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mercoledì 31 agosto 2022

Da notare come le aperture del PCd’I e dell’Internazionale alla democrazia in chiave antifascista aprano proprio in questi anni le porte a molti nuovi aderenti


Anche in Togliatti, come nell’Internazionale, vediamo il permanere (in un lasso di tempo che va dal 1924 all’inizio della guerra di Spagna) di una doppia tendenza. Se da una parte l’eredità dell’intransigenza classista e comunista è ancora presente, anche per fattori di necessaria rappresentatività all’interno del partito, la componente antifascista e frontista vede l’emergere di una figura che sarà sempre più sensibile alla tematica della mediazione e dell’interclassismo proprio nell’obiettivo di combattere le dittature reazionarie che vanno affermandosi nel suolo europeo. Nelle sue "Lezioni sul fascismo", infatti, troviamo dei netti rimandi a quella che è la politica che va affermandosi per la maggiore lungo la direttrice togliattiana. Troviamo, per esempio, l’ammissione della necessità di difendere le conquiste che il proletariato ha saputo compiere nel sistema democratico precedente all’affermazione del fascismo, sistema che quindi non viene più assimilato, come prima, alla degenerazione fascista, ma che già si presenta come una fase antecedente nella quale è possibile riscontrare delle conquiste da difendere. <3
Una conclusione che pare scontata, meno se la si fa coincidere con una apertura che proprio Togliatti, sulla scorta di un ritorno ad uno status quo ante, inizia a mostrare verso il restante spettro politico europeo, anche non comunista. L’antifascismo stesso proprio in questo decennio di gestazione va definendosi come un coagulatore di forze eterogenee, anche democratiche, che come obiettivo principale non hanno più la realizzazione di un mondo nuovo, o di una
rivoluzione senza compromessi da realizzarsi in un futuro incerto, ma l’eliminazione attuale del comune nemico fascista. In tutta l’opera togliattiana possiamo notare come questa politica di combattimento che egli promuove contro il fascismo da leader comunista preveda anche una abile infiltrazione all’interno dei gangli gestionali e delle organizzazioni fasciste. <4 Una tattica, quella del combattere il nemico dal suo interno, che sarà anch’essa costante, e che in questa fase vede una prima, importante implementazione. Un approccio, quello poc’anzi evidenziato, totalmente diverso rispetto alla tattica riconducibile all’epoca bordighista, all’intransigenza classista o al rifiuto settario del confronto, un approccio fatto ora di una significativa empatia, di un tentativo di comprensione delle dinamiche fasciste per meglio combatterle dal loro interno. Un convincimento continuo della massa avvicinata per svariate ragioni dal regime, che va portata sulla via della conversione ad un messaggio più confacente ai suoi interessi.
Questa “vasta e coraggiosa utilizzazione delle possibilità legali offerte dal fascismo” <5 diventa un lavoro di convincimento e penetrazione che, nelle infime possibilità di lotta offerte dalla situazione di ampia repressione del contesto italiano, deve essere svolta anche con l’aiuto e la collaborazione della socialdemocrazia. Il lavoro di analisi fatto in questi anni dal partito e dal suo leader consiste in un profondo riesame anche della politica comunista, capace di evidenziare pure fasi di autocritica; emblematico è il caso della trattazione del dopolavoro, ammettendo che mai prima del fascismo è esistita una organizzazione capace di centralizzare le necessità culturali e sportive delle masse. E’ essenziale notare come le aperture del PCd’I e dell’Internazionale alla democrazia in chiave antifascista aprano proprio in questi anni le porte a molti nuovi aderenti, che nei partiti comunisti europei trovano non più un intimo ritrovo per pochi rivoluzionari, ma una base popolare di lotta e applicazione reale delle necessità più impellenti dell’attualità.
Un atteggiamento che si ripercuoterà anche sulla grande promotrice di questo atteggiamento, quell’Unione Sovietica staliniana che, grazie all’atteggiamento tenuto in particolare nella guerra di Spagna, vedrà catalizzare su di sé la simpatia di moltissimi politici, intellettuali e uomini di cultura per nulla vicini al comunismo (come ad esempio Aldous Huxley, George Bernard Shaw o Heinrich Mann) ma attirati dalla coerenza antifascista del nuovo corso politico. <6
In questi anni anche il PCd’I svestirà i panni del partito su misura per la sola classe operaia, e nella resistenza antifascista prebellica troverà la prima grande adesione di popolazione eterogenea, su base interclassista. Un approccio che anche in Togliatti tende ad approssimarsi sempre più all’anticlassismo, al compromesso con la borghesia, all’accantonamento di una chiusura settaria che appare sempre più dannosa e inutile ai suoi occhi, una astrazione che negli anni a cavallo tra il secondo e il terzo decennio del Ventesimo secolo poteva essere considerata un peccato imperdonabile, oltre che uno sbaglio senza eguali. Idea, quest’ultima, confortata anche nell’infelice esperienza applicativa portata in dote dalla condanna del social-fascismo e dal rifiuto di collaborazione con la socialdemocrazia, un rifiuto che nella Germania prehitleriana ha significato solamente l’agevolare il compito al partito nazionalsocialista tedesco nella sua presa del potere, con un fronte popolare diviso, indebolito e incapace di offrire una valida diga al trionfo delle istanze naziste. <7 Tra i successi travolgenti ottenuti dai regimi fascisti, la durezza della repressione, l’inefficacia della retorica rivoluzionaria e le nuove esigenze sovietiche, Togliatti porterà a compimento una maturazione fondamentale per la sua figura politica e per il suo partito, una maturazione che, assieme a tutti i suoi responsabili, vedrà una prima, grande applicazione nella guerra civile spagnola [1936-1939], una sorta di battesimo dell’antifascismo che, seppur catastrofico nei suoi esiti, vedrà l’implementazione di una tattica di fondamentale importanza per le future sorti dell’Europa.
[NOTE]
3 Palmiro Togliatti, Lezioni sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1976, pag. 13-14
4 Charles F. Delzell, I nemici di Mussolini, Roma, Castelvecchi, 2013, per approfondire l’infiltrazione comunista nelle organizzazioni fasciste si veda in particolare l’analisi contenuta nel capitolo “Il quarto congresso del PCI in Germania”
5 Aldo Grandi, Ruggero Zangrandi. Una biografia, Catanzaro, Abramo, 1994, pag. 76
6 Gabriele Ranzato, L’eclissi della democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pag. 336-337
7 Cit., pag. 20-21
Alessandro Catto, Palmiro Togliatti, il PCI e la democrazia progressiva tra lotta antifascista e costituzionalizzazione, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari - Venezia, Anno Accademico 2015/2016

Viceversa, un termine come ‘popolo’ andò via via acquisendo sempre più rilevanza nel discorso comunista italiano. Un più ampio impiego del lemma si ebbe per esempio durante gli anni trenta, soprattutto con la politica del fronte popolare antifascista e dopo il VII congresso del Komintérn, svoltosi tra il 25 luglio e il 20 agosto del 1935, l’ultimo prima del suo scioglimento. Se il termine ‘popolo’ su l’Unità aveva avuto una frequenza trascurabile tra il 1924 e la prima metà degli anni trenta, oltretutto quasi sempre come specificazione nazionale di altri popoli, la situazione apparve <105 rovesciata nel decennio successivo. Sul quinto numero dell’edizione clandestina del 1935, il popolo italiano era protagonista dell’azione contro l’«avventura brigantesca del governo fascista» <106. Ugualmente accadeva sul settimo numero, dove il popolo faceva la sua comparsa tra i destinatari dell’appello del partito <107. Il dodicesimo si rivolgeva poi direttamente al popolo, titolando “Popolo d’Italia, imponi la pace!” <108, e così il tredicesimo, “Il popolo italiano ha parlato!” <109. Sul quindicesimo numero l’Unità scagionava completamente il popolo italiano dalle sanzioni che nell’ottobre del 1935 la Società delle nazioni aveva applicato al paese per l’aggressione all’Etiopia. Infatti spiegava: «È contro i responsabili della guerra, è contro il fascismo aggressore che le sanzioni sono applicate - non contro il popolo italiano. Le sanzioni sono destinate a stroncare la guerra infame e disastrosa in cui il fascismo ha gettato l’Italia - non a soffocare economicamente il popolo italiano» <110.
Nel secondo numero del 1936 l’Unità insisteva proprio su questo punto: “Il popolo italiano non è responsabile della guerra!”, mentre lo era Mussolini, che <111 «[condannava] il popolo italiano alla fame ed alla morte» <112. Non era responsabilità dei «cinquecentomila giovani» che erano stati «mandati lontano, a soggiogare un altro popolo, con le armi» perché era stato «detto loro che ciò era necessario, nell’interesse del popolo italiano». Le «promesse fatte al popolo non [erano state] mantenute»: «il popolo italiano [era] sacrificato e oppresso», «sotto la minaccia di essere trascinato in una nuova guerra», «alla mercé di un pugno di sfruttatori»: «i grandi finanzieri, i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri» <113.
[...] Nell’articolo “Una grande lezione”, sull’ottavo numero de l’Unità del 1936, si poteva inoltre leggere: «L’eco dei recenti avvenimenti politici e sociali della Francia è giunta rapidamente nella Penisola, e vi ha portato una vaga speranza. L’istinto della classe operaia e del popolo intero, permette loro di stabilire, senza difficoltà, la identificazione degli obbiettivi [sic] dei popoli che lottano e che vincono, con i propri obbiettivi [sic]. Perciò le lotte del popolo spagnuolo, del popolo francese - e del popolo della lontana Cina! - giungono al cuore del nostro popolo, come il suono della campana che annuncia la nuova alba» <117.
Ugualmente, alla fine del 1937, un articolo di Ruggero Grieco invocava l’«unione del popolo» e la «solidarietà fra tutti i popoli» come arma decisiva contro la guerra <118. Da un lato la comunanza spirituale tra il popolo italiano e gli altri popoli in lotta contro il nazifascismo - che tra il 1937 e il 1939 trovava luogo privilegiato nella guerra civile spagnola <119 -, dall’altro le narrazioni delle promesse al popolo italiano non mantenute dal regime e il discorso del prezzo pagato dal popolo per averci creduto <120, costituirono, nel decennio a seguire (1938-1948), la base discorsiva del processo di totale assoluzione del popolo italiano.
Nel 1937, sulla stampa clandestina il ‘popolo’ cominciò a giocare un’importante funzione nel discorso in merito alla morte di Antonio Gramsci. Nell’articolo “L’estremo saluto del partito”, apparso sul sesto numero de l’Unità 1937, la frequenza del lemma ‘popolo’ era più alta che negli articoli dello stesso periodo.
[NOTE]
105 Come il popolo cinese: “La rivoluzione cinese. L’offensiva contro l’esercito del popolo”, l’Unità, III, 30 (4 febbraio 1926); “L’insurrezione del popolo cinese”, l’Unità, II, 129 (6 giugno 1925). Il popolo russo: “I capi della Seconda Internazionale predicano la guerra civile… contro il Governo dei Soviet”, l’Unità, II, 129 (6 giugno 1925). Il popolo macedone: “Le lotte del popolo macedone nelle dichiarazioni di un capo rivoluzionario”, l’Unità, I, 159 (16 agosto 1924). Il popolo italiano: “Il vivace fermento del popolo italiano”, l’Unità, I, 108 (18 giugno 1924); “Il popolo italiano potrà mai sapere chi sono accusati da Rossi, Finzi e Filippelli?”, l’Unità, I, 145 (31 luglio 1924).
106 “Il popolo italiano reagisce all’avventura brigantesca del governo fascista”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 5 (1935).
107 “Salviamo il nostro paese dalla catastrofe! (Appello del Comitato Centrale del Partito Comunista d’Italia)”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 7 (1935).
108 “Popolo d’Italia, imponi la pace!””, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 12 (1935). 109 “Il popolo italiano ha parlato!”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 13 (1935).
110 “Il responsabile delle sanzioni è il governo di Mussolini! Finisca la guerra!, deve essere il grido di tutto il popolo italiano”, l’Unità, Edizione clandestina, XII, 15 (1935).
111 Un gruppo di professionisti, “Il popolo italiano non è responsabile della guerra!”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 2 (1936).
112 R. Grieco [Ruggero Grieco], “Mussolini prepara un nuovo macello!”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 1 (1936).
113 R. Grieco [Ruggero Grieco], “Ex combattenti dell’Africa Orientale! Popolo italiano!”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 1 (1936).
117 “Una grande lezione”, l’Unità, Edizione clandestina, XIII, 8 (1936).
118 Ruggero Grieco, “Unione del popolo e solidarietà fra tutti i popoli per la pace e per la libertà”, l’Unità, Edizione clandestina, XIV, 14 (1937).
119 Nel 1937 fu soprattutto la lotta del popolo spagnolo a occupare le pagine de l’Unità: “Solidarietà del popolo italiano per i repubblicani spagnuoli”, sul secondo numero; “In difesa della Spagna del popolo”, sul terzo, sul quale, nella manchette, era scritto: «La vittoria della Sagna del popolo è anche nelle mani del popolo italiano»; “La solidarietà del popolo italiano con la repubblica spagnuola”, sul quinto; “Lavoratore italiano! Il fronte spagnuolo della libertà passa anche per il nostro paese”, sul settimo; Velio Spano, “Il popolo spagnuolo lotta per la vittoria”, sul decimo.
Giulia Bassi, Parole che mobilitano. Il concetto di ‘popolo’ tra storia politica e semantica storica nel partito comunista italiano, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2015/2016
 
Il Partito Comunista d'Italia (PCdI) nasce il 21 gennaio 1921 da una scissione dal Partito Socialista Italiano (PSI) in occasione del XVI Congresso di quest'ultimo (Spriano 1967-1975, I: 108-121). Il dibattito di lungo corso tra massimalisti (radicali, favorevoli al perseguimento del programma massimo) e minimalisti (riformisti, per una declinazione graduale degli obiettivi) registra un salto di qualità in seguito alla Rivoluzione d'Ottobre (1917) e alla conseguente costituzione del Comintern (1919), l'Internazionale Comunista che si propone di coordinare i partiti comunisti periferici sulla base delle indicazioni dell'organizzazione centrale, il Partito Comunista dell'Unione Sovietica (PCUS). Dal ruolo dell'organizzazione sponsorizzatrice nella fondazione del PCdI deriva dunque la “legittimazione esterna” del partito che ne condizionerà gli sviluppi successivi. Il processo di “bolscevizzazione” del partito promosso dal Comintern è tuttavia interrotto dall'avvento del fascismo e dal “passaggio alla illegalità” del PCdI (Panebianco 1982: 157-158). Nel 1923 la leadership di Amadeo Bordiga nel partito viene sconfessata direttamente da Mosca che, approfittando dell'arresto di quest'ultimo, lo rimuove accusandolo di eterodossia e di trockismo (Spriano 1967-1975, I: 429-456). Questo intervento apre la strada a un cambiamento al vertice del PCdI clandestino: nel corso del III Congresso (1926) si afferma una coalizione dominante di osservanza sovietica diretta da Antonio Gramsci (che assume il ruolo di Segretario) e da Palmiro Togliatti (Spriano 1967-1975, I: 510-513). L'8 novembre dello stesso anno Gramsci viene arrestato e morirà in carcere dopo undici anni di prigionia; i suoi 'Quaderni' contribuiranno in maniera decisiva alla ridefinizione dell'identità comunista nella seconda metà degli anni Cinquanta. Ormai scisso tra una direzione in esilio e un'organizzazione clandestina in Italia, il partito attraversa una fase turbolenta, decimato dalla repressione fascista e dalle epurazioni sovietiche, prima di stabilizzarsi con l'ascesa alla Segreteria di Togliatti (Agosti 1999: 26-33). Gli anni Trenta vedono un inasprirsi del controllo del Comintern sulle organizzazioni affiliate: nel 1938 il Comitato centrale del PCdI viene sciolto; Togliatti consolida così la sua preminenza nel partito grazie al rapporto diretto con Iosif Stalin (Spriano 1967-1975, III: 246-261). Il patto tedesco-sovietico (1939) e la conseguente formulazione della teoria della “guerra imperialista” da parte di Mosca mettono in difficoltà la tattica frontista che il PCdI stava portando avanti assieme agli altri partiti antifascisti, confermando ancora una volta come il Comintern agisse come strumento della politica estera dell'URSS (Spriano 1967-1975, III: 309-316). L'Operazione Barbarossa che i nazisti inaugurano nel 1942 produce un nuovo rivolgimento, ovvero la definizione di “guerra antifascista”, e ha quindi conseguenze anche sul PCdI, che torna a promuovere larghe intese tra le forze che si oppongono al regime per provocarne la caduta. Nel 1943 il Comintern viene sciolto e il PCdI assume la denominazione di Partito Comunista Italiano (PCI). Con le dimissioni di Benito Mussolini, l'ascesa di Pietro Badoglio e la sconfessione del Patto d'acciaio che legava l'Italia alla Germania, inizia nel Centro-Nord la Resistenza all'occupazione nazista. Dopo aver faticosamente riorganizzato la propria struttura clandestina, i comunisti si rivelano i principali animatori degli scioperi e delle lotte antinaziste (Spriano 1967-1975, IV: 345-358). Ottenuto l'assenso di Stalin, Togliatti rientra in Italia nel marzo 1944 e avvia la “Svolta di Salerno”, ovvero la disponibilità dei comunisti a entrare in un governo di pacificazione nazionale: si vuole privilegiare la guerra contro gli invasori tedeschi rispetto alla disputa sulla questione istituzionale causata dalla pregiudiziale antimonarchica degli altri partiti laici (Agosti 2009: 51). Togliatti promuove inoltre il “partito nuovo”, nazionale e di massa, ponendo le basi “per uno sviluppo che contiene una sensibile «deviazione» dal modello sovietico”, cioè l'organizzazione di quadri formata da rivoluzionari di professione (Panebianco 1982: 158). La funzione originale del rinnovato PCI è nella “democrazia progressiva” ovvero nell'inclusione delle grandi masse popolari nella gestione politica del Paese: “L'obiettivo che noi proporremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo. […] Questo vuol dire che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza e sul dominio di un solo partito” (Togliatti in Spriano 1967-1975, V: 389). Il PCI entra quindi a far parte dei governi Badoglio, Bonomi, Parri e De Gasperi (con Togliatti al Ministero di Grazia e Giustizia), prima di essere estromesso da quest'ultimo nel maggio 1947, a causa dell'irrigidimento dei rapporti tra USA e URSS e della fedeltà atlantica della DC. Per il resto della sua vicenda storica, il PCI non ricoprirà più incarichi di governo: è la “conventio ad excludendum” che accomuna le esigenze internazionali degli USA e i vantaggi interni della DC.
Alle prime elezioni dopo il ventennio fascista, il PCI sfiora il 19% dei voti e nel 1948 si presenta assieme ai socialisti nel Fronte Democratico Popolare ottenendo però un deludente 31% (alle precedenti consultazioni la somma dei due partiti superava il 39%). Il sistema elettorale proporzionale e la consistente affermazione della DC (48%) stabilizzano il Paese sul perno centrista che ne costituirà la costante per quasi mezzo secolo (Mack Smith 1997: 571).
La difficile transizione post-fascista e la ricostituzione del Comintern sotto nuove vesti (Cominform) provocano un riflesso difensivo nel PCI, che ripiega su se stesso con un parziale ritorno organizzativo al modello leninista (Agosti 1999: 63-65).
Francesco Andreani, The dissolution of the Italian Communist Party and the identity of the Left: ideology and party organisation, a thesis submitted to the University of Birmingham, 2013 

venerdì 19 agosto 2022

I coniugi Sverzut si prestano al recapito della corrispondenza a sovversivi

Parigi: nell'XI arrondissement. Fonte: Wikipedia

Altro membro della Milice du XI arr. di cui mi è stato possibile ritrovare un certo numero di informazioni è Fausto Sverzut, che dopo la liberazione di Parigi fece parte del CILN, sezione dell'XI arr. come tesoriere aggiunto. Lo Sverzut fu una persona che assunse un atteggiamento ostile al regime fascista e militò attivamente per il partito comunista in Italia. Espatriato poi in Francia continuò a professare le sue idee politiche senza però aderire ad un movimento politico né sindacale negli anni precedenti la II guerra mondiale. Durante il periodo dell'occupazione prestò aiuto alla resistenza ma senza compiere in prima persona azioni armate contro l'occupante fino al mese della Liberazione.
Fausto Sverzut era nato nel 1909 a Cervignano del Friuli in provincia di Udine. Figlio di una famiglia di sentimenti antifascisti, il padre professava idee comuniste mentre il fratello Giovanni era iscritto al partito socialista unitario, emigrò insieme al padre in Romania. Tornato in seguito a vivere in Italia, fu responsabile della ricostituzione del gruppo clandestino comunista di Monfalcone e fu anche il coordinatore delle attività delle varie cellule della zona. In seguito a denuncia <522 venne condannato al carcere per avere ricostituito la disciolta cellula comunista. Tuttavia nell'agosto del 1928 il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, ne ordinò la scarcerazione, dichiarando “non luogo a procedere”. <523
Richiamato alle armi nel 1929, prestò servizio militare in qualità di allievo fuochista artificiere nella Regia Marina. Imbarcato a bordo della R.N. Trento, di ritorno da un viaggio a Buenos Aires fu trovato dal comandante in possesso di manifestini sovversivi stampati alla macchia. Venne così trasferito sul Regio Posamine Fasana, ancorato nel porto di La Spezia, e “anche su questa nave lo Sverzut manifestò facendo quasi esplicita professione, di nutrire idee comuniste e sentimenti di avversione pel Regime e pel Governo nazionale.”. <524 Sottoposto quindi ad una più attenta vigilanza, la polizia si riservava di prendere provvedimenti contro di lui non appena avesse finito gli obblighi di leva, ma durante una breve licenza, lo Sverzut espatriò clandestinamente e raggiunse la Francia. Pertanto con sentenza contumaciale del 5 dicembre 1930 del Tribunale militare Marittimo di La Spezia, venne condannato a 5 anni di reclusione militare ed alla perdita di ogni diritto in quanto uomo di marina verso lo Stato. Su disposizioni del Prefetto di Udine, venne iscritto nel bollettino delle ricerche e nella rubrica di frontiera nel 1931 col la dicitura: “Comunista colpito da mandato di cattura per diserzione”.
Nel gennaio 1933 in un lettera indirizzata alla famiglia, e intercettata dall'UPI del Comando della 58 legione della M.V.S.N., lo Sverzut, dopo aver parlato dei suoi problemi di salute, descrisse le sue idee politiche di militante comunista fiducioso nella futura «rivoluzione proletaria» e nel declino del mondo capitalista. “(...) Per il momento non posso lamentarmi che di un malessere generale pur non condannandomi a letto. Faccio di tutto per curarmi e così prolungare la mia salute tanto contaminata che forse io non ne comprendo la gravità. Una sola cosa mi dà fiducia e speranza aiutandomi così a sopportare tutto, la rivoluzione proletaria in tutto il mondo e il comunismo vincitore. Avendo fiducia nella rivoluzione penso pure che curarmi potrò un giorno in qualche angolo d'Italia al sole e all'aria pura. Penso che non lontano sarà il giorno in cui si realizzerà quello che come le cento e cinquanta milioni di senza lavoro e operai occupati con salari di fame pensano e non invano guardando la realizzazione del socialismo in U.R.S.S. e il declino del mondo capitalista. <525 Non posso fare a meno di dirti il soggetto delle mie idee pur non sapendo che ti possono urtare i sentimenti che certo non corrispondono ai miei. Saluti.”. <526
Il 25 giugno 1933 venne arrestato a Parigi mentre incitava alle porte di una fabbrica gli operai a mettersi in sciopero. Nell'informativa della fonte fiduciaria si legge che “(...) Al momento dell'arresto si è dichiarato anarchico e fuggito dall'Italia perché disertore.”. In seguito a questo avvenimento, la polizia francese ne dispose quindi l'allontanamento dalla Francia facendolo accompagnare alla frontiera del Belgio.
Tuttavia nel 1935 era ancora a Parigi, e come annotava un informatore del Ministero degli Interni continuava a professare i suoi sentimenti comunisti ed antifascisti, senza esplicare attività politica degna di particolar rilievo. Per un periodo la residenza dello Sverzut era in Passage du Genie presso l'hotel-ristorante Mazzocchi, luogo di ritrovo per gli antifascisti italiani dell'XII arr. e della Parigi nord-est, in seguito ad accertamenti fatti eseguire dalla polizia italiana, risultò che si faceva recapitare la posta presso il Mazzocchi ma che non abitava in quell'hotel.
Dalla lettura di un'altra lettera che lo Sverzut spedì al padre nel 1937 alla quale la polizia fascista non dette corso, si apprende che era riuscito a regolarizzare la sua posizione in Francia ottenendo i documenti per il soggiorno “(…) incomincio per dirti che la vita per me qui in Francia è divenuta un poco migliore di quella che era qualche anno fa. Sono riuscito a regolarizzarmi con le carte», che si era sposato con la cittadina francese Margherita Baumer, nata a Parigi il 2.08.1909, che risiedeva insieme a lei nell'XI arr., al n. 96 del Boulevard Charonne, e che avevano un bambino di nome Michel nato nel 1936. La Baumer, per aver frequentazioni con il 'disertore' Sverzut fu seguita e interrogata a Parigi già nel 1933, <527 così si legge in un Telegramma della regia ambasciata d'Italia al Ministero dell'Interno, del 5 maggio 1933, essa dichiarò di non avere nessuna informazione sul suo conto, al Casellario venne anche aperto un fascicolo a suo nome per gli anni 1933-1938.
In una nota del Ministero degli Esteri, del 31.10.1938, è comunicato al Ministero degli Interni che i coniugi Sverzut si prestano al recapito della corrispondenza a sovversivi ed esplicano attività antifascista. Queste considerazioni del Ministero degli esteri nascono in seguito al sequestro di una lettera di Bacchi Giovanni, emigrato a Parigi, e indirizzata a Domenica Trieste, nella quale viene messo come indirizzo del mittente quello di Margherita Baumer. In questa lettera, il Bacchi, schedato come comunista presso il CPC, parla della condizione degli stranieri dopo i provvedimenti adottati nel 1938 dal Governo Daladier e delle sue difficoltà a Parigi, in quanto espulso, privo di documenti in regola, senza lavoro e costretto a vivere nell'illegalità. <528
Dopo il 1938, le ultime informazioni che si ricavano dal fascicolo personale del CPC sullo Sverzut riguardano l'anno 1943, quando lo stesso richiese il rilascio del passaporto con visto per espatrio poiché doveva recarsi in Italia per urgenti motivi familiari. Il Ministero degli Interni si espresse favorevolmente il 24 agosto “Si prega di disporre la rettifica del provvedimento d'iscrizione del predetto nel Bollettino delle Ricerche analogamente a quella ora richiesta da questo Ministero per la rubrica di frontiera e cioè col provvedimento da 'segnalare e vigilare'”, tuttavia fu il Ministero degli Esteri ad esprimere parere contrario, il 20 settembre, poiché il mandato di cattura per diserzione a carico dello Sverzut era ancora eseguibile. Inoltre nel 1943 è data notizia della sua presenza a Parigi dove risiede al n. 27 della rue Alexandre Dumas, nell'XI arr.
Riguardo al periodo dell'occupazione nazista di Parigi, le uniche informazioni che ho potuto trovare sono quelle contenute nelle attestazioni sulla sua attività di resistenza presenti nel Fondo Maffini. All'archivio della Préfecture de Police hanno un fascicolo a suo nome, in quanto venne arrestato il 20 maggio del 1944 a Parigi, tuttavia non m'è stato possibile consultare il fascicolo: mi è stato solo comunicato la data di arresto dello Sverzut, il 22.04.1944 e il numero del fascicolo (7737). Dalle due attestazioni, rilasciate da Maffini, nel 1968 e nel 1977, risulta che lo Sverzut, che è nella lista dei Garibaldini dell'XI arr., era entrato nella resistenza, Front National, nel maggio del 1942 ed
era incaricato, dall'organizzazione clandestina MOI, di occuparsi del reclutamento di resistenti, della propaganda e della distribuzione della stampa clandestina; distribuì i giornali "Italie Libre" e "Front National" e volantini che incitavano al sollevamento e alle azioni armate contro l'occupante.
Dopo il 9 settembre 1943 il suo domicilio servì ad ospitare alcuni soldati italiani della IV armata che si erano rifiutati di servire sotto il comando tedesco, e i resistenti che dovevano compiere una missione. Inoltre la sua casa servì da nascondiglio per armi e munizioni. Venne arrestato e internato alla prigione della Santé il 14 aprile 1944 e venne liberato dai resistenti delle F.F.I. il 17 agosto 1944. Purtroppo non è specificato nelle due attestazioni il motivo dell'arresto, né mi è stato specificato presso l'Archivio della Prefettura. Una volta rilasciato, fece parte, in qualità di sergente, della Milice du XI e collaborò alla confezione di bombe Molotov alla Mairie dell'XI, prese parte a dei combattimenti, costruì le barricate della rue des Immeubles e della rue Montreuil il 22 e 23 agosto, come al recupero di armi. Il 25 agosto prese parte alla cattura dei soldati tedeschi che occupavano la Caserma Prince Eugène. In seguito fece parte del Comité local du XI “Italie Libre”, in rue de Montreil, sezione del Movimento Italie Libre” ex Comité italien de Liberation national, in rue de Babylon. <529 Dopo la II guerra mondiale in Francia, è rimasto a lungo a vivere a Parigi per poi tornare a vivere in Italia.
[NOTE]
522 La Regia Prefettura di Trieste con lettera in data 1 giugno 1929, trasmette copia della denunzia inoltrata l'8 settembre 1927 al Tribunale Militare di Trieste contro il Quarantotto Mario ed altri otto giovani comunisti. “Da detto
rapporto si rileva quanto segue: che la mattina del 7 ottobre 1927 circa alle ore 9,00 un contadino si accorse che in una boscaglia sita presso la Bargellina scoperse un gruppo di giovani comunisti che si riunivano colà
clandestinamente. Subito il contadino Colsutti Giuseppe denunziò il fatto a quel Comando della SVSS il quale subito dispose per accerchiare gli adunati e procedere al loro fermo. Fu così possibile fermare i comunisti sotto elencati e
identificati. Silvestri Giovanni, Belbianco Eugenio, Marega Ferdinando, Sverzut Fausto, Buttignon Volmaro, Sellan Egidio, Budicin Antonio, Quarantotto Mario, Buttignon Bruno. Gli arrestati sono stati portati alle carceri mandamentali dove sono stati denunziati a quell'autorità giudiziaria.” in CPC; fascicolo ad nomen Sverzut Fausto, b. 4991.
523 Cfr. L. Patat, Fra carcere e confino: gli antifascisti dell'isontino e della Bassa Friulana davanti al Tribunale speciale, Centro isontino di ricerca e documentazione storica e sociale Leopoldo Gasparini, Gradisca d'Isonzo, 2006,
pp. 158-160.
524 Informativa della Prefettura di Udine al Consolato di Parigi, del 20 febbraio 1931 in ACS, CPC, fascicolo Fausto Sverzut, b. 4991.
525 Lettera datata 24 gennaio 1933. Ivi.
526 Ivi, Lettera del 24.01.1933.
527 Telegramma Regia Ambasciata d'Italia al Ministero Interno (CPC), del 5 maggio 1933; ACS, CPC, f. Sverzut Fausto, b. 4991.
528 Dalla lettera “(…) Felicissimo nel sentire che state tutti bene, in quanto a me si può dire le stesse da un solo atto e cioè salute tutto il resto abbastanza male. Credo sarete a conoscenza attraverso i giornali quali sono le nuove leggi emanate dal governo Daladier concernenti gli stranieri, e in special modo contro gli espulsi. Ora io in qualità di espulso mi trovo in condizioni di dover vivere illegalmente, perché l'art. 11 di detta legge dice che gli espulsi che verranno presi verranno condotti alla frontiera d'origine e che solamente se il colpito potrà dimostrare che si trova impossibilitato di essere rimpatriato gli verrà assegnato un domicilio forzato e cioè (domicilio coatto). Allora pensate un po' voi in quale condizione poco piacevole mi trovo, così pure detto governo ha creato la legge della percentuale degli stranieri sul lavoro e cioè il 10% così la possibilità di lavorare è difficile per coloro che sono in regola con le carte, immaginate quali sono le difficoltà per me. Con questo non è il caso di disperare, tanto lo sapete bene che io sono temprato a tutte le temperature, ma però non avrei mai pensato che un governo che si dice di Fronte Popolare non tollerasse i veri amici della democrazia. In questa mia vi prego tanto di voler spedirmi quel documento che vi ho lasciato il giorno della mia partenza, perché detto libretto solamente potrà salvarmi in più prego parlare con mia sorella e domandargli tutti gli altri documenti concernenti la mia politicità. (…) ”. Citazione da copia di lettera proveniente dalla Francia, Parigi, XI, rue Merceaur, diretta alla Sig.ra Domenica Sbisà, Trieste, 11/06/1938; Ivi.
529 APP, dossier Darno Maffini, n. 466081/77W184, Documento del 20 novembre 1945.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013

sabato 16 luglio 2022

Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti

Milano: tra Corso Sempione ed Arco della Pace

Tornato a Bologna informai Roasio, e insieme ci recammo a Milano per esaminare la situazione e portare le notizie raccolte a Padova.
Il 10 giugno [1943] si avvicinava, senza che potesse prendere corpo il vago disegno di utilizzare l'anniversario della entrata in guerra dell'Italia e della uccisione dli Giacomo Matteotti, per scatenare uno sciopero generale politico con manifestazioni di strada e pronunciamenti anche di reparti dell'esercito. Un manifesto, firmato PCI e PSI, chiamava i lavoratori ad azioni dimostrative: due minuti di silenzio al fischio della sirena delle ore 10 del mattino, non comprare i giornali, non uscire la sera dopo le 20,30. Ma non mi risulta quale diffusione tale manifesto abbia effettivamente avuto. In Emilia non credo che sia arrivato. Comunque l'invito non fu raccolto. In realtà mancavano le premesse politiche e organizzative di una tale iniziativa. I socialisti e gli azionisti opponevano la pregiudiziale repubblicana a una intesa unitaria con le forze liberali e cattoliche. Questi, attraverso i loro esponenti più autorevoli, erano sempre fermi su posizioni attesiste. La liquidazione della guerra spettava alla monarchia che l'aveva dichiarata. Il prezzo della sconfitta sarebbe stato durissimo, essi affermavano, e non conveniva che i partiti antifascisti dovessero assumersi questa responsabilità. Quindi, secondo la destra, bisognava limitarsi a promuovere l'intervento del re. Si sapeva che tentativi in questo senso, per ottenere questo intervento, erano già stati compiuti a Roma, da parte del gruppo di Bonomi e di certi ambienti militari, ma il re non si era impegnato o compromesso con affermazioni precise. Così era impossibile preparare, come avremmo voluto, un manifesto unitario di tutte le opposizioni per il 10 giugno. E del resto, anche se ci fosse stato l'accordo politico, mancavano le basi organizzative per tradurlo in azione. Dove stampare l'appello e in quanti esemplari diffonderlo? Ancora una volta si faceva sentire la sproporzione tra le necessità e le possibilità del momento e il grave ritardo organizzativo.
La venuta di Marchesi a Milano ci obbligò come centro interno a esaminare la situazione e a prendere delle decisioni. Negarville ed io fummo incaricati di avere con Marchesi un incontro, che si svolse nella sede della casa editrice Principato in corso Sempione. Convincemmo Marchesi a partire per Roma, dove avrebbe dovuto prendere contatto con i senatori Casati e Bergamini. Egli aveva già visto Casati a Milano, nella stessa sede della casa Principato. A Roma egli doveva insistere perché le pressioni sul re aumentassero in modo da ottenere al più presto un intervento per liquidare il governo fascista, con l'arresto di Mussolini e degli altri gerarchi, e promuovere la formazione di un governo di coalizione antifascista presieduto da Bonomi. I comunisti avrebbero dato il loro appoggio a tale iniziativa ed erano pronti anche a partecipare ad un governo di unità nazionale. Marchesi andò a Roma, prese contatto con i senatori Casati e Bergamini e assunse in questi colloqui le posizioni convenute con noi. Questo viaggio deve avere avuto luogo, secondo i miei ricordi, ai primi di giugno. Al ritorno a Milano ci riferì che la sua missione aveva suscitato una grande impressione. A Roma si parlava anche di un intervento dell'esercito e si facevano i nomi di Badoglio, Caviglia, Ambrosio.
Il mese di giugno passò in affannosi preparativi. Contemporaneamente, su tre piani diversi, si muovevano le iniziative per tentare di uscire dalla guerra.
In seno al partito fascista si andava raccogliendo quella che sarebbe stata la maggioranza del 24 luglio al Gran Consiglio. Era ancora presente l'illusione che, accantonando Mussolini, magari col suo consenso, sarebbe stato possibile agli stessi gerarchi fascisti trattare con gli inglesi e con gli americani il rovesciamento della alleanza. Il compromesso raggiunto da Churchill e Roosevelt con Darlan, nell'Africa del nord, costituiva un esempio, al quale gruppi di dirigenti fascisti si richiamavano. In verità, questa soluzione appariva sempre più irrealizzabile di fronte agli sviluppi de!le operazioni militari, e alle stesse reazioni politiche provocate dal compromesso fatto con Darlan. Comunque i gerarchi marciavano su questa linea, pensando di poter godere dell'appoggio del re e di certi collegamenti politici e finanziari mantenuti su scala internazionale.
Il re, muovendosi con estrema prudenza e senza mai compromettersi, teneva i contatti con tutti. Manifestava sempre a Mussolini la sua fiducia. Lasciava credere a Grandi di poter raccogliere la successione di Mussolini. Aveva ricevuto esponenti liberali, Bonomi e Orlando, ma soprattutto si orientava per la formazione di un governo di militari e di tecnici, contando sull'intervento all'ultima ora dell'esercito e della polizia.
Per evitare una successione fascista (Grandi), o una soluzione militare, bisognava che le forze antifasciste sapessero e potessero prendere in tempo una loro iniziativa politica e promuovere un intervento delle masse popolari.
Dopo il viaggio di Marchesi a Roma si arrivò, non senza ulteriori difficoltà, alla convocazione a Milano di una riunione con i rappresentanti dei partiti antifascisti. Questa si tenne il 24 giugno in corso Sempione presso l'editore Principato. Facemmo un ultimo pressante tentativo perché alla riunione andasse uno di noi due, o Negarville o io. Ma non ci fu modo di vincere la forza delle obiezioni di carattere cospirativo. Così, alla mattina del 24 noi due ci incontrammo con Marchesi, con il quale concordammo la scaletta del suo intervento e il programma di azione che doveva esporre ai rappresentanti degli altri partiti antifascisti. Alla riunione parteciparono: Casati per il PLI (allora Ricostruzione Liberale), Gronchi per la DC, Lombardi per il Partito d'azione, Basso per il MUP, Veratti per il PSI e Marchesi per il PCI. Marchesi espose, a nome del partito, il seguente piano di azione:
a) costituire un fronte nazionale, con un comitato direttivo a cui fosse affidata la direzione di tutto il movimento popolare;
b) lanciare un manifesto al paese per sollecitare l'azione insurrezionale;
c) organizzare un grande sciopero generale con manifestazioni di strada;
d) fare intervenire l'esercito a sostegno del popolo contro il governo fascista;
e) determinare, sulla base di questo movimento insurrezionale di popolo e di esercito, un intervento della monarchia, l'arresto di Mussolini e la formazione di un governo democratico che rompesse immediatamente il patto di alleanza con la Germania, concludesse un armistizio con gli alleati e ristabilisse le libertà democratiche. Questo governo doveva essere composto dai rappresentanti di tutti i partiti antifascisti, compresi i comunisti.
Ho preso l'elenco delle proposte comuniste, per non essere tratto in inganno dai ricordi, dal testo della relazione presentata al V Congresso del partito, del gennaio 1946. Il secondo capitolo, che riporta questo testo, «Dal 25 luglio all'occupazione tedesca», fu redatto personalmente da me; e allora, a poco più di due anni, i ricordi erano ancora freschi. Nessuno, del resto, ha mai smentito questa parte della relazione.
Le proposte di Marchesi suscitarono una viva discussione. I due elementi che caratterizzavano il piano politico presentato dai comunisti erano, contemporaneamente, l'appello al popolo, per una sua azione diretta, e la preparazione concreta di questa azione, e, d'altro lato, l'appoggio a un intervento del re che, premuto dall'iniziativa popolare, incalzato dal precipitare degli eventi militari, sarebbe stato obbligato a prendere un'iniziativa per formare un governo di unità nazionale, incaricato di fare l'armistizio, e di preparare la resistenza alle prevedibili reazioni tedesche.
Una seconda riunione si svolse il 4 luglio in via Poerio. Vi erano gli stessi partecipanti, con l'eccezione della DC, che mandò Mentasti al posto di Gronchi, e del PLI, che mandò Leone Cattani al posto di Casati. Ma le due riunioni non permisero l'approvazione del piano politico presentato dai comunisti. Marchesi si urtò sempre contro le stesse obiezioni. Socialisti e azionisti non vollero rinunziare alla pregiudiziale repubblicana (anche se si doveva fare una distinzione tra la posizione rigidamente attesista assunta da Basso del MUP, e quella più duttile presa da Veratti del PSI), e democratici cristiani e liberali al loro proclamato attesismo.
Invano si cercò, con colloqui separati, di persuadere le sinistre socialista e azionista che da soli non ce la facevamo a intervenire dal basso nelle prossime settimane, in tempo utile per condizionare lo sviluppo degli avvenimenti. E invano si cercò di convincere le destre, democratici cristiani e liberali, che rinunciare a premere apertamente sul re, anche con manifestazioni dal basso, significava lasciargli le mani libere per organizzare il colpo di Stato come avrebbe voluto, giungere a un governo di militari e di tecnici, ed essere tagliati via dalla partecipazione alle trattative per la conclusione dell'armistizio. Meglio così, rispondevano i liberali e i democratici cristiani, così non ci assumeremo delle responsabilità molto gravi che non ci spettano. Ma noi siamo interessati, incalzavamo, perché le trattative per l'armistizio procedano in un certo modo e giungano a determinati risultati, in modo da permettere all'Italia di partecipare alla guerra contro la Germania, guerra che non sarà evitabile perché i tedeschi cercheranno in ogni modo di mantenere il controllo del paese.
Le discussioni erano rese più difficili dall'orientamento personale di Marchesi, che tracciava una netta delimitazione tra le proposte che egli faceva a nome del partito e che riguardavano l'attualità, e le considerazioni che a titolo individuale faceva sugli sviluppi dell'azione comunista, da lui presentata come tutta orientata alla presa del potere con la violenza. Quando, dopo la prima riunione, Marchesi ci fece la relazione sull'andamento della discussione, fu candidamente sorpreso dalla nostra reazione critica. Perché non dovevo dire queste cose? Non riuscimmo a persuaderlo che non si trattava di non dire «queste cose», di nasconderle diplomaticamente, ma di non pensarle, perché esse erano fuori della prospettiva strategica del PCI, che era quella di avanzare al socialismo per una via di democrazia progressiva.
La «doppiezza», di cui tanto si è poi parlato nelle discussioni suscitate dal XX Congresso, non è stata una invenzione tattica di Togliatti, ma il risultato della sovrapposizione, non criticamente meditata, della linea di unità nazionale elaborata dall'Internazionale comunista a partire dal VII Congresso sulla vecchia visione di un'azione diretta per l'instaurazione della dittatura del proletariato. Il fatto che il PCI si andasse ricostituendo e riorganizzando con militanti restati per anni tagliati via dalle esperienze di elaborazione del centro del partito e dell'Internazionale comunista faceva sì che in questi compagni le due linee, la vecchia e la nuova, coesistessero, si intrecciassero, si confondessero in un rapporto variabile da compagno a compagno, secondo la diversa formazione culturale e le diverse esperienze (emigrazione, carcere, attività illegale all'interno o, addirittura, prolungata forzata inattività). La lotta per affermare coerentemente la linea politica della direzione assumeva una crescente importanza. Ma l'urgenza dei tempi ci diceva che questa lotta doveva essere condotca essenzialmente nella pratica esperienza della battaglia politica, ponendo concretamente i militanti e le organizzazioni di fronte alla necessità di attuare i compiti indicati dalla direzione e corrispondenti alla gravità della situazione in cui si trovava il paese.
La discussione con gli altri partiti era resa anche più difficile dalla necessità di osservare le norme cospirative. Gli arresti di compagni e degli altri militanti antifascisti continuavano, e ciò ci ricordava la esigenza della cautela, anche se l'urgenza dei tempi esigeva una maggiore scioltezza di movimenti. In fondo, malgrado le nostre impazienze, dovevamo riconoscere che Francesco aveva ragione di essere severo e puntiglioso nell'esigere il rispetto di certe elementari norme cospirative.
Giorgio Amendola, Lettere a Milano, Editori Riuniti, 1973, pagg. 105-109

venerdì 18 marzo 2022

Un esempio eclatante di come Thomas Mann sia stato usato e strumentalizzato a scopi razziali e fascisti


Se prima si affermava che tra il 1938 e il 1945 le opere di Mann non furono tradotte, vi è almeno una eccezione. Proprio nel 1938, l’anno in cui venivano promulgate in Italia le leggi razziali, si poteva leggere un breve estratto del racconto "Wälsungenblut" nella rivista “La difesa della razza”. <175
In questo caso la sede di pubblicazione è da prendere in considerazione con particolare attenzione. La rivista si dichiarava apertamente razzista e aveva lo scopo di promuovere la propaganda fascista, soprattutto quella di
impostazione antisemita. Basti pensare che nell’agosto dello stesso anno, cioè solo un mese prima che uscisse l’estratto di Mann, vi era stato pubblicato un testo, redatto da diversi scienziati italiani, conosciuto con il titolo "Il Manifesto della razza" che costituisce un documento di base dal quale prendono direttamente spunto le leggi razziali promulgate da Mussolini.
Dunque, cosa narra Thomas Mann in questa novella per finire sulle pagine di una rivista razzista? In poche parole si tratta di una "Skandalgeschichte" in cui una ragazza ebrea che sta per sposare un uomo non-ebreo commette incesto con suo fratello. Steso già nel 1906, cioè poco dopo il suo matrimonio con Katia Pringsheim, che era di origine ebrea, il testo, è bene chiarirlo subito, contiene in effetti alcuni luoghi comuni sugli ebrei come p.e. la descrizione di alcuni tratti somatici tipici, considerati brutti. In una lettera al fratello Heinrich dello stesso periodo Mann confessava che il suo vero interesse per questa storia era dovuto soprattutto alla “Milieu-Schilderung”, la descrizione dell’ambiente. <176 Lo sarebbe stato anche se si fosse trattato di persone appartenenti ad altri gruppi etnici o religiosi. Il testo nel suo insieme non è né antiebreo né scritto con una tale intenzione. Ciò non toglie che Mann non sia stato in grado di liberarsi dagli stereotipi diffusi nei primi anni del Novecento. Come modello letterario è stato individuato piuttosto la "Walküre" (Valchiria) di Richard Wagner da dove Mann ha potuto prendere l’ispirazione della scena dell’incesto, alla quale allude in modo molto diretto già con il titolo "Wälsungenblut" - sangue di velsungo, riferito a quella stirpe germanica, molto probabilmente solo leggendaria. A conferma di questa fonte vi è il fatto che fratello e sorella ad un certo punto vanno ad assistere proprio ad una rappresentazione di quest’opera, alla quale anch’essi si “ispirano” per l’incesto che ne segue subito dopo.
Per l’estratto nella rivista, lungo appena una pagina, la redazione ha scelto la fine della narrazione, cioè la parte in cui avviene l’incesto. Al momento stesso della loro unione però Mann, secondo il suo stile consueto, vi allude soltanto, lasciando che le azioni dei due sfocino in due trattini, e così lasciando tutto il resto all’immaginazione del lettore.
[...] Il testo di Mann però è legato in modo ancora più stretto ad un altro aspetto della legislazione razziale, ovvero il divieto di matrimonio tra italiani e ebrei.
Si ha il forte sospetto che qui si sia davanti al tentativo di giustificare questo divieto con il far vedere che gli stessi ebrei osservano in merito delle leggi ancora più severe. Tanto più che il brano di Mann esce nella rubrica intitolata “Documentazione”. <180 La nostra ipotesi trova sostegno anche nella nota introduttiva che accompagnò l’estratto. Ad affiancarla ci sono anche due immagini di una ragazza e di un ragazzo ebreo, con i tratti fisionomici ritenuti tipici per gli ebrei, p.e. il naso adunco della ragazza e il labbro inferiore fortemente sporgente del ragazzo.
[...] Nella seconda parte dell’introduzione questo rovesciamento diventa ancora più chiaro, quando si parla di “ostilità ereditaria dell’ebreo per il cristiano”. La possibile lettura dell’incesto come vendetta contro il non ebreo, qui è chiamata direttamente “vendetta di razza” e trova espressione nel titolo dato al testo di Mann, "Sangue riservato", falsificando non poco quello originale. Come già visto in altro ambito la traduzione dei titoli di Mann ha più di qualche volta indotto a scegliere un titolo così detto interpretativo, dove il titolo sta a indicare già da solo l’interpretazione del testo per la quale si è optato. Per la sua triste esemplarità di interpretazione razzista si cita qui anche la seconda parte dell’introduzione per esteso:
<Thomas Mann, ebreo e fuoruscito tedesco, e grande scrittore, ha una novella dove l’ostilità ereditaria dell’ebreo per il cristiano è descritta attraverso la storia di una fanciulla d’alto lignaggio ebraico che alla vigilia delle nozze con un funzionario prussiano, si concede al fratello e consuma nell’incesto una vendetta di razza, contro un matrimonio ch’essa considera come una forma di schiavitù. Ecco la chiusa della novella, lui cui morale è già tutta nel titolo: “Sangue riservato.”> <182
Come si vede, il titolo non è l’unico aspetto falsificato. Qui addirittura Mann è dichiarato di essere ebreo. Diventa così ancora più difficile entrare nella logica, se mai ce ne fosse una, di chi ha pubblicato l’estratto in questa sede: Mann ebreo avrebbe quindi scritto un testo anti-ebreo?
Se si considera che la versione proposta nella rivista non è mai stata pubblicata in via ufficiale può risultare curioso il fatto che sia arrivata, anche se soltanto come estratto, in Italia. Curiosa anche un’altra contraddizione perché l’autore Mann era vietato dallo stesso regime.
[...] Per quali vie è arrivato il racconto alla redazione della rivista non possiamo sapere. Possiamo però ripercorrere velocemente la sua singolare "Druckgeschichte": quando Mann decise di cambiare il finale, il testo era già in stampa. Pare che un giovane tipografo abbia sottratto di nascosto le pagine del manoscritto originale per poi copiarle segretamente. Inoltre vi fu un’edizione nel 1921, molto limitata e mai entrata in commercio della casa editrice monacense “Phantasus”. <183 Un dato certo è che nel 1931 era già uscita in Francia una versione integrale proprio con il titolo "Sang réservé". <184 In Italia invece il testo, oltre quel breve estratto, non è stato molto considerato in seguito. Lo troviamo solo nell’edizione "Tutte le opere" e poi nella già citata traduzione con testo a fronte di Anna Maria Carpi, uscita nel 1989 presso Marsilio a Venezia.
La pubblicazione dell’estratto di "Wälsungenblut", in questo luogo, in questa traduzione e con questa introduzione costituisce un esempio eclatante di come Thomas Mann sia stato usato e strumentalizzato a scopi razziali e fascisti. Come già accennato, questa è anche l’ultima traduzione di Mann che fu pubblicata in Italia prima e durante la Seconda guerra mondiale.
[...] L’asse Berlino - Roma, concluso in via ufficiale nel 1939, ma di fatto creatosi già molto prima, portava con sé la conseguenza dell’equiparazione tra Germania e Italia a diversi livelli, anche a quello giudiziario, e perciò introdusse il divieto dei libri di Thomas Mann anche in Italia.
Contemporaneamente c’era chi tentava di istituire un altro asse, più tardi chiamato "Gegenachse", con l’intento di continuare anche quei rapporti culturali tra Italia e Germania non graditi e proibiti dai regimi. Questo asse esisteva non come espressione di un gruppo organizzato, esisteva invece grazie all’impegno individuale di alcuni, pochi, che erano in contatto tra di loro e creavano così, una rete, per quanto a maglie larghe.
Quando Hitler e Mussolini si incontrarono per la prima volta nel 1934 sulla Riviera del Brenta, nella più imponente delle ville venete, la Pisani, Mann era in contatto diretto con Benedetto Croce. Il breve ma intenso scambio epistolare, sottolineato da diverse dediche da entrambe le parti, non ultima quella di Croce a Thomas Mann della "Storia d’Europa nel secolo decimonono", testimonia un comune impegno contro i totalitarismi e irrazionalismi e a favore di una storia europea basata sul principio della libertà.
Parallelamente vi fu un altro scambio molto importante, quello tra Mann e Lavinia Mazzucchetti, più consistente e protrattosi fino alla morte dello scrittore. Da quando Mann fu vietato in Italia, la Mazzucchetti si assunse l’incarico di informare i pochi iniziati delle ultime novità sullo scrittore: lettere, discorsi e qualche pagina di testo. Nel suo libro "Die andere Achse" Mazzucchetti ricorda questa attività, chiamando Mann addirittura “merce di contrabbando spirituale”: "Die wichtigste geistige Schmuggelware blieb aber immer Thomas Mann. Ich weiß noch gut, wie begierig sich Benedetto Croce bei jedem seiner Besuche in Mailand von mir über den großen Weggenossen berichten und seine Briefe mitteilen ließ". <185
A causa del divieto di importazione dal 1938 al 1945 non viene pubblicata nessuna opera di Thomas Mann in Italia. Questo non voleva dire che non si potesse leggere lo scrittore tedesco anche in questi anni. Non abbiamo però trovato conferme concrete per edizioni non ufficiali, copie illegali o simili di cui invece si sente parlare spesso, ma quasi mai senza indicare alcuna fonte, cosa che ci costringe a considerare tali affermazioni non affidabili.
Nonostante l’oppressione e il costante pericolo di altre violenze, questo tempo non fu del tutto "wortlos". Il dialogo culturale, quello non a servizio dei regimi e delle ideologie, era molto ridotto, ma non del tutto interrotto. Nuovamente, come all’inizio della ricezione di Mann in Italia, si mostra in questi anni l’importanza dell’agire di singoli personaggi, in prima fila, ancora una volta, Croce e Mazzucchetti.
Bisogna però prendere atto che oltre le circostanze difficili per la ricezione di un autore straniero, per di più tedesco, si è verificato anche un brusco rallentamento dell’interesse effettivo nei confronti di Mann, quasi come se la lontananza geografica dovuta all’esilio di Mann in America aumentasse anche quella spirituale.
[NOTE]
175 Thomas Mann, Sangue riservato, in “La difesa della razza”, anno I, 5 settembre 1938, p. 39. D’ora in poi cit. Mann, Sangue riservato.
176 Lettera di Thomas Mann a Heinrich Mann, 17 gennaio 1906, in Thomas Mann - Heinrich Mann, Briefwechsel 1900-1949, Fankfurt a.M., Fischer, 1975, p. 45.
180 Thomas Mann, Mario e l’incantatore. Una tragica avventura di viaggio, trad. di Anna Bovero, illustrazioni di B. Badia, Torino, Libreria Editrice Eclettica, 1945.
182 Ibidem.
183 Thomas Mann, Wälsungenblut, einmalig limitierte Sonderausgabe, München, Phantasus-Verlag, 1921.
184 Thomas Mann, Sang réservé, traduit de l’allmand, Paris, Grasset, 1931.
185 Lavinia Mazzucchetti, Die andere Achse, p. 20.
Arno Schneider, La prima fortuna di Thomas Mann in Italia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2008
 
Lo scambio epistolare tra Lavinia Mazzucchetti e Thomas Mann rappresenta un unicum nei rapporti dello scrittore con gli italiani non soltanto per l’estensione temporale, l’intensità, la simpatia e l’attualità degli argomenti trattati, ma anche perché ha costituito un contatto più che autentico dello scrittore con l’Italia.
Elisabetta Mazzetti, I carteggi di Lavinia Mazzucchetti con Thomas Mann, Hans Carossa e Gerhart Hauptmann. La soddisfazione «di servire la causa della libertà e bollare la barbarie» e la fuga dalla realtà in (a cura di) Anna Antonello e Michele Sisto, Lavinia Mazzucchetti. Impegno civile e mediazione culturale nell’Europa del Novecento, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma, 2017
 

mercoledì 26 gennaio 2022

Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia

Fonte: Wikipedia

Tuttavia le precoci testimonianze sui campi francesi, come Drancy e Compiègne, suscitarono uno scarso interesse nella Francia del dopoguerra, più volta alla ricostruzione che al ricordo dei terribili anni dell’occupazione tedesca. L’attenzione del pubblico era per lo più rivolta ai resoconti dei campi di concentramento in Germania e di sterminio in Polonia, rispetto ai quali i campi francesi rivestivano per il momento un ruolo marginale nel racconto della storia della deportazione. <28 I campi di transito richiamavano infatti alla memoria una sensazione di precarietà ben diversa da quella dei Konzentrationslager dell’Est Europa: si avvertiva cioè un sentimento di futilità nel descrivere delle esperienze che apparivano a posteriori come sopportabili rispetto ai “lieux de cauchemar” conosciuti in seguito <29.
In Italia, diversamente dalla Francia, dove la narrativa resistenziale riusciva a coniugare vittoria e martirio, ricomprendendo vincitori e vinti, fu difficile includere i deportati, anche se partigiani, nelle file dei vincitori, poiché non erano stati tra i fautori attivi della ritrovata libertà <30. Non del tutto invisibile, ma neanche dirompente, fu poi la memoria della specifica sorte toccata agli ebrei, perseguitati e deportati in virtù di ciò che erano e non in funzione della loro appartenenza ad un partito <31, il cui percorso venne dunque compreso attraverso il filtro dell'esperienza dei deportati politici <32. Come ricorda Aline Sierp, oltre all’istituzionalizzazione di alcune ricorrenze che divennero nel dopoguerra commemorazioni pubbliche in memoria della caduta del Fascismo (tra cui il 25 aprile 1945), un’attenzione speciale era rivolta agli anniversari delle stragi compiute dai nazisti in Italia, come le Fosse Ardeatine, Cefalonia, Sant’Anna di Stazzema o Marzabotto, al fine di sottolineare “il tributo di sangue” pagato dall’Italia <33.
L’interesse degli alti vertici statali e dell’opinione pubblica nei confronti dei campi di concentramento e transito sorti in territorio italiano era invece di tutt’altro tenore. Nel 1955, momento cruciale per le celebrazioni del decennale della Liberazione, Primo Levi si rammaricava dell'indifferenza generale che avvolgeva i deportati razziali, concludendo che fosse ancora “indelicato parlare” dell'esperienza concentrazionaria e dei campi di sterminio <34.
Come ricorda Manuela Consonni, tra il 1944 e il 1950 furono in tutto 38 i titoli dedicati al racconto della persecuzione e della deportazione, tra cui solo 8 di essi provenienti dalla penna di scrittori ebrei <35. Dopo una lunga pausa degli scritti di memorialistica sulla deportazione, si avvertì una ripresa dalla metà degli anni Cinquanta, con l’uscita di "Si fa presto a dire fame" di Piero Caleffi nel 1954, la seconda edizione di "Se questo è un uomo" pubblicata da Einaudi nel 1958, la traduzione italiana del "Diario di Anna Frank" e de "La specie umana" di Robert Antelme.
Anche in Francia, come in Italia, l’associazionismo che raccoglieva le esperienze degli ex deportati era per lo più di sinistra: per questo alcuni sopravvissuti ai campi, come Simone Veil, Robert Waitz o Georges Wellers preferirono restare ai margini delle associazioni marcatamente “partigiane” <36. Come ricordava poi Olivier Lalieu: "L’affirmation d’un destin singulier des Juifs en déportation est donc entravée au nom de l’antifascisme triomphant porté par les communistes ou confiné à des sphères guère visibles au sein de la société française. Mais elle est également contrariée dès 1945 par une tradition républicaine qui répugne à distinguer une partie de la population en fonction de critères
religieux" <37. A questo proposito, lo storico francese ricorda come il Ministère des prisonniers, déportés, rapatriés promosse la diffusione nel 1945 di un poster in cui un lavoratore forzato e un prigioniero di guerra in tenuta a righe si abbracciavano, sotto lo slogan “Il sont unis. Ne le divisez pas” <38.
Per Annette Wieviorka, neppure la comunità ebraica organizzata mise l’accento sulla specificità del genocidio: "Elle vit dans l’ombre portée des années noires, et aspire, comme tout un chacun d’ailleurs au lendemain d’une guerre, au retour à la normale, que l’on se présente à l’image de ce que fut l’avant-guerre. Les commémorations marquent alors le désir de réintégrer la communauté nationale, dont les Juifs de France avaient été exclus par l’occupant nazi et la contre-révolution vichyssoise" <39.
La fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 segnarono una prima svolta nelle politiche della memoria dei due Paesi: al termine della guerra d'Algeria, che aveva contribuito a richiamare gli inquietanti fantasmi del passato recente <40, la V Repubblica veicolava una visione pacificata del secondo conflitto mondiale plasmando la rappresentazione collettiva attraverso l'edificazione di numerose opere, come il Musée du Débarquement de Provence al Mont Faron, il Musée de l'Ordre de la Libération, il Mémorial du Struthof e il Mémorial de la Déportation sur l'Île de la Cité <41. Inoltre, il 18 dicembre 1964, le ceneri di Jean Moulin vennero trasferite al Panthéon: la grande cerimonia organizzata per l'occasione favorì l'identificazione del generale Charles de Gaulle e della nazione intera con l'eroe simbolo della Resistenza <42. Una "Journée nationale de la déportation" venne poi istituita nel 1954, segnando l'ingresso ufficiale della deportazione nell'agenda delle commemorazioni nazionali <43.
È proprio in questo periodo che opere di letteratura, cinema e teatro misero al centro il tema della deportazione: i romanzi di John Hersey "La muraille" pubblicato nel 1952 e "La mort est mon métier" di Robert Merle, sulla figura del comandante di Auschwitz Rudolf Hoess, furono seguiti da "Le Dernier des Justes" di André Schwarz-Bart nel 1959 e la pièce teatrale "Le vicaire di Rolf Hochhuth" nel 1961. Al cinema nel 1957, "Nuit et Brouillard" di Alain Resnais propose le immagini dei campi con il commento e le parole del poeta Jean Cayrol. Inoltre, tra il 1951 e il 1964, in Francia furono pubblicati 62 titoli dedicati alla deportazione: tra le testimonianze più significative è opportuno ricordare il "Journal" di Anne Frank nell’edizione francese del 1950, "La nuit di" Elie Wiesel uscito nel 1957, "Si c’est un homme" di Primo Levi nel 1961, "Aucun de nous ne reviendra" di Charlotte Delbo nel 1965.
Il processo Eichmann del 1961 e quello di Francoforte tra 1963 e il 1965, che vide alla sbarra alcuni dei membri del commando tedesco impiegati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, condussero infine il parlamento francese ad adottare l'imprescrittibilità dei crimini contro l'umanità nel 1964. Più tardi, soprattutto a partire dagli anni '80, grazie anche all'intervento dell'avvocato Serge Klarsfeld e di sua moglie Beate <44, si assistette ad una serie di procedure giudiziarie nei confronti di criminali di guerra e alti funzionari di Vichy che avevano collaborato alla “Soluzione Finale” <45.
In Italia invece ad essere perseguiti attraverso la legge erano stati soltanto alcuni gerarchi militari nazisti, come i responsabili dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, tra cui Herbert Kappler e Albert Kesselring, i cui processi vennero celebrati nell'immediato dopoguerra, e - molto più tardi - quello di Erich Priebke, condotto alla sbarra nel 1995, condannato all'ergastolo e protagonista di molte polemiche anche dopo la sua morte, sopraggiunta l'11 ottobre 2013 <46. Tuttavia, diversamente dal caso francese, l'intervento della giustizia italiana, anche per effetto dell’amnistia Togliatti, riguardò raramente coloro che avevano collaborato con l'occupante nazista: come ricorda Galliano Fogar in merito al processo di Trieste del 1976, il ruolo di tale azione giudiziaria è da ritenersi insufficiente <47. Nel caso ad esempio della Risiera di San Sabba, la musealizzazione del luogo precedette addirittura le indagini giudiziarie.
Gli studi storici sull’antisemitismo e sulla Shoah in Francia, più precoci rispetto all’Italia, vennero invece inaugurati da Léon Poliakov con i volumi "Le bréviaire de la haine" del 1951 e "Le IIIe Reich et le Juifs" del 1959, che assieme a pochi altri studi internazionali, come quello dell’inglese Gerard Reitlinger, e più tardi dell’americano Raul Hilberg, entrarono a far parte di una prima corrente di riflessioni sul tema che all’inizio non tracciava un vero distinguo tra la storia della distruzione degli ebrei europei e la storia del nazionalsocialismo <48.
Soltanto negli anni Settanta si verificò un significativo cambiamento di prospettiva, con il contributo fondamentale di Olga Wormser-Migot sul sistema concentrazionario nazista (1968), ma soprattutto con un rinnovato interesse storiografico sul regime di Vichy e sul collaborazionismo, grazie ai lavori di Henry Rousso con il suo "Vichy, un passé qui ne passe pas" e degli storici americani Stanley Hoffmann, Robert Paxton e Michaël Marrus <49. Il primo tema ad essere posto in evidenza da questa nuova corrente storiografica è “la co-responsabilità del regime di Vichy, e del collaborazionismo dei francesi, e dunque delle istituzioni francesi nella deportazione degli ebrei presenti in Francia e nella Soluzione finale proposta e attuata dal Terzo Reich”, oltre al tema spigoloso dell’antisemitismo francese <50. Nel 1978 uscì inoltre, a cura di Serge Klarsfeld, "Le mémorial de la déportation des Juifs de France", una meticolosa ricostruzione dei convogli partiti dalla Francia, fondata sulle liste conservate presso il CDJC dal 1945 <51.
Per quanto riguarda la storiografia italiana invece, soltanto alla fine degli anni Ottanta - con il cinquantesimo anniversario delle leggi razziali del 1938 - gli storici hanno cominciato ad approfondire le questioni legate alla deportazione razziale e politica, all’antisemitismo in Italia e alle sue implicazioni ideologico-politiche e materiali <52.
Prima di allora vigeva il paradigma universalmente riconosciuto per il quale la legislazione antiebraica in Italia non fosse altro che un’imposizione da parte della Germania hitleriana; un regime, quest’ultimo, ritenuto di gran lunga più sanguinario e “nocivo” rispetto alla dittatura dai tratti “carnevaleschi” di Mussolini <53. Secondo la vulgata, mentre il fascismo aveva rappresentato una “parentesi” nella millenaria storia d’Italia contraddistinta dalla tradizione universalistica latina e cattolica, dall’umanesimo rinascimentale e dal culto della libertà, il nazismo aveva invece rappresentato il “portato” dell’intera storia tedesca, la quale risultava da sempre segnata da esclusivismo etnico-razziale, dall’ostinata volontà di imporre ad ogni costo il proprio primato e da una radicata vocazione illiberale <54.
Un primo segnale di distacco da questa tendenza fu rappresentato dai lavori dell’ex colonnello Massimo Adolfo Vitale e, in seguito, dal giornalista e storico della rivista “Il Ponte” Antonio Spinosa <55. Entrambi dimostrarono un atteggiamento più critico nei confronti della chiesa e della presunta totale solidarietà nei confronti degli aiuti dimostrati agli ebrei.
Non mutava però nel complesso l’assunto che l’antisemitismo fosse un male esterno instillato interamente dalla Germania nazista.
Fu Renzo De Felice, incaricato dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, a dedicarsi alla stesura di un’opera destinata a rimanere per lungo tempo il testo di riferimento sulle persecuzioni antiebraiche in Italia. Il volume "Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo", pubblicato nel 1961, trovò la sua genesi in un periodo storico mutato e più sensibile a certe tematiche: tra le vicende che dettero un impulso alla ripresa di questi studi vi fu il processo Eichmann, l’ascesa dell’estrema destra, con l’appoggio dell’MSI al governo di Fernando Tambroni e gli echi preoccupanti di un risorgere dell’antisemitismo nel paese <56.
Il lavoro di De Felice, che più di recente è stato largamente criticato <57, soprattutto per non aver saputo riconoscere la specificità dell’iniziativa fascista nella persecuzione degli ebrei dopo le leggi del 1938, resta comunque un testo cardine per la storiografia sulla Shoah, che dimostra come con l’apertura dell’era del testimone abbia creato di fatto anche una nuova fase per la ricerca storica.
La fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta segnarono un'ulteriore svolta nell'elaborazione della memoria della Shoah: nel 1979 andò in onda lo sceneggiato "Holocaust" del regista americano Marvin J. Chomsky, trasmesso in Francia da Antenne 2 e in Italia da Rai 1. Fu a partire da quell'anno che scoppiarono alcuni casi mediatici legati al negazionismo, come quello di Robert Faurisson, che costrinsero ad un'urgente riflessione sull'uso e l'abuso della storia a livello pubblico <58.
Il cinema costituì, in tutto questo periodo, un altro potente catalizzatore per rimettere in circolo memorie rimaste in sordina: se in Francia "Le Chagrin et la pitié" (1971) e "Lacombe Lucien" (1974) scandirono le tappe di un confronto più approfondito con les années sombres e il ruolo di Vichy, in Italia invece la deportazione degli ebrei venne affrontata dalla trasposizione cinematografica de "Il giardino dei Finzi Contini" (1970) di Vittorio de Sica e dal controverso "Il portiere di notte" (1973) di Liliana Cavani.
Vi fu anche una significativa ripresa nella pubblicazione di opere di memorialistica: fioriva così un genere, quello che talvolta è stato definito “letteratura concentrazionaria” <59.
“Si scrive di più” - commentano Anna Bravo e Daniele Jalla - “man mano che la distanza dai fatti propone un’urgenza inedita: per opporsi al passare del tempo, fronteggiare in anticipo il momento in cui non ci saranno più testimoni diretti, far conoscere esperienze personali che non possono mai essere interamente rappresentate nel racconto altrui” <60.
Non è quindi cambiato soltanto il rapporto dei sopravvissuti con il ricordo dell’esperienza della deportazione, dalla quale hanno assunto maggiore distacco, ma è mutata anche la disposizione del pubblico all’ascolto dell’eco di quel terribile passato. Tra gli scritti più celebri che ottengono maggior successo in questo periodo figurano in Italia il "Diario di Gusen" di Aldo Carpi, "Le donne di Ravensbrück" di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Buzzone, gli scritti di Giovanni Melodia e le poesie di Lodovico Belgiojoso. Inoltre, nel corso degli anni Ottanta, vengono tradotte in italiano anche le memorie di Jean Améry e di Elie Wiesel, preludio ad una intensissima produzione di testimonianze e letteraria che dura ancora oggi.
[NOTE]
28 R. Poznanski, D. Peschanski, B. Pouvreau, Drancy, un camp en France, Fayard et Ministère de la Défense, Paris, 2015., pp. 242.
29 A. Wieviorka, Déportation et génocide, cit., p. 167.
30 A. Bravo, D. Jalla, La vita offesa: Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, 1988, pp. 23-24.
31 La partecipazione ebraica alla resistenza non ebbe una valenza collettiva, ma fu piuttosto il frutto di scelte individuali. Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino, 2000, pp. 133-134. Si veda anche L. Picciotto Fargion, Sul contributo di ebrei alla Resistenza italiana, “Rivista mensile di Israel”, 3-4, 1980, pp. 132-146; S. Peli, Resistenza e Shoah, “Passato e Presente”, vol. 70, 2007, pp. 88 sg.
32 Cfr. P. Bertilotti, Contrasti e trasformazioni della memoria dello sterminio in Italia, in M. Flores et al. (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni. vol. II, UTET, Torino, 2010, pp. 72-73.
33 A. Sierp, A. Sierp, History, Memory and Trans-European Identity, Routledge, New York, London, 2014, p. 44. La memoria delle stragi era funzionale alla visione condivisa da molti politici italiani per i quali l’Italia non era stata che una vittima della Germania nazista, e in questo senso avrebbe dovuto partecipare a pieni diritti al tavolo degli alleati alla Conferenza di Pace di Parigi. La memoria dei campi di concentramento italiani era ben più complessa: assieme alla ricerca dei gerarchi SS che li avevano gestiti e delle amministrazioni naziste che li avevano diretti, essa avrebbe riportato a galla anche le responsabilità italiane. Come sottolinea Sierp, le commemorazioni degli eccidi, perpetuati dai nazisti, nel corso degli anni Novanta ebbero uno sviluppo notevole, per una semplice ragione: “it perpetuated the self-absolving image that Italians had of themselves, the idea of an innocent Fascism which, compared to the brutality of Nazism, had been less evil and almost good-natured and thus did not require any form of Vergangenheitsbewältigung (coming to terms with the past)”. Cfr. ivi, p. 82. Su questo si veda soprattutto il capitolo IV di G. Schwarz, Tu mi devi seppellir: riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, UTET, Torino, 2010, pp. 155-219.
34 Cfr. P. Levi, Deportati. Anniversario, 25 aprile 1955, in A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi per l’ANED, l’ANED per Primo Levi, Angeli, Milano, 1997, pp. 18-20.
35 M. Consonni, L'eclissi dell'antifascismo: resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, GLF Editori Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 41.
36 O. Lalieu, Histoire de la mémoire de la Shoah, Edition Soteca, Paris, 2015.
37 Cfr. ivi, p. 56.
38 Ivi, p. 27.
39 Cfr. A. Wieviorka, La construction de la mémoire de la déportation et du génocide en France. 1943-1995, in P. Momigliano Levi (a cura di), Storia e memoria della deportazione. Modelli di ricerca e di comunicazione in Italia e in Francia, Giuntina, Firenze, 1996, p. 32.
40 O. Wieviorka, La mémoire désunie., cit., pp. 141 sg.
41 Ivi, p. 154.
42 M. Gilzmer, Mémoires de pierres, cit., p. 116.
43 Ivi, pp. 131-133.
44 B. Klarsfeld, Mémoires. Serge et Beate Klarsfeld, Fayard-Flammarion, Paris, 2015.
45 Klaus Barbie viene incolpato di crimini contro l'umanità nel 1983 e condannato all'ergastolo nel 1987, Paul Touvier viene arrestato nel 1989 e condannato all'ergastolo nel 1994, Maurice Papon processato nel 1997 e condannato a dieci anni di reclusione nel 1998, Réné Bousquet, incolpato di crimini contro l'umanità nel 1991, fu ucciso nel suo appartamento nel 1993, mentre il processo a suo carico era ancora in corso (si veda S. Chalandon, P. Nivelle, Crimes contre l'humanité. Barbie, Touvier, Bousquet, Papon, Plon, Paris, 1998).
46 Sul divieto a tenere un funerale religioso e concedere alla salma di Priebke la sepoltura in un cimitero romano, si veda E. Mauro, La tomba segreta di Priebke, “La Repubblica”, 7 novembre 2013, consultato online il 22 settembre 2015.
47 G. Fogar, L'occupazione nazista del Litorale Adriatico e lo sterminio della Risiera, in A. Scalpelli (a cura di), San Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera, 2 voll., ANED, Mondadori, Trieste, 1988, pp. 58-65
48 M. Cattaruzza, La storiografia della Shoah, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. III, Torino, Utet, 2006, p. 117. Vedi anche P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria della guerra in Italia e in Francia, in G. Corni (a cura di), Storia e memoria. La seconda guerra mondiale nella costruzione della memoria europea, Museo storico di Trento, Trento, 2006, pp. 119-220.
49 H. Rousso, E. Conan, Vichy, un passé qui ne passe pas, Fayard, Paris, 1994.
50 P. Dogliani, Rappresentazioni e memoria, cit., p. 211.
51 Un simile studio sulla deportazione politica è stato condotto dal Dipartimento di storia dell’Università di Torino diretta da Brunello Mantelli e Nicola Trafaglia e promosso dall’Aned, che ha dato origine ai quattro volumi dell’opera Il libro dei deportati, editi da Mursia tra il 2009 e il 2015.
52 I. Pavan, Gli storici e la Shoah in Italia, in Storia della Shoah in Italia, vol. II, cit., p. 135.
53 L’espressione è di Benedetto Croce, si trova nel volume Il dissidio spirituale della Germania con l’Europa, Laterza, Bari, 1944, p. 21. Su queste tematiche si veda F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco e il mito del bravo italiano, cit.; Id. Il cattivo tedesco e il bravo italiano, cit.; D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Il Saggiatore, Milano, 1994. I lavori di Cecil Roth (The History of the Jews in Italy, Jewish Publication Society of America, Philadelphia, 1946, pp. 105-553), Léon Poliakov (La condition des Juifs en France sous l’occupation italienne, Centre de Documentation Juive Contemporaine, Paris, 1946), Gerald Reitlinger (The Final Solution: the attempt to exterminate the Jews of Europe, 1939-1945, Vallentine, Mitchell, London, 1953), Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira (Storia d’Italia nel periodo fascista, Einaudi, Torino, 1956) sebbene avessero cominciato a far luce sulle vicende degli ebrei italiani sotto il regime fascista, ripetevano tuttavia lo stereotipo della bontà naturale e dell’ “innata gentilezza” del popolo e dei soldati italiani.
54 Cfr. F. Focardi, L’immagine del cattivo tedesco, cit., p. 105.
55 A. Vitale, Les persécutions contre les juifs en Italie, in Les Juifs en Europe (1943-1945). Rapports présentés à la Première Conférence Européenne des Commissions Historiques et des Centres de Documentation Juifs, Edition du Centre CDJC, Paris, 1949; A. Spinosa, Mussolini razzista riluttante, Bonacci, Roma, 1994.
56 I. Pavan, Gli storici, cit., p. 144.
57 Come ad esempio nella nota critica riservatagli da Corrado Vivanti in «Studi Storici», 1962, n. 4, pp. 889-906, oppure più recentemente da M. Sarfatti, La Storia della persecuzione antiebraica di Renzo De Felice: contesto, dimensione cronologica e fonti, “Qualestoria”, 2, 2004, pp. 11-27; Si vedano poi le interviste rilasciate da Renzo De Felice a Giuliano Ferrara per il “Corriere della Sera” nel dicembre 1987 e gennaio 1988, in cui lo storico ammise che “il fascismo italiano è al riparo dall'accusa di genocidio, è fuori dal cono d'ombra dell'Olocausto. Per molti aspetti, il fascismo italiano è stato «migliore» di quello francese o di quello olandese. Inoltre, da noi la revisione è più utile, per le ragioni che le ho appena esposto e che riguardano la necessità di costruire una nuova Repubblica, e meno rischiosa. Noi non abbiamo una tragedia sociale come quella dell'immigrazione nordafricana in Francia, che ha portato il fascismo petainista fin dentro le fabbriche. Dunque possiamo ragionare, informare, parlare del fascismo con maggiore serenità” (Cfr. Ferrara, G., Le norme contro il fascismo? Sono grottesche, aboliamole. A colloquio con Renzo De Felice, lo storico del ventennio nero, in “Corriere della Sera”, 27 dicembre 1987; Ferrara, G., De Felice: “la Costituzione non è certo il Colosseo…”, “Corriere della Sera”, 8 gennaio 1988).
58 La “loi Gayssot”, concepita per perseguire penalmente la negazione dei crimini l'umanità e adottata dal parlamento francese nel 1990, sarà la prima delle cosiddette “loi mémorielles”, che segnano un forte intervento nell'ambito delle politiche della memoria attraverso lo strumento legislativo. Sul negazionismo si veda invece per la Francia P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire. “Un Eichmann de papier” et autres essais sur le révisionnisme, La Découverte, Paris, 2005 e V. Igounet, Histoire du négationnisme, Le Seuil, Paris, 2000, mentre per l’Italia V. Pisanty, L'irritante questione delle camere a gas: logica del negazionismo, Bompiani, Milano, 2014 e C. Vercelli, Il negazionismo: storia di una menzogna, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2013.
59 C. Coquio, Finzione, poesia, testimonianza: dibattiti teorici e approcci critici, in M. Cattaruzza, M. Flores, S. Levis Sullam, E. Traverso, Storia della Shoah, vol. IV, UTET, Torino, 2006, pp. 158 sg.
60 Cfr. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta: Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, FrancoAngeli, Milano, 1994, p. 75.

Chiara Becattini, Storia della memoria di quattro ex campi di transito e concentramento in Italia e in Francia. 1945-2012, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, 2017

sabato 22 gennaio 2022

Le formazioni clandestine comuniste pagavano fra tutte il prezzo più doloroso



Ester Lombardo e Giovanni Artieri [n.d.r.>: il marito] lasciarono Milano già all'inizio del 1943 <523 e si trasferirono ad Amalfi, «nel clima di aranci e limoni, nella vista del mare stupendo» <524, dove avevano preso in affitto Villa Lone. Ester già conosceva la costiera amalfitana: a Capri ed Amalfi era stata diverse volte in villeggiatura e, nella primavera del 1942, vi aveva trascorso la convalescenza dopo un lungo periodo di febbri <525. La casa di Milano <526 venne affidata alle cure di una segretaria e presto sgomberata da mobili, tappeti, oggetti e libri, portati al sicuro nel piccolo castello di un amico, a Miasino, sul lago d'Orta, dove potevano essere custoditi da un guardiano. Un altro amico, Raffaele Vuolo, offrì ad Artieri una casa a Roma <527, usata spesso dai due giornalisti per brevi soggiorni. Artieri vi alloggiò quando doveva raggiungere la capitale per consultarsi con Alfredo Signoretti, che fino al luglio del 1943 diresse «La Stampa» <528, e, in seguito, ci abitò durante i nove mesi dell'occupazione tedesca di Roma.
Il luglio del 1943 segnò certamente una svolta nella vita politica del Paese e nella vita quotidiana e professionale di Ester Lombardo, che dopo ventuno anni era ormai costretta a chiudere le pubblicazioni di "Vita Femminile".
Fin dai mesi precedenti si intravedeva per l'Italia un futuro incerto: «Nell'autunno del '42 - scrive Giaime Pintor - due grandi avvenimenti militari, il fallimento dell'offensiva tedesca in Russia, culminata nella battaglia di Stalingrado, e lo sbarco angloamericano nell'Africa francese del Nord col successivo crollo del fronte africano dell'Asse, avevano dato la sensazione che la guerra fosse perduta per la Germania. Da quel momento l'azione di sganciamento della monarchia dal fascismo acquistò un moto progressivo. [...] Fu facile convincersi che l'enorme maggioranza del popolo avrebbe accolto come una liberazione qualunque gesto contro il fascismo e che tutti gli elementi politici, dai conservatori ai comunisti, avrebbero sostenuto chi se ne fosse fatto l'iniziatore. [...] Vittorio Emanuele riuscì ad attirare nel gioco i capi del fascismo dissidente e provocò il voto di sfiducia del Gran Consiglio» <529. Il 25 luglio Mussolini, arrestato, non era più a capo del governo: «l'Italia di Mussolini si era disfatta in un giorno come una facciata di cartapesta» <530. Iniziarono i quarantacinque giorni di Pietro Badoglio: si istituì un governo di tipo militare fino all'8 settembre 1943, quando il Maresciallo rese noto l'armistizio firmato con gli Alleati il 3 settembre. Seguirono quelli che Giovanni Artieri definisce «i nove lunghi mesi» o «i nove mesi della prigionia di Roma», l'occupazione tedesca di Roma che ebbe termine il 4 giugno del 1944 con l'arrivo delle truppe americane guidate dal generale Clark <531.
Nonostante la disponibilità della villa ad Amalfi, nei mesi di giugno e luglio, sia Ester Lombardo che Giovanni Artieri erano a Roma, probabilmente per lavoro. Il clima era teso:
"La Resistenza, albeggiante prima del 25 luglio e dell'8 settembre 1943, riusciva a mantenere in angoscioso stato d'allarme i nazisti. Specialmente con la propalazione di voci e allarmi. Ricordo una notte di fine giugno che fummo svegliati, Ester e io, da colpi furiosi alla porta e da grida: «Fuggite, fuggite che tra poco il quartiere Savoia salterà in aria. È stato già incendiato l'aeroporto del Littorio». Riconobbi le voci di chi, complici i portinai della zona, andava spargendo quel terrore. Dissi a mia moglie, fortemente perplessa: «Non è niente. So di che si tratta. Andiamo a letto. Non accadrà nulla». Non accadde nulla <532.
Non così invece il 19 luglio quando, il giorno seguente l'incontro tra Hitler e Mussolini a Feltre, Roma fu bombardata e i due furono testimoni di quell'avvenimento:
"Erano le 11 del mattino, stavo dinanzi lo specchio radendomi. il viale Regina Margherita, tra la piazza Quadrata e la via Nomentana, è strada larga, popolare, parallela a un quartiere signorile di architetture neo-barocche intitolato al Coppedè, suo autore. Oltre la Nomentana (nel 1943) è già periferia, nella zona del grande cimitero del Verano, della basilica di San Lorenzo, dei quartieri popolari, dei depositi tramviari, delle reti ferroviarie di approccio alla Stazione centrale. È qui che le informazioni alleate supponevano l'acquartieramento dei carri armati tedeschi, dei loro depositi di munizioni, delle loro caserme. Erano informazioni sbagliate che tuttavia portarono a quel bombardamento massiccio dell'intero anello periferico della capitale, durato due ore, dalle 11 alle 13 del pomeriggio, effettuato da 180 Liberator. La sera avanti ero a cena con Ester a casa di Eduardo De Filippo. Sonò l'allarme e cominciò un fuoco di artiglieria. Negli intervalli si udiva il ronzio di un solo apparecchio: un ricognitore, evidentemente, venuto a fotografare i siti della difesa antiaerea, indicata dai lampi delle cannonate. Eduardo disse: «Domani verranno in massa». Era stato buon profeta. Ai primi fragori andai nella camera di Ester. Erano troppo vicini perché non si potesse pensare che tra qualche istante una bomba non cadesse a polverizzarci tutti. Sedetti sul letto. Ci abbracciammo senza dirci ch'era consolante, dopo tutto, poter morire insieme. Nulla avvenne. Ridemmo guardandoci. Le bombe cadevano, ma sentivamo di esserne fuori. Anzi, andai a lavarmi, a insaponare il volto, a radermi. A picco, dalla mia finestra, vedevo i fuochi della difesa; grevi nuvole nere salivano da poco distante. I bombardieri battevano gli edifici del Policlinico ove si sapeva la sede del comando tedesco. Mi misi a contare le ondate degli attacchi. Nove. Colpite le stazioni ferroviarie di San Lorenzo, del Prenestino; gli aeroporti del Littorio, di Ciampino, quasi crollata la basilica di San Lorenzo, danneggiato il cimitero del Verano. Quella tetra festa durò, l'ho detto, due ore circa, durante le quali continuai (vestito e raso) a conversare con Ester, preparandoci per andar fuori a colazione, in un ristorante del centro. E ciò (ancora, a ripensarci, mi stupisce) senza più badare alle bombe all'intorno, mirate sui siti militari e, dunque, su obiettivi ammessi dalla convenzione che (si diceva) fosse intervenuta tra il Vaticano e la Wehrmacht sulla demilitarizzazione della capitale... Rimaneva il fatto dell'indifesa Roma, posta dinanzi alla realtà della guerra. Subito la patina di indifferenza è scomparsa dal volto della città e la povera gente è affiorata con i suoi materassi sdruciti, i suoi miseri letti, le stoviglie e le grame mobilie sui tricicli, i carretti, per le vie, a porre il suo colore disperato e umano nell'aria frivola e scempia della Roma gerarchica e godereccia" <533.
Il 23 erano ancora a Roma dove si respirava un clima teso per il rapido evolversi degli eventi:
"Sul corso Umberto incontrai Armando Curcio e Eduardo De Filippo. Eduardo, osservando il traffico della strada, l'aria grigia e carica attorno ai volti e alle cose, disse come per ispirazione: «Forse tra poco si proclamerà lo stadio d'assedio». Si parlava d'un consiglio della Corona per quella sera stessa, 23. Si sapeva della imminente convocazione del Gran Consiglio a richiesta d'un gruppo di componenti tra i quali Dino Grandi, Federzoni, Bottai e, persino, Galeazzo Ciano... Mi avvertirono di gravi e risolutivi avvenimenti, con la probabile eliminazione della dittatura di Mussolini. Credetti a metà a questa notizia" <534.
Ester Lombardo e Giovanni Artieri partirono il giorno seguente per Amalfi, fu qui che appresero la notizia della caduta di Mussolini e qui, sempre presso Villa Lone, rimase la giornalista fino alla liberazione di Roma:
"Giudicai mio dovere mettere al sicuro Ester nella nostra casa di Amalfi e, dunque, lasciare Roma; pensavo di ritornarvi, come avvenne, anche perché «La Stampa», il mio giornale, mi pregava di non allontanarmi in vista di non precisabili (o facilmente precisabili) avvenimenti" <535.
Dunque Artieri già il 29 luglio, convocato da «La Stampa», era di nuovo a Roma e inseguiva «i grandi fatti e il loro svolgersi» tra «la fine del fascismo, l'arresto di Mussolini, l'avvento della dittatura militare di Badoglio e le sue incongruenze ed errori, la complessa tragicommedia della dichiarazione di armistizio e la cinematografica avventura romana dei due diplomatici, l'americano e l'inglese (il generale Maxwell Taylor e il colonnello T. Gardiner)» <536. Nonostante le sempre maggiori difficoltà negli spostamenti, egli riuscì a tornare varie volte ad Amalfi: «Pensavo imminente - scrive - l'invasione, con i suoi pericoli e incognite da dividere con la mia cara» <537. Dalla costiera amalfitana si sentivano e si vedevano le incursioni aeree alleate sul territorio di Salerno. Si stava già preparando lo sbarco anfibio nel Golfo, operazione con cui gli alti comandi Alleati intendevano costituire una base per avanzare poi verso Napoli. Lo sbarco avvenne il 9 settembre, il giorno seguente alla proclamazione dell'armistizio <538.
Il 2 settembre Giovanni Artieri tornò a Roma e qui rimase «intrappolato», lontano da Ester, fino alla liberazione della città <539. Nella capitale erano anche Lea Lombardo e Italo Minunni, rispettivamente sorella e cognato di Ester. Fu proprio Italo Minunni <540, anch'egli giornalista, che arruolò di autorità Giovanni Artieri nel Partito democratico del lavoro di Ivanoe Bonomi <541. Con questo partito, che non ebbe un forte seguito popolare, entrò a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) insieme ad un esiguo gruppo di notabili prefascisti e si guadagnò in tal modo gli attestati della milizia nella Resistenza durante i nove mesi dell'occupazione romana, attestati che risultarono poi necessari per rientrare nel mondo del giornalismo. «La Stampa», attiva durante la Repubblica sociale italiana non poteva rinascere ma, già dal maggio 1945, Artieri fu chiamato a lavorare all'"Opinione" <542, diretta da Franco Antonicelli, capo del Cln del Piemonte <543.
Egli, pur sperando in una rapida liberazione, ricorda il tempo dell'occupazione di Roma comunque come fecondo:
"La scarsa possibilità di promuovere azioni nella stretta ferrea della sorveglianza nazista induceva a scivolare in una vita di pura evasione. Si trovava un correttivo nel lavoro organizzativo dei partiti: troppi, pullulanti, spesso velleitari... Ma, ripeto, esisteva unanimità tra tutte le forze della Resistenza: la «mia» casa di viale Regina Margherita, risultante non abitata dal suo proprietario ... fu per un certo tempo il punto di convegno dei comitati centrali e delle direzioni democristiana, comunista, del Partito d'azione, di quello demolaburista. Ospitò prigionieri evasi, comunisti ricercati (ne ricordo uno, Vittorio Viviani)... Ricordo ancora, ospite clandestino di quella casa, Armando Curcio, commediografo, editore; e ricordo i consigli e gruppi liberali: sullo sfondo appare il volto pallido e pensoso di Mario Pannuzio... Altri ospiti temporanei miei furono Eduardo e Peppino De Filippo, sottrattisi al bando emanato dal governo della Repubblica sociale che convocava al Nord i rappresentanti delle maggiori compagnie teatrali. Talvolta io ero ospite di Eduardo; talaltra io in un altro appartamento comprato dalla signora De Filippo, la prima moglie di Eduardo, la cara e bella Dodò, come la chiamava il marito. Quasi sempre, sfidando ogni regola di prudenza, ci si riuniva a pranzo o a cena: Eduardo e Peppino, io, Armando Curcio, il Carloni, marito di Titina De Filippo, e un giornalista napoletano, F.C., che noi, di sicuro, sapevamo essere spia dei tedeschi e dei neofascisti, ma che per una specie di insuperabile inibizione costituita da un complesso sentimento di affetto, di ammirazione, di ricordi napoletani, di timori, di inferiority complex e via dicendo non ci denunciò mai e noi, ciecamente, credevamo, sapevamo che mai e poi mai ci avrebbe denunciati" <544.
Giovanni Artieri visse infatti i nove mesi dell'occupazione in uno stato di clandestinità, poiché aveva ignorato gli ordini di Alessandro Pavolini, il quale, nominato segretario provvisorio del neonato Partito Fascista Repubblicano, aveva emanato l'ordine per i giornalisti di raggiungere le sedi dei loro sindacati e passare ai comandi del Ministero repubblicano <545. Così Artieri venne controllato dai tedeschi, anche se, per la sua iscrizione al Pnf <546 e perché poco aperto al dissenso, non rischiò seriamente di essere arrestato:
"Le formazioni clandestine comuniste pagavano fra tutte il prezzo più doloroso... A noi la polizia ci ritiene innocui o cerca di non vedere o di non guardare attentamente. Siamo, finché non si travalichino certi gradi di attività cospirativa, nel settore «italiano» della sorveglianza; là dove i comunisti sono oggetto delle premure di gran lunga più zelanti della polizia tedesca e perciò si tengono alla larga da chi non appartiene, sicuramente, alle loro fila" <547.
Durante l'occupazione di Roma, Ester Lombardo continuò a vivere ad Amalfi dove «dette la sua opera all'organizzazione degli Alleati a Capri, ad Amalfi e a Positano» <548. È difficile capire cosa si intenda con questa affermazione, ma sicuramente Ester Lombardo era ben inserita nel contesto, poteva godere di diverse amicizie, come quella con il sindaco di Capri, Peppino Brindisi, o con lo scrittore Edwin Cerio <549.
Subito dopo la liberazione di Roma, Giovanni Artieri «corse al sud» a cercare Ester, con una Balilla comprata per l'occasione insieme ad alcune latte di benzina. Non la trovò ad Amalfi, dove Villa Lone era stata requisita da Badoglio, per se e per il suo seguito, ma a Positano: "Ester la trovai a Positano, inserita come housekeeper, cioè come padrona di casa, nella spicciola burocrazia dell'alto comando britannico e badava all'ospitalità di tre vecchi colonnelli, dirigendo il personale locale addetto ai servizi. Ester aveva detto e vantato di avere il marito nella clandestinità romana, e fu orgogliosa di presentarmi ai suoi ospiti che m'accolsero cordialmente non prima di aver attentamente esaminato i miei titoli di appartenenza alla Resistenza e consultato elenchi ove (con incredibile precisione) erano segnati i nomi dei giornalisti aderenti alla Repubblica di Mussolini" <550.
L'offensiva alleata su Roma, iniziata il 12 maggio 1944, aveva portato alla sua liberazione il 4 giugno <551. Quasi un intero anno mancava alla resa dei tedeschi a Milano. Dunque, seppur ripristinati i collegamenti e i servizi ferroviari tra Roma e il sud, rimaneva ancora difficile per Artieri riprendere i contatti con «La Stampa», a Torino, al di là della Linea Gotica. Più semplice, come infatti fece, spostarsi tra il sud e Roma, dove la nascita di nuove testate creava la necessità di impiego di provati giornalisti. Caduta la Repubblica Sociale, fu possibile per lui tornare al Nord, alla sua casa di Milano, e riprendere i contatti con «La Stampa». Era la metà di maggio del 1945 e quel viaggio venne condiviso con Enrico Mattei, che raggiungeva Torino per ripresentarsi alla «Gazzetta del Popolo» <552. Come detto, «La Stampa» non poteva rinascere, ma Artieri iniziò a lavorare all'"Opinione". Il mese seguente arrivò a Milano anche Ester Lombardo. Probabilmente nel 1946 entrambi torneranno a Roma: Giovanni Artieri terminava l'esperienza all'"Opinione", Ester Lombardo iniziava l'avventura politica.
[NOTE]
523 Giovanni Artieri scrive infatti: «Il diario di Amalfi comincia il 1° gennaio 1943 a Lone, un venerdì di vento furioso e pioggia», G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 404. Il diario non è stato pubblicato ed è conservato da Paolo Cacace.
524 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 403.
525 "Fra otto giorni partirò per Capri. Ho ancora un poco di febbre; ormai sono quattro mesi e mezzo e non ne posso più. Spero che Capri mi faccia entrare definitivamente in convalescenza, anticamera della guarigione", Lettera di Ester Lombardo a Celso Luciano Capo di Gabinetto di S.E. il Ministro della Cultura Popolare, Milano, 3 giugno 1942, in ACS, MCP, Gabinetto, Archivio generale - affari generali 1926-1944, b. 99, fasc. 593 "Vita femminile". Lombardo Ester (1935-1942), c. 12. Si vedano anche Lettera di Ester Lombardo a Celso Luciano Capo di Gabinetto di S.E. il Ministro della Cultura Popolare, Milano, 29 aprile 1942, in ACS, MCP, Gabinetto, Archivio generale - affari generali 1926-1944, b. 99, fasc. 593 "Vita femminile". Lombardo Ester (1935-1942), c. 27; G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 231-237 e 403-404. Ester Lombardo aveva dato a Capri e alla costiera amalfitana visibilità anche attraverso le pagine di «Vita femminile», si vedano ad esempio: E. Lombardo, L’isola dei naufraghi, in «Vita femminile», 15 aprile-15 maggio 1923, pp. 24-27, qui meritano attenzione alcune righe scritte quasi vent'anni prima del suo "ritiro" amalfitano: «I deragliati dalle rotaie ordinarie dell'esistenza, i più vari falliti della vita approdano a Capri. [...] Attori grandi e piccoli di rivolgimenti politici andati a male naufragano su questo scoglio melodioso del Tirreno, attratti da qualche Sirena ancora superstite dai tempi di Ulisse», la cit. è a p. 24; A. Viviani, Passeggiate romantiche: Capri, in «Vita femminile», 1 luglio 1929, pp. 12-13 ; L. Minunni, I principi di Piemonte alle regate e al ballo a Capri, in «Vita femminile», agosto 1932, pp. 10-11; L. Minunni, Capri sulla tela. [Ezelino] Briante, giovane pittore ottocentista, in «Vita femminile», ottobre 1932, p. 42; A. Cesareo, Marina di Capri, in «Vita femminile», 15 agosto-15 settembre 1934, pp. 10-13.
526 Viale Regina Elena (oggi viale Tunisia).
527 Presso viale Regina Margherita.
528 Tutte le informazioni sono tratte dal capitolo Avvisaglie della crisi in G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 403-410.
529 G. Pintor, L'ora del riscatto. 25 luglio 1943, Castelvecchi, Roma, 2013, pp. 13-14 e 24. Saggio scritto da Giaime Pintor a Napoli nell'ottobre 1943 e pubblicato postumo in «Quaderni italiani», IV, New York, 1944.
530 Ivi, p. 24.
531 Si veda a proposito Istituto romano per la storia d'Italia dal fascismo alla Resistenza (a cura di), Roma durante l'occupazione nazifascista. Percorsi di ricerca, Franco Angeli, Milano, 2009.
532 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 411.
533 Ivi, pp. 412-413. Giovanni Artieri, sbagliando, colloca questo evento il 20 luglio. Roma, invece, fu bombardata il 19 luglio da aerei americani decollati dalle basi del Nord Africa. Per ogni approfondimento si rimanda a M. Carli, U. Gentiloni Silveri, Bombardare Roma. Gli alleati e la «città aperta» (1940-1944), Il Mulino, Bologna, 2007, in particolare pp. 101-148.
534 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 414.
535 Ivi, p. 423.
536 Ivi, p. 418.
537 Ivi, p. 425.
538 Su Salerno e l'operazione Avalanche si vedano S. Alinovi, L'amministrazione civica di Salerno dalla caduta del fascismo alla giunta del Comitato di Liberazione Nazionale, in AA.VV, Alle radici del nostro presente. Napoli e la Campania dal fascismo alla Repubblica (1943-1946), Guida, Napoli, 1986, pp. 193-210; A. Sole, Salerno e gli alleati, in R. Dentoni Litta (a cura di), Schegge di storia. Salerno e l'operazione Avalanche. Documenti, diari, memorie, testimonianze, Archivio di Stato di Salerno, Fisciano, 2014, pp. 279-294. Si vedano anche P. De Marco, L'occupazione alleata a Napoli, in N. Gallerano (a cura di), L'altro dopoguerra. Roma e il sud 1943-1945, Franco Angeli, Milano, 1985, pp. 261-273; G. D'Agostino, Napoli: governo e amministrazione della città dalla caduta del fascismo all'avvento della Repubblica (1943-1946), in N. Gallerano (a cura di), L'altro dopoguerra, cit., pp. 407-422.
539 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 418.
540 Italo Minunni era anch'egli giornalista di stampo nazionalista, economista, volontario in Libia, mutilato di una gamba durante la prima Guerra Mondiale, alto funzionario della Confindustria, partigiano monarchico. Fu arrestato durante l'occupazione tedesca di Roma insieme ad Alberto Bergamini dalla polizia neofascista di Pietro Caruso poiché indiziato di cospirazione antifascista e di ricostituzione del partito della Democrazia del Lavoro. Era in carcere a Regina Coeli durante l'attentato di via Rasella ed era stato inserito nella lista dei 330 che i tedeschi avrebbero fucilato alle Fosse Ardeatine. Fu poi cancellato dalla lista quando l'ufficiale tedesco, venuto a prelevare i prigionieri, ordinò: «Abbiamo bisogno di uomini interi». Dopo la liberazione evase dal carcere. Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 462-469 e 504-505.
541 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 464. Sul Partito democratico del lavoro si veda L. D'Angelo, Fra liberalismo e socialismo: il Partito democratico del lavoro, in F. Grassi Orsini, G. Nicolosi (a cura di), I liberali italiani dall'antifascismo alla Repubblica, vol. I, Rubettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 159-173.
542 Anche il quotidiano «L'Opinione» aveva sede a Torino. Nato nel 1846, aveva chiuso le pubblicazioni nel 1900. Nel 1945 venne rifondato ma durò solo un anno.
543 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 540-549.
544 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 464-466. Su Mario Pannuzio e i liberali si veda A. Cardini, Il liberalismo di Mario Pannuzio, in F. Grassi Orsini, G. Nicolosi (a cura di), I liberali italiani dall'antifascismo alla Repubblica, cit., pp. 611-646.
545 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 476.
546 Giovanni Artieri si era iscritto al Pnf nel 1927, si veda Appunto della polizia politica, Napoli, 24 marzo 1933, in ACS, MI, DGPS, Divisione polizia politica, b. 48, fasc. 54 Artieri Giovanni, c. 4. Bisogna però tenere conto del fatto che in pratica l'iscrizione al sindacato fascista divenne per i giornalisti, proprio da quell'anno, una condizione indispensabile quanto l'iscrizione all'albo per poter esercitare la propria professione. Sull'argomento si veda G. Fabre, L' elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino,1998.
547 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 478 e 482.
548 Ivi, p. 484.
549 Edwin Cerio scrisse anche alcune novelle per «Vita femminile», si veda ad esempio E. Cerio, Concorrenza sleale, in «Vita femminile», luglio-agosto 1935, pp. 50-51. Inoltre sullo scrittore Ester Lombardo pubblicò un articolo: L. Minunni, Intervista con Cerio, il poeta-mago di Capri, in «Vita femminile», settembre 1932, pp. 26-28. Ester Lombardo e Giovanni Artieri frequentarono anche altre personalità molto conosciute a Capri, come l'archeologo Amedeo Maiuri e lo scrittore e giornalista Curzio Malaparte. Le relazioni con queste persone sono approfondite in diverse pagine di G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit.
550 G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., p. 535, per approfondimenti si veda l'intero paragrafo Alla ricerca di Ester, pp. 534-539.
551 Per un quadro approfondito sulle azioni militari e diplomatiche che portarono alla liberazione di Roma si faccia riferimento a M. Carli, U. Gentiloni Silveri, Bombardare Roma, cit., pp. 203-237. Si veda anche A. Di Stefano, U. Gentiloni Silveri, S. Palermo (a cura di), Roma 4 giugno 1944. La liberazione a colori, Palombi, Roma, 2011.
552 Si veda G. Artieri, Prima durante e dopo Mussolini, cit., pp. 535-537.

Caterina Breda, Biografia intellettuale di Ester Lombardo: giornalista, scrittrice, attivista politica tra fascismo e Repubblica, Tesi di laurea dottorale, Università degli Studi Roma Tre, Anno Accademico 2016-2017