Mondadori, 1988.
15 L'introduzione di Paola Italia all'edizione del 2013 (PAOLA ITALIA, Introduzione, in M. TOBINO, Il Clandestino, Milano, Mondadori, 2013, pp. VII-XX) ricostruisce le tappe di stesura del romanzo, mostrando che l'autore ne accarezzava l'idea già all'indomani della Liberazione.
16 M. TOBINO, Il clandestino, cit., p. 13.
17 Ivi, p. 501.
18 Ivi, p. 558.
19 Ivi, p. 311.
20 Ivi, p. 313.
21 Ibid.
Sara Lorenzetti, Narrativa e resistenza: "invenzione" della letteratura e testimonianza della storia, Tesi di dottorato, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” - Vercelli, Anno Accademico 2014/2015

domenica 28 maggio 2023

La banda partigiana di Beltrami non è politicizzata


A Novara Gino Vermicelli cerca dei contatti comunisti e arriva tramite vari informatori a Romagnano, presso lo studio di un avvocato, dove si riunisce il Fronte Nazionale dei cinque partiti antifascisti, l’embrione del CLN.
Lentamente riprende i contatti con i compagni di Borgomanero, Omegna, Gravellona; in questo periodo egli conosce Gaspare Pajetta, che diventerà suo grande amico. L’8 settembre è per tutti una doccia fredda: il CLN è costretto a spostarsi a Meina per sfuggire ai Tedeschi che hanno velocemente occupato Novara. Gino e Gaspare rimangono in città per riorganizzare la federazione del partito: nascosti in un deposito di vernici scrivono e stampano “La Lotta” <33, un periodico fondato da loro che continuò ad esistere fino al 1961. Presto vengono raggiunti da Pietro Flecchia, un confinato comunista biellese che pretende di assumere la direzione della federazione. Gino viene così “retrocesso” a responsabile militare: il suo compito diventa organizzare la Resistenza. Il nuovo incarico affidatogli lo porta a Borgosesia, dove conosce Cino Moscatelli, personaggio di spicco che, d’accordo con l’ex-podestà della città, raccoglie armi e sbandati per organizzare la guerriglia; non rimane però con lui a causa di alcuni problemi sorti tra Vermicelli e gli altri combattenti.
Gino decide di raggiungere l’altro gruppo partigiano della zona, quello del “capitano” Filippo Maria Beltrami, ma è coinvolto in una trappola tesa dai fascisti. Viene infatti catturato insieme al commissario politico di Beltrami: fortunatamente entrambi sono presto liberati grazie ad uno scambio di prigionieri. La decisione finale di Gino, che da questo momento sarà Edoardo, è salire in montagna con Beltrami, che l’ha salvato. Così egli sale a Campello Monti, dove ritrova l’amico Pajetta, che si era già unito al gruppo del “capitano”. Questa non è una banda “politicizzata”: Beltrami, essendo un ex ufficiale, adotta ancora la mentalità e i modi di fare tipici del regio esercito, con le sue gerarchie e i suoi cerimoniali; Gino e Gaspare organizzano comunque una cellula comunista all’interno del gruppo.
Purtroppo la banda viene presto decimata durante una sanguinosa battaglia avvenuta a Megolo [nd.r.: Frazione di Pieve Vergonte (provincia del Verbano-Cusio-Ossola)], il 13 febbraio 1944: Gino sopravvive per miracolo, ma l’amico Pajetta e Beltrami soccombono. “Edoardo” torna così a Rimella da Moscatelli, dove, ritrovati altri sopravvissuti alla battaglia di Megolo, si forma un nuovo distaccamento, che viene mandato in Val d’Ossola.
Vermicelli ottiene l’incarico di commissario politico per questo nuovo gruppo. La figura del commissario politico è fondamentale per tutte le formazioni partigiane, dalla più piccola, il battaglione, alla più numerosa, la divisione: affianca in ogni decisione il comandante, e si occupa della politicizzazione dei volontari, cioè deve insegnare loro l’etica del partigiano, i valori e i comportamenti da seguire in battaglia e nei confronti della popolazione che vive nelle montagne. Vermicelli cerca sempre, durante gli anni da partigiano, di comportarsi in modo eticamente irreprensibile, per dare il buon esempio ai giovani.
Il continuo afflusso di volontari, conseguente all’emissione dei bandi Graziani per l’arruolamento forzato, trasforma il distaccamento in battaglione; arriva anche il nuovo comandante, che deve affiancare Vermicelli al comando: Andrea Cascella. Il gruppo si disloca un po’ in Ossola, un po’ in Val Formazza e un po’ in Val Antigorio. I rastrellamenti operati dai Tedeschi sono abbastanza frequenti, per cui i partigiani devono essere spesso in movimento, per evitare di essere individuati. In poco tempo il battaglione diventa divisione, e “Edoardo” ottiene dal CLN l’incarico di vice-commissario.
La liberazione dell’Ossola, che avviene tra il 9 e il 10 settembre 1944 e a cui contribuisce anche Vermicelli, è un fatto spontaneo, non stabilito a tavolino da nessun comando superiore. I vari fortini nazifascisti dislocati un po’ ovunque nella valle sono attaccati quasi simultaneamente da vari gruppi partigiani, comunisti o autonomi, e facilmente occupati. I Tedeschi abbandonano Villadossola, dove c’è il comando tedesco, senza nemmeno aprire il fuoco, lasciando il posto ai partigiani, che prendono in mano il governo della valle, costituendo la Giunta provvisoria di governo dell’Ossola. Vermicelli però rifiuta di partecipare alla gestione della zona: secondo lui il controllo del territorio deve essere lasciato agli abitanti, poiché il compito dei partigiani è solo quello di liberare le zone occupate, non di governarle.
La mancanza di aiuti materiali e di assistenza da parte degli Alleati fa presto fallire questo tentativo di governo democratico, che dura soltanto 43 giorni, dal 10 settembre al 23 ottobre 1944: un nuovo attacco tedesco partito da Gravellona respinge di nuovo i partigiani, che sono costretti ad abbandonare Domodossola.
Dopo la sconfitta, Vermicelli contribuisce a riorganizzare la divisione; i vari distaccamenti ottengono lanci e aiuti dal CLN per affrontare l’inverno alle porte, e riescono ad attuare piccole operazioni di guerriglia, per poter controllare le centrali elettriche della Val Antigorio.
33 “La Lotta”, Novara (1947-1961).
Sara Lorenzetti, Gino Vermicelli tra Resistenza e scrittura, Tesi di laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, Anno accademico 2006-2007 

[...] "Un bel dì mi venne il fregolo/di fermarmi in quel di Megolo!”. Così inizia così la canzone scritta dal Capitano Filippo Maria Beltrami dopo la faticosa traversata invernale dei suoi partigiani dopo l'abbandono della Valstrona alla fine di gennaio 1944. Non tutti gli uomini, dei quasi trecento che costituivano la "Brigata Patrioti Valstrona", arrivarono nella frazione di Pieve Vergonte: una sessantina se ne andò deponendo le armi; un gruppo sbagliò sentiero e paese; alcuni abbandonarono la formazione durante il tragitto; altri furono inseguiti e impegnati in combattimento. A Megolo, col Capitano, giunsero soltanto una quarantina di uomini. Il componimento, scritto dopo una cena all'albergo del Ramo Secco, risente di quelle disavventure. Nelle due settimane in cui si fermò a Megolo, Beltrami attese per ricostituire la formazione, allontanandosi soltanto per effettuare un attacco alla casermetta di Vogogna. La posizione non era certo favorevole, oltre che facilmente individuabile era poco adatta ad un combattimento. All'alba del 13 febbraio del 1944 i reparti delle SS, appoggiati da una compagnia di repubblichini, giungono a Pieve Vergonte con l'intento di stroncare la Resistenza partigiana. Sorpresi nel sonno, due giovani vengono catturati e torturati ma non riveleranno nulla. Saranno fucilati accanto all'osteria del paese. Intanto i 53 partigiani del Capitano Filippo Maria Beltrami, avvisati del rastrellamento, si preparano a resistere sulle balze del Cortavolo a Megolo contro più di cinquecento nazi-fascisti perfettamente armati. L'armamentario dei partigiani è misero: una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti. La nebbia dà loro una mano, celandoli sino al momento in cui i nazi-fascisti sono a tiro. La battaglia sarà lunga e cruenta vivendo fasi alterne: i partigiani non si arrendono anzi, riescono anche a costringere i nazi-fascisti a un disordinato ritiro. Ma le forze in campo sono troppo impari. Nell'abitato di Megolo il momento più tragico della battaglia, è una strage. Cade il capitano Beltrami e due giovani combattenti che si spingono in suo aiuto: lo studente 17enne Gaspare Pajetta e Antonio Di Dio, 20 anni, ufficiale di carriera unitosi alla Resistenza dopo l'8 settembre. Quella battaglia segnò l'apice e contemporaneamente la fine della "Brigata Patrioti Valstrona". Caddero combattendo Filippo Maria Beltrami "Il Capitano", Carlo Antibo, Giovanni Bressani Bassano, Aldo Carletti, Gianni Citterio, Angelo Clavena, Bartolomeo Creola, Antonio Di Dio, Emilio Gorla, Paolo Marino, Gaspare Pajetta ed Elio Toninelli. Nel piccolo cimitero di Megolo sono ancora sepolti Gaspare Pajetta e lo studente Aldo Carletti che con lui, da Torino, s'era arruolato nella "banda" Beltrami e vi era morto al fianco, quella mattina, poco dopo le otto. Qui hanno voluto essere sepolti i genitori di Gaspare Pajetta e anche i due fratelli, Giuliano e Giancarlo.
Marco Travaglini, Val Grande, Memoria resistente: la Val Grande e Megolo, 26 ottobre 2022

La battaglia di Megolo fu uno degli episodi più eroici della Resistenza. Il 13 febbraio 1944, alle prime luci dell’alba, reparti delle SS, appoggiati da una compagnia della GNR, invasero la piccola frazione di Pieve Vergonte, con l’intento di stroncare la Resistenza dei ribelli che operavano in quel luogo. Due giovani partigiani, che riposavano in attesa di raggiungere i loro distaccamenti, furono sorpresi nel sonno e catturati. Trascinati davanti al comandante delle SS furono a lungo e invano torturati, non fecero alcuna rivelazione. Alla fine, ormai quasi in fin di vita, furono fucilati nella piazzetta a lato dell’osteria del paese.
Avvertiti del rastrellamento in corso, i partigiani della valle, al comando del Capitano Filippo Maria Beltrami, architetto, 36 anni,  medaglia d’Oro al Valor Militare, si disposero a resistere: erano 53 uomini con una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti contro più di cinquecento nazi-fascisti armati di tutto punto, con un cannoncino, due mortai, tre mitragliatrici, fucili mitragliatori e mitra.
Mentre la nebbia di disperdeva e i raggi del sole iniziavano a illuminare il nuovo giorno, i partigiani osservavano in silenzio l’avanzare della colonna nemica. Era necessario attendere che i nazi-fascisti giungessero a tiro, per non sprecare le munizioni. I tedeschi avanzavano su tre linee distanziate fra loro di qualche metro, i fascisti avanzavano sulle due ali. Finalmente il Capitano diede il segnale e i partigiani iniziarono a sparare. Fu una battaglia lunga e cruenta, con fasi alterne. Più volte il fuoco dei partigiani costrinse gli avversari a ripiegare, ma sempre essi si riconpattavano e tornavano all’attacco. L’ unica arma pesante dei partigiani s’inceppò e dovette essere abbandonata, uno dei due mitragliatori fu raggiunto da un colpo di mortaio. Con le poche munizioni rimaste non potevano più resistere a lungo. Il Capitano respinse per la seconda volta l’invito ad arrendersi. Era necessario attaccare il nemico e i partigiani balzarono all’assalto. Sorpresi dall’azione i nazi-fascisti iniziarono a ritirarsi disordinatamente, inseguiti dai ribelli. L’azione terminò nell’abitato di Megolo, dove gli inseguitori furono falcidiati dalle mitragliatrici dei rinforzi giunti dall’Ossola in appoggio dei nazisti. Cadde anche il capitano Beltrami, mentre cercava di riorganizzare i suoi uomini, e caddero, mentre cercavano generosamente di soccorrerlo, Gaspare Pajetta, studente torinese di 17 anni e Antonio Di Dio, di 20 anni, un ufficiale di carriera che dopo l’8 settembre si era unito alla Resistenza.
Un fascista, raggiunto Beltrami, fece scempio del suo corpo con un pugnale.
Il Cap. Simon, invece, riconoscendo la generosità, il valore, il coraggio, la nobiltà dei sentimenti dell’eroico comandante partigiano gli fece tributare gli onori militari da un reparto di SS.
Redazione, La battaglia di Megolo, ANPI Como, 15 maggio 2013