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domenica 12 settembre 2010

Marsiglia

Su Marsiglia intendo esprimere rapide impressioni, diversamente da quanto mi é capitato con Genova. Perché la conosco veramente poco, ma esercita su di me fascino. Del resto, sia su Internet che su vari blog si possono in merito trovare molte notizie.

Ho l'impressione, per ricordi personali, che 40/50 anni fa' fosse destinazione di immigrazione italiana, scarsamente tollerata nell'ambiente locale.

Ho scoperto in una conversazione con chi in quel momento, purtroppo per lui, c'era coinvolto che all'8 settembre 1943 sussisteva a Marsiglia anche una guarnigione italiana, coinvolta anch'essa nello sbandamento tragico di quei momenti.

All'epoca della mia escursione ad Aubagne, mi sono perso un'occasione preziosa per saperne di più su una "diversa" Marsiglia. In compagnia di un personaggio autorevole non prestai molta attenzione a quanto di carettere sociale e di costume mi stava dicendo, perché tutto teso a prepararmi e a fare domande, dal medesimo puntualmente ed elegantemente eluse, sui suoi trascorsi politici ed antifascisti, locali e nei dintorni. Soprattutto per quanto riguarda La Canebière, la via più famosa di Marsiglia, nella quale volle a tutti i costi recarsi.
 
La Canebière (via Google)
A me La Canebière sinceramente non é mai piaciuta, non fosse altro per l'ininterrotto traffico veicolare che la soffoca, ma mi sono meglio reso conto in seguito che da lungo tempo é il salotto della città, nel quale si sono sviluppate un numero incredibile di vicende. E così, pescando a caso nella memoria delle mie letture, posso maldestramente citare gruppi di belle ragazze a passeggio per destare l'ammirazione maschile.

In letteratura e nel cinema, invero, Marsiglia é stata teatro o riferimento di tante opere. Credo che Jean-Claude Izzo, dal quale penso di avere tratto le immagini femminili di cui poc'anzi, ne sia stato l'ultimo grande cantore. Avendone già scritto ed essendo abbastanza noto, mi limiterò a lodare in lui, scrittore di noir, il grande cuore cosmopolita.

Di Marsiglia si é a più riprese occupato il cinema, soprattutto, mi pare, per toste storie criminali (con epicentro la "French Connection"). Marsiglia, con un briciolo di autonomia anche sotto il regime dispotico del Re Sole, da allora é sufficientemente al centro della storia transalpina. Marsiglia ha il Porto Vecchio e un grande moderno porto, il più grande del Mediterraneo. Ha monumenti, cultura, dintorni naturalistici e paesaggistici notevoli. E potrei continuare, se non fosse per l'assunto iniziale.

Come personale nota di curiosità, posso accennare ancora una volta al ben noto ventaccio di Marsiglia. Aggiungere la meravigliata sensazione destata dai tanti colori e dai tanti odori dei prodotti (quasi del tutto a me ignoti, fatta eccezione per datteri e pistacchi) del sud del Mediterraneo esposti nelle bancarelle di negozietti nelle strette vie vicine al Porto Vecchio.

La grande emozione di carattere privato me la procurano la vicenda della fondazione di Marsiglia ad opera dei Greci di Focea (partiti dall'Asia Minore) e, all'epoca di Alessandro Magno, il cosiddetto periplo di Pitea, partito dal porto di questa città alla ricerca diretta di ambra e stagno verso ed oltre la Norvegia (l'ultima Thule degli antichi), costeggiando all'andata da occidente le isole britanniche, al ritorno l'attuale Germania. Perché si sa delle espansioni e degli empori degli antichi Massalioti verso l'odierna Spagna, ma anche, trascurando le lotte contro i Liguri, gli Etruschi ed altri popoli, della loro fondazione di Antibes, di Nizza, di Monaco, così vicine oggi al nostro confine.

venerdì 10 settembre 2010

White Jazz

James Ellroy - Fonte: Wikipedia
Un giudizio altamente lusinghiero é stato a suo tempo espresso su James Ellroy da Giancarlo De Cataldo, autore del noto "Romanzo criminale" e di altre opere noir, che contribuì a metà anni '90 a far conoscere questo autore americano nel nostro Paese.
Ellroy é uno scrittore noir, che, a mio personale avviso, ha portato il genere ad un elevato grado di intensità drammaturgica.

Procedo, tuttavia, con delle annotazioni estemporanee.

"White Jazz" é uno dei romanzi della cosiddetta quadrilogia dedicata da Ellroy a Los Angeles, una serie comprensiva di "Dalia nera", "Il grande nulla", "L.A. Confidential" (o "Los Angeles strettamente riservato"), un libro a me per imponderabile alchimia particolarmente caro, forse perché snodo significativo di quella fitta trama narrativa.  

La quadrilogia, nella quale emergono, sempre a mio parere, nuovi archetipi letterari rispetto al genere, si svolge in uno scenario storico preciso sin nei dettagli, in un'arco di tempo (con antefatti risalenti anche a prima della seconda guerra mondiale) che va' da fine anni '40 a fine anni '50, in una Los Angeles, che personalmente ho provato a ricostruirmi pensando a film come "La fiamma del peccato", "Viale del tramonto" e "Gardenia blu", perché l'autore su arredi urbani e paesaggi, forse per non appesantire trame di per sé già ponderose, non indugia più dello stretto necessario, pur non trascurando (quando, per ovvii motivi non é dovuto ricorrere a termini di fantasia) denominazioni precise ed accurate, quali strade, canjon, lunch, ristoranti, drive-in, locali notturni, stazioni di polizia, Centrale LAPD, Municipio, uffici di contea, prigioni, alberghi, tra cui il famoso Chateau Marmont, e così via.

I protagonisti sono anzitutto i poliziotti della LAPD, poliziotti violenti, disposti a violare la legge, chi in nome di ideali o presunti tali (pietà ossessiva per le tante, troppe donne vittime del crimine umano; pervicace convinzione di difendere l'astratta giustizia), chi per malinteso spirito di corpo, chi per corruzione congenita od acquisita, chi per la combinazione di diversi di questi fattori: tutte figure da grande tragedia, molte delle quali destinate ad una fine violenta, a volte una sorta di riscatto. Esiste, poi, il grumo di uno spezzone ancora più deviato della polizia losangelina, una sorta di vera e propria Gestapo, che interferisce in tutte le vicende narrate e che, in funzione di un antesignano maccartismo, poi connesso a quello nazionale, e di un razzismo da apartheid, non esita ad infiltrare e a colludere gli ambienti criminali, ivi compresa la mafia.

E, poi, ci sono i criminali per definizione; ma un po' tutti i personaggi sono dei criminali, anche gli ingenui (a volte omosessuali latenti) che perseguono scopi troppo azzardati. Anche i reduci di guerra, già persecutori dei nazisti. E poi ci sono i debosciati ed i pervertiti.

Ma le donne, anche le prostitute e le escort (le definizioni contano in questo caso!), non sono tutte delle criminali, anche perché sono sempre raffigurate come vittime, in molte occasioni soprattutto di omicidi. E spesso sono delle vere e proprie eroine.

Vicende affascinanti, perché narrate con equilibrato pathos, e nel contempo precise sul versante psicologico, nonché storico. Non mi rimane che accennare a situazioni e personaggi non molto noti, come la condizione dei neri e dei messicani immigrati (questi ultimi, ad esempio, protagonisti, insieme a sparuti gruppi di idealisti americani, durante la seconda guerra mondiale di una manifestazione sindacale repressa nel sangue), certe restrizioni di guerra, l'insegna sulla collina che viene ridimensionata per indicare solo Hollywood, i nomi di tante automobili (pacchiane per i rivestimenti e per i colori delle carrozzerie quelle dei "negri"), Downtown (il ghetto), il jazz, la musica popolare da ballo, la Dalia Nera (e di quella vera anche di recente hanno scritto i giornali italiani), Chavez Ravine e gli sfratti di forza contro i messicani per edificare lì un grande stadio, la costruzione delle prime autostrade, gli studios e gli scioperi del personale repressi dalla mafia con la connivenza della polizia in nome dell'anticomunismo, certi attori con il loro vero nome, certi attori ed altri personaggi famosi ed i loro vizi, altri personaggi, specie ricconi, dall'identità più o meno celata al lettore, un comunismo ed un sindacalismo da operetta, quattro gatti comunisti dipinti come intellettuali ed artisti falliti, politici corrotti, poliziotti d'alto grado e procuratori carrieristi e megalomani, qualche amministratore e qualche sindacalista puri d'animo, le riviste scandalistiche, i ricatti, il razzismo, tanto razzismo.

E la droga e la pornografia, importate da un Messico che non poteva non essere che antenato di quello attuale, insanguinato dalle lotte tra i vari cartelli della droga e destinato ad avviare tanti clandestini (e tante ragazze e tante bambine prima stuprate dai delinquenti di sempre, di qua e di là di quella frontiera) sui sentieri della morte nei deserti. Un Messico, quello di allora, destinatario dei turpi vizi di tanti nordamericani e delle scorribande dei loro poliziotti, sempre in combutta con i federales.

Ellroy, come ben si saprà, prima di mettersi a scrivere, ha avuto una vita che definire travagliata é dire poco, una vita da cui si é riscattato diventando, anche se da autodidatta, uno scrittore di razza.

Ha scritto molto altro ancora, Ellroy, qualcosa forse anche più vicino alla sensibilità o alle conoscenze più dirette degli italiani. Ci sono, comunque, almeno altri tre suoi libri fondamentali. Altre informazioni che lo riguardano possono completare un quadro critico della sua attività, da cui forse emergono le solite contraddizioni tra l'artista e l'uomo (americano, non dimentichiamolo!). Ma questo é solo un post, per cui qui termino. Rimando ad un prossimo nel quale scriverò anche dei casinò di Las Vegas, ancora di mafia, di personaggi (e quali personaggi) storici, di FBI, di CIA, della tentata invasione di Cuba, di Dallas, della guerra del Vietnam. Ed altro ancora.

domenica 5 settembre 2010

120, rue de la Gare


Prendo a prestito il titolo di questo post, 120, rue de la Gare, da un omonimo romanzo uscito miracolosamente (rispetto alla censura militare, e quale censura!) nella Francia occupata dai nazisti, benché trattasse e dei campi di prigionia dei soldati francesi e delle costrizioni di guerra a carico dei civili, per tentare di stendere qualche appunto sul noir francese. Soprattutto, sull'autore di quel libro, Léo Malet, che anche nella vita reale ebbe traversie non indifferenti.

Mi affido casualmente alla memoria, perché non intendo giocare allo specialista: anche perché le recensioni ci sono ormai anche per questo genere, "giallo", poliziesco, di investigazione, lo si chiami come si vuole, senza fare troppe sottili distinzioni, che lasciano il tempo che trovano, in quanto finalmente ne é stata riconosciuta la dignità letteraria, che da sempre in ogni campo riposa sulla grandezza dei singoli autori. Ma sto divagando e per tornare al tema che mi sono prefissato aggiungerò solo che cercherò di tornare in altre occasioni non solo sul "polar" transalpino ed altre opere similari, ma anche su quelle di altri paesi. E, anticipo che in Italia, a mio giudizio, abbiano nel ramo dei grandi scrittori!

Devo compiere di passaggio un omaggio, ma non di rito, come spero si capirà, al Maigret (troppo noto, perché io aggiunga ancora qualcosa) del grande Simenon (comunque, un belga, che ha vissuto molta parte della sua vita in Svizzera). Proprio in questi giorni nella storica collana della casa editrice che fece conoscere entrambi in Italia negli anni '30 e che dalle nostre parti ha dato, come ben si sa, il nome a questo genere di narrativa, compare un affettuoso ritratto sia dell'autore che del personaggio. Un'altra recente notizia mi fa' pensare sia a Maigret, che ad altri romanzieri. Leggendo di problemi di malattia (se ricordo bene) e di conseguenti pesanti rischi per la sopravvivenza dei platani in Francia, vengo a sapere in modo definitivo che pressoché tutti i viali transalpini del cinema e della letteratura erano piantumati in cotal guisa. Sono dei particolari, ma arricchiscono retrospettivamente di ulteriore atmosfera boulevards tanto ricorrenti e tanto amati dai lettori.

Léo Malet, allora. Fu per l'epoca in cui presentò per la prima volta il suo investigatore privato uno che seppe rompere decisamente gli schemi. Già chiamarlo Nestor Burma (il cognome pescato a caso da un atlante in lingua inglese: la Birmania!) comporta, pur nel realismo di fondo in cui sono collocate le sue avventure, una garbata ironia nei confronti dei già allora imperanti private-eyes statunitensi, ironia che viene prolungata nei comportamenti del personaggio, il quale con tipica verve, direi parigina più che francese, dà dei punti pur all'ottimo Philip Marlowe di Raymond Chandler. Si aggiunga il nome della sua Agenzia, "Fiat Lux", collocata in pieno centro di Parigi ed il quadro di riferimento inizia a farsi più preciso.

Una affollata galleria di comprimari, presi dalla vita vera, ci accompagna mentre seguiamo i casi affrontati da Burma, casi le cui radici affondano spesso prima della seconda guerra mondiale: tanti personaggi simpatici, uomini della strada e uomini importanti, civili e militari, perdenti come erano (con almeno un po' di dignità!) quelli di una volta, giornalisti (tra cui indimenticabile l'alcoolizzato e bisbetico Marc Covet, sempre informatissimo), ma soprattutto figure di delinquenti presi pari pari (così la intendo io!) dalle cronache dei giornali e non inventati di sana pianta, trafficanti e falsari d'arte, ricconi d'antan, poliziotti ottusi, ma trattati quasi con affetto dall'anarchico Malet, e le ragazze, le donne, ah, le donne!

Raramente ho rinvenuto ritratti più precisi, ma soprattutto affettuosi del nostro immaginario femminino, di quelli dipinti da Malet: ragazze quasi perdute che si riscattano; fanciulle innocenti di tutto ma sempre sul ciglio del burrone; una procace segretaria anch'ella dotata di grande senso dell'umorismo ed acuta osservatrice, ma destinata al nubilato casto, benché platonicamente innamorata del Nostro; anche belle ragazze per qualche flirt di Nestor, che vive, se ricordo bene, almeno una drammatica storia d'amore; cocottes, d'alto e basso bordo, e vere e proprie dark ladies, perché certo non potevano mancare; vecchie streghe e vecchine adorabili; e così via.

Con Malet ho respirato e respiro la cosiddetta storia materiale, la storia minuta, descritta, lo ripeto, con molta grazia, perché, scrivendo in tempo reale, da osservatore attento ha lasciato anche una documentazione, per così dire, imponente per gli anni '40 e '50 (per lo meno fin dove sono arrivate le mie letture). Proverò a spiegarmi con alcuni esempi, non senza prima aggiungere che sempre, con il giusto distacco dell'artista, Léo ha graffiato con gli artigli della denuncia sociale e politica.

Evidenzio solo ora che l'autore con la serie di Burma ha scritto almeno un romanzo ambientato in ognuno degli arrondissements di Parigi. Così la zona della Bastiglia e lì vicino un grande luna-park; vicoli stretti e solite brasseries vicino alle Halles, oggi Centro Pompidour; nei pressi l'ambientazione di un fatto per me molto curioso: come si essiccavano nei primi anni '50 prima di essere messe in vendita le banane, arrivate acerbe da paesi allora esotici; locali poveri e un po' malfamati un po' ovunque, specie a Saint Germain e Montparnasse; ma anche quelli "come si deve" (ma i night-club e certe balere?), soprattutto in centro; il Marais, la porta Saint-Denis ed altri siti storici; com'era Lione durante la guerra; e la Germania dei lager; un gigantesco serbatoio dell'acqua potabile a Montsouris; la Port d'Italie, ben prima degli sventramenti che l'hanno trasformata in snodo viario imponente e sede di centri direzionali; belle ville di una volta con grandi giardini nella periferia nord e appena fuori Parigi, con una campagna che sembrava entrare in città; scali merci e linee ferroviarie dappertutto, quasi dentro la Ville Lumiere, ma non mi sembra si parli quasi mai del Metrò, che sappiamo tutti essere da tempo colà una cosa imponente e pressoché obbligata: Burma, tutto elegante (altro particolare che avevo scordato prima), con uno chic più anni '40 che '50 che se ne va sempre in automobile, una bella automobile diciamo "intonata", o in taxi; ed anche abitazioni povere di operai e tuguri di sottoproletari, questi ultimi non solo in sottotetti di case malandate con scale esterne ancora più traballanti, ma talora sotto forma di un solo piano con quattro assi messe in croce in qualche cortiletto polveroso, comunque, più o meno malamente recintato; e potrei continuare, pur nel limite delle mie letture non complete. Dopo di che ognuno può farsi i confronti che vuole con la Parigi che conosce personalmente.

In Francia del personaggio Burma vennero, mi pare, fatti anche dei film; di sicuro dei fumetti molto belli, di cui alcune immagini scelte fanno da copertina a certe ristampe in corso in Italia. E di Malet la critica si é soprattutto occupata della sua trilogia noir, vraiment noir.



mercoledì 1 settembre 2010

Riaprono le scuole



Dedico con le righe che seguono un augurio affettuoso, ma non formale, agli allievi, ai docenti ed al personale tutto della scuola italiana che tra breve, con date diverse da regione a regione, riprende la sua attività uffficiale. E stendo un velo pietoso sulla perversa catena di responsabilità politiche che stanno conducendo questa fondamentale istituzione sull'orlo del baratro. Proprio questa mattina (quando si dice il caso!) ho incontrato un'amica di vecchia conoscenza, già insegnante, che mi ha confessato di essere andata in pensione appena possibile per disperazione professionale.

Mi accingo a stendere disordinati appunti di memorie personali, nella fallace illusione di contribuire ad un dibattito che latita da troppo tempo. E con la velleità di esaltare l'interazione della scuola con la società e con le famiglie.

Sono stato fortunato nel mio personale processo formativo.
Vorrei spendere qualche parola sul mio ambiente familiare, che è stato di stimolo alla mia curiosità sin da bambino e sempre tollerante con i miei esperimenti. Dai nonni materni rinvenivo libri scolastici degli zii, che leggevo con avidità, consolidando una mia naturale propensione per la storia, ma fissando nella mente quei fondamentali di quelle materie scientifiche che poi a scuola mi sarebbero sempre state ostiche. Era di grande interesse, poi, la vecchia enciclopedia (pur con le immancabili tirate fasciste di cui ho imparato subito a diffidare) comprata alla vigilia della seconda guerra mondiale dal nonno con un esborso economico notevole per quei tempi. Dei nonni paterni, invece, il ricordo nitido è per l'amorosa cura con cui conservavano riviste contenenti inserti su grandi pagine dell'arte e della storia. Ed è così che mi innamorai, e lo sono tuttora, de "La tempesta" di Giorgione: una sorta di strana magia! Ricevuta poco tempo fa per email da un amico blogger una serie di foto d'epoca, ho provato  una forte emozione vedendo nella prima il Presidente Lincoln ritratto in un accampamento unionista della guerra di secessione americana: l'avevo scorta la prima volta da bambino ed allora mi sono ritrovato chino su uno di quei settimanali conservati con diligenza dai nonni, avido di letture di grandi eventi del passato, corredati con i primi reportage fotografici della storia. Né posso dimenticare i racconti di guerra (che ho già citato in un precedente post) della nonna materna e i rimandi a storie avite (di ribelli a Maria Luigia, di garibaldini, di emigranti), compiuti dal nonno paterno, che a quelle, più che alla Grande Guerra, che pur aveva combattuto, preferiva, in dialetto parmense stretto, riandare nelle sue affabulazioni con il sottoscritto. E ancora devo ricordare con quale tolleranza e preveggenza mi venisse concesso di leggere a nove anni durante una vacanza a Gignese, incantevole balcone sul Lago Maggiore, in versione integrale "I tre moschettieri" e tanto Salgari, in rare, antiquarie edizioni che mi forniva un'altra meravigliosa figura di anziano, il nonno del mio coetaneo cugino di papà.

Sono stato fortunato per l'ambiente geo-fisico, per così dire, che mi circondava. Dal secondo mese di seconda elementare sino al compimento del Liceo, a piedi o con i mezzi pubblici, ogni mattina passavo in mezzo alla zona archeologica (l'antica Albintimilium) della zona Nervia (levante) di Ventimiglia. Ma già in prima elementare l'immagine che mi accompagnava era stata quella della Cattedrale romanica del centro storico con il suo bel Battistero. Ed anche i nomi forse hanno aiutato un certo gioco della mente. Dalle medie intitolate (tuttora!) a Giuseppe Biancheri, il ventimigliese, già deputato del Parlamento Subalpino e Presidente della Camera dal 1870 al 1876 e poi ancora in successive occasioni, a quel Liceo Classico, dedicato al nome di Girolamo Rossi, il primo a scavare e studiare in modo serio la Ventimiglia romana. E quando il Liceo Classico é stato accorpato, non molti anni fa, una certa ironia del caso ha voluto che lo fosse nel Liceo Scientifico Aprosio, dal nome di un frate erudito del '600 che a Ventimiglia donò un'importante Biblioteca dotata di libri di raro valore.

E potrei fare altri esempi.

Sono stato fortunato per come funzionavano, anche se erano veramente di classe, le scuole nel loro complesso: imperava quello che si può definire conservatorismo, a volte illuminato dalle testimonianze di singoli insegnanti, ma il dato prevalente era quello della professionalità. In un modo o nell'altro quel sistema scolastico ha reso tanti giovani capaci di dotarsi comunque di autonomi metodi critici per continuare a cimentarsi con la cultura e per interpretare la realtà. Per riassumere quello che dovrebbe essere un discorso più articolato e ben più motivato aggiungerò, a titolo di esempio, che a me personalmente é stato concesso sia nelle medie che nelle superiori, in particolare da insegnanti di religione pur fermi nelle loro diverse convinzioni, di fare anche infantile sfoggio di aspirazioni a militanza progressista: avevo solo l'esperienza di affrettate letture e di implicite diritture morali della famiglia.

Voglio solo aggiungere che esperienze come quelle che ho tentato di descrivere sono indubbiamente state tante nel nostro Paese, in ambienti e con riferimenti culturali ben più importanti dei miei, ma con sporadiche odierne prosecuzioni.

Il problema, a mio avviso, è quello di di farne tesoro.

venerdì 27 agosto 2010

Quando giocava Kopa

Ritorna il campionato di calcio, con il suo pesante carico di problemi e di tensioni, ben noto anche a chi non segue questo sport. Non sempre è stato così o, per lo meno, non compiutamente così.

Nel 1960, credo, ci recammo io, papà, fratellino e zio materno a vedere una partita Monaco-Reims nel vicino Principato, nel vecchio stadio a dimensione quasi familiare. Eravamo vicini ad una linea laterale prossima ad una porta, ma un gruppo di spettatori sulla nostra sinistra era ancora più affacciato di noi sul rettangolo (come si suol dire) di gioco. Anzi, ad un certo momento, si consentì agli stessi di avanzare ancora, sino a portarsi a ridosso del portiere: in questo movimento rivedo ancora la fulminea mossa di una signora a riprendersi trafelata il fiaschetto di vino scordato indietro per potersi poi finire beata il suo bel picnic nella nuova agognata posizione.

Finita la partita, dobbiamo avere indugiato un po' da qualche parte, perché altrimenti non mi spiego la scena seguente. Su due sedie malandate, davanti ad un baretto qualsiasi (come oggi a Montecarlo non ce ne sono più), lo zio riconobbe per primo un calciatore, io un attimo dopo il secondo. Si trattava rispettivamente di Kopa, migliore giocatore europeo del 1958, e di Fontaine, tuttora recordman con 13 reti (1958, in Svezia) di un singolo mondiale, quella volta con una gamba ingessata (e, quindi, non era sceso in campo, ma aveva accompagnato la squadra) come avevo già letto in uno dei miei prediletti giornalini dell'epoca: entrambi del Reims e nazionali (i galletti) di Francia, il primo oriundo polacco, il secondo a suo tempo esordiente in Marocco. Si avviò un'amabile conversazione tra adulti, di cui ora io ricordo solo i continui complimenti fatti anche in spagnolo (aveva appena finito di militare nel Real Madrid), rivolti da Kopa al mio fratellino.

Lo stesso anno alla riapertura si andò a Marassi di Genova per un Genoa in serie B. Anche lì all'epoca si poteva stare molto vicini al campo, tanto é vero che in occasione di rimesse laterali o altre pause tecniche di gioco Pesaola (O' Petisso) contraccambiava spesso i saluti dei tifosi rossoblu e Bean (allora il mio adorato Bean, come ne spiegherò un'altra volta la motivazione, se ne troverò lo spunto) mi parve rivolgesse addirittura un amichevole cenno diretto a me che lo chiamavo.

Potrei riferire altri episodi similari, attinti sia alla memoria che alle letture, molti degni di un libro "Cuore", alcuni anche emblematici del mio amato ciclismo di una volta. Non che tutto fosse perfetto, anzi, ma si rinvenivano almeno un maggior numero di storie esemplari. Spero di trovare prima o poi l'occasione opportuna per parlarne.

domenica 22 agosto 2010

La zona di Latte


La zona di Latte, di cui nella foto si vede un ampio scorcio panoramico, corrisponde, all'interno del territorio comunale di Ventimiglia (IM), all'estremo lembo ligure, prospiciente il mare, verso la Francia. Non entro nella descrizione, almeno questa volta, delle varie frazioni (Latte, appunto; ma anche Mortola - Superiore ed Inferiore -, sede dei magnifici Giardini Hanbury; Grimaldi - anch'essa divisa in Superiore ed Inferiore -; altre) e delle varie borgate e case sparse che costellano l'unica piana colà esistente e le varie alture che accompagnano alle incombenti Alpi Marittime, per accennare almeno, invece, a  storie di uomini veri.

Ho avuto l'onore di conoscere uomini che hanno fatto la Resistenza e che in quella zona avevano già aiutato tanti ebrei e tanti altri perseguitati a fuggire verso l'allora ospitale - ma non sempre, comunque, più di oggi! - Francia, uomini che hanno continuato, senza reclamare onori (a volte, invece, usurpati da altri) a guadagnarsi il pane con la dura fatica del lavoro manuale, in genere quella della diffusa, sino a poco tempo fa, coltivazione dei fiori.

Avevo già in mente di scrivere questi appunti, quando ho ricevuto ulteriore conferma a farlo dalla lettura di una recensione di un libro che narra di un esule (negli anni '30), espatriato clandestinamente in Francia per motivi di lavoro e di antifascismo. L'articolo in questione contiene parole molto belle sia per sottolineare il dramma dei viaggi clandestini di ieri e di oggi, sia per invogliare il lettore a leggere quel libro. E' molto probabile che quella fuga sia avvenuta da queste parti: in ogni caso rinvengo un collegamento ideale con le scarne note che sto tracciando.

Va da sé che, nella storia delle frontiere, compresa la nostra, non si sono solo cimentati eroi, che hanno ritenuto semplicemente di compiere il loro dovere di uomini, ma anche contrabbandieri e veri e propri farabutti.


Pubblico, invece, la foto che si é appena vista (della cui scarsa qualità sono consapevole) solo per dare una pallida idea, dato che l'inquadratura é a livello mare, di un orrido (e, forse, la parte terminale non é questa, ce ne sono altri) denominato "Passo della Morte". Era chiuso in alto dal sentiero preferito, più prossimo al mare, per espatri clandestini e contrabbando. I racconti, specie quelli tramandati a viva voce, ci parlano di tanti incidenti fatali, anche di persone avviatesi da sole nell'ignoto e di persone indirizzate, ma non accompagnate da delinquenti che avevano intascato comunque ancor più indegna mercede. E la tragica denominazione é rimasta e forse a marchiare più punti di passaggio di quelle colline rocciose a picco sulla sottostante stretta fascia litoranea. Altre storie di delinquenza sul traffico di clandestini extra-comunitari andarono poi molto più tardi a concretarsi, e probabilmente tuttora sporadicamente continuano, con l'utilizzo dell'Autostrada dei Fiori.

Alcuni validi scrittori di questa terra hanno raccontato in belle pagine anche quelle tragedie. Nella presente occasione, voglio accennare almeno a Nico Orengo, delle cui opere invito alla lettura. Ne "La curva del Latte" emergono alcuni personaggi di cui ho detto in premessa, riconoscibili, stante la trasfigurazione letteraria, solo a chi ha vissuto intensamente da queste parti ed altri ancora, deceduti prematuramente, così come altre situazioni, altre memorie storiche, il dopoguerra, la bellezza della natura e del paesaggio. L'incanto é tutto nelle vicende narrate con grande maestria dall'autore. Nico Orengo - mi pare giusto sottolinearlo - é stato impegnato nella vita reale, e non solo con la testimonianza resa dalle sue opere, a difendere tanti luoghi belli di questa zona, la Piana di Latte, soprattutto, dall'assalto del cemento. Credo non sempre ci sia riuscito. Io ho il rammarico, nonostante i tanti amici in comune, di non averlo mai potuto conoscere di persona. Ed ormai é poco più di un anno che ci ha lasciati. Questo scrittore ci ha narrato in altri romanzi ed in altre opere altre trame di grande respiro, che hanno anche spaziato in tutto il Ponente Ligure, in Piemonte, in Francia. Difficilmente, tuttavia, se l'ambientazione non era in toto nella zona di Latte, ne trascurava almeno un accenno. Come nel caso di un agile librettino che ci porta con commossa partecipazione dalla Provenza degli impressionisti a posti magici che non ci sono più, con l'inserimento di ritratti di attori americani, passati dalla Riviera e che giustamente sono rimasti nell'animo popolare, e di tante altre belle storie: "Gli spiccioli di Montale".


Nella foto, corrispondente alla parte occidentale della Piana di Latte, l'ultima casa a destra vede il dialogo di esordio de "Gli spiccioli di Montale", o, meglio vedeva, perché, anche se non sono un tecnico, credo che per fare posto all'attuale edificio si sia proceduto alla preventiva demolizione (e non alla semplice ristrutturazione) di quella che in origine era una villa del 1500. Lascio amaramente il tutto senza commenti e senza riferimenti a sfratti e mire immobiliari compiuti dalla pregressa proprietà, la cui identità svelata si presterebbe a molteplici sarcastiche considerazioni.

Avviandomi al termine, mi rendo conto che gli appunti mi sono un po' scappati di mano. E', forse, il fascino di questa zona, derivante anche da tanti uomini che l'hanno vissuta. Mi auguro, pertanto, che ci siano nuovi innamoramenti del Ponente Ligure (anche per contribuire ad evitare nuovi scempi!) e tanti nuovi lettori di Nico Orengo e di altri scrittori liguri.

mercoledì 18 agosto 2010

Ad Aubagne non solo bamboline ed emigrati italiani, ma anche la... Mamma dei Legionari

Aubagne è un comune francese di 42.638 abitanti (al 2005) situato nel dipartimento delle Bocche del Rodano, nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra. E questa frase l'ho ripresa tale e quale da Wikipedia.

Quando mi ci recai nella primavera del 1983 di Aubagne non ne sapevo molto.

Durante il viaggio da Marsiglia, poco distante, non ebbi, quella volta, il modo di apprezzare o notare molto del paesaggio, anche se era ancora giorno, giorno di primavera, sia perché teso per la spericolata guida del nostro autista, sia perché preso dal conversare dei miei due accompagnatori, imperniato soprattutto su gustosi aneddoti riferiti a Gaston Deferre, sindaco di Marsiglia per più di trent'anni, ed all'epoca lo era ancora, anzi stava per diventare o ridiventare anche ministro.
 
Arrivati a destinazione, la prima cosa imprevista e simpatica fu che c'era un appuntamento per me con la Giunta Comunale al completo. Mentre ci si attardava ad entrare nel Municipio, notai che quasi in fila indiana sindaco ed assessori salutavano con naturalezza e garbo scambiando baci (sulle guance!) con il vice sindaco, giovane signora elegante, oltrettutto carina: non mi era ancora capitato all'epoca di assistere a tale usanza in pubblico tra autorità, mentre in seguito, invece, ravvisai che almeno sulla Costa Azzurra tra colleghi (uso questo termine in senso largo, che ricomprende anche gli "ospiti" italiani) signore e signorine si attendono in genere il ripetersi di quella gentile consuetudine.
 
Scambiati i saluti di rito (che io dovetti per la mia parte improvvisare) in una bella sala, per lo più dedita alla celebrazione di matrimoni civili, venni gratificato con il dono di un pezzo pregiato di artigianato locale, una graziosa bambolina di porcellana, vestita in miniatura in modo tradizionale, vale a dire con gonna bianca a fiori, grembiule rosa, camiciola bianca orlata di pizzo, scialle lilla a fiori bianchi, cuffietta anch'essa adorna di pizzo, cappello di paglia a larga tesa, con un mazzolino di fiori di Provenza nella mano sinistra e con un cestino di altri fiori ed erbe della regione sotto l'altro braccio. Si tratta di una bambolina tuttora custodita con cura, tanto é vero che, al momento in cui stendo di getto questi appunti, non me la sento di trarla dalla vetrinetta per procedere ad una rituale fotografia cui sinora non avevo pensato.
 
Dopo questo incontro mi vennero mostrate in altre ali del palazzo civico diverse grandi fotografie che testimoniavano un consistente processo di industrializzazione, di cui i miei anfitrioni andavano molto fieri (in termini di occupazione indotta anche dalla politica di quell'Amministrazione, forse anche giustamente). In quel momento pensai che la convivenza tra l'artigianato artistico, di cui la pupeé era un fattivo esempio, e la modernizzazione in corso fosse un fatto compiuto, senonché non ho più avuto l'occasione di valutare l'evolversi della situazione.
 
Si procedette, poi, alla riunione con emigrati italiani colà residenti, scopo del mio viaggio, cui dedico (un po' me ne vergogno, ma spero di riuscire a tornare altre volte sull'argomento) poche righe, perché l'onda (neanche molto tumultuosa, come cercherò poi di attestare) dei ricordi mi spinge su un'altra strada.
 
Perché, finito il mio vero e programmato impegno, mi ritrovai a bere una volta (come si suol dire) nel bar della "Mamma dei Legionari"!
 
Sì, la cosa non mi parve, e non mi pare tuttora, solo pittoresca, come me la descrivevano i miei amici di quella sera. Cercherò di rendere al meglio il concatenarsi di fattori, ma non é facile: descrivere non é come trovarsi dal vivo in quelle scene una dietro l'altra.
 
Intanto, non sapevo che a Aubagne ci fosse la Legione Straniera. Mi sembra che anche oggi ci sia la sede del comando generale, dove avvengono gli arruolamenti; e non farò deviazioni dal racconto principale riferendo nei dettagli come, ironia del caso, poco tempo dopo qualche giovane di mia conoscenza (non metto aggettivi di sorta!) si arruolasse tra quei mercenari. Il vero fatto perturbante per me era trovarmi vicino ad uno dei simboli più spietati delle repressioni coloniali: sì, il film "Beau Geste" con Gary Cooper da ragazzino mi era anche piaciuto, ma la storia documenta una realtà diversa di soprusi e di crudeltà.
 
A seguire mi si accennò quella sera ad una matrona, che mi limiterò a definire di forme e fattezze esuberanti e di non tenera età. Si trattava della padrona dell'esercizio, che si era meritata l'appellativo di mamma dei legionari, perché il suo locale era il ritrovo preferito da quei presunti militari, che in lei trovavano attenzione, calore umano e parole di conforto.
 
Non c'era molta gente, a parte noi tre, forse perché, essendo già un po' tardi, la ritirata in caserma era già suonata; forse per questo motivo i miei accompagnatori non trovarono di meglio che invitare tanto personaggio al nostro tavolo, come se fosse un rituale folcloristico cui io dovessi assistere per forza. E la signora venne e mi pare dicesse le solite parole di circostanza sull'Italia e quanti italiani erano stati ed erano nella Legione e così via.
 
Poi ebbe come un lampo, si allontanò un attimo, sempre accompagnata dai sorrisi sardonici (che non l'avevano mai abbandonata!) dei miei anfitrioni, per tornarsene trionfante per esibire soprattutto a me (i miei amici lì, é chiaro, se non erano di casa, poco ci mancava: se per "spiare" o per divertirsi invero amaramente guardando le miserie del mondo, non lo so!) una copia di una rivista popolare italiana che l'aveva "immortalata" con almeno tre pagine, corredate di varie fotografie, in quanto consolatrice di quei poveri giovani abbandonati che sono i legionari: la "Mamma dei Legionari", insomma!
 
Si da il caso che tra la guida spericolata di cui ho già detto, un mangiare affrettato fatto non so più dove e qualche sorso di grappa (sì a me sembra ancora adesso grappa, mentre in Francia c'é dell'ottimo cognac che é un vero medicinale), servita in precedenza da una cameriera, io da un po' ormai, ad usare un eufemismo, avevo del mal di testa. Per cui non riuscendo a sottrarmi in modo elegante ad una situazione per me un po' equivoca, mi andai ad inibire la tranquilla visione di una serie di vere chicche che quel locale riservava, che io vedevo solo da lontano, perché non potevo allontanarmi dalla "celebrità locale": vale a dire ritagli di giornale dedicati e fotografie autografate di vari protagonisti dello sport francese, che a quanto pare non avevano manifestato  scrupoli di coscienza nel lasciare là delle tracce.
 
E fu così che non ricordo quasi niente del viaggio di ritorno. E l'alberghetto davanti al quale mi lasciarono, ormai nel cuore della notte, fu un po' come un tocco finale. A me sembra ancora adesso, per farla breve, tratto di peso da un qualche romanzo dove compare Maigret, con la differenza che io mi trovavo a Marsiglia e non a Parigi. Solita tappezzeria un po' ... trasandata, solito rubinetto che sgocciolava, solita persiana che cigolava al vento, solite voci di donne e uomini: queste cose, nonostante il ... mal di testa me le ricordo, così come mi ricordo di avere dormito ben poco.
 
Fu veramente comodo il viaggio di ritorno in treno, un bel treno ancora di quelli di una volta, posizionato in una vera poltrona (non ci si crederà!) tutta per me: l'unica dello scompartimento, credo, ma non me la ero certo lasciata sfuggire!
 
E così capita che, stando al computer posto vicino ad una vetrinetta dove é custodita una così bella bambolina, mi siano affiorati alla memoria ricordi un po' sfumati che mi hanno indotto a scrivere queste righe. Anzi, mi sembra quasi che anche la graziosa contadinella al termine di questo post intenda mandare i suoi garbati saluti a tutti!



domenica 15 agosto 2010

Ferragosto con vento di mare


Dopo la pioggia di ieri, oggi sulla Riviera dei Fiori é arrivato, quasi puntuale, il vento, un vento di sud-ovest, che, quindi, spira su tutta la Costa Azzurra.



Mi vengono in mente tante immagini e tante situazioni.

Pensando alla vicina Provenza, un dicembre di diversi anni fa con una Marsiglia veramente flagellata: dal sagrato di Notre Dame de la Garde sembrava che l'isolotto d'If venisse, insieme a tutte le memorie del Conte di Montecristo, da un momento all'altro inghiottito dalla furia del mare. E per associazione d'idee penso ad un vento (dei venti) che ha (hanno) altre provenienze e che quasi sempre si accompagna (accompagnano) allo scorrere tumultuoso di torrenti e di fiumi montani, il vento (i venti) che spira (spirano) nelle Alpi di Bassa Provenza nelle pagine di Pierre Magnan, dense di omicidi gotici, di personaggi comunque indimenticabili anche perché quasi tutti avulsi dallo scorrere della storia, dei variopinti colori di cime, foreste, prati, rocce, forre, giardini segreti; della natura e di pietre, pregne di storia, insomma.


Nel Ponente Ligure quasi in ogni stagione, invece, la furia del vento spinge il mare a devastare litorali di difficile, anche per l'incuria dell'uomo, ripascimento, spesso con conseguenze devastanti per gli stabilimenti balneari e per le stesse opere di fabbrica delle passeggiate a mare. Sul piano letterario pagine sublimi sugli effetti cangianti, di luce, di colore, di forma, del vento sul nostro mare ha scritto un insigne autore di questa terra, Francesco Biamonti.


D'altronde é Ferragosto, per cui, forse, anche pochi, piccoli spunti possono essere sufficienti per successivi letture ed approfondimenti.


martedì 10 agosto 2010

Il potere del cane

Ho letto poco fa su Rai News 24 che in Messico trecento poliziotti hanno assaltato e destituito il proprio comando.

Mi è sembrata una pagina tratta di peso da "Il potere del cane", romanzo di Don Winslow, che ho letto l'anno scorso. Situazioni similari sono evocate in "L'anatra messicana" di James Crumley, in alcune opere di James Ellroy, il mio autore prediletto, nel film "L'infernale Quinlan" con e di Orson Welles ed in una precedente pellicola con un ancor giovane Robert Mitchum, di cui ho dimenticato il titolo.

Ho citato autori ed opere che ritengo di grande spessore e che hanno saputo anticipare una tragica situazione. Altri si sono cimentati con minore resa letteraria nel descrivere le vere fiamme del Messico contemporaneo: povertà, droga, scontri sanguinosi tra bande, polizia corrotta, emigrazione clandestina verso gli Stati Uniti costellata da migliaia di vittime innocenti, stupri, terrorismo, connivenze con le forze dell'ordine e "servizi" nord-americani, ombre pesanti dei "narcos" colombiani e di varie mafie.

Ci sono anche pericolosi paragoni da fare con l'Italia.

La letteratura è grande: sa anticipare la realtà e, nel contempo fare palpitare le menti ed i cuori degli uomini.

Non può, tuttavia, che scarsamente incidere sulla realtà!

domenica 8 agosto 2010

Milano, Via Santa Radegonda


In questi giorni mi viene spesso da pensare ad un certo modo con cui ho visto Milano, vuoi per la presenza dalle mie parti in questo periodo di vacanze di amici e parenti colà residenti, vuoi per una bella discussione avuta la settimana scorsa con un amico che nel capoluogo lombardo, se non vi é nato, vi ha per lo meno vissuto a lungo.

La prima volta che venni portato a Milano avevo poco più di due anni, come testimoniato da una fotografia di famiglia, scattata in Piazza Duomo con l'immancabile cornice di piccioni, uno in mano a mio padre, ma non posso certo ricordarne nulla.

Ricordo bene, invece, che, prima dell'età scolastica, dalla finestra di un piano ben alto posizionato in Via Santa Radegonda mi sembrava di toccare con una mano quel Duomo che mi affascinava tanto.

Quella casa non c'é più, sostituita già prima delle vicende cantate ne "Il ragazzo della Via Gluck" da un orrendo silo-parcheggio, quasi adiacente alla Galleria. Ed il Duomo non mi appare oggi poi così vicino.

Non voglio ora indagare sulle demolizioni dei centri storici, né sullo sradicamento dai medesimi dei ceti popolari, argomenti molto importanti che altri hanno saputo e sanno affrontare in modo più degno del sottoscritto.

E neppure sfiorare l'intreccio di rapporti familiari ed amicali di un'altra epoca, che pur hanno creato, credo, tante belle pagine nelle storie personali di tanti italiani.

Nel mio caso, non posso certo dimenticare che quella casa fu la base di partenza, ad esempio, per le prime escursioni verso il Lago Maggiore: a Stresa un trenino su cremagliera salendo verso la cima del Mottarone riempiva di meraviglia un bambino di cinque anni.

Io di Via Santa Radegonda voglio adesso ricordare una signora, vicina di appartamento agli zii di mio padre, che a me sembrava anziana, ma che, pur parlando in dialetto stretto e per me incomprensibile, mi appare ancora, a tanti anni di distanza, dotata di una formidabile carica umana.

Ho recuperato più avanti, per via di altre frequentazioni e non solo di parentela, acquisita o meno, il senso di una pregressa diffusa bonomia popolare, composta di arguzia e di solidarietà, mai disgiunta da senso civico e da tradizionale, autentica etica del lavoro.

Mi sono formato queste convinzioni, sia ascoltando storie ambientate in Via della Spiga, quando era ancora un rione popolare, che in zona Fiera-Sempione, anche questa ormai centro urbano, ma anche vivendo per tempo di persona situazioni ambientate un po' ovunque in quella metropoli, come in Via San Marco e in zona Niguarda.

Voglio arrivare all'amara constatazione che quel sano humus popolare mi risulta largamente disperso, come, per non andare tanto lontano, pur si evince dalla lettura di innumerevoli cronache quotidiane.

Se é vero che "ricordare é conoscere", come proprio da poco ha scritto un amico nel suo blog, può darsi che il mio risulti un modesto contributo al miglioramento del clima sociale e civile del Paese.


sabato 7 agosto 2010

Bordighera-Mentone, andata/ritorno

Questa mattina abbiamo fatto la quasi abituale visita settimanale a Mentone, poco oltre la vecchia frontiera con la Francia.

Mi sono venute in mente un po' di cose.

Dietro la muraglia dell'autostrada, al fondo del crinale della collina, inizia lo scenario de "Gli odori".
Qui siamo quasi alla foce, ma risalendo per diversi chilometri, il fiume Roia oggi comunque, quando non é in piena, é così.
Si scusi la qualità della foto, ma tra le costruzioni, che all'epoca non c'erano, e la bella collina si snoda la strada statale del Colle di Tenda, dove inizia il viaggio in autostop di ...
Un'occhiata curiosa sotto la piazzuola di scatto di altre foto.
Nella frazione Latte di Ventimiglia, verso la frontiera: quante belle storie di Nico Orengo!
A sinistra, poche case: é Mentone! Poi, lo spuntone dove una volta c'era l'ascensore per i Balzi Rossi, Villa Voronoff e più in alto a destra la ridente Grimaldi. Peccato che si era controluce!
Il promontorio (visto da Mentone) in fondo a destra é Bordighera.
Mentone, per oggi ciao!
Eccomi qua! E, sullo sfondo, Mont Agel, che da bambino tanto mi incantava, pur visto da ben più lontano!
Senza parole, direi! Qui il paesaggio c'é ancora tutto o quasi! E tante idee per tante altre storie, se .... si vedrà. A sinistra inizia la "Douce France".
Sopra la spiaggia delle Calandre di Ventimiglia, zona non facilmente accessibile, corre un treno verso la Costa Azzurra.
Siamo alla foce del Roia, a Ventimiglia: su quel promontorio inizia l'abitato del centro storico di Ventimiglia Alta, di cui si vede il campanile della cattedrale. Al centro, tra le palme, i ruderi del castello del .... Corsaro Nero!

mercoledì 4 agosto 2010

Douce France

Nella foto (scusate l'immancabile foschia estiva) da destra: Mentone, Cap Martin, -sopra- La Turbie con il Trofeo di Nella Augusto, Montecarlo, Cap d'Ail, dopo-sopra- borgate di Nizza, Beausoleil, Cap-Ferrat)
Abito a pochi chilometri dalla Costa Azzurra, ma invero da anni mi reco sporadicamente oltre il vecchio confine.

Non sempre è stato così, tuttavia non posso dire di avere girato in lungo e in largo la Francia: l'idea che mi sono fatto di questo grande paese deriva in buona misura dalle letture e da tante conversazioni avute nel tempo.

Douce France è il titolo di una bella canzone di Charles Trenet, forse non a caso scrittta durante il secondo conflitto mondiale.

Douce France è un termine usato in senso molto lato in tante occasioni, forse anche a sproposito.

Douce France è il titolo di un libro di memorie di un insigne antifascista italiano, che narra della sua clandestinità nella zona, all'incirca, di Saint-Tropez nel momento più buio della storia transalpina, gli inizi della seconda guerra mondiale. Il fratello di Giancarlo Pajetta, che ho avuto la ventura di accompagnare tanti anni fa a margine di quel teatro geografico, è stato capace di trovare sorrisi e conforto all'interno di una serie di tragiche vicende storiche. Il che, forse, corrisponde a tanta parte della storia di Francia, come, del resto, è stato reso in tanta parte della letteratura.

Nel mio personale sentire la cosiddetta storia maggiore, quella dei libri e dei risonanti articoli di stampa, si intreccia con la storia minore, anzi, ne risulta verificata, corretta ed inverata.

Il mio primo appuntamento fu, a cinque anni a Grasse, per salutare con la famiglia lo zio materno, colà temporaneamente emigrato, anche da discreto giocatore di calcio: un trenino (credo lo stesso con altri risvolti storici che magari tengo da parte per un'altra volta) che corre nella campagna, il classico viale alberato, figure di affabili persone (forse ai miei occhi di allora!) anziane che ho voluto ritrovare in tanti libri e film (ad esempio, nella finzione scenica il padre di Kevin Kline in "French Kiss"): sono fotogrammi che mi accompagnano da quella gita.

Vorrei aggiungere in ordine sparso altre impressioni.

L'anno vissuto a Le Cannet, vicino a Cannes, nel 1931 da mio padre bambino: forse certi entusiasmi me li ha trasmessi proprio lui con i suoi tanti racconti, anche con quello di essere stato compagno di scuola con il semisconosciuto Lazarides, vincitore del primo Tour, ma non ufficiale, del dopoguerra. Sembra neo-realismo in tono minore, ma da giovanotto ne feci argomento per arricchire la conversazione con un anziano italo-francese di quella zona, appassionato di ciclismo. Un fratello della nonna (lato paterno) emigrato a Parigi per antifascismo. Un cugino della nonna che stava a Cap d'Ail, in una casa affacciata su più piani e terrazze su un'incantevole caletta: e scoprire anni dopo lì sotto sul lato orientale, tra le tante famose, la villa che fu dei fratelli Lumiere. Nipoti del nonno Maini emigrati in Dordogna: una storia comune a tanti italiani, come tanti ne ho conosciuti di persona poi io, in genere fieri di essersi integrati, come voleva ancora trent'anni fa tutta la società francese, ma ancora nostalgici del Paese. Una vendemmia (anzi due!) non ancora giovanotto a Les Arc (sempre vicino a Saint-Tropez): "Parli il francese come una vacca spagnola!". A Parigi, già allora il solito italiano: "E' Pompidour?" e il flic "Oui, Monsieur le President!" Documentazione scorta nel vicino dipartimento transalpino sugli anni del Fronte Popolare, con le sue conquiste civili e sociali. E due parole ancora su Picasso. L'incanto della Cappella della Pace a Vallauris, dove ho frequentato ceramisti autorizzati dall'artista in persona a riprodurre certe sue ispirazioni nei loro vasi. Disegni, litografie ed acquarelli donati a sedi ed uffici popolari. La vaga speranza, passando da Mougins, di poterlo scorgere almeno da lontano.

Ho cercato di fare affiorare alla memoria aspetti meno noti della cultura, della tolleranza, dell'antifascismo, del vivere comune della storia di Francia, così come li ho visti io.

Potrò sbagliare, ma trovo oggi molto affievoliti quegli elementi. Italo-francesi o francesi che siano, nei miei attuali occasionali interlocutori trovo sempre minore consapevolezza di quelle radici.


martedì 3 agosto 2010

Al tempo delle jacarande in fiore

Pubblicata al momento della fioritura la foto di una bella jacaranda di Bordighera, ci fu, tra gli altri, un commento che merita, anche a distanza di qualche settimana, di essere riportato:
"Splendida la jacaranda in questo periodo di fioritura. Che strana la nostra Liguria, tanti insigni scrittori, tra cui Francesco Biamonti, niente hanno potuto contro la schiera di pessimi cementificatori."

La sequenza degli eventi è stata, invero, più articolata. Tra i primi commenti ci fu quello di un amico che riportava la notizia per cui a introdurre in provincia di Imperia le jacarande fosse stato il padre di Italo Calvino, insigne botanico. Non potei resistere alla tentazione di scrivere due righe in proposito, per sottolineare l'impegno culturale e civile di Calvino contro la speculazione edilizia. Me ne venne fuori un articolo che, apparendomi pretenzioso, andai subito a cancellare, non prima di avere suscitato le impressioni che più sopra ho riportato.

Potevo partire da un agave, da un pino marittimo, anche da un geranio. Certo, di importazione o di tradizione locale, anche un modesto vegetale desta nelle persone semplicemente dotate di buon senso sentimenti di rispetto per la natura ed il paesaggio.

Ho fatto bene a cancellare quel mio post. Quel commento, che lascio anonimo, era e rimane esaustivo: ogni mia altra considerazione sarebbe superflua.
 

sabato 31 luglio 2010

Gli odori

Io il 24 aprile 1955 a Bevera, in occasione di una delle nostre gite in bicicletta, citate nel post. In lontananza, un segnale - indistinto, certo! - dell'allora in disuso, non ancora ripristinata dalle rovine della seconda guerra mondiale,  linea ferroviaria Ventimiglia-Breil-Tenda-Cuneo


Letto da Novalis l'articolo molto bello, che riporto qui di seguito, non ho resistito, visto che sono di quella zona, alla tentazione di dire la mia. Il che ho fatto in due riprese, la prima su Tumblr, l'altra su Facebook.
 

Gli odori

Era così, mezzo secolo fa, la campagna intorno a casa, con la linea ferroviaria dismessa, che prima della guerra collegava la riviera con la Val Roja e Cuneo, dove ho vissuto i primi anni della mia infanzia. Era il nostro territorio di gioco, quando non esistevano la televisione, i videogiochi, i monopattini e avevamo a disposizione quei lunghi pomeriggi estivi, assolati cieli alti e striduli dal frinire assordante delle cicale che vegliavano su di noi appollaiate sui rami dei ciliegi.


Oltre alle cicale non si sentiva altro, forse ogni tanto il latrato di un cane. Né aerei, né automobili, né motopompe, né motozappe. Il lavoro in campagna si svolgeva a mano e in silenzio. La terra si arava e dissodava col magaglio, l'erba falciata con la "serra" a schiena curva, lavoro da donne, il verderame alle viti veniva irrorato con una pompa di stagno, fissata sulle spalle e azionata dalla mano dell'uomo. Anche la gente allora era più silenziosa. Poche chiacchiere e a bassa voce. Strano come nella mia infanzia non abbia mai udito urlare nessuno. Anche i gesti erano misurati, dalla stanchezza che non concedeva sprechi.


Per noi bambini c'era la terra, l'acqua, il cielo, le piante, gli animali selvatici, gli odori e la ferrovia abbandonata, col cancello che chiudeva il passaggio a livello ancora cigolante sui cardini che spingevano con tutta la forza delle nostre braccia per poi saltarci sopra appena presa la rincorsa.


Gli odori. Lungo la massicciata cresceva rigogliosa una pianta infestante dal fusto poco più grande di un pollice con le foglie lanceolate, non ricordo il suo nome, ma l'ho sempre visto prosperare sui bordi delle ferrovie. Ne spezzavamo i rami più teneri per costruirci la capanna, il nostro rifugio segreto, imbrattandoci le mani del lattice bianco e appiccicoso che sgorgava dalle ferite della pianta e ci impregnava di un odore forte e nauseante che non ho mai dimenticato.


Oggi la ferrovia è stata ripristinata, ma la casa e la campagna non ci sono più.


Una ligure


Mio commento su Tumblr a “Gli odori”
Mi ha colpito il testo in questione, perché nel luogo descritto passavo talora anch’io all’epoca: tutto corrisponde! Aggiungo il fascino per me bambino dei segnali ferroviari (antiquati) abbandonati, le spiegazioni di mio padre su alberi ("L’acacia é pericolosa! Tua bisnonna per la puntura di una spina d’acacia nel piede ha dovuto subire l'amputazione dell'arto!") e su piante, le discese al fiume per bere in foglie verdi e fresche l’acqua sgorgante da polle litoranee. Qualche anno più tardi si andava da quelle parti a tirare quattro calci al pallone: la zona era ancora perfettamente fascinosa e si andava e tornava rasente il corso del Roia per sentirci in piena natura.

Mio commento su Facebook a “Gli odori”
Il bel racconto allegato mi restituisce intatta la meraviglia che quei siti in me suscitavano ancor prima della gentile autrice. Solo non ricordo come facesse mio padre a portare sulla canna di una bici da bersagliere me e mio fratello (sì che eravamo piccolini!) sino a bere dalle allora pulitissime acque del Roia!

sabato 24 luglio 2010

Da Babi Yar di Evgenij Evtushenko

Io sono ognuno dei vecchi fucilati qui.
Io sono ognuno dei bambini fucilati qui.
Niente dentro di me dimenticherà mai!
Che risuoni l’Internazionale quando
L’ultimo antisemita sulla terra
Sarà seppellito per i secoli dei secoli.
Nel mio sangue non c’è sangue ebraico.
Nella loro folle rabbia tutti gli antisemiti
Devono odiarmi ora come se fossi un ebreo.
E per questo sono un vero russo!

di Evgenij Evtushenko

Slovenia on my mind


E' in corso in questi giorni a Sanremo la rassegna EcoLife, dove mi sono imbattuto, preavvisato da un amico che conosce le mie ascendenze, in due stand rappresentativi della Slovenia.
La curiosità di saperne di più sui posti dove erano nati i nonni materni (media valle dell'Isonzo, poco a nord di Gorizia; il nonno ad Anhovo, in italiano Salona d'Isonzo) mi ha indotto, utilizzando i depliant colà reperiti, ad un mio ricorrente azzardato esercizio di presunzione storica e culturale.
Tralascio i riferimenti alla bellezza di certi paesaggi, perché convinto che tutto il mondo é paese, anche se in famiglia al sottoscritto (pigro ed indolente, che solo in una occasione da adolescente dal capoluogo giuliano aveva dato qualche occhiata oltre il vecchio confine) questi temi sono stati più volte anticipati, soprattutto in riferimento all'incantesimo suscitato da certe montagne. Tuttavia, il Sentiero Smeraldo (uno dei partner), che un po' ricorda certo entroterra ligure, merita della considerazione. E non aggiungerò nulla sulle prelibatezze gastronomiche, che in buona parte sono riuscito invece a gustare.

Mi interessa di più sottolineare che esiste una Via della Pace, che transita vicino ai resti delle linee del fronte della prima guerra mondiale, in genere organizzati a presentarsi come un museo all'aperto.

Affiorano alla mia memoria i racconti di mia nonna materna che, ancora bambina, insieme a quello che rimaneva in quel momento della sua famiglia venne costretta dalle truppe italiane a rimanere a ridosso di quel fronte, al di sotto della Bainsizza, teatro, come tutta la linea dell'Isonzo, di reiterati, inumani assalti alla baionetta. Ho capito già da piccolo che la guerra é una cosa atroce mercé il vivo racconto di mia nonna, ma mi rimane il rimpianto di non avere saputo, da adulto, approfondire con lei il discorso, cui non ha poi sopperito l'ampia lettura di resoconti bellici, che in genere poco rendono della dimensione umana degli eventi.

Altro aspetto evidenziato da una rapida scorsa alle brochures, di cui in premessa, é il rilievo, anche in Slovenia, della guerra partigiana, che, per analogia, mi ha fatto pensare alla bisnonna (suocera della nonna), staffetta partigiana di Tito e ai nipoti della nonna che la lotta di liberazione l'avevano abbracciata in Friuli.

Certe vicende richiamano altre vicende a mio avviso importanti, per cui il racconto potrebbe continuare, anche se per rapidi accenni, nella convinzione dell'importanza della cosiddetta storia minore.

Voglio solo sottolineare la persecuzione degli sloveni, condotta dal regime fascista, particolarmente spietata agli inizi della seconda guerra mondiale (campi di concentramento dove vennero reclusi tra ogni genere di stenti bambini, donne e anziani, mentre gli uomini erano costretti - come un mio prozio, che poi lavorò, se non erro, nel cementificio di Salona d'Isonzo -, a combattere per Mussolini ), persecuzione di cui in famiglia (forse per la lontananza dagli eventi, essendo all'epoca ormai da anni i nonni residenti in riviera)) non si é mai parlato. Si é fatto in tempo a parlare, invece, di certe nefandezze del regime di Tito, in particolare con la voce di lontani cugini ormai stabiliti nei dintorni della Gorizia italiana.

Forse in funzione di questi ricordi e di altri analoghi, derivanti (come per tante altre persone, io credo) da altri rami familiari, mi sento - spero in modo degno - cittadino del mondo e testimone dei tempi che corrono.


sabato 17 luglio 2010

“VORREI NASCERE IN TUTTI I PAESI” di Serghej Evtushenko

Quindici anni fa' di questi giorni si consumava il massacro di Srebrenica. Per quelle vittime innocenti, per tutte le vittime innocenti delle recenti assurde guerre sparse per il mondo, per tutte le vittime innocenti della ferocia che troppo spesso l'uomo sa incarnare, per tutte le vittime innocenti degli attuali respingimenti nel Mediterraneo avevo pensato, in segno di rispettosa dedica, ad un'altra poesia di Serghej Evtushenko che, nel mio ricordo e nel mio sentimento personale, pur essendo riferita ad una strage perpetrata nella seconda guerra mondiale dalle armate naziste in Russia, ha un valore universale. Non l'ho per il momento ritrovata. Mi sono, però, imbattuto nella mia ricerca in questa lirica che non conoscevo e che qui di seguito riproduco, perché mi sembra molto significativa:



vorrei nascere in tutti i paesi
perchè la terra stessa, come anguria,
compartisse per me
il suo segreto
e essere tutti i pesci
in tutti gli oceani
e tutti i cani nelle strade del mondo.

Non voglio inchinarmi
davanti a nessun dio, la parte non voglio recitare
di un hippy ortodosso
ma vorrei tuffarmi
in profondità nel Bajkal
e sbuffando
riemergere
nel Missisipi
Vorrei
nel mio mondo adorato e maledetto,
essere un misero cardo
non un curato giacinto,
essere una qualsiasi creatura di dio
sia pure l’ultima jena rognosa
ma in nessun caso un tiranno
e di un tiranno, nemmeno il gatto;
in nessun caso.
Vorrei essere uomo
in qualsiasi personificazione:
anche torturato in un carcere del Guatemala,
o randagio nei tuguri di Hong-Kong,
o scheletro vivente nel Bangladesh
o misero jurodivyj a Lhasa,
o negro a Capetown,
ma non personificazione della feccia.
Vorrei giacere
sotto il bisturi di tutti i chirurghi del mondo,
essere gobbo, cieco,
provare ogni malattia, ferita, deformità
essere mutilato dalla guerra
raccogliere luride cicche
purché in me non si insinui
il microbo ignobile della superiorità
non vorrei fare parte dell’élite
ma di certo neppure del gregge dei vigliacchi
né dei cani del gregge
né dei pastori che al gregge si conformano,
vorrei essere felicità
ma non a spese degli infelici
vorrei essere libertà, ma non a spese di chi è asservito. Vorrei amare tutte le donne del mondoe vorrei essere donna anch’io
magari una volta soltanto…
madre-natura, l’uomo é stato da te defraudato.
Perché non dargli
la maternità?
Se in lui, sotto il cuore, un figlio
si facesse sentire così
senza un perché, certo l’uomo
non sarebbe tanto crudele.
Vorrei essere essenziale – magari una tazza di riso
nelle mani di una vietnamita segnata dal pianto,
o una cipolla nella brodaglia di un carcere di Haiti,
o un vino economico
in una trattoria di terz’ordine napoletana
e un tubetto, anche minuscolo, di formaggio
in orbita lunare;
che mi mangino pure
e mi bevano
purché nella mia morte ci sia una utilità.
Vorrei appartenere a tutte le epoche, far trasecolare la storia tanto da stordirla con la mia impudenza:
della gabbia di Pugacev segherei le sbarre
quale Gavroche introdottosi in Russia
condurrei Nefertiti
a Michajlovskol, sulla trojka di Psi^n
Vorrei cento volte prolungare la durata di un attimo
per potere nello stesso istante
bere alcool con i pescatori nella Lena
baciare a Beirut,
danzare in Guinea, al suono del tam-tam,
scioperare alla “Renault”,
correre dietro a un pallone con i ragazzi di Copacabana, vorrei essere onnilingue, come le acque segrete del sottosuolo
Fare di colpo tutte le professioni
e ottenere così che
un Evtusenko sia semplicemente poeta, un altro, militante clandestino spagnolo, un terzo, uno studente di Berkeley
e un quarto, un cesellatore di Tbilisi.
Un quinto – un maestro elementare in Alaska,
un sesto – un giovane presidente in qualche dove,
anche in Sierra Leone, diciamo,
un settimo -
scuoterebbe soltanto il sonaglio di una carrozza
e il decimo…
il centesimo…
il milionesimo…
Poco per me essere me stesso
tutti, fatemi essere!
E ciascun essere,
in coppia, come si usa.
Ma dio, lesinando la carta carbone
mi ha prodotto in un solo esemplare
nel suo bogizdat.
Ma a dio confonderò le carte. Lo raggirerò!
Avrò mille facce
fino all’ultimo giorno
affinchè la terra rimbombi per causa mia
e i computers impazziscano
per il mio universale censimento.
Vorrei
umanità
lottare su tutte le tue barricate
stringermi ai Pirenei,
coprirmi di sabbia attraverso il Sahara
e accettare la fede della grande fratellanza umana, e fare proprio il volto
di tutta l’umanità.
E quando morirò
sensazionale Villon siberiano
non deponetemi
in terra inglese
o italiana -
ma nella nostra terra russa,
su quella verde, serena collina,
dover per la prima volta io
mi sono sentito tutti.

Serghej Evtushenko

Giono, Izzo e Orengo (e Francesco Biamonti)

Ho letto in ritardo (ma sino ad un certo punto, trattandosi di un mensile locale) di tre interessanti iniziative culturali, svolte nella zona di Ventimiglia (IM) poco tempo fa, cui puntualmente, per un motivo o l'altro, sono risultato assente. E subito mi é venuto il cipiglio del polemista progressista.

A maggio a Ventimiglia si dibatte "La geografia del cuore di Nico Orengo" tema indubbiamente interessante, ma dubito si sia parlato dell'impegno diciamo politico dell'autore. E che qualcuno ricordi ancora le sue battaglie contro la speculazione edilizia nella città di confine, che lo portarono anche a candidarsi per il Consiglio Comunale. Solo che Orengo incappò nella sfortuna tipica direi del grande scrittore, tanto da non risultare eletto: io aggiungerei che la città intemelia ha perso con la bocciatura di Nico un'occasione storica.

Di Jean-Claude Izzo si parla sempre a maggio e sempre a Ventimiglia, con un'iniziativa di per sé lodevole.
Di questa tralascio le motivazioni organizzative e le analisi di estetica, azzardando invece un certo collegamento di interesse tra questa zona e Marsiglia (dove sono ambientati i romanzi di Izzo) innanzitutto in certe affinità paesaggistiche e geografiche.
Chissà, però, se in quel convegno hanno parlato dell'uomo Izzo (morto prematuramente dieci anni fa) che, impegnato sul fronte sociale ed antirazzista, trasfigurava i suoi valori in cupe storie noir (anche di plot un po' esagerato a mio avviso), non certo ben rese nella versione televisiva (o, forse, sono dei film) con Alain Delon. Di sicuro nelle sue opere questa Marsiglia e dintorni, non molto lontani da questa riviera, assumono contorni quasi magici: si sentono l'odore del mare, i profumi dei fiori e delle erbe mediterranei, i sapori di cibi cosmopoliti. E si palpita per personaggi che sembrano usciti da una canzone di Francesco De Gregori, nel contempo in cui certi "cattivi" sembrano (almeno a me) un po' esagerati, anche se fanno rinviare con il pensiero alle tante trame criminali realmente esistenti di qua e di là della frontiera.

Rinvio ad altro momento l'appuntamento per le mie personali considerazioni sull'importanza e sul rilievo letterario del cosiddetto poliziesco o noir. A tutti consiglio intanto di leggersi "La grande rapina di Nizza" di Ken Follett (sì, proprio lui, il conclamato autore di tanti best sellers!): chi lo farà incorrerà in amare considerazioni.

Dell'omaggio a Jean Giono reso a fine maggio a San Biagio della Cima dirò ben poco, stante lo spessore degli interventi programmati nell'occasione. A me piace, tuttavia, sottolineare alcuni aspetti. La stima di Francesco Biamonti per questo grande scrittore della Provenza, tanto é vero che l'appuntamento ufficiale é stato Gli amici di Francesco Biamonti incontrano Les Amis de Jean Giono. Certe luci, certi colori, certe montagne di Manosque (dove dimorava stabilmente Giono, che però ambientava le sue opere di autentico grande livello in altre parti della Provenza e non solo) che ricordano il nostro entroterra: e quella posizione geografica (solo per citare, la montagna della Lure, la Durance, la Bleone) trova a mio avviso in Pierre Magnan (forse per i più non eccelso autore, ma pur sempre amico di Giono) un sincero e convincente cantore. Di Giono dirò, infine, che con L'affare Dominici seppe condurre una coraggiosa inchiesta giornalistica dai toni elegiaci - purtroppo non coronata da successo - contro storture poliziesche e giudiziarie che si esercitavano proprio dalle sue parti. E mi preme ricordare ancora per contrappasso l'umanità di certi suoi gendarmi di metà Ottocento, che si muovevano a cavallo in notti di tregenda a ponente del Rodano.