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giovedì 14 aprile 2022

All’organizzazione ideale e tecnica del Fronte della Gioventù sarebbero seguite le campagne di propaganda e le azioni armate vere e proprie


Eugenio Curiel nasce a Trieste l’11 dicembre 1912, primo di quattro figli di un’agiata famiglia ebrea.
Dopo aver conseguito la maturità scientifica nel 1929, frequenta a Firenze il biennio di ingegneria, iscrivendosi nel 1931 al Politecnico di Milano ma, avendo più inclinazione per gli studi teorici, dopo pochi mesi si iscrive al corso di laurea in Fisica tenuto nell’Università fiorentina.
L’11 dicembre 1932 consegue il diploma di maestro elementare per poter lavorare, pur continuando gli studi di fisica. L’amico Bruno Rossi lo invita nel 1933 a concludere gli studi all’università di Padova. Eugenio accetta, laureandosi il 20 luglio col massimo dei voti e la lode.
Curiel è attratto dallo studio dall’antroposofia di Steiner, nella quale vede anche lo stimolo a conseguire un’autodisciplina fisica e psicologica che gli appare consentanea al suo rigore intellettuale e morale.
L’1 novembre 1933, accetta una supplenza di lettere nel ginnasio di Montepulciano; allo scadere della supplenza ritorna a Padova con un incarico di assistente universitario di meccanica razionale.
L’applicazione alla filosofia steineriana si attenua con il tempo, sostituita lentamente dall’interesse verso la dominante filosofia idealistica; sono ora Kant, Fichte, Hegel, Croce e Gentile a costituire il centro degli interessi spirituali di Curiel, ma anche Georges Sorel e i problemi posti dal sindacalismo anarchico; frequentando l’Istituto di filosofia del diritto, conosce e si lega d’amicizia con gli assistenti di filosofia Ettore Luccini ed Enrico Opocher.
A Padova rivede nel 1933 l’amico d’infanzia di Trieste, Atto Braun, con il quale divide l’alloggio; quest’amicizia rinnovata costituisce per la sua vita una svolta decisiva: il Braun è clandestinamente aderente al Partito comunista e con lui Curiel discute e polemizza, ma legge anche i libri che questi gli impresta: il Manifesto di Marx ed Engels, l’Antidühring di quest’ultimo, il Che fare? di Lenin. In breve, nel 1935, anche Curiel entra a far parte del piccolo, clandestino, circolo comunista dell’Università e a collaborare, dal 1937, alla pagina sindacale de’ Il Bò, il giornale universitario di Padova, redatto da giovani fascisti insofferenti dell’ortodossia del regime, ma anche da antifascisti mascherati, come lo stesso Braun.
Nel marzo del 1937 si reca a Parigi - e vi tornerà ancora alla fine dell’anno - dove ha sede il Centro estero del partito, prendendo contatto, fra gli altri, con Emilio Sereni, Ambrogio Donini e Ruggero Grieco e scrivendo un articolo, dal titolo Il nostro lavoro economico-sindacale di massa e la lotta per la democrazia, con lo pseudonimo di Giorgio Intelvi, che compare nella rivista Lo Stato Operaio. Curiel sostiene che bisogna premere con la stampa universitaria sugli studenti, perché passino da un’ideologia ancora corporativa di fascismo di sinistra al riconoscimento della lotta di classe, e sui fiduciati di fabbrica, rappresentanti eletti dagli operai e riconosciuti dal sindacato, all’interno del quale occorrerebbe creare gruppi segreti, costituiti opportunamente, che dovrebbero svolgere sugli operai un influente lavoro politico.
[...] Il 25 agosto 1943, a seguito della caduta del fascismo, lascia l’isola per unirsi alla lotta armata con il nome di battaglia "Giorgio". Ritorna a Milano, dove dirige L’Unità clandestina e La nostra lotta e infine promuove la costituzione di un’organizzazione unitaria tra i giovani antifascisti di ogni schieramento politico, il Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà. In questo periodo elabora la sua teoria sulla democrazia progressiva, considerato il suo più importante contributo teorico all’antifascismo.
Il mattino del 24 febbraio 1945, a due mesi dalla liberazione di Milano, mentre si sta recando a un appuntamento, Eugenio Curiel viene sorpreso in piazzale Baracca da una squadra di militi repubblichini guidati da un delatore; non tentano nemmeno di fermarlo, gli sparano una raffica quasi a bruciapelo. Curiel si rialza, si rifugia a fatica in un portone, ma qui viene raggiunto e finito dai fascisti.
Il giorno dopo, sulla macchia rimasta, una donna spargerà dei garofani.
Il poeta Alfonso Gatto gli dedicherà due poesie: Curiel e 25 Aprile dove lo cita scegliendolo quale esempio del desiderio di libertà e democrazia del popolo italiano.  [...]
Redazione, Eugenio Curiel, Le Pietre raccontano. Comune di Cinisello Balsamo (MI)

Eugenio Curiel “Giorgio”, nato a Trieste nel 1912, assistente di Fisica all’Università di Padova espulso dalle leggi razziali, comandante delle Brigate Garibaldi, fondatore del Fronte della Gioventù per l’Indipendenza Nazionale e l’Unità, ucciso a Milano il 24 febbraio 1945 da una pattuglia di fascisti. Medaglia d'oro al Valor militare. Fonte: Centro di Ateneo per la Biblioteche - Università degli Studi di Padova

Il 25 luglio 1943 - data della deposizione di Mussolini, messo in minoranza e fatto arrestare da un Gran Consiglio del fascismo spaccato dalla disfatta militare, dall’ondata di scioperi del marzo ‘43 e dai maldestri tentativi della monarchia per dissociarsi dalle responsabilità del regime - segnò una tappa fondamentale di quel “lungo viaggio attraverso il fascismo” poi rievocato da Zangrandi: ovvero di quel lungo processo caratterizzato dall’assimilazione, dagli impossibili tentativi di riforma e infine dal rigetto dell’ideologia fascista di una parte rilevante di quei giovani. Un cammino culminato nella crisi morale e ideale di (quasi) un’intera generazione, che sperimentando in prima persona la guerra d’aggressione nazifascista così come il disastro militare politico sociale del paese, e confrontando queste verità con una propaganda di regime sempre più delirante e distante dalla realtà, approdò infine alla presa di coscienza sulla natura del fascismo. Altra tappa fondamentale furono gli eventi successivi all’armistizio di Cassibile, l’8 settembre 1943: la fuga di Vittorio Emanuele III, di Badoglio e dei massimi vertici militari (i quali, non lasciando nessun ordine alle truppe italiane sul campo e non curandosi neppure di allestire un posto di comando mobile per la durata del viaggio verso Brindisi, causarono l’impossibilità del Regio esercito di opporre subito una coordinata resistenza ai tedeschi, cosa sfociata nell’immediato nel grottesco episodio della mancata difesa di Roma); la facile liberazione di Mussolini dalla prigionia del Gran Sasso a opera del commando di paracadutisti guidati dal maggiore delle SS Otto Skorzeny, con la conseguente messa in piedi nel nord Italia della RSI (il cui ministro della guerra, il maresciallo Graziani, subito si affrettò a diramare bandi di coscrizione obbligatoria anche per i più giovani ragazzi del ’26); la costante minaccia della deportazione in Germania. Tutto questo mise la società italiana - e i giovani in particolare - davanti all’improrogabile necessità di una scelta: farsi arruolare nell’esercito di uno Stato fantoccio a guida nazista che in un penoso tentativo di riacquistare consenso osava definirsi “repubblica” e propagandava l’imminente avvio di politiche socialisticheggianti, oppure «darsi alla macchia e alla cospirazione, raccogliendo l’esempio delle prime bande partigiane e gli appelli in tal senso lanciati dai vari partiti antifascisti. I quali un po’ ovunque, costituivano i Comitati di liberazione nazionale, indicando nella lotta la via del riscatto, della dignità, della liberazione» <73.
Dopo lo sbarco alleato in Sicilia e l'armistizio dell'8 settembre, sarebbe stata questa la strada scelta da sempre più ragazzi e ragazze italiane, la cui azione antifascista si sarebbe coordinata nel "Fronte della Gioventù" (da non confondere con l’omonima organizzazione neofascista del MSI, che negli anni ‘70 cercò di usurpare il nome del FdG originale). Nella prima fase di nascita e affermazione del Fronte avrebbero rivestito un ruolo di primo piano quei professori e docenti universitari già attivi nella Resistenza, che spronarono la gioventù studentesca - e in generale le giovani generazioni - a prender parte attiva alla lotta di liberazione. Il 1° Dicembre 1943, poco prima di passare alla clandestinità, fu il rettore dell’Università di Padova Concetto Marchesi a lanciare l’appello all’insurrezione che ebbe più eco tra la gioventù universitaria e non solo <74; risonanza non minore avranno altri suoi scritti successivi, sempre diffusi dalla stampa clandestina, come il volantino rivolto «Ai giovani della borghesia italiana, ufficiali e studenti» <75 nel 1944.
Per quanto importanti i semplici appelli non sarebbero stati comunque sufficienti, nonostante il ribollire delle tensioni morali e ideali presenti tra i giovani: gli intellettuali antifascisti di cui tra poco si dirà si resero subito conto dell’urgenza di una nuova associazione, di un nuovo strumento per organizzare e coordinare la lotta antifascista giovanile - il FdG - con alcune caratteristiche di base.
Esso non avrebbe dovuto essere un partito, dato che le giovani generazioni cresciute sotto il regime erano sostanzialmente diseducate alla politica e anche in considerazione del fatto che irreggimentare le forze giovanili all’interno di una precisa ideologia e/o di un’ortodossia di partito sarebbe stato limitante se non addirittura controproducente: si sarebbe riprodotto qualcosa di troppo simile allo spirito totalitarista delle associazioni giovanili fasciste. Avrebbe poi dovuto essere un’organizzazione indipendente e su base rappresentativa: disponibile a collaborare con tutti i partiti associati nel CLN ma politicamente autonoma e che unisse nel confronto dialettico - primo elemento di un’educazione politica democratica - le parziali e a volte confuse piattaforme programmatiche dei movimenti giovanili dei singoli partiti. Avrebbe dovuto essere in definitiva un’organizzazione popolare di massa, che riunisse indistintamente tutti i giovani uniti nell’antifascismo, indipendentemente da una loro possibile vicinanza a un partito o a un’ideale repubblicano, liberale, socialista, comunista, anarchico, democristiano, ecc.
All’indomani del ritorno in Italia di Togliatti e della cosiddetta “svolta di Salerno”, furono soprattutto i vertici socialisti e comunisti in clandestinità a rendersi maggiormente conto della necessità di giungere a un’associazione del genere, adoperandosi dunque sia a livello pratico che teorico per la sua realizzazione. Sarà il comunista Giancarlo Pajetta, arrivato a Milano dal Piemonte dove stava organizzando le bande partigiane delle valli del Po a buttar giù - anche con l’aiuto di Luigi Longo, anch’egli comunista - i primi «appunti», da lui stesso così chiamati: ovverossia le prime considerazioni di principio secondo le quali il FdG avrebbe operato di lì a pochi mesi <76.
Insieme alle caratteristiche e ai principi fondamentali dell’organizzazione (per i quali tale gruppo di intellettuali auspicava una sincera approvazione da parte della gioventù riunita nel FdG, scartando dunque l’opzione di una direzione politica e militare calata esclusivamente dall’alto), gli «appunti» di Pajetta analizzano brevemente anche la situazione politica, militare, sociale, economica e sindacale maturata in Italia dopo l’8 settembre, con particolare  riferimento alle gravi conseguenze che essa ha avuto sulle giovani generazioni. Per riscattare le sorti di queste ultime - così come le sorti di tutto il Paese - Pajetta individua alcune linee-guida principali: la guerriglia armata
antinazista e antifascista; le attività lavorative, economiche e sindacali (come l’assistenza agli sfollati, la ricerca di alloggi, materiali e razioni alimentari per le scuole, la cura della rappresentanza giovanile nei sindacati clandestini, ecc.); le attività culturali e sportive (per affrancare i giovanissimi dai residui dell’educazione fascista e per favorire la propaganda del FdG); il coinvolgimento anche delle ragazze; le attività politiche ed educative, per riaccendere tra i giovani la consapevolezza della continuità della Resistenza attuale con le lotte popolari risorgimentali (rigettando tuttavia ogni dottrina sciovinista e imperialista); il boicottaggio delle organizzazioni giovanili fasciste che la RSI tentava di ricostituire.
L’opera di Pajetta e Longo riceverà anche l’apporto teorico di Gillo Pontecorvo (“Barnaba”, attivo già dal 1938 nel coordinare la lotta clandestina), e di Eugenio Curiel (“Giorgio”, arrivato a Milano nell’ottobre ‘43 dopo esser tornato in libertà alla caduta del regime): Pajetta lavorò all’interno del movimento partigiano per favorire la costituzione del Corpo Volontari della Libertà, e per far sì che il CLN per l’Alta Italia riconoscesse il FdG - cosa che avverrà nell’estate del ‘44, contribuendo grandemente alla solidità dell’organizzazione; mentre i vertici del partito comunista affideranno inizialmente la cura del lavoro giovanile a Curiel, che ben presto divenne una fondamentale colonna portante dell’intera organizzazione. Nato l’11 dicembre 1912 dalla famiglia di ebrei triestini composta da Giulio e Lucia Limentani e da altri quattro fratelli, antifascista sin da giovane età, Curiel si laureò a pieni voti in Fisica all’Università di Padova nel luglio del 1931. Divenuto poi assistente presso la cattedra di meccanica razionale tenuta dal prof. Ernesto Laura nel febbraio ‘34, strinse amicizia con professori quali Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti, Enrico Opocher. Da qui in poi il suo impegno verso l’attività politica antifascista crebbe sempre più: tra 1934-35 ebbe contatti con “Giustizia e Libertà”, in seguito aderendo però al Partito comunista italiano dopo l’avvicinamento ai classici di Marx, Engels, Lenin - un’adesione pare non strettamente ideologica, quanto piuttosto dettata dalla constatazione che il PCI era la più grande, radicata e meglio organizzata forza antifascista nel Paese. Cercò dunque di mantenere viva una voce di dissenso nel GUF padovano venendo - sia per questo sia per le leggi razziali del ‘38 - cacciato. Recatosi successivamente in Francia intrattenne colloqui con i dirigenti comunisti a Parigi dai quali scaturì l’idea di avviare un lavoro “legale” all'interno delle organizzazioni di massa fasciste; una volta rientrato in Italia venne però arrestato nel 1939 e inviato al confino. Liberato nell’agosto del 1943 avrebbe partecipato alla Resistenza come massimo organizzatore del Fronte della Gioventù ed elaborando la teoria della Democrazia progressiva, considerata il suo più importante contributo teorico all'antifascismo. Venne ucciso a Milano il 24 febbraio 1945 - a pochi giorni dalla Liberazione - dalle Brigate nere della RSI. Il 24 aprile 1946 verrà insignito della Medaglia d’Oro al valor militare alla memoria <77.
Attorno a questo primo nucleo, si raccoglieranno via via nuovi intellettuali antifascisti del calibro di Ernesto Treccani, Elio Vittorini, Gianfranco Mattei, Vittoria Giunti, Quinto Bonazzola, Raffaele De Grada, Mario De Micheli e Aldo Tortorella. Ciò avrebbe portato a contatti sempre più numerosi e fruttuosi con quella gioventù universitaria (e non solo) ormai giunta al termine di quel “lungo viaggio attraverso il fascismo”, e avrebbe facilitare il richiamo di altri giovani intellettuali - ad esempio Graziano Verzotto per Padova, ma anche Dino Del Bo, Alberto Grandi, Franco Bruno, ecc. - divenuti poi attivi nella direzione politica del FdG.
Successivamente si sarebbero tenute delle riunioni segrete per mettere a punto gli aspetti operativi concreti dell’organizzazione del Fronte: una prima riunione del 6 agosto 1943 si svolse a casa del duca Gallarati Scotti - uno dei firmatari del “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, sostenitore delle formazioni liberali, indipendenti e cattoliche - alla presenza di Giuseppe Carpi e Paolo Cordova (Ricostruzione liberale), Pietro Bruno e Gianfranco Traghi (Partito d’azione), Raffaele De Grada, Vittoria Giunti e Piemonte Boni (Partito comunista). In riunioni successive - come ad esempio in quella del 10 agosto - questo nucleo fondamentale avrebbe nuovamente ripreso il tema della lotta antifascista condotta sul piano ideologico e culturale, deliberando quindi la creazione del “Bollettino del Fronte della gioventù” (l’organo centrale del FdG, a cui si ispirarono altri giornali clandestini locali) che avrebbe coniugato propaganda politica e recensioni letterarie di testi messi al bando dal regime.
In seguito sarebbe stato nuovamente Pajetta a fornire un altro apporto concettuale fondamentale, scrivendo il Manifesto programmatico vero e proprio del “Fronte nazionale della gioventù per l’indipendenza e per la libertà” - questo il nome completo dell’organizzazione. Il Manifesto <78, affisso nell’ottobre 1943 per le vie di Milano e poi ripreso dalla stampa clandestina locale, segnò la prima apparizione pubblica dell’organizzazione. I cui maggiori coordinatori furono infine Eugenio Curiel, Gillo Pontecorvo e Quinto Bonazzola per i comunisti, Renato Carli Balloba per i socialisti, Dino Del Bo ed Alberto Grandi per i cattolici.
Altra tappa fondamentale nella costruzione dell’unità del Fronte sarebbe stata infine la riunione del gennaio 1944, tenuta presso il Convento di San Carlo al Corso a Milano anche con l’aiuto dei padri serviti Camillo De Piaz e Davide Maria Turoldo, attivi partecipanti alla Resistenza (ben prima dell’8 settembre diffusero il foglio clandestino “l’Uomo”, e nascosero le armi loro affidate dai partigiani <79): alla riunione presero parte anche i giovani rappresentanti cattolici Dino Del Bo e Alberto Grandi, cosa che segnerà l’adesione al Fronte anche delle formazioni cattoliche e democristiane.
Stante la grande pluralità degli apporti teorici e pratici alla messa in piedi del FdG, i maggiori contributi vennero comunque, senza dubbio, da Eugenio Curiel: nonostante la direzione del Fronte fosse improntata alla dialettica paritetica tra i rappresentanti dei vari partiti antifascisti e al confronto tra i giovani della “base” che aderivano al FdG, Curiel ne fu se non il “Capo” il primo fondatore e il principale coordinatore. Fu sempre Curiel ad adoperarsi maggiormente nel tessere le necessarie reti di contatto <80, nell’organizzare le riunioni clandestine, e soprattutto nel mantenimento dell’unità del Fronte: quest’ultimo problema è forse quello che più di ogni altro orienterà l’azione di Curiel nel 1943-45, come si evince dai ripetuti appelli all’unità antifascista lanciati fin dal primo numero del “Bollettino del Fronte della gioventù” <81 e dalle indicazioni fornite ai responsabili regionali e ai comitati provinciali del Fronte <82.
All’organizzazione ideale e tecnica del Fronte della Gioventù sarebbero seguite le campagne di propaganda e le azioni armate vere e proprie. A partire dall’inverno 1943-44 i gruppi regionali collegati con Milano estendevano le attività del Fronte a tutti i territori dell’Italia occupata: soprattutto nelle città principali come Padova, Venezia, Verona, Firenze, Torino, Genova, Udine, Bologna, Savona, Parma, Biella, Brescia - e ovviamente Milano - si formarono gruppi del Fronte <83 nelle fabbriche e nelle scuole, che con volantini, giornali clandestini e comizi volanti incitarono gli operai allo sciopero e spronano i giovani a sottrarsi ai bandi di coscrizione di Graziani per unirsi invece alle formazioni partigiane (come SAP o GAP) o a un gruppo armato del Fronte <84.
Come detto l’attività di propaganda politica si unisce alla guerriglia con il sabotaggio delle linee di comunicazione nemiche, della segnaletica e dei treni militari, oltre alla distruzione o sottrazione di materiale bellico, alle rappresaglie contro torturatori e delatori, all’assalto alle unità nazifasciste più isolate, alla liberazione di giovani coscritti. È nel Friuli che si compiono le prime e più eclatanti azioni <85, condotte con grande autonomia - e per breve tempo anche dopo il 25 aprile, contro gli ultimi reparti nemici dispersi o in ritirata - da gruppi che assumeranno la dimensione di battaglioni.
In generale comunque (salvo eccezioni quali il caso friulano, o come quello della Brigata di Milano) i nuclei del Fronte sceglieranno una struttura più agile e maggiormente integrata nelle grandi formazioni partigiane esistenti, pur mantenendosi autonomi nella guida politica degli aderenti: a partire dall’inverno 1944 ogni gruppo armato verrà messo a disposizione del Corpo Volontari della Libertà, e molti giovani del Fronte si uniranno ai GAP cittadini, alle SAP, o alle Brigate Garibaldi: sarà Firenze la prima città nella quale i giovani volontari si batteranno in prima linea, e nella quale l’11 agosto 1944 cadrà Paolo Galizia, uno dei più noti dirigenti del Fronte.
Il FdG avrà un ruolo decisivo anche nella difesa e nelle esperienze di autogoverno delle Repubbliche partigiane, ad esempio nelle zone libere dell’Ossola, della Carnia, di Montefiorino, dell’Alto Monferrato; soprattutto in Carnia i ragazzi del Fronte contribuiranno a impedire la realizzazione di un folle progetto nazista: la cessione di parte del territorio italiano a bande di rinnegati cosacchi, uzbechi, circassi e russi bianchi zaristi, che in cambio dell’eliminazione dei partigiani locali avrebbero ottenuto la creazione del “Kosakenland in Nord Italien” - un progetto accettato senza reclami di sorta dai vertici repubblichini.
Durante l’Insurrezione generale dell’aprile 1945 i ragazzi del Fronte della Gioventù contribuiranno a diffondere il proclama "Arrendersi o perire!" lanciato dal CLNAI e dal CVL alle forze nemiche; saranno attivi in città quali Milano, Genova e Torino dove, dopo aspri combattimenti a fianco degli operai e delle altre formazioni partigiane, impediranno ai guastatori del generale Kesselring (e/o ai guastatori fascisti della X^ Mas) di distruggere ponti e impianti industriali; sempre nelle città contribuiranno a eliminare i cecchini lasciati indietro dalle sempre più sfilacciate forze nazifasciste in ritirata. Poche settimane dopo la Liberazione verrà diffuso un opuscolo del Fronte firmato dai rappresentanti dei Giovani liberali, dei Giovani democratico cristiani, della Federazione giovanile repubblicana, dei Giovani lavoratori cristiani, della Gioventù d’azione, della Federazione giovanile socialista e dei Giovani comunisti: in esso i giovani partigiani del nord salutano i giovani dell’Italia centro-meridionale, sintetizzano le ultime azioni condotte dal FdG, chiedono la creazione di un sotto-segretariato alla gioventù, e rivendica per la prima volta il diritto di voto a partire dai 18 anni <86.
Per l'aprile 1945 il comando generale del Corpo Volontari della Libertà calcolava una forza attiva di 130.000 partigiani, che raggiungevano nei giorni dell'Insurrezione generale un numero di circa 250.000/300.000 unità <87 (mentre secondo Bocca le forze partigiane effettivamente attive e combattenti ammontavano a circa 100.000 tra uomini e donne <88). A fianco o all’interno di queste formazioni maggiori combatterono anche i ragazzi del Fronte della Gioventù, che la conferenza dei “Triumvirati insurrezionali” del PCI stimava già nel novembre 1944 in almeno 15.000 unità <89, numero certamente da rivedere al rialzo nei giorni dell’Insurrezione.
[NOTE]
73 de Lazzari, Storia del Fronte della gioventù nella Resistenza, p. 27.
74 Vedi Appendice (1.).
75 Vedi Appendice (2.).
76 Vedi Appendice (3.).
77 Per ulteriori dettagli si rimanda a: http://www.treccani.it/enciclopedia/eugenio-curiel_(Dizionario-Biografico)/[Ultima consultazione: 11 dicembre 2014]
78 Vedi Appendice (4.).
79 E padre Turoldo nascose le armi dei partigiani, “Corriere della Sera”, 7 marzo 2002, p. 37.
80 Contatti estesi in ogni direzione: da quadro dirigente comunista, anche verso gli ambienti democristiani e cattolici. Padre Camillo De Piaz, all’indomani dell’uccisione di Curiel per mano fascista (il 24 febbraio 1945), celebrerà insieme al primo nucleo del FdG un messa di suffragio funebre presso il convento Servita dove era stata tenuta la fondamentale riunione del gennaio ‘44.
81 Si veda ad esempio l’articolo «Il FdG e i compiti dell’ora» in Bollettino del Fronte della gioventù, anno I, n. 1, 5 gennaio 1944 cfr. de Lazzari , Storia del Fronte della gioventù nella Resistenza, pp. 48-49.
82 Si veda ad esempio la lettera spedita al collaboratore del gruppo piemontese Paolo Cinanni (“Andrea”), nella quale Curiel sostiene che «[…] dobbiamo batterci senza rompere con gli altri, per soluzioni più democratiche, per riunioni, per conferenze di nostri aderenti, cercando con attenzione il punto nel quale passare la frontiera dalle forme paritetiche alle forme democratiche» cfr. de Lazzari, Storia del Fronte della gioventù nella Resistenza, p. 51.
83 O nascevano autonomamente associazioni antifasciste che prendevano contatti col FdG in un secondo momento.
84 A questo scopo verranno diffusi centinaia di volantini, come ad esempio quello realizzato dal gruppo di Bologna, il cui originale è oggi conservato presso l’Istituto Gramsci: «Giovani bolognesi! I gerarchi fascisti […] vogliono che vi presentiate alle armi. L’accozzaglia fascista, non contenta di aver trascinato l’Italia in una guerra ignominiosa […] vuol concludere la sua opera […] mettendo i figli del popolo gli uni contro gli altri […]. Il governo italiano ha dichiarato guerra alla Germania. I vostri fratelli dell’Italia meridionale combattono in prima linea contro i nazisti […]. Mettetevi a fianco dei partigiani, dei lavoratori e lottate […] contro gl’invasori tedeschi […] non presentatevi alle chiamate. Datevi alla macchia, andate coi partigiani […] Chi aiuta i tedeschi tradisce l’Italia. Non presentatevi.» Cfr. de Lazzari, Storia del Fronte della gioventù nella Resistenza, p. 69.
85 Si vedano ad esempio le testimonianza di Dario Bazzara, Frugolino Rizzi, Aldo Feruglio, Giuseppe De Paulis, Alceo Basandella, Vinicio Burba, Manlio Cucchini e Guido Pegoraro. cfr. de Lazzari, Storia del Fronte della gioventù nella
Resistenza: 1943-1945, pp. 68-69 e 237-240.
86 Copia dell’opuscolo è conservata presso la Biblioteca della Resistenza dell’Istituto Gramsci. Cfr. de Lazzari, Storia del Fronte della gioventù nella Resistenza, p. 125.
87 Giorgio Rochat (a cura di), Atti del Comando generale del Corpo volontari della libertà (Giugno 1944-aprile 1945), prefazione di Ferruccio Parri, Franco Angeli, Milano, 1972.
88 Giorgio Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre 1943-maggio 1945, Bari, Laterza, 1966, pp. 493-494.
89 «Nella lotta, l’organizzazione del Fronte della gioventù si è estesa e consolidata. […]. Secondo le cifre incomplete che abbiamo finora raccolto, escludendo quelli che militano nelle formazioni partigiane di montagna, sono almeno 15 mila gli attivisti del Fronte della gioventù nell’Italia occupata» in: La nostra lotta, anno II, n. 19-20, 25 novembre 1944. Cfr. de Lazzari, Storia del Fronte della gioventù nella Resistenza, p. 63.

Giacomo Graziuso, Gioventù e Università italiana tra fascismo e Resistenza: l’attribuzione delle lauree Honoris Causa nell’Archivio del Novecento dell’Università di Padova (1926-1956), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova,  Anno Accademico 2013-2014

venerdì 8 aprile 2022

Traversate clandestine delle Alpi Marittime da parte di esuli antifascisti

Il Monte Clapier - Fonte: Wikimedia

[...] Quella che vorrei ricordare con queste righe però è anche una straordinaria operazione avviata alla fine del 1942 per inviare, al contrario, una serie di dirigenti comunisti in forma clandestina dalla Francia all’Italia per combattere il fascismo. Molti quadri del partito comunista esuli in Francia si erano trasferiti dal 1939 nel sud, nella zona che dal giugno 1940 diverrà regime collaborazionista di Vichy, poi nel novembre 1942 zona occupata dai tedeschi. Qui operavano con la Resistenza, ma per molti di loro la direttiva era di rientrare in Italia per preparare la futura lotta al regime. Il percorso, attraverso le Alpi Marittime, era stato inizialmente tentato senza successo dal veneto Mario Ferro “Romagnosi”, caduto subito nelle mani della polizia fascista. In seguito aveva provato due volte ad aprire la via un friulano, Amerigo Clocchiatti, nato a Tavagnacco (Colugna), ma anch’egli senza successo. Clocchiatti riesce a rientrare in Francia ma le vie che aveva sperimentato si dimostrano impraticabili. L’operazione è infine realizzata da un altro friulano dalla storia straordinaria, Domenico Tomat, di Venzone, assieme a Giulio Albini, originario della Val d’Ossola, boscaiolo e contrabbandiere, e ad un terzo personaggio, probabilmente un bellunese, che non è mai stato sinora identificato. I passaggi iniziano nel dicembre del 1942 e proseguono nell’inverno - primavera del 1943, su percorsi difficilissimi e coperti di neve e ghiaccio.
Tomat era reduce dalla guerra di Spagna, nel corso della quale era stato un abile e valoroso comandante del 1° battaglione della brigata Garibaldi (XII^ Internazionale) e temporaneamente della stessa brigata prima di restare ferito nel marzo 1938. Rientrato in Francia, avendo ottenuto la cittadinanza francese, evita i campi di concentramento ma viene arruolato nell’esercito francese e svolge il suo servizio proprio nella zona delle Alpi Marittime, sul confine con l’Italia, visitando ogni angolo di quelle montagne. In seguito aveva iniziato ad operare con la Resistenza francese a Marsiglia. Ma poi il partito lo aveva incaricato di riuscire ad aprire quella via clandestina con l’Italia che Clocchiatti aveva mancato. Per prima cosa Tomat organizza l’evasione dal campo di Gurs di Giulio Albini, che aveva conosciuto in Spagna, poi assieme iniziano ad esplorare la zona.
Su questa vicenda non si è scritto niente per diverso tempo, poi all’inizio degli anni Settanta è emerso senza grande rilievo dalle poche testimonianze di alcuni di coloro che erano passati in Italia attraverso quella via. E chi era passato era il vero gruppo dirigente del Partito Comunista italiano, da Antonio Roasio e Celeste Negarville a Giorgio Amendola, Agostino Novella, Felice Platone, Giuliano Pajetta, Anton Ukmar e molti altri. Compreso lo stesso Clocchiatti, che una volta in Italia andrà a fare il commissario della Divisione Nannetti tra Veneto e Friuli. (Vedi A. Clocchiatti, Cammina frut, Milano, Vangelista, 1972, pp. 162 - 164. G. Amendola, Lettere a Milano, Roma, Editori Riuniti, 1973. A. Roasio, Figlio della classe operaia, Milano, Vangelista, 1977, pp. 188 - 192). A queste vicende ha dedicato un opuscolo nel 2004 il competentissimo compagno Giampaolo Giordana (La via del Clapier. Breve storia di un itinerario clandestino, Castellamonte, Edizioni Valados Lusitanos, 2004).
Il percorso aperto da Tomat ed Albini iniziava in territorio francese a Saint Martin Vésubie. Da qui chi doveva raggiungere l’Italia, in genere due persone, con documenti falsi forniti da un “tecnico” (probabilmente Domenico Manera, che aveva avuto dal partito quell’incarico) assieme a Tomat ed Albini e talvolta a guide francesi raggiungeva una casa contadina a Roquebillière, dove venivano approntati attrezzatura e rifornimenti. Poi la marcia proseguiva lungo le pendici del monte Clapier, massiccio di 3.000 metri di altitudine posto lungo la linea di confine, e proseguiva in territorio italiano con la discesa verso Palanfré terminando a Vernante, in provincia di Cuneo dove le persone “traghettate” venivano ospitate, a pagamento, in casa di una persona fidata, una “donna anziana, gentile, pratica di contrabbandieri” (Clocchiatti, p. 167) ed indirizzate alle loro destinazioni in Italia. La marcia poteva durare anche una settimana, se il tempo cambiava in peggio, su sentieri scoscesi e ghiacciati. Qui abili alpinisti come Tomat ed Albini conducevano politici che non avevano assolutamente esperienza di montagna, talvolta fisicamente deboli per il carcere, le privazioni, la guerra che avevano vissuto, oppure appesantiti e poco avvezzi alla fatica fisica, incoraggiandoli ma anche spingendoli in ogni modo ad andare avanti in caso di stanchezza o di crisi, salvandoli se si mettevano in difficoltà. Lungo il percorso vi erano alcuni rifugi di pastori abbandonati, casermette vuote, ed una casa, a Tetto Coletta, abitata da un’altra anziana e fidata montanara, della famiglia Rizzo, dove riposarsi e rifocillarsi; scatolame e gallette venivano nascoste in luoghi noti solo alle guide. La famiglia di Tetto Coletta non ha mai chiesto compenso per l’attività svolta. Il tutto sotto il naso della milizia confinaria fascista che non è mai riuscita a rendersi conto di quanto avveniva.
Quasi una “leggenda metropolitana” il racconto di quanti scivolavano pericolosamente sul ghiaccio verso un precipizio e venivano bloccati dalla picozza piantata da Tomat o Albini senza grossi scrupoli tra le gambe dei malcapitati cozzando dolorosamente sui genitali. Durissime erano state le osservazioni di Tomat contro il futuro deputato della Costituente e sindaco di Torino (Negarville), evidentemente affaticato e indebolito, che aveva bevuto in poco tempo la riserva di liquore destinata a tutto il gruppo. Lo stesso Negarville, dopo sei giorni di marcia, sfinito, aveva ordinato a Tomat di fermarsi, ma lui aveva risposto “Caro Negarville, tu sei responsabile del lavoro politico ma io sono responsabile di farti arrivare in Italia. Quindi sono io in questo caso che decido” (Roasio, p. 192). Le gerarchie di partito in quei momenti non avevano valore. Una volta in Italia, una parte dei “traghettati” attraverso il Clapier formerà il Centro Interno del PCI e darà un grande contributo alla Resistenza.
Tutti i viaggi condotti da Tomat ed Albini sono stati portati a termine senza incidenti, senza che la milizia fascista si accorgesse di niente, senza che alcuno dei “passeggeri” rimanesse infortunato o peggio. Alla fine del 1943 i due verranno spostati su ordine del partito in Svizzera, dalla Svizzera Tomat rientrerà in Italia andando a fare il partigiano in Valtellina. Clocchiatti ricorda un poco tristemente nella sua autobiografia che Tomat avrebbe potuto raccontare una serie di storie straordinarie in merito a queste vicende; storie che purtroppo oggi sono perse per sempre.
Marco Puppini, Espatri e rimpatri clandestini di antifascisti friulani negli anni del regime, Friuli Occidentale. La storia, le storie, 3 aprile 2020  

Tra i quattro friulani attivi nella Resistenza francese del sud-est appena citati, un rilievo particolare dev’essere dato ad Amerigo Clocchiatti, noto anche con i suoi numerosi pseudonimi di battaglia come «Grillo» o «Ugo», nato a Colugna in provincia di Udine. Lasciò l’Italia per la Francia nel 1930 per sfuggire ad una condanna del Tribunale speciale fascista. Dopo aver alternato negli anni Trenta soggiorni francesi a ritorni clandestini in Italia, inframmezzati da corsi seguiti alla scuola leninista di Mosca, lo troviamo nel 1941 e 1942 a Marsiglia, inviato dal Partito comunista italiano in supporto di Teresa Noce, «Estella», moglie di Luigi Longo, nella direzione delle attività degli FTP-MOI <14 per tutto il sud-est. A partire dalla metà del ’42 la sua principale preoccupazione sarà quella di trovare il modo di passare la frontiera tra Francia e Italia allo scopo di riprendere la propaganda comunista in Italia. Ci riuscirà dopo molti tentativi falliti solo alla fine del ’42, primo di tanti altri dirigenti comunisti presenti in Francia all’epoca: lo farà percorrendo una pista alpina estremamente pericolosa, situata a tremila metri d’altitudine, epico percorso da lui stesso narrato nella più fortunata delle sue autobiografie <15.
Una volta in Italia, dopo l’8 settembre divenne uno dei più prestigiosi comandanti partigiani, prima nel Veneto poi in Emilia. Alla fine del ’42 Clocchiatti riuscì, dopo molti tentativi infruttuosi, ad oltrepassare la frontiera con l’Italia, diventata sempre più invalicabile dopo l’occupazione italiana del sud-est, grazie all’aiuto e complicità dell’altro dei quattro friulani evocati sopra: Domenico Tomat. Questi fu una figura dal percorso al tempo stesso epico-leggendario e atipico. Quanto al primo aspetto, basti ricordare il suo arrivo precoce in Francia, negli anni Venti; i due anni di combattente volontario nella guerra civile spagnola durante la quale occupò posti di grande responsabilità e autorevolezza <16; l’attività di sostegno e assistenza agli ex-compagni combattenti di Spagna quando si trovavano nei campi d’internamento del sud della Francia, che Tomat aveva evitato perché ferito e rientrato in Francia prima della fine della guerra; le sue imprese al servizio della Resistenza francese tra il ’41 e il ’43 nella regione di Marsiglia, in riconoscimento delle quali ricevette in seguito una decorazione ufficiale della Repubblica francese; il ruolo decisivo di «traghettatore», nel senso letterale del termine ma a tremila metri di altitudine, di quasi tutto lo stato maggiore del Partito comunista italiano in esilio alla vigilia del 25 luglio 1943; le sue gesta, infine, di comandante partigiano in Italia negli ultimi mesi della guerra, al comando della brigata d’assalto «Valtellina».
Riguardo all’aspetto atipico, sul quale vorrei avere maggiori elementi d’informazione di quanti ne abbia, questo appare inusuale per la sua precocissima, e più unica che rara, acquisizione della cittadinanza francese fin dal 1927, due anni soltanto dopo l’inizio del suo esilio; oltra a tutto il suo percorso militante successivo che sembra fare a pugni con questa naturalizzazione francese, perché esclusivamente italiano, e che pare piuttosto predisporlo a una brillante carriera politica nel Partito comunista italiano, fino al giorno in cui, pochi mesi dopo la Liberazione, Tomat decise di tornare in Francia per non più allontanarsene fino alla sua morte, nel 1985.
Quanto agli altri due dirigenti degli FTP-MOI originari o del Friuli, come Antonio Zorzetto, o di Trieste, come Antonio Ukmar, essi presentano un profilo relativamente simile a quello di Amerigo Clocchiatti. Anche per essi, come per Clocchiatti, un soggiorno più o meno lungo a Mosca figura nel loro percorso, ma avevano anche fatto, al pari di Tomat, la guerra di Spagna. Antonio Ukmar <17 nel 1940 passò inoltre qualche mese in Etiopia a sostegno dei guerrilleros etiopi che si battevano contro l’occupazione italiana <18. Dopo il 1943 i loro percorsi, tuttavia, prendono strade diverse: mentre Zorzetto torna in Italia solo dopo il 1945, inserendosi nelle istanze locali friulane del Partito comunista italiano, Ukmar rientra in Italia, svolge un’importante attività di comandante partigiano in Liguria, per tornare poi nella sua regione d’origine, iscriversi al Partito comunista jugoslavo e finire i suoi giorni a Capodistria, in territorio attualmente sloveno <19.
14 Gli F.T.P., ovvero Francs Tireurs Partisans, erano un’organizzazione clandestina creata dal Partito comunista francese nel gennaio del 1942. Era un’organizzazione specializzata soprattutto in atti di sabotaggio e in attentati individuali o a ufficiali delle truppe di occupazione o a collaboratori e spie notorie. Gli immigrati erano di varie nazionalità, tra le quali, insieme agli ebrei di Europa orientale, soprattutto polacchi. Gli italiani erano fra i più numerosi, raggruppati in sezioni speciali che prendevano il nome di M.O.I., secondo un acronimo che era già esistito negli anni Venti e Trenta prendendo il posto dell’iniziale M.O.E. Quest’ultimo acronimo stava per Main-d’oeuvre étrangère e M.O.I. per Main-d’oeuvre immigrée e non, come si trova scritto in molte autobiografie militanti italiane e nel libro di Pia Carena Leonetti sopra citato Movimento operaio internazionale. I G.A.P. italiani successivi all’8 settembre 1943 erano a loro volta ispirati, per la loro organizzazione e per le loro modalità d’azione, a questo precedente francese. Non solo, ma alcuni eroi dei G.A.P. italiani, valga per tutti il nome di Giovanni Pesce «Visone», avevano alle spalle un’esperienza francese. Vedasi ora, su quest’ultimo punto, l’autorevole conferma del bel libro di S. Peli, Storie di Gap, Einaudi, Torino 2014, di cui ho potuto prendere visione solo quando il presente saggio era già stato ultimato.
15 A. Clocchiatti, Cammina frut, Vangelista, Milano 1972.
16 Cfr. M. Puppini, In Spagna per la libertà, cit., pp. 228-29; cfr. anche G. Calandrone, La Spagna brucia: cronache garibaldine, Editori Riuniti, Roma 1974 (2a ed.), pp. 280-81
17 Come Ilio Barontini, un altro dirigente degli FTP-MOI, che aveva avuto un ruolo di primo piano nella resistenza marsigliese, («L’esperienza di lotta armata vissuta a Marsiglia fu molto importante per gli sviluppi futuri della guerra partigiana in Italia [...] quando si trattò di iniziare a Roma la lotta armata, io mi ricordai delle lezioni marsigliesi di Ilio e cercai di metterle a profitto [...] la bomba sul tram del Vieux Port fornì l’idea cui si ispirarono i gappisti che posero la bomba in via Rasella», avrebbe scritto anni dopo Giorgio Amendola nelle sue Lettere a Milano. Ricordi e documenti. 1939-1945, Editori Riuniti, Roma 1973, p.62), futuro sindaco comunista di Livorno nel dopoguerra.
18 Cfr. M. Puppini, In Spagna, cit., p. 236.
19 Ibid.

Antonio Bechelloni, Friulani e giuliani attivi nella Resistenza francese (1940-1944). Dal socialismo all’antifascismo, dall’antifascismo alla Resistenza: la coerenza di un percorso collettivo in (a cura di) Diego D’Amelio e Patrick Karlsen, «QUALESTORIA» - Rivista di storia contemporanea - 2. Collaborazionismi, guerre civili e resistenze, Anno XLIII, N.ro 2, Dicembre 2015, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia

venerdì 1 aprile 2022

Chinua Achebe accusa Conrad di razzismo


Come ogni altra convenzione definitoria, anche le demarcazioni tra generi letterari attigui, pur nella loro indubbia utilità ermeneutica, risultano nella maggior parte dei casi più facili da tracciare che da riconoscere. "Heart of Darkness" riserva, in tal senso, alcune interessanti occasioni di riflessione <1: la ferma avversione dimostrata da Conrad - straordinario narratore dell’angosciosa indicibilità della condizione umana - nei confronti di certe derive soprannaturaliste in letteratura <2 non fa che rendere, ad esempio, ancor più inaspettata e rilevante la presenza, nel racconto dell’oscura odissea del capitano Charles Marlow lungo un non ben specificato fiume dell’Africa nera, di tutta una serie di elementi che sembrerebbero rimandare al fantastico, qui e là condensati in alcuni passaggi particolarmente evocativi:
"Going up that river was like traveling back to the earliest beginnings of the world, when vegetation rioted on the earth and the big trees were kings. An empty stream, a great silence, an impenetrable forest. The air was warm, thick, heavy, sluggish. There was no joy in the brilliance of sunshine. The long stretches of the waterway ran on, deserted, into the gloom of overshadowed distances. On silvery sand-banks hippos and alligators sunned themselves side by side. The broadening waters flowed through a mob of wooded islands; you lost your way on that river as you would in a desert, and butted all day long against shoals, trying to find the channel, till you thought yourself bewitched and cut off for ever from everything you had known once - somewhere - far away - in another existence perhaps. There were moments when one’s past came back to one, as it will sometimes when you have not a moment to spare for yourself; but it came in the shape of an unrestful and noisy dream, remembered with wonder amongst the overwhelming realities of this strange world of plants, and water, and silence. And this stillness of life did not in the least resemble a peace. It was the stillness of an implacable force brooding over an inscrutable intention. It looked at you with a vengeful aspect. I got used to it afterwards; I did not see it any more; I had no time. I had to keep guessing at the channel; I had to discern, mostly by inspiration, the signs of hidden banks; I watched for sunken stones; I was learning to clap my teeth smartly before my heart flew out, when I shaved by a fluke some infernal sly old snag that would have ripped the life out of the tin-pot steamboat and drowned all the pilgrims; I had to keep a lookout for the signs of dead wood we could cut up in the night for next day’s steaming. When you have to attend to things of that sort, to the mere incidents of the surface, the reality - the reality, I tell you - fades" <3.
Sono diversi, d’altronde, i punti del romanzo in cui Conrad indugia su descrizioni che sembrano voler compendiare, come in questo breve passo, i principali stilemi della produzione fantastica del XIX secolo: il battello a vapore su cui Marlow e i suoi uomini risalgono, «like phantoms» <4, presumibilmente il fiume Congo per raggiungere l’avamposto dell’enigmatico signor Kurtz - figura, a metà strada tra il tagliagole e il filosofo, che controlla l’importante traffico di avorio della zona - si addentra poco a poco in una dimensione imperscrutabile tagliata fuori dal tempo e dallo spazio, dove l’allucinata reiterazione di gesti e paesaggi scandisce, in un labirintico viaggio a ritroso nelle ere che ha tutti i caratteri del sogno, il progressivo sfaldarsi del paradigma di realtà dell’uomo europeo. Sospesa, come per sortilegio, la messinscena che va sotto il nome di civiltà, a quest’ultimo non resta che scrutare nel cuore oscuro e pulsante delle cose, perso in un mondo primordiale dove il fiume (ben lontano dalla descrizione delle acque addomesticate del Tamigi che dà inizio al racconto) si rivela essere un pericoloso dedalo di banchi di sabbia e isolotti su cui ippopotami e coccodrilli si crogiolano al sole come oziosi mostri preistorici, il fuoco attorno al quale gli indigeni (per lo più cacciatori di teste e cannibali dai denti aguzzi) officiano i loro sacrileghi rituali rimanda ombre demoniache e la vita stessa si presenta, in un’asfittica immobilità, come quell’«implacable force brooding over an inscrutable intention» <5 contro cui un agonizzante Kurtz scaglia il suo estremo grido di avvertimento. Più che esprimere, allora, un tardivo pentimento per le atrocità commesse sotto l’insegna di una pretesa civilizzazione, le ultime parole pronunciate da ciò che resta del feroce colonizzatore europeo - «The horror! The horror!» - rappresentano l’inoppugnabile giudizio di chi, superato l’inconsistente velo delle costruzioni culturali e dell’autoinganno con sguardo «wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness» <6, si è calato, oltre il punto di non ritorno, negli abissi di una realtà di crudele insensatezza, riemergendone solo per mettere in guardia dall’orrore, esistenziale e cosmico, che ribolle sotto il tappeto del pensiero razionalista e del suo ingenuo antropocentrismo.
Nella terribile perentorietà di una sola parola, insomma, pare avverarsi, con quasi trent’anni di anticipo, la profezia che apre forse il più suggestivo dei racconti di Lovecraft, "The Call of Cthulhu", per cui «some day the piecing together of dissociated knowledge will open up such terrifying vistas of reality, and of our frightful position therein» <7 che non resterà altro scampo se non quello di cedere, come Kurtz, alla pazzia o di trovare riparo in una nuova epoca di oscurantismo.
A comprovare la vicinanza dell’opera conradiana con il genere fantastico basterebbe, del resto, il ricorrere, in ognuno dei tre capitoli che compongono il romanzo, dell’indicativa formula “fantastic invasion”, utilizzata - con modalità molto simili e una sostanziale coincidenza di significato <8 - per indicare tanto l’irragionevolezza dell’intrusione dell’uomo europeo in una dimensione che non lo contempla, talmente estranea e indecifrabile da sembrare irreale, quanto la personale esperienza che Marlow e Kurtz fanno di quel mondo, il loro esserne segnati, seppur in maniera diversa, irrimediabilmente. Nel suo invariato riproporsi, d’altra parte, una simile associazione di vocaboli non può essere in nessun modo considerata, nella cornice teorica che si è proposto di adottare, casuale o irrilevante: per meglio rappresentare il giustapporsi di due realtà tra loro incomparabilmente distanti e antitetiche - da una parte la fulgida Inghilterra e Londra, «the biggest, and the greatest town on earth» <9, dall’altra l’ostile mistero della giungla africana, «a place of darkness» <10 fuori dal tempo - Conrad si rivolge con tutta evidenza ai motivi e alle soluzioni formali della tradizione letteraria che più di tutte, come si è cercato di dimostrare alla fine del precedente capitolo, ha fatto della narrativizzazione dell’improvviso collidere di piani di esistenza inconciliabili la sua logica costitutiva, quel fantastico costantemente evocato nella costruzione dell’alterità, per essere poi lasciato, insieme alle sue suggestioni e alle atmosfere soprannaturali, alla soglia del testo, come una cattiva frequentazione.
[NOTE]
1 Nel suo saggio del 2010, "The Conspiracy against the Human Race", Thomas Ligotti dedica alcune interessanti pagine allo stretto rapporto che lega il capolavoro di Conrad alla letteratura di genere fantastico, così come alla sua capacità di evocare il soprannaturale senza mai fare direttamente riferimento ad esso nella narrazione, pagine dalle quali questa riflessione muove i passi. Cfr. Thomas Ligotti, «Autopsy on a Puppet: an Anatomy of the Supernatural», in Id., "The Conspiracy against the Human Race. A contrivance of Horror", Penguin Books, New York 2018, pp. 173-222.
2 Nell’affermare che «the belief in a supernatural source of evil is not necessary; men alone are quite capable of every wickedness», il narratore di Under Western Eyes riassume nel modo più efficace il principio che si direbbe sottendere il realismo esotico e metafisico dello scrittore polacco. Joseph Conrad, Under Western Eyes, Harper & Brothers, New York 1911, p. 149.
3 Joseph Conrad, "Heart of Darkness", Penguin, London 2012, p. 38 («Risalire quel fiume fu come viaggiare a ritroso verso i più lontani inizi del mondo, quando la vegetazione impazzava sulla terra e i grandi alberi regnavano sovrani. Una corrente deserta, un grande silenzio, una foresta impenetrabile. L’aria era calda, densa, pesante, stagnante. Nessuna gioia nella magnificenza del sole. I lunghi tratti navigabili si perdevano innanzi, deserti, nell’oscurità di lontananze avvolte dall’ombra. Sugli argentei banchi di sabbia ippopotami e alligatori si crogiolavano al sole fianco a fianco. Le acque, allargandosi, correvano per un labirinto di isole boscose; smarrivi la strada su quel fiume, come in un deserto, e, cercando di trovare il canale, tutto il giorno si andava nelle secche, fino a credere di essere preda d’un sortilegio e tagliati fuori per sempre da tutto ciò che un tempo si era conosciuto, chissà dove, molto lontano, forse in un’altra esistenza. In certi momenti, il passato tornava alla memoria, come capita talvolta, quando non hai un attimo di respiro; ma tornava in forma di un sogno inquieto e tumultuoso, ricordato con stupore fra le soverchianti realtà di quello strano mondo di piante, e acqua, e silenzio. E quella immobilità di vita non somigliava minimamente alla pace. Era l’immobilità d’una forza implacabile che covava imperscrutabili propositi. Ti guardava con un’aria di vendetta. Poi mi ci abituai; non la vedevo più; non ne avevo il tempo. Dovevo stare attento a seguire il canale; dovevo distinguere, per lo più per intuizione, gli indizi dei banchi nascosti; stare all’erta contro le rocce sommerse; imparavo a stringere i denti alla svelta perché il cuore non mi scappasse, quando schivavo per un pelo qualche infernale vecchio tronco sornione che avrebbe strappato l’anima a quel barattolo d’un vaporetto e annegato tutti i pellegrini; dovevo essere pronto a individuare la presenza di legna secca da tagliare di notte per la navigazione dell’indomani. Quando si deve badare a cose di questo genere, ai normali incidenti della superficie, la realtà, la realtà, vi dico, svanisce». Trad. it. di Giorgio Spina, "Cuore di tenebra", Rizzoli, Milano 2016, pp. 95-96).
4 Ivi, p. 40.
5 Ivi, p. 38 («una forza implacabile che covava imperscrutabili propositi». Cuore di tenebra, cit., p. 96).
6 Ivi, p. 87 («abbastanza ampio da abbracciare l’intero universo, abbastanza penetrante da violare tutti i cuori che pulsano nella tenebra». Cuore di tenebra, cit., p. 161).
7 Howard P. Lovecraft, «The Call of Cthulhu», in Id., The Complete Fiction, Quarto Publishing, New York 2014, p. 381 («la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa». Trad. it. di Giuseppe Lippi, «Il richiamo di Cthulhu», in Howard P. Lovecraft, "I capolavori", Mondadori, Milano 2008, pp. 79-80).
8 Significative sono, in tal senso, le parole che precedono la prima occorrenza della formula nel romanzo, a comprova dell’assoluta consapevolezza con cui l’aggettivo “fantastic” è utilizzato: «I’ve never seen anything so unreal in my life. And outside, the silent wilderness surrounding this cleared speck on the earth struck me as something great and invincible, like evil or truth, waiting patiently for the passing away of this fantastic invasion». Joseph Conrad, "Heart of Darkness", cit., p. 26 («Non ho visto mai niente di più irreale in vita mia. E fuori, la silente distesa desolata che circondava questo bruscolo disboscato sulla terra mi colpiva come qualcosa di grande e invincibile, come il male o la verità, pazientemente in attesa che scomparisse questa fantastica invasione». Cuore di tenebra, cit., p. 76). Sempre ad un’inconciliabilità irrisolvibile tra l’immoto mistero africano e la prospettiva “razionale” del conquistatore fa riferimento il riproporsi del binomio nel secondo capitolo, in quello che si presenta, a tutti gli effetti, come un calco piuttosto fedele del passo precedente: «The high stillness confronted these two figures with its ominous patience, waiting for the passing away of a fantastic invasion.» Ivi, p. 37 («La quiete sovrana fronteggiava queste due figure con la sua minacciosa pazienza, attendendo il dileguarsi di una fantastica invasione». Cuore di tenebra, cit., p. 94). L’accostamento dei due termini si ripete, infine, nel terzo capitolo, a indicare le ragioni della «terrible vengeance» messa in atto dalla selvaggia inintelligibilità della foresta contro i suoi profanatori. Ivi, p. 67.
9 Ivi, p. 3 («la più vasta e più grande città della terra». Cuore di tenebra, cit., p. 41).
10 Ivi, p. 8.
Davide Carnevale, Narrare l’invasione: traiettorie e rinnovamento del fantastico novecentesco, Tesi di dottorato, Sapienza Università di Roma, Anno accademico 2020/2021

A differenza del narratore di "Historia secreta de Costaguana", e di scrittori postcoloniali come Chinua Achebe, <10 Juan Gabriel Vásquez nutre nei confronti di Joseph Conrad una grande ammirazione:
“Más vale que lo diga de una vez por todas: Nostromo es, con distancia, la mejor novela sobre Latinoamérica jamás escrita fuera de la lengua española. Es más: Nostromo, se me ocurre a veces, es uno de los antecedentes más claros (y menos señalados) del boom latinoamericano.” <11
Entrambi gli autori hanno scritto le loro opere lontani dalla propria terra d’origine: Conrad in Inghilterra e Vásquez (principalmente) a Barcellona.
[NOTE]
10 Nel famoso articolo "An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness", Chinua Achebe accusa Conrad di razzismo, e di descrivere l’Africa come “a place where man’s vaunted intelligence and refinement are finally mocked by triumphant bestiality.” (ACHEBE, C., An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness, in Conrad, J., Heart of Darkness, New York/London, W. W. Norton & Company, 1988, p. 252).
11 VÁSQUEZ, J. G., El arte de la distorsión, cit., p. 147.
Alessio Pisci, Costaguana Writes Back/Along: di come Juan Gabriel Vásquez ha sfidato Joseph Conrad per scrivere un'iTentica storia della Colombia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Cagliari, 2017

[...] la questione odonomastica e monumentale di Leopoldo II del Belgio, “the King with Ten Million Murders on his Soul” (Twain, 1905, p. 23). Al re si attribuì la responsabilità piena di crimini - che ora verrebbero definiti contro l’umanità - pubblicamente denunciati dai suoi contemporanei (Williams, 1890; Conrad, 1899; Casement, 1904; Twain, 1905; Conan Doyle, 1909), per i quali venne richiesto un processo internazionale e l’impiccagione del monarca (Stead, 1905). In particolare, nella prefazione del suo volume, scrive Conan Doyle (1909, p. III): “There are many of us in England who consider the crime which has been wrought in the Congo lands by King Leopold of Belgium and his followers to be the greatest which has ever been known in human annals. … There have been great expropriations like that of the Normans in England or of the English in Ireland. There have been massacres of populations like that of the South Americans by the Spaniards or of subject nations by the Turks. But never before has there been such a mixture of wholesale expropriation and wholesale massacre all done under an odious guise of philanthropy and with the lowest commercial motives as a reason. It is this sordid cause and the unctious hypocrisy which makes this crime unparalleled in its horror. The witnesses of the crime are of all nations, and there is no possibility of error concerning facts”. Il colonialismo belga in Congo continuò a essere fonte di ispirazione per scrittori indignati: dopo Joseph Conrad (1899) fu la volta di André Gide (1934). A prescindere dalle valutazioni storiografiche oramai incontrovertibili, “nessun tribunale, belga o internazionale, ha mai dovuto giudicare questo fatto storico. Nessun pentimento fu pronunciato” (Michel, 2015b; Wiltz, 2015); quindi, larga parte dell’opinione pubblica e del mondo politico in Belgio è tuttora convinta che Leopoldo II pur commettendo “errori” abbia anche permesso l’adesione del Congo alla modernità (Kibangula, 2013) e non desta meraviglia la circostanza che nel paese, di cui fu re dal 1865 al 1909, strade e monumenti dedicati a Leopoldo II siano ancora innumerevoli [...]
Pompeo Volpe, Auasc, Etiopia, 18 maggio 1937. Quattro volti senza nome e la memoria coloniale nell’Italia repubblicana, Padova University Press, 2021

 

mercoledì 23 marzo 2022

La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti


Alla metà del 1943 i militanti del PCd’I erano dunque in procinto di intraprendere il passaggio in Italia a lungo atteso. Il ritorno di molti dei comunisti italiani desiderosi di combattere il fascismo avvenne tramite un percorso sulle Alpi trovato da Amerigo Clocchiatti e Domenico Tomat, i primi ad averlo utilizzato nel ’42 per rientrare e prendere contatto con Massola. Le principali informazioni in proposito provengono dall’autobiografia di Clocchiatti, friulano cresciuto a poca distanza dal fronte della prima guerra mondiale, espatriato prima in Francia e poi in Belgio senza che il Cpc riuscisse a registrare i suoi spostamenti in maniera esaustiva. Tracciare un percorso sulle montagne evitando i controlli alla frontiera non fu un’impresa facile, e costò ai due incaricati, e alla guida Giulio Albini, faticose scalate tra rocce gelate. Si partiva da Saint-Martin-Vésubie e si saliva su per il monte Clapier, già oltre la frontiera, ma non si trovava un sentiero per scendere; alla fine Albini mise a punto il tragitto ripiegando attorno al monte e giungendo a Tetto Coletta, dove la casa di una contadina serviva da base di approdo per scendere a Vernante, da cui si prendeva il treno per Torino. Grazie a questo tragitto rientrarono Negarville e Roasio nel gennaio ’43 e Novella e Amendola in aprile, in questo modo “tutto il Centro estero [era stato] trasferito in Italia, per costituire nel paese un Centro interno di direzione politica e organizzativa”. Così, nell’ottica dei comunisti italiani, le peregrinazioni, la Spagna, gli arresti e la Resistenza francese furono importanti esperienze di vita e di lotta, trascorse però in attesa del ritorno e della guerra contro il fascismo, anelata e preparata per vent’anni tra le asprezze della vita quotidiana in terra straniera.
[...] I fuoriusciti rientrati costituirono la prima componente per la strutturazione della Resistenza italiana, nell’estate’ 43 in attesa di ricongiungersi con la seconda, gli esponenti del PCI incarcerati o confinati in Italia.
La terza componente furono invece le giovani generazioni che entrarono nel partito negli ultimi anni del fascismo o nelle prime fasi della Resistenza <1. I giovani avvicinatisi alle idee o ai gruppi comunisti che andavano creandosi in Italia già prima della caduta del fascismo provenivano da classi sociali differenti, ma avevano spesso alle spalle un clima antifascista. In particolare a Torino e Milano le fabbriche e i quartieri operai costituirono un fertile retroterra per la nuova generazione antifascista, dalla quale sarebbero emersi anche i principali gappisti. Non mancarono però fra i neocomunisti, e tra i terroristi urbani, giovani intellettuali o studenti. Ne sono un esempio il gruppo romano, in cui spiccano i nomi di Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice, Mario Licata e Pietro Ingrao, e i giovani antifascisti della Normale di Pisa, come Alessandro Natta e Mario Spinella; ma anche, Giovanni Giolitti, Matteo Sandretti, Ennio Carando e Ludovico Geymonat, che gravitavano a Torino attorno alla casa editrice Einaudi. Gli ultimi due insegnavano inoltre nello stesso liceo di Cesare Pavese, che conosceva Luigi Capriolo, membro del PCI, cui presentò il giovanissimo ufficiale Giaime Pintor. Alcuni di loro furono confinati negli ultimi anni trenta o all’inizio della guerra, e ricevettero a Ventotene l’educazione comunista. Le carceri e il confino furono infatti per i comunisti luoghi di studio e dibattito interno, in cui i nuovi antifascisti della fine degli anni ’30 vennero a contatto con i vecchi, personalità del calibro di Luigi Longo, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e Gerolamo Li Causi.
A livello internazionale, la metà del ’43 fu la fase che decretò il trionfo dell’unità e dei fronti nazionali. A Casablanca Churchill, Roosevelt e Stalin avevano stabilito l’obiettivo della resa incondizionata per i nemici sconfitti e avevano concordato per giugno lo sbarco in Sicilia. Stalin teneva inoltre all’apertura del fronte decisivo in Francia e, a differenza degli altri due, era disposto a riconoscere il CFLN di De Gaulle e Giraud. In questo clima di grande alleanza, si colloca lo scioglimento del Komintern, deciso dal presidium il 15 maggio e reso pubblico il 22. La mossa serviva a ottenere la fiducia degli anglo-americani ma anche a garantire l’autonomia dei partiti comunisti nella conduzione delle guerre di liberazione nazionale in corso. Resta invariato anche con lo scioglimento dell’Internazionale comunista il fatto che “l’egemonia dell’Urss sul movimento comunista internazionale […] è indiscussa”; “la convinzione che Stalin resti il capo dei lavoratori, il capo del comunismo internazionale, si esprime in tutti i modi e i dirigenti dei massimi partiti comunisti […] sono quadri formatisi sotto la sua direzione e influenza diretta” <2. Il PCI si apprestava dunque ad avviare la guerra partigiana sulle basi unitarie già accettate a Tolosa nel ’41, e ribadite nel marzo ‘43 a Lione da Saragat, Lussu, Dozza e Amendola, poco prima del rientro di quest’ultimo in Italia. La necessità di ribadire l’unità era data non solo dall’avvicinarsi della guerra in Italia, ma anche dal bisogno di rinsaldare tale intento, messo in dubbio dal ritorno di Emilio Lussu. Egli era appena rientrato dagli Stati Uniti, dove gravitava attorno alla Mazzini Society, animata da fuoriusciti antifascisti, che attribuivano un ruolo preponderante agli anglo-americani nel rovesciamento del fascismo e non vedevano di buon occhio l’alleanza coi comunisti. Rientrato in Francia, aderì però alla linea di Tolosa secondo cui la liberazione nazionale sarebbe dovuta partire dall’interno, grazie alla collaborazione con socialisti e comunisti, di cui Trentin fu il più strenuo sostenitore tra le file di GL.
Il 3 marzo 1943 a Lione nacque dunque lo schieramento che avrebbe costituito la sinistra della Resistenza italiana e che si sarebbe congiunto con la destra nel corso dei 45 giorni. Il verbale ufficiale della riunione infatti, dopo aver ribadito gli obiettivi di Tolosa, rivolgeva a tutti gli italiani, “anche se non condividono integralmente il loro programma di ricostruzione del paese, un appello all’unione e all’azione per la pace, l’indipendenza e la libertà, e dichiara[va] che il presente accordo è aperto a tutti i partiti e movimenti che ne accettano lo spirito” <3.
La creazione del Centro interno del PCd’I non fu priva di contrasti, soprattutto per la prudenza di Massola, ansioso di salvaguardare la cautela con cui aveva portato avanti il lavoro dal ’41. Nel settembre ’42 egli aveva ricevuto da Clocchiatti, appena rientrato, la prima lettera dal Centro Estero e si erano verificati dei contrasti a causa di iniziative propagandistiche di quest’ultimo, come il lancio di volantini, che Massola reputava premature. Ad ogni modo, nel giugno ’43 egli inviò un telegramma a Togliatti, tramite la Francia, aggiornandolo sui progressi degli ultimi mesi. Comunicava il proprio approdo in Italia nell’agosto ’41, l’arresto di Rigoletto Martini in Jugoslavia, la condanna a 24 anni di reclusione da parte del Tribunale Speciale e la sua successiva morte nel carcere di Civitavecchia nel giugno del ’42. Informava poi dell’avvio del lavoro di propaganda tramite la stampa clandestina, in particolare della comparsa dell’Unità, un numero al mese da giugno a novembre ’42 e due numeri al mese a partire dal dicembre ’42. L’approdo in Italia di Primo e Secondo, che dovrebbero essere Roasio e Novella, aveva inoltre permesso nel maggio la costituzione del Centro Interno, alla cui direzione partecipavano, oltre allo scrivente e ai due compagni citati, Roveda, Negarville, Amendola e Rina Piccolato <4. Nonostante per la formazione dei GAP bisogni ancora attendere l’autunno ’43, già nel maggio venne fatta consegnare ai dirigenti provinciali una circolare segretissima (da distruggere dopo la lettura), firmata dalla segreteria del PCI, che prescriveva:
“I patrioti italiani hanno il dovere di organizzarsi e rispondere. In questa lotta tutti i mezzi sono buoni, compresa la lotta armata. Alla violenza bisogna opporre la violenza, alle bande amate fasciste bisogna opporre i Gruppi d’azione dei patrioti, capaci di stroncare la violenza fascista colla lotta armata. […] L’esperienza internazionale della lotta armata contro l’oppressore tedesco e i traditori del proprio paese (la lotta dei patrioti jugoslavi, greci, francesi ecc) dimostra che la formazione e l’armamento di questi Gruppi di patrioti non può avvenire in modo spontaneo. Questa esperienza dimostra pure che la forza organizzatrice e dirigenti dei gruppi armati di patrioti, in tutti i paesi, è il Partito comunista.” <5
Roasio, autore per conto del partito, nella circolare spiega che doveva trattarsi di costituire “piccoli gruppi (GAP) nei primi tempi composti di soli compagni e portarli alla lotta armata, e poi, poco a poco, nella lotta allargare la loro cerchia, il loro numero, attirare i migliori e più combattivi elementi del popolo e riuscire così a organizzare un potente movimento armato di patrioti.” <6. Si prescriveva dunque ai dirigenti locali di incaricare un compagno di fiducia della formazione di questi gruppi di tre uomini, i cui membri dovevano essere scelti non “per spirito di disciplina, ma per la loro spontanea volontà” e dovevano interrompere qualsiasi legame o partecipazione alle attività di partito. Non è scritto nel documento, ma intuibile ed ammesso esplicitamente da Roasio, che la struttura dei Gap “rifletteva grossomodo quella dei FTP, di cui facevano già parte numerosi nostri compagni” <7. Nelle stesse settimane infatti quadri e militanti di base venivano richiamati dalla Francia e rientravano in Italia attraverso le Alpi o con documenti falsi; coloro che scelsero questa via avevano dunque conservato una polarità italiana, a maggior ragione coloro che avevano ormai una famiglia in Francia o vi tornarono dopo la guerra. Alcuni tra i più giovani invece, come abbiamo visto, avevano ereditato dalla famiglia italiana la tendenza politica, ma la propria esperienza personale li aveva condotti a riorientarla in senso francese.
Coloro che decisero di tornare, per combattere il fascismo in Italia, nell’estate 1943 erano nel pieno del lavoro necessario a riprendere contatto con la base di partito, i quadri prendevano appuntamento con vecchi comunisti e ne istruivano di nuovi, oltre ad allacciare i rapporti con le organizzazioni antifasciste di vari indirizzi. Le basi per il fronte nazionale all’interno furono però reputate ancora troppo fragili e nel pieno di tale riorganizzazione il Gran Consiglio del fascismo decretò la caduta di Mussolini. Il 26 luglio fu redatto il primo appello firmato dal Gruppo di ricostituzione liberale, il Partito democratico cristiano, il Partito comunista italiano, il Movimento per l’unità proletaria per la repubblica socialista, il Partito socialista italiano e il Partito d’azione. Quest’ultimo era stato fondato a Roma il 4 giugno 1942 e vi sarebbero confluiti i maggiori esponenti di Giustizia e Libertà. Si disponeva la nascita di un Comitato d’unità delle opposizioni antifasciste che richiedeva la liquidazione delle strutture del regime e la formazione di un governo che fosse espressione delle classi popolari.
Intanto, abolite le corporazioni, era in corso la ristrutturazione dei sindacati, di competenza di una commissione in cui furono nominati tra gli altri il socialista Bruno Buozzi e il comunista Giovanni Roveda. La nomina fu oggetto di critiche da Mosca, di un’intromissione del PCF e di un dibattito interno alla direzione neocostituita, che richiese una dichiarazione pubblica in cui Roveda chiarisse che l’accettazione di tale ruolo non significava sostegno politico al governo monarchico. Il nodo del contendere era costituito dal fatto che il nuovo governo moderato e la monarchia cercassero di limitare il ruolo delle masse nella transizione istituzionale post 25 luglio, dunque Roveda, in qualità di commissario sindacale, era accusato di collusione nel “soffocare il movimento di scioperi a Torino” <8. Lampredi fu inoltre latore di una lettera del PCF alla direzione italiana in cui si sosteneva che una subordinazione dei comunisti italiani al governo Badoglio avrebbe indebolito il movimento insurrezionale antinazista anche oltre i confini della penisola. Secondo il partito francese infatti, “gli alleati vedevano nel maresciallo una sorta di nuovo Darlan che operava in altre condizioni per soffocare il movimento popolare” <9. Il PCF aggiungeva poi che la questione “ci preoccupa particolarmente perché noi dobbiamo fare i conti anche in Francia con la possibile utilizzazione di nuovi Darlan e non ci sono altri modi di impedirlo che di sviluppare al massimo il movimento di massa”. Aldo Lampredi, in un biglietto del ’73 archiviato assieme alla corrispondenza non poté affermare con certezza che gli estratti delle lettere venissero effettivamente dalla Casa, “è scritto così. Però credo che debba ritenersi cosa vera perché come risulta dalla mia lettera prendo in seria considerazione il loro contenuto” <10.
Ad ogni modo, il 13 agosto i commissari della federazione sindacale chiarirono che la loro funzione aveva “uno stretto carattere sindacale, che non implica nessuna corresponsabilità politica”11. Si apriva già a questo punto il dilemma della posizione da tenere in relazione a Badoglio, in qualità di capo del governo riconosciuto dagli Alleati, che si sarebbe risolta solo al ritorno di Togliatti. Per il momento le forze antifasciste italiane decisero di adottare la linea della pressione sul governo per la pace separata, senza scatenare un movimento preinsurrezzionale, per il quale reputarono di non essere pronte. Alla metà di agosto una delle principali rivendicazioni degli antifascisti nei confronti di Badoglio riguardava la liberazione di carcerati e confinati. Il 31 luglio si era infatti costituito un comitato direttivo dei confinati a Ventotene che chiedeva la liberazione immediata e il ripristino dei collegamenti con la terraferma.
La questione si risolse quando, ai primi di agosto, Buozzi, Roveda e Grandi si recarono da Badoglio, minacciando un appello allo sciopero generale se non avesse emesso gli ordini di scarcerazione; “contro la minaccia dello sciopero generale il Maresciallo si scagliò violentemente ma dopo tre ore di discussione finì per cedere” <12.
Così tra il 19 e il 23 agosto detenuti e confinati furono liberati, restarono in carcere solo Emilio Sereni e Italo Nicoletto, consegnati all’Italia il 24 luglio e condannati dal Tribunale speciale rispettivamente a 18 e 10 anni. Sarebbero evasi dalle carceri Nuove di Torino l'8 agosto 1944.
Dunque alla fine di agosto, mentre erano in corso le trattative per l’armistizio, i bombardamenti sulle città italiane e una serie di scioperi contro la guerra, il PCd’I poteva compiere la saldatura tra le due proprie componenti storiche, i rientrati dall’esilio e i liberati dal confino. Il 29 agosto si tenne a Roma la riunione che costituì la direzione di partito, nelle persone di Scoccimarro, Longo, Secchia, Li Causi, Roasio, Massola, Roveda, Novella, Negarville e Amendola. A Roma restarono Scoccimarro, Novella, Amendola, Roveda, Negarville e Longo, che premerà però per raggiungere Secchia, Massola, Roasio e Li Causi a Milano, da dove in caso di occupazione sarebbe stata diretta la lotta armata.
Il giorno successivo infatti Longo stilava un “promemoria sulla necessità urgente di organizzare la difesa nazionale contro l’occupazione e la minaccia di colpi di mano da parte dei tedeschi” <13. Il giorno stesso il PSI e il Pd’A accoglievano la mozione, dando vita a un comando militare tripartito composto da Luigi Longo, Sandro Pertini e Bruno Bauer. Il Comitato Centrale stilò inoltre il 2 settembre un appello alla difesa nazionale che concludeva:
“L’Italia deve, in un virile proposito di resistenza e di lotta, ritrovare la sua unità morale spezzata dal fascismo, e conquistarsi, attraverso la sua riscossa nazionale, il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni per collaborare con esse al riassetto dell’Europa e del mondo” <14.
La formula venne ripresa pressoché identica nella deliberazione del Comitato delle opposizioni, che il 9 settembre si costituiva in Comitato di liberazione nazionale:
“Nel momento in cui il nazismo tenta di istaurare a Roma ed in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza, e per conquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni” <15.
[NOTE]
1 P. Spriano, “Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin e la guerra”, op.cit. pag. 338.
2 P. Spriano, “La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata”, op.cit., pag. 206
3 Fondazione Gramsci, APC, marzo 1943, “Unità d’azione per la pace e la libertà”, dichiarazione congiunta Pci, Psiup, Gl, marzo 1943
4 Fondazione Gramsci, APC, settembre 1943, relazione in francese indirizzata a Togliatti relativa alla formazione di un fronte nazionale antifascista in Italia e informazioni riguardo ad alcuni dirigenti del Pci a firma Quinto
5 Fondazione Gramsci, APC, maggio 1943, Circolare riservata della Segreteria del partito comunista italiano riguardo alla necessità di istituire Gruppi d’azione dei patrioti.
6 Ibidem.
7 Antonio Roasio, “Figlio della classe operaia”, Vangelista editore, Milano 1977, pag.206.
8 Fondazione Gramsci, APC, Estratto di una lettera da Mosca, 6/9/1943. 9 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, lettera del PCF alla direzione del Pci in merito alle polemiche tra i due partiti, 23 sett.1943.
10 Fondazione Gramsci, APC, Direzione Nord, settembre 1943, 1 sett.1973.
11 Il comunismo italiano durante la seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 192.
12 Giovanni Roveda, “Precisazioni”, in Rinascita a. IX, n 7-8, luglio-agosto 1952, pag.441.
13 Testo completo in Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 194-195
14 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag. 197.
15 Il comunismo italiano nella seconda guerra mondiale, op.cit., pag.198.
Elisa Pareo, "Oggi in Francia, domani in Italia!" Il terrorismo urbano e il PCd'I dall'esilio alla Resistenza, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Pisa, 2019

venerdì 18 marzo 2022

Un esempio eclatante di come Thomas Mann sia stato usato e strumentalizzato a scopi razziali e fascisti


Se prima si affermava che tra il 1938 e il 1945 le opere di Mann non furono tradotte, vi è almeno una eccezione. Proprio nel 1938, l’anno in cui venivano promulgate in Italia le leggi razziali, si poteva leggere un breve estratto del racconto "Wälsungenblut" nella rivista “La difesa della razza”. <175
In questo caso la sede di pubblicazione è da prendere in considerazione con particolare attenzione. La rivista si dichiarava apertamente razzista e aveva lo scopo di promuovere la propaganda fascista, soprattutto quella di
impostazione antisemita. Basti pensare che nell’agosto dello stesso anno, cioè solo un mese prima che uscisse l’estratto di Mann, vi era stato pubblicato un testo, redatto da diversi scienziati italiani, conosciuto con il titolo "Il Manifesto della razza" che costituisce un documento di base dal quale prendono direttamente spunto le leggi razziali promulgate da Mussolini.
Dunque, cosa narra Thomas Mann in questa novella per finire sulle pagine di una rivista razzista? In poche parole si tratta di una "Skandalgeschichte" in cui una ragazza ebrea che sta per sposare un uomo non-ebreo commette incesto con suo fratello. Steso già nel 1906, cioè poco dopo il suo matrimonio con Katia Pringsheim, che era di origine ebrea, il testo, è bene chiarirlo subito, contiene in effetti alcuni luoghi comuni sugli ebrei come p.e. la descrizione di alcuni tratti somatici tipici, considerati brutti. In una lettera al fratello Heinrich dello stesso periodo Mann confessava che il suo vero interesse per questa storia era dovuto soprattutto alla “Milieu-Schilderung”, la descrizione dell’ambiente. <176 Lo sarebbe stato anche se si fosse trattato di persone appartenenti ad altri gruppi etnici o religiosi. Il testo nel suo insieme non è né antiebreo né scritto con una tale intenzione. Ciò non toglie che Mann non sia stato in grado di liberarsi dagli stereotipi diffusi nei primi anni del Novecento. Come modello letterario è stato individuato piuttosto la "Walküre" (Valchiria) di Richard Wagner da dove Mann ha potuto prendere l’ispirazione della scena dell’incesto, alla quale allude in modo molto diretto già con il titolo "Wälsungenblut" - sangue di velsungo, riferito a quella stirpe germanica, molto probabilmente solo leggendaria. A conferma di questa fonte vi è il fatto che fratello e sorella ad un certo punto vanno ad assistere proprio ad una rappresentazione di quest’opera, alla quale anch’essi si “ispirano” per l’incesto che ne segue subito dopo.
Per l’estratto nella rivista, lungo appena una pagina, la redazione ha scelto la fine della narrazione, cioè la parte in cui avviene l’incesto. Al momento stesso della loro unione però Mann, secondo il suo stile consueto, vi allude soltanto, lasciando che le azioni dei due sfocino in due trattini, e così lasciando tutto il resto all’immaginazione del lettore.
[...] Il testo di Mann però è legato in modo ancora più stretto ad un altro aspetto della legislazione razziale, ovvero il divieto di matrimonio tra italiani e ebrei.
Si ha il forte sospetto che qui si sia davanti al tentativo di giustificare questo divieto con il far vedere che gli stessi ebrei osservano in merito delle leggi ancora più severe. Tanto più che il brano di Mann esce nella rubrica intitolata “Documentazione”. <180 La nostra ipotesi trova sostegno anche nella nota introduttiva che accompagnò l’estratto. Ad affiancarla ci sono anche due immagini di una ragazza e di un ragazzo ebreo, con i tratti fisionomici ritenuti tipici per gli ebrei, p.e. il naso adunco della ragazza e il labbro inferiore fortemente sporgente del ragazzo.
[...] Nella seconda parte dell’introduzione questo rovesciamento diventa ancora più chiaro, quando si parla di “ostilità ereditaria dell’ebreo per il cristiano”. La possibile lettura dell’incesto come vendetta contro il non ebreo, qui è chiamata direttamente “vendetta di razza” e trova espressione nel titolo dato al testo di Mann, "Sangue riservato", falsificando non poco quello originale. Come già visto in altro ambito la traduzione dei titoli di Mann ha più di qualche volta indotto a scegliere un titolo così detto interpretativo, dove il titolo sta a indicare già da solo l’interpretazione del testo per la quale si è optato. Per la sua triste esemplarità di interpretazione razzista si cita qui anche la seconda parte dell’introduzione per esteso:
<Thomas Mann, ebreo e fuoruscito tedesco, e grande scrittore, ha una novella dove l’ostilità ereditaria dell’ebreo per il cristiano è descritta attraverso la storia di una fanciulla d’alto lignaggio ebraico che alla vigilia delle nozze con un funzionario prussiano, si concede al fratello e consuma nell’incesto una vendetta di razza, contro un matrimonio ch’essa considera come una forma di schiavitù. Ecco la chiusa della novella, lui cui morale è già tutta nel titolo: “Sangue riservato.”> <182
Come si vede, il titolo non è l’unico aspetto falsificato. Qui addirittura Mann è dichiarato di essere ebreo. Diventa così ancora più difficile entrare nella logica, se mai ce ne fosse una, di chi ha pubblicato l’estratto in questa sede: Mann ebreo avrebbe quindi scritto un testo anti-ebreo?
Se si considera che la versione proposta nella rivista non è mai stata pubblicata in via ufficiale può risultare curioso il fatto che sia arrivata, anche se soltanto come estratto, in Italia. Curiosa anche un’altra contraddizione perché l’autore Mann era vietato dallo stesso regime.
[...] Per quali vie è arrivato il racconto alla redazione della rivista non possiamo sapere. Possiamo però ripercorrere velocemente la sua singolare "Druckgeschichte": quando Mann decise di cambiare il finale, il testo era già in stampa. Pare che un giovane tipografo abbia sottratto di nascosto le pagine del manoscritto originale per poi copiarle segretamente. Inoltre vi fu un’edizione nel 1921, molto limitata e mai entrata in commercio della casa editrice monacense “Phantasus”. <183 Un dato certo è che nel 1931 era già uscita in Francia una versione integrale proprio con il titolo "Sang réservé". <184 In Italia invece il testo, oltre quel breve estratto, non è stato molto considerato in seguito. Lo troviamo solo nell’edizione "Tutte le opere" e poi nella già citata traduzione con testo a fronte di Anna Maria Carpi, uscita nel 1989 presso Marsilio a Venezia.
La pubblicazione dell’estratto di "Wälsungenblut", in questo luogo, in questa traduzione e con questa introduzione costituisce un esempio eclatante di come Thomas Mann sia stato usato e strumentalizzato a scopi razziali e fascisti. Come già accennato, questa è anche l’ultima traduzione di Mann che fu pubblicata in Italia prima e durante la Seconda guerra mondiale.
[...] L’asse Berlino - Roma, concluso in via ufficiale nel 1939, ma di fatto creatosi già molto prima, portava con sé la conseguenza dell’equiparazione tra Germania e Italia a diversi livelli, anche a quello giudiziario, e perciò introdusse il divieto dei libri di Thomas Mann anche in Italia.
Contemporaneamente c’era chi tentava di istituire un altro asse, più tardi chiamato "Gegenachse", con l’intento di continuare anche quei rapporti culturali tra Italia e Germania non graditi e proibiti dai regimi. Questo asse esisteva non come espressione di un gruppo organizzato, esisteva invece grazie all’impegno individuale di alcuni, pochi, che erano in contatto tra di loro e creavano così, una rete, per quanto a maglie larghe.
Quando Hitler e Mussolini si incontrarono per la prima volta nel 1934 sulla Riviera del Brenta, nella più imponente delle ville venete, la Pisani, Mann era in contatto diretto con Benedetto Croce. Il breve ma intenso scambio epistolare, sottolineato da diverse dediche da entrambe le parti, non ultima quella di Croce a Thomas Mann della "Storia d’Europa nel secolo decimonono", testimonia un comune impegno contro i totalitarismi e irrazionalismi e a favore di una storia europea basata sul principio della libertà.
Parallelamente vi fu un altro scambio molto importante, quello tra Mann e Lavinia Mazzucchetti, più consistente e protrattosi fino alla morte dello scrittore. Da quando Mann fu vietato in Italia, la Mazzucchetti si assunse l’incarico di informare i pochi iniziati delle ultime novità sullo scrittore: lettere, discorsi e qualche pagina di testo. Nel suo libro "Die andere Achse" Mazzucchetti ricorda questa attività, chiamando Mann addirittura “merce di contrabbando spirituale”: "Die wichtigste geistige Schmuggelware blieb aber immer Thomas Mann. Ich weiß noch gut, wie begierig sich Benedetto Croce bei jedem seiner Besuche in Mailand von mir über den großen Weggenossen berichten und seine Briefe mitteilen ließ". <185
A causa del divieto di importazione dal 1938 al 1945 non viene pubblicata nessuna opera di Thomas Mann in Italia. Questo non voleva dire che non si potesse leggere lo scrittore tedesco anche in questi anni. Non abbiamo però trovato conferme concrete per edizioni non ufficiali, copie illegali o simili di cui invece si sente parlare spesso, ma quasi mai senza indicare alcuna fonte, cosa che ci costringe a considerare tali affermazioni non affidabili.
Nonostante l’oppressione e il costante pericolo di altre violenze, questo tempo non fu del tutto "wortlos". Il dialogo culturale, quello non a servizio dei regimi e delle ideologie, era molto ridotto, ma non del tutto interrotto. Nuovamente, come all’inizio della ricezione di Mann in Italia, si mostra in questi anni l’importanza dell’agire di singoli personaggi, in prima fila, ancora una volta, Croce e Mazzucchetti.
Bisogna però prendere atto che oltre le circostanze difficili per la ricezione di un autore straniero, per di più tedesco, si è verificato anche un brusco rallentamento dell’interesse effettivo nei confronti di Mann, quasi come se la lontananza geografica dovuta all’esilio di Mann in America aumentasse anche quella spirituale.
[NOTE]
175 Thomas Mann, Sangue riservato, in “La difesa della razza”, anno I, 5 settembre 1938, p. 39. D’ora in poi cit. Mann, Sangue riservato.
176 Lettera di Thomas Mann a Heinrich Mann, 17 gennaio 1906, in Thomas Mann - Heinrich Mann, Briefwechsel 1900-1949, Fankfurt a.M., Fischer, 1975, p. 45.
180 Thomas Mann, Mario e l’incantatore. Una tragica avventura di viaggio, trad. di Anna Bovero, illustrazioni di B. Badia, Torino, Libreria Editrice Eclettica, 1945.
182 Ibidem.
183 Thomas Mann, Wälsungenblut, einmalig limitierte Sonderausgabe, München, Phantasus-Verlag, 1921.
184 Thomas Mann, Sang réservé, traduit de l’allmand, Paris, Grasset, 1931.
185 Lavinia Mazzucchetti, Die andere Achse, p. 20.
Arno Schneider, La prima fortuna di Thomas Mann in Italia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2008
 
Lo scambio epistolare tra Lavinia Mazzucchetti e Thomas Mann rappresenta un unicum nei rapporti dello scrittore con gli italiani non soltanto per l’estensione temporale, l’intensità, la simpatia e l’attualità degli argomenti trattati, ma anche perché ha costituito un contatto più che autentico dello scrittore con l’Italia.
Elisabetta Mazzetti, I carteggi di Lavinia Mazzucchetti con Thomas Mann, Hans Carossa e Gerhart Hauptmann. La soddisfazione «di servire la causa della libertà e bollare la barbarie» e la fuga dalla realtà in (a cura di) Anna Antonello e Michele Sisto, Lavinia Mazzucchetti. Impegno civile e mediazione culturale nell’Europa del Novecento, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma, 2017
 

lunedì 14 marzo 2022

Dopo la guerra si scoprirà che tutti gli agenti inviati in Germania dalla Gran Bretagna si erano arresi o erano stati catturati


Durante la guerra non c’è un solo Stato che non ricorrerà in qualche modo ad agenti segreti, ogni grande potenza utilizzerà negli anni del conflitto, spie e doppiogiochisti; Alleati, Urss e forze dell’Asse si confronteranno a mano a mano con una serie di imprese eclatanti, degne dei romanzi di James Bond. A partire dalle informazioni sullo schieramento delle navi nella baia di Pearl Harbour il 7 dicembre del 1941, per passare all’infiltrazione di agenti sovietici nelle alte sfere dei servizi segreti inglesi, fino ad arrivare alle operazioni Alleate di deception, emergerà come: un ristretto numero di uomini contribuiranno a cambiare il destino e le sorti del Mondo intero.
Il Servizio segreto di intelligence (SIS), conosciuto comunemente come MI6, è il servizio di intelligence straniero del governo del Regno Unito, incaricato principalmente della raccolta e dell’analisi segreta a sostegno della sicurezza nazionale. Formato nel 1909 come sezione del Servizio segreto specializzato in intelligence straniera, la sezione sperimenta una crescita vertiginosa durante la Prima guerra mondiale, adottando ufficialmente il suo nome attuale intorno al 1920. Il nome MI6 (Military Intelligence section Six) nasce durante la Seconda guerra mondiale, quando il SIS è composto da molte sezioni; ancora oggi MI6 è la sigla comunemente usata per descrivere l’intelligence britannica; durante tutto il corso del conflitto il SIS sarà guidato da Stewart Menzies. <232
«The opening of hostilities in September 1939 is an appropriate moment to make a formal review of the Secret Intelligence Service and Britain’s other main intelligence gathering organizations.» <233
La caduta quasi simultanea delle potenze europee sotto il maglio nazista, rende l’Inghilterra l’unico Stato che si trova realmente a resistere contro la potenza germanica. La sconfitta di Dunkerque e la “battaglia d’Inghilterra” hanno chiarito definitivamente che la Gran Bretagna non può vincere la guerra solamente con i mezzi “classici”, ovvero la potenza bellica vera e propria, ma deve ricorrere, opinione anche dello stesso Churchill, alle tecniche che meglio sa utilizzare, quelle tipiche dello spionaggio e del controspionaggio. <234 L’esperienza britannica in questo campo è molto vasta, assai più di qualsiasi altra potenza. Per più di cinque secoli i suoi uomini di Stato e i suoi generali si sono avvalsi di questi “mezzi” per costruire prima un regno e poi un impero, e per difenderlo contro i suoi nemici. Sono riusciti a farla agli spagnoli, ai francesi e agli olandesi, nei secoli passati, e già una volta, nel secolo presente, sono stati costretti a battersi contro l’espansionismo tedesco. Sono passati poco più che vent’anni dalla fine della Grande guerra ed ecco che una nuova Germania risorge dalle sue rovine e, sotto la guida di Adolf Hitler, il mondo si ritrova ancora una volta coinvolto in un grande conflitto. <235
Uno dei primi provvedimenti presi a tale proposito è la costruzione del C. L’MI9 (Military Intelligence section Nine) è un dipartimento del Ministero della Guerra che sarà attivo tra il 1939 e il 1945. Durante la Seconda guerra mondiale sarà incaricato di sostenere le reti della Resistenza europea e di usarle per aiutare i piloti degli aerei Alleati abbattuti, soldati e molti prigionieri a tornare in Gran Bretagna, oltre che a un ingente numero di ebrei a fuggire dalla persecuzione nazista nei Paesi occupati. <236 L’MI9, oltre alle evasioni dai territori occupati, produrrà vari oggetti come aiuto alla fuga, specie basati sulle idee di Christopher Hutton. Quest’ultimo realizzerà bussole nascoste all’interno di penne o bottoni; stamperà mappe su fazzoletti di seta, in modo che non si stropiccino; progetterà speciali stivali con ghette staccabili che possono rapidamente essere convertite come scarpe civili e tacchi cavi contenenti pacchetti di cibo secco; una lama da rasoio magnetizzata indicante il nord se posta in acqua; uniformi che possono essere convertite in abiti civili.
L’Office of Strategic Services (OSS) è un servizio segreto statunitense operante nel periodo della Seconda guerra mondiale, precursore della Central Intelligence Agency (CIA). Cinque mesi prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbour e dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti, il Presidente Roosevelt aggiunge un ufficio particolare e misterioso alla burocrazia amministrativa statale, dal nome di COI (Coordinator Office of Information), alla guida di un certo Colonnello, poi Generale, William Joseph Donovan, un cattolico di origini irlandesi e di orientamento repubblicano, oltre che milionario. <237
La preoccupazione principale delle sfere militari e dirigenziali americane è il forte espansionismo giapponese nel Pacifico, preludio di una possibile guerra futura. L’ufficio nasce principalmente come centro di raccolta dati inerenti alla questione pacifica. L’ufficio, in seguito all’entrata in guerra, viene poi modificato e nominato OSS (Office of Strategic Service) con lo scopo di coordinare la gestione della raccolta di intelligence militare a livello centrale, assumendo in ciò un ruolo sovraordinato a ogni altra analoga struttura già esistente nelle forze armate americane. <238 Prima di ciò, la gestione dei servizi d’informazione era gestita da varie agenzie statali, di cui la maggior parte dei casi veniva trattata dall’ufficio preposto appartenente all’FBI. <239 L'Office of Strategic Services viene costituito con un decreto militare del Presidente Roosevelt il 13 giugno 1942, per raccogliere e analizzare le informazioni strategiche necessarie e per svolgere operazioni speciali non affidate ad altri organismi.
Il presidente è preoccupato per le carenze americane in tema di intelligence. Su consiglio di William Stephenson, responsabile britannico dell’intelligence per l’emisfero occidentale, Roosevelt chiede a Donovan di tracciare un piano per un servizio segreto ispirato a quelli britannici, quali il Secret Intelligence Service (MI6) e lo Special Operations Executive (SOE). <240 L’agenzia ora ha influenza su ogni operazione nel globo, in ogni singolo Paese partecipante al conflitto, agenti dell’OSS vengono mandati a reperire informazioni e infiltrati tra le forze nemiche in territorio ostile. Durante la Seconda guerra mondiale, l’OSS condurrà molteplici missioni e attività, tra cui l’acquisizione di informazioni per mezzo di spie, l’esecuzione di atti di sabotaggio, azioni di guerra attraverso la propaganda, creazione di reti di evasione per prigionieri di guerra e per ebrei, organizzazione e coordinamento di gruppi di resistenza anti-nazista in Europa, addestramento di guerriglieri anti-nipponici in Asia. Al culmine del suo sviluppo nell’ultimo conflitto mondiale, l’OSS impiegherà almeno 24 mila persone. Tra gli altri compiti, si occuperà di propaganda, sovversione e pianificazione del dopoguerra.
Le operazioni di spionaggio e sabotaggio rendono indispensabile un equipaggiamento altamente specializzato. Il Generale Donovan invita esperti, organizza seminari e finanzia laboratori che avrebbero formato il nucleo del futuro Research & Development Branch. Per tutta la durata della guerra, il Research & Development abilmente adatta armi ed equipaggiamento spionistico, producendo in proprio una gamma romanzesca di strumenti e arnesi da spia, tra cui: pistole silenziate, mitra alleggeriti, bombe a impatto, esplosivi camuffati da pezzi di carbone, micce all’acetone per le mine adesive, bussole nascoste in bottoni da uniforme, carte da gioco che occultano mappe, una fotocamera da 16 mm Kodak dissimulata da pacchetto di fiammiferi, tavolette di veleno senza aroma, sigarette rivestite di tetraidrocannabinolo acetato per indurre incontrollabile loquacità, e altri ritrovati ancora. Inoltre, viene sviluppato un equipaggiamento di comunicazione innovativo, come strumenti di intercettazione, segnalatori elettronici per localizzare gli agenti, e il sistema radio portatile che permette agli operatori a terra di stabilire un contatto sicuro con gli aerei che si preparassero ad atterrare o a deporre un carico. Il Research & Development dell’OSS stamperà anche false tessere identificative tedesche e giapponesi, vari lasciapassare, carte di razionamento e denaro contraffatto.
[...] Lo Special Operations Executive (SOE) è un’organizzazione britannica facente parte dei servizi segreti attiva durante la Seconda guerra mondiale, formata ufficialmente nel luglio 1940 col fine di condurre operazioni di spionaggio, sabotaggio e ricognizione nell’Europa occupata, e più tardi anche nelle zone del Sud-Est asiatico, contro le potenze dell’Asse, oltre che aiutare i movimenti di resistenza locale nella lotta contro le forze occupanti. <242
[...] Durante la guerra, solamente poche persone saranno a conoscenza dell’esistenza di SOE, coloro che ne faranno parte o che saranno in contatto con i suoi membri, verranno protette con la massima segretezza possibile, le sue varie filiali e talvolta l’organizzazione nel suo complesso rimarranno nascoste dietro a finti nomi o dietro agenzie fittizie. L’organizzazione impiegherà nel corso del conflitto poco più di 13 mila persone, di cui circa 3200 donne, specie nei servizi ausiliari.
[...] Il capo del SIS, Sir Stewart Menzies, dichiarerà ripetutamente nel corso della guerra, che i membri del SOE sono “dilettanti, pericolosi e fasulli” e si assumerà il compito di portare una massiccia pressione perché la nascente organizzazione venga il prima possibile smantellata. Secondo molte alte sfere, sia politiche sia militari, i vantaggi che le operazioni SOE comportano: non sono sufficienti per compensare i danni che invece creano. Della stessa idea è il Comando di bombardieri che si risente nel dover prestare i suoi mezzi per missioni clandestine, rinunciando alla possibilità di impiegare tali velivoli per continuare la campagna di bombardamento contro i Paesi nemici, per condurre la Germania in ginocchio.
L’organizzazione si evolve continuamente e cambia notevolmente durante la guerra. Inizialmente, consiste di tre grandi dipartimenti: SO1 che si occupa di propaganda, SO2 che invece è la sezione responsabile delle operazioni, e SO3 che infine si occupa della ricerca, e che successivamente sarà fuso a SO2. Nell’agosto del 1941, dopo le dispute tra sulle relative responsabilità, SO1 verrà rimosso dal SOE e diverrà un’organizzazione indipendente. SO2 ora gestisce le sezioni che operano in territorio nemico e talvolta neutrale, e la selezione e la formazione degli agenti; a fini di sicurezza, ciascuna sezione ha la propria sede e gli istituti di formazione in modo indipendente.
[...] A livello politico, le relazioni fra il SOE e i governi in esilio sono spesso difficili. Quest’ultimi protestano poiché molte operazioni si svolgono senza la loro approvazione e senza che ne siano al corrente, provocando rappresaglie contro la popolazione civile, oppure tendono ad appoggiare alcune fazioni non direttamente collegate a loro, basti vedere il caso francese. Verso la fine della guerra, quando le forze Alleate cominceranno a liberare territori occupati e in cui il SOE ha stabilito forze di resistenza, l’organizzazione cercherà di stabilire le basi politiche per i futuri governi, andando spesso a scontrarsi con la volontà dei governi precedenti alla scoppio del conflitto.
[...] La maggior parte delle reti di resistenza che il SOE forma, comunica principalmente via radio direttamente dalla Gran Bretagna o da sedi controllate dallo stesso SOE. Tutti i circuiti di resistenza contengono almeno un operatore radio. In un primo momento, il traffico radiofonico passa attraverso la stazione radio controllata dal SIS a Bletchley Park. Dal 1 giugno 1942 il SOE utilizzerà le proprie stazioni di trasmissione e ricezione a Grendon Underwood e a Poundon.
[...] Le prime radio di SOE sono fornite dal SIS: sono grandi, ingombranti e richiedono grandi abilità di utilizzo; successivamente verranno adottate macchine sempre più piccole e performanti. <251 Le procedure operative sono però insicure in un primo momento. Gli operatori sono costretti a trasmettere i messaggi su frequenze fisse e in tempi e intervalli fissi. Questo permette alla direzione anti-spionaggio tedesca di trovare tramite il metodo di triangolazione le loro posizioni. Dopo che diversi operatori verranno catturati o uccisi, le procedure saranno rese più flessibili e sicure, aumentando in modo sensibile l’efficacia delle operazioni e la possibilità di permanenza di un agente nel medesimo luogo, senza che quest’ultimo venga scoperto. <252
I messaggi vengono, come logico, sempre trasmessi codificati.
[...] Oltre che alle spie, ci sono anche i sabotatori. Uno dei loro compiti principali è quello di attuare continue azioni di disturbo a danno delle fortificazioni e delle difese tedesche. I metodi, senza analizzare quelli classici come la recisione dei fili del telefono, sono a volte veri e propri capolavori dell’ingegno.
[...] La prima breccia di Enigma è aperta in tutta segretezza dal servizio segreto polacco, che nel corso degli anni Trenta decifra i messaggi grazie all’ingegno del matematico e statista Marian Rejewski. Nel luglio del 1939, quando ormai appare chiaro che l’attacco tedesco sia solo questione di tempo e non ci sono illusioni sulla possibilità di respingerlo, gli esperti del controspionaggio francese e britannico sono convocati a Varsavia e viene loro consegnata una copia della cifrante Enigma, con allegata la spiegazione del suo funzionamento. <263
Gli inglesi, intuito lo straordinario potere di questo mezzo, iniziano a potenziare la Government Code and Cypher School (GC&CS), con sede in una località di campagna nel Buckinghamshire, un paese a circa settantacinque chilometri a nord-ovest di Londra, dal nome di Bletchley Park, anche nota come Stazione X, dove già affluiscono i messaggi intercettati via radio.
La scuola governativa per codici e crittografia entra in funzione ufficialmente nel 1939 col compito di decrittare i messaggi in codice; allo scoppio della guerra ottiene rilevanti finanziamenti che portano anche a un suo allargamento, con la possibilità di ingaggiare migliaia di esperti, a cui viene concesso l’utilizzo di una strumentazione elettronica d’avanguardia. La scuola chiuderà del 1946 e i suoi collaboratori resteranno vincolati dal giuramento di segretezza. <264
[...] Il Double Cross System o Sistema XX è una sezione del British Security Service addetto al controspionaggio e all’inganno attivo durante la Seconda guerra mondiale, indicata dal MI5, a titolo di copertura, come un’organizzazione civile responsabile della gestione logistica degli affari militari. Una buona parte dei suoi componenti sono agenti nazisti che si trovano in Gran Bretagna, che vengono usati dagli inglesi per trasmettere principalmente disinformazioni ai responsabili dell’intelligence tedesca. Le sue operazioni saranno supervisionate dal Comitato 20 sotto la presidenza di John Cecil Masterman; il nome del comitato deriva dal numero 20 in numeri romani: XX (ovvero una doppia croce). <276
[...] La politica dell’MI5 durante la guerra è inizialmente quella di usare il sistema a doppia croce per operazioni di controspionaggio. Sarà solo più tardi che il suo potenziale per scopi di inganno o meglio di deception verrà realizzato. Degli agenti dei servizi segreti tedeschi, alcuni saranno arrestati, mentre molti altri che raggiungeranno le coste britanniche si consegneranno di spontanea volontà alle autorità inglesi. Agenti successivi saranno incaricati di contattare agenti che, in realtà sono già controllati dagli inglesi. Dopo la guerra si scoprirà che tutti gli agenti inviati in Germania dalla Gran Bretagna si erano arresi o erano stati catturati. <278
[...] Il controllo dei nuovi doppi agenti cade su Thomas Argyll Robertson, un carismatico agente dell’MI5 di origine scozzese. Robertson crede che trasformare le spie tedesche avrebbe avuto numerosi vantaggi, rispetto a ucciderle, rivelando quali informazioni volesse l’Abwehr e potendo trasmettere informazioni false per attuare operazioni di deception. Viene di proposito creato un ufficio segreto direttamente dipendete dal Comitato XX, il cui nome è conosciuto con la sigla B1a, la sua funzione specifica è la gestione degli agenti-doppi.
[...] I primi agenti di Robertson non sono, però, un gran successo, Giraffe (George Graf) non sarà mai realmente usato e Gander (Kurt Goose) che era stato inviato in Gran Bretagna e che trasmetteva ancora con l’intelligence tedesca, viene rapidamente dismesso. <282 I successivi due tentativi saranno ancora più farseschi; Gösta Caroli e Wulf Schmidt, due veri nazisti nonché profondi amici, saranno costretti in un triste gioco di spie: Caroli viene costretto a diventare un doppiogiochista in cambio della vita di Schmidt, mentre a Schmidt viene detto di essere stato venduto dal suo amico, convincendolo così a diventare anch’esso un doppiogiochista. <283 Caroli diviene rapidamente un problema, giudicato troppo pericoloso per essere usato, viene presto fatto fuori. Schmidt ha più successo: col nome in codice "Tate", continuerà ad avere contatto con la Germania fino al maggio 1945. <284 Queste eccentriche spie fanno capire a Robertson che gestire i doppi agenti sarebbe stato un compito difficile.
La principale forma di comunicazione che gli agenti utilizzano è la scrittura criptata, più tardi nella guerra, le radio wireless saranno fornite dai tedeschi e faciliteranno molto la comunicazione. Un aspetto cruciale del sistema è la necessità di inviare informazioni autentiche insieme al materiale di inganno. Questa necessità causa problemi all’inizio della guerra, con coloro che sono riluttanti a fornire anche una piccola quantità di materiale genuino relativamente innocuo. Più tardi nella guerra, man mano che il sistema si organizzerà meglio, verranno integrate informazioni autentiche anche di notevole rilevanza nel sistema di inganno, ne è un esempio la comunicazione radio trasmessa da "Garbo" inerente all’imminente sbarco in Normandia. <285
Non è solo nel Regno Unito che questo grosso e delicato sistema viene gestito. Un certo numero di agenti collegati al sistema sono gestiti in Spagna e in Portogallo, entrambi Stati neutrali.
[NOTE]
232 West, MI6: British secret intelligence service operations, p. XV.
233 Ivi, Cit. p. 65.
234 Ivi, p. 89.
235 Brown, Una cortina di bugie, pp. 8-9.
236 West, MI6: British secret intelligence service operations, pp. 113-114.
237 Smith, OSS: The Secret History of America’s First Central Intelligence Agency, p. 1.
238 Brown, Una cortina di bugie, p. 81.
239 Andrew, The defence of the realm, p. 215.
240 Smith, OSS: The Secret History of America’s First Central Intelligence Agency, p. 28.
242 Foot, SOE, special operations executive, Cit. p. XVII
251 Foot, Resistance, Cit. p. 162.
252 Ivi, p. 158.
263 Franzinelli, Guerra di spie, p. 78.
264 Ivi, p. 201.
276 Winston Churchill sul Double Cross System. Macintyre, Double Cross, Cit. p. 4
282 Macintyre, Double Cross, p. 38.
283 Andrew, The defence of the realm, p. 251.
285 Vedi paragrafo dedicato 4.8 Garbo e la rete.
Alessandro Berti, Dalla poesia di Verlaine alla rete di Garbo: l’importanza delle operazioni di deception per la riuscita dello sbarco in Normandia, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2016-2017