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domenica 28 maggio 2023

La banda partigiana di Beltrami non è politicizzata


A Novara Gino Vermicelli cerca dei contatti comunisti e arriva tramite vari informatori a Romagnano, presso lo studio di un avvocato, dove si riunisce il Fronte Nazionale dei cinque partiti antifascisti, l’embrione del CLN.
Lentamente riprende i contatti con i compagni di Borgomanero, Omegna, Gravellona; in questo periodo egli conosce Gaspare Pajetta, che diventerà suo grande amico. L’8 settembre è per tutti una doccia fredda: il CLN è costretto a spostarsi a Meina per sfuggire ai Tedeschi che hanno velocemente occupato Novara. Gino e Gaspare rimangono in città per riorganizzare la federazione del partito: nascosti in un deposito di vernici scrivono e stampano “La Lotta” <33, un periodico fondato da loro che continuò ad esistere fino al 1961. Presto vengono raggiunti da Pietro Flecchia, un confinato comunista biellese che pretende di assumere la direzione della federazione. Gino viene così “retrocesso” a responsabile militare: il suo compito diventa organizzare la Resistenza. Il nuovo incarico affidatogli lo porta a Borgosesia, dove conosce Cino Moscatelli, personaggio di spicco che, d’accordo con l’ex-podestà della città, raccoglie armi e sbandati per organizzare la guerriglia; non rimane però con lui a causa di alcuni problemi sorti tra Vermicelli e gli altri combattenti.
Gino decide di raggiungere l’altro gruppo partigiano della zona, quello del “capitano” Filippo Maria Beltrami, ma è coinvolto in una trappola tesa dai fascisti. Viene infatti catturato insieme al commissario politico di Beltrami: fortunatamente entrambi sono presto liberati grazie ad uno scambio di prigionieri. La decisione finale di Gino, che da questo momento sarà Edoardo, è salire in montagna con Beltrami, che l’ha salvato. Così egli sale a Campello Monti, dove ritrova l’amico Pajetta, che si era già unito al gruppo del “capitano”. Questa non è una banda “politicizzata”: Beltrami, essendo un ex ufficiale, adotta ancora la mentalità e i modi di fare tipici del regio esercito, con le sue gerarchie e i suoi cerimoniali; Gino e Gaspare organizzano comunque una cellula comunista all’interno del gruppo.
Purtroppo la banda viene presto decimata durante una sanguinosa battaglia avvenuta a Megolo [nd.r.: Frazione di Pieve Vergonte (provincia del Verbano-Cusio-Ossola)], il 13 febbraio 1944: Gino sopravvive per miracolo, ma l’amico Pajetta e Beltrami soccombono. “Edoardo” torna così a Rimella da Moscatelli, dove, ritrovati altri sopravvissuti alla battaglia di Megolo, si forma un nuovo distaccamento, che viene mandato in Val d’Ossola.
Vermicelli ottiene l’incarico di commissario politico per questo nuovo gruppo. La figura del commissario politico è fondamentale per tutte le formazioni partigiane, dalla più piccola, il battaglione, alla più numerosa, la divisione: affianca in ogni decisione il comandante, e si occupa della politicizzazione dei volontari, cioè deve insegnare loro l’etica del partigiano, i valori e i comportamenti da seguire in battaglia e nei confronti della popolazione che vive nelle montagne. Vermicelli cerca sempre, durante gli anni da partigiano, di comportarsi in modo eticamente irreprensibile, per dare il buon esempio ai giovani.
Il continuo afflusso di volontari, conseguente all’emissione dei bandi Graziani per l’arruolamento forzato, trasforma il distaccamento in battaglione; arriva anche il nuovo comandante, che deve affiancare Vermicelli al comando: Andrea Cascella. Il gruppo si disloca un po’ in Ossola, un po’ in Val Formazza e un po’ in Val Antigorio. I rastrellamenti operati dai Tedeschi sono abbastanza frequenti, per cui i partigiani devono essere spesso in movimento, per evitare di essere individuati. In poco tempo il battaglione diventa divisione, e “Edoardo” ottiene dal CLN l’incarico di vice-commissario.
La liberazione dell’Ossola, che avviene tra il 9 e il 10 settembre 1944 e a cui contribuisce anche Vermicelli, è un fatto spontaneo, non stabilito a tavolino da nessun comando superiore. I vari fortini nazifascisti dislocati un po’ ovunque nella valle sono attaccati quasi simultaneamente da vari gruppi partigiani, comunisti o autonomi, e facilmente occupati. I Tedeschi abbandonano Villadossola, dove c’è il comando tedesco, senza nemmeno aprire il fuoco, lasciando il posto ai partigiani, che prendono in mano il governo della valle, costituendo la Giunta provvisoria di governo dell’Ossola. Vermicelli però rifiuta di partecipare alla gestione della zona: secondo lui il controllo del territorio deve essere lasciato agli abitanti, poiché il compito dei partigiani è solo quello di liberare le zone occupate, non di governarle.
La mancanza di aiuti materiali e di assistenza da parte degli Alleati fa presto fallire questo tentativo di governo democratico, che dura soltanto 43 giorni, dal 10 settembre al 23 ottobre 1944: un nuovo attacco tedesco partito da Gravellona respinge di nuovo i partigiani, che sono costretti ad abbandonare Domodossola.
Dopo la sconfitta, Vermicelli contribuisce a riorganizzare la divisione; i vari distaccamenti ottengono lanci e aiuti dal CLN per affrontare l’inverno alle porte, e riescono ad attuare piccole operazioni di guerriglia, per poter controllare le centrali elettriche della Val Antigorio.
33 “La Lotta”, Novara (1947-1961).
Sara Lorenzetti, Gino Vermicelli tra Resistenza e scrittura, Tesi di laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, Anno accademico 2006-2007 

[...] "Un bel dì mi venne il fregolo/di fermarmi in quel di Megolo!”. Così inizia così la canzone scritta dal Capitano Filippo Maria Beltrami dopo la faticosa traversata invernale dei suoi partigiani dopo l'abbandono della Valstrona alla fine di gennaio 1944. Non tutti gli uomini, dei quasi trecento che costituivano la "Brigata Patrioti Valstrona", arrivarono nella frazione di Pieve Vergonte: una sessantina se ne andò deponendo le armi; un gruppo sbagliò sentiero e paese; alcuni abbandonarono la formazione durante il tragitto; altri furono inseguiti e impegnati in combattimento. A Megolo, col Capitano, giunsero soltanto una quarantina di uomini. Il componimento, scritto dopo una cena all'albergo del Ramo Secco, risente di quelle disavventure. Nelle due settimane in cui si fermò a Megolo, Beltrami attese per ricostituire la formazione, allontanandosi soltanto per effettuare un attacco alla casermetta di Vogogna. La posizione non era certo favorevole, oltre che facilmente individuabile era poco adatta ad un combattimento. All'alba del 13 febbraio del 1944 i reparti delle SS, appoggiati da una compagnia di repubblichini, giungono a Pieve Vergonte con l'intento di stroncare la Resistenza partigiana. Sorpresi nel sonno, due giovani vengono catturati e torturati ma non riveleranno nulla. Saranno fucilati accanto all'osteria del paese. Intanto i 53 partigiani del Capitano Filippo Maria Beltrami, avvisati del rastrellamento, si preparano a resistere sulle balze del Cortavolo a Megolo contro più di cinquecento nazi-fascisti perfettamente armati. L'armamentario dei partigiani è misero: una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti. La nebbia dà loro una mano, celandoli sino al momento in cui i nazi-fascisti sono a tiro. La battaglia sarà lunga e cruenta vivendo fasi alterne: i partigiani non si arrendono anzi, riescono anche a costringere i nazi-fascisti a un disordinato ritiro. Ma le forze in campo sono troppo impari. Nell'abitato di Megolo il momento più tragico della battaglia, è una strage. Cade il capitano Beltrami e due giovani combattenti che si spingono in suo aiuto: lo studente 17enne Gaspare Pajetta e Antonio Di Dio, 20 anni, ufficiale di carriera unitosi alla Resistenza dopo l'8 settembre. Quella battaglia segnò l'apice e contemporaneamente la fine della "Brigata Patrioti Valstrona". Caddero combattendo Filippo Maria Beltrami "Il Capitano", Carlo Antibo, Giovanni Bressani Bassano, Aldo Carletti, Gianni Citterio, Angelo Clavena, Bartolomeo Creola, Antonio Di Dio, Emilio Gorla, Paolo Marino, Gaspare Pajetta ed Elio Toninelli. Nel piccolo cimitero di Megolo sono ancora sepolti Gaspare Pajetta e lo studente Aldo Carletti che con lui, da Torino, s'era arruolato nella "banda" Beltrami e vi era morto al fianco, quella mattina, poco dopo le otto. Qui hanno voluto essere sepolti i genitori di Gaspare Pajetta e anche i due fratelli, Giuliano e Giancarlo.
Marco Travaglini, Val Grande, Memoria resistente: la Val Grande e Megolo, 26 ottobre 2022

La battaglia di Megolo fu uno degli episodi più eroici della Resistenza. Il 13 febbraio 1944, alle prime luci dell’alba, reparti delle SS, appoggiati da una compagnia della GNR, invasero la piccola frazione di Pieve Vergonte, con l’intento di stroncare la Resistenza dei ribelli che operavano in quel luogo. Due giovani partigiani, che riposavano in attesa di raggiungere i loro distaccamenti, furono sorpresi nel sonno e catturati. Trascinati davanti al comandante delle SS furono a lungo e invano torturati, non fecero alcuna rivelazione. Alla fine, ormai quasi in fin di vita, furono fucilati nella piazzetta a lato dell’osteria del paese.
Avvertiti del rastrellamento in corso, i partigiani della valle, al comando del Capitano Filippo Maria Beltrami, architetto, 36 anni,  medaglia d’Oro al Valor Militare, si disposero a resistere: erano 53 uomini con una mitragliatrice, due mitragliatori, un mitra e una cinquantina di moschetti contro più di cinquecento nazi-fascisti armati di tutto punto, con un cannoncino, due mortai, tre mitragliatrici, fucili mitragliatori e mitra.
Mentre la nebbia di disperdeva e i raggi del sole iniziavano a illuminare il nuovo giorno, i partigiani osservavano in silenzio l’avanzare della colonna nemica. Era necessario attendere che i nazi-fascisti giungessero a tiro, per non sprecare le munizioni. I tedeschi avanzavano su tre linee distanziate fra loro di qualche metro, i fascisti avanzavano sulle due ali. Finalmente il Capitano diede il segnale e i partigiani iniziarono a sparare. Fu una battaglia lunga e cruenta, con fasi alterne. Più volte il fuoco dei partigiani costrinse gli avversari a ripiegare, ma sempre essi si riconpattavano e tornavano all’attacco. L’ unica arma pesante dei partigiani s’inceppò e dovette essere abbandonata, uno dei due mitragliatori fu raggiunto da un colpo di mortaio. Con le poche munizioni rimaste non potevano più resistere a lungo. Il Capitano respinse per la seconda volta l’invito ad arrendersi. Era necessario attaccare il nemico e i partigiani balzarono all’assalto. Sorpresi dall’azione i nazi-fascisti iniziarono a ritirarsi disordinatamente, inseguiti dai ribelli. L’azione terminò nell’abitato di Megolo, dove gli inseguitori furono falcidiati dalle mitragliatrici dei rinforzi giunti dall’Ossola in appoggio dei nazisti. Cadde anche il capitano Beltrami, mentre cercava di riorganizzare i suoi uomini, e caddero, mentre cercavano generosamente di soccorrerlo, Gaspare Pajetta, studente torinese di 17 anni e Antonio Di Dio, di 20 anni, un ufficiale di carriera che dopo l’8 settembre si era unito alla Resistenza.
Un fascista, raggiunto Beltrami, fece scempio del suo corpo con un pugnale.
Il Cap. Simon, invece, riconoscendo la generosità, il valore, il coraggio, la nobiltà dei sentimenti dell’eroico comandante partigiano gli fece tributare gli onori militari da un reparto di SS.
Redazione, La battaglia di Megolo, ANPI Como, 15 maggio 2013

domenica 16 aprile 2023

Cenni sulla Resistenza in provincia di Parma

Fornovo di Taro (PR). Fonte: Wikipedia

Nei concitati giorni della proclamazione dell’Armistizio anche il Comitato d’azione antifascista parmense intensifica gli sforzi. In una riunione tenutasi a Mariano il 9 settembre, nella villa del professor Angelo Braga, viene presa la decisione di coordinare gli sforzi degli esili gruppi antifascisti presenti sul territorio e cominciare ad organizzare una concreta opposizione agli occupanti <8. Da subito il nascente CLN si impegna per offrire aiuto e sostegno logistico ai militari alleati in fuga dai campi di prigionia, cercare armi, imbastire una rete di contatti. Il 15 ottobre, nello studio dell’avvocato Francesco Micheli, dirigente del Partito Popolare ed esponente di spicco dell’antifascismo parmense, si costituisce formalmente il Comitato di Liberazione Nazionale di Parma, struttura provinciale di organizzazione e coordinamento della nascente lotta antifascista. Ne fanno parte comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani, liberali, azionisti <9.
Il CLN così costituito deve preoccuparsi di imbastire un’efficiente rete di comunicazioni con i centri del movimento partigiano. Ad attendere a questi compiti sarà un esercito di staffette, che costituiranno, per tutti i mesi della lotta partigiana, i nodi fondamentali di una rete clandestina di comunicazione e informazione. Le staffette sono tradizionalmente, nella memorialistica sulla Resistenza, donne. Per loro era forse più semplice muoversi liberamente sul territorio, destando minori sospetti dei colleghi maschi. Un compito importante che però non esaurisce la varietà dei ruoli ricoperti dalle circa 460 resistenti riconosciute in Provincia di Parma che, per tutti i mesi della lotta partigiana, cureranno feriti, faranno opera di propaganda, consegneranno stampa clandestina, organizzeranno manifestazioni pubbliche, prenderanno parte a combattimenti <10.
All’indomani dell’Armistizio si pongono anche le basi per la formazione delle squadre SAP (Squadre di Azione Patriottica) e GAP (Gruppi d’Azione Patriottica), vere e proprie cellule partigiane clandestine dislocate in città, composte da persone che, anziché abbandonare le proprie case e unirsi alle bande della montagna, continuano a vivere nella propria dimora e mantenere un normale impiego, dietro cui mascherano l’attività di guerriglia, sabotaggio e spionaggio.
Al progressivo consolidamento delle forze antifasciste si accompagna la rapida stabilizzazione del potere tedesco in città: tra settembre ed ottobre il controllo militare e amministrativo della provincia di Parma passa nelle mani del Militärkommandatur 1008, l’amministrazione militare tedesca, stabilitasi a ridosso della Cittadella, tranquillo quartiere residenziale lontano dai possibili obiettivi dei bombardamenti alleati <11.
[NOTE]
8 Gorreri D., Parma ’43. Un popolo in armi per conquistarsi la libertà, Parma, Step, 1975.
9 Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma, I caduti della Resistenza di Parma 1921-1945, Parma, Step, 1970, p. 159.
10 Pieroni Bortolotti F., Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia Romagna: 1943-1945, Milano, Vangelista, 1978.
11 Klinkhammer L., Una città sotto l’occupazione tedesca: il caso di Parma, in «Storia e documenti», 5, 1999.
Iara Meloni, Occupazione tedesca e lotta di Liberazione a Parma: una breve introduzione storica in Stefano Rotta, Partigiano Carbonaro. Un ragazzo nella Prima Julia, Parma, Graphital, 2015

In questo capitolo ci si vuole soffermare e analizzare in che modo era strutturato il movimento partigiano parmense e che tipo di rapporti intercorrevano tra i comandi (e organismi) provinciali e quelli regionali o nazionali. Non vuole essere questa la sede per analizzare le caratteristiche e le criticità dei Comitati Nazionali come il CLN o il CLNAI, che sono invece stati ampiamente ed egregiamente trattati da storici come Roberto Battaglia, Claudio Pavone o Santo Peli. <46 Al di là quindi degli organi nazionali, ciò che interessa è focalizzarsi su quelli locali, cercando di dipanare la complicata rete di rapporti interni alla provincia di Parma ed esterni ad essa.
Nel precedente capitolo si è visto come il movimento resistenziale, sin dal suo esordio, sia stato guidato da un organizzazione a carattere nazionale, il CLN <47 appunto, che rappresentava quindi il vertice delle gerarchie di comando. Da questo organo si diramavano e si collegavano tutti i vari Comitati Nazionali sorti nelle città; nel caso di Parma, ricordiamo, questo si formò il 15 ottobre 1944. La fitta rete di collegamenti, non passava direttamente dal CLN nazionale a quelli locali, ma si rapportava anche con organi intermedi, a carattere regionale; per l’Emilia Romagna, era il caso del CUMER (Comando Unico Militare Emilia Romagna). La costituzione dei Comandi regionali si deve all’iniziativa comunista che propose, scrive Battaglia, “di trasformare le vecchie giunte militari in Comandi veri e propri, dotati della necessaria autonomia” <48. I Comandi regionali erano modellati sulla base del Comando Centrale, alle dipendenze del CLNAI, che nacque il 9 giugno 1944 con la costituzione del “Comando Generale per l’Alta Italia occupata del Corpo volontari della libertà” <49.
Alla costituzione del CVL, corrispose una spartizione delle competenze: sommariamente, le attribuzioni del CLNAI erano principalmente di natura politica, quelle del CVL, di carattere militare <50. Al pari di quello centrale, anche i Comitati di Liberazione provinciali e i Comandi locali si basavano su questa divisione. Nel caso parmense, si è visto come nel marzo del 1944, per motivi organizzativi, dal CUMER si formò la Delegazione Nord Emilia, con competenza sulle province di Parma, Reggio e Piacenza <51.  I contatti con il Comando Delegato avvenivano grazie alla costituzione a Fornovo, un paese della provincia parmense, di un Centro Collegamenti del Comando Nord Emilia, nel giugno 1944, affidato ai partigiani Bertini (Bruno Tanzi), Ferrarini (Enzo Costa) e Sergio (Alceste Bucci).
Per completare, sommariamente, il quadro dei rapporti tra la provincia parmense e gli altri organismi presenti sul territorio, è doveroso accennare anche alla presenza del Comando Alleato. Nonostante la scarna documentazione a riguardo, Leonardo Tarantini ci informa del fatto che i primi abboccamenti con gli Alleati risalivano al Natale del 1943. <52
I principali contatti con il Comando angloamericano avvennero per gli accordi relativi agli aviolanci; solo negli ultimi mesi prima della Liberazione, il Comando Alleato interverrà in una questione politica interna al Comando Militare parmense, questione che verrà analizzata successivamente, nel presente capitolo.
La gerarchia di comando non riguardava solo l’assetto nazionale, ma si riproponeva anche a livello provinciale. Nel caso di Parma, al pari delle altre città, il movimento era al suo interno rigidamente suddiviso. All’ultimo gradino della scala piramidale si collocavano le Brigate, gerarchicamente divise in Battaglioni, a loro volta suddivisi in Distaccamenti. Ogni reparto, ricordiamo, aveva il suo Comando composto dal Comandante, il Commissario, i rispettivi vice, l’Intendente e il Capo di Stato Maggiore. Salendo nella scala, al gradino intermedio, si posizionavano le Divisioni. Si tratta di raggruppamenti composti da diverse brigate, che si formarono nel parmense a partire dal febbraio 1945. Una relazione dell’ Ispettore del Nord Emilia, Umberto (Umberto Pestarini), ci informa sui motivi della riorganizzazione in Divisioni: “questo ultimo provvedimento, quello delle Divisioni, fa parte di un piano organico di riforma disciplinare e di dislocazione delle nostre forze […]”. <53 Naturalmente anche le Divisioni avevano il loro Comando. Infine al gradino più alto si trovava il Comando Unico Operativo, che coordinava le Brigate dipendenti e interagiva con i Comandi superiori. A differenza che per le vicine Piacenza e Reggio, a Parma si costituì la Delegazione del Comando Unico, operante nella zona ad Est della Cisa; in teoria essa era subordinata al Comando Unico, ma di fatto operava come autonoma. Sulle mansioni e le questioni inerenti al Comando Unico verrà dedicato un ampio paragrafo del capitolo.
[NOTE]
46 Cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza Italiana, S. Peli, Storia della resistenza in Italia, C. Pavone, Una guerra civile.
47 sarebbe più preciso dire il CLNAI dal momento che a partire dal maggio 1944, “si considera a tutti gli effetti rappresentante del governo legittimo” cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, p. 333.
48 R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, cit. p. 339.
49 Ibidem
50 Per un approfondimento cfr. R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, p. 439.
51 Il Comando Nord Emilia era così composto: Comandante: Mario Roveda (Bertola), Commissario: Emilio Suardi (Rinaldi), Vice Comandanti: Amerigo Clocchiatti (Lamberti) e Giovanni Vignali (Bellini), Ispettori: Enzo Costa (Ferrarini) e Bruno Tanzi (Bertini). Cfr. Fernando Cipriani, Guerra partigiana: operazioni nelle provincie di Piacenza, Parma e Reggio Emilia, p.7.
52 Cfr. L. Tarantini, Resistenza armata nel parmense, p. 67.
53 Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma (d’ora in poi AISRECP), Fondo Lotta di Liberazione, busta RI, fasc. QC, f. 19.

Costanza Guidetti, La struttura del comando nel movimento resistenziale a Parma, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2017-2018

A Parma l'attività militare cittadina fu pressoché inesistente fino al 24 febbraio 1944, quando in centro venne ucciso un milite della GNR. Queste difficoltà di azione trovano conferma da quanto riportato nella Relazione della 12ª Brigata Garibaldi, che attribuiva ai GAP unicamente un'azione di recupero di armi per la montagna nel febbraio 1944. Eugenio Copelli “Gianni”, catturato dalla polizia in un'osteria del quartiere Oltretorrente nella serata del 9 marzo 1944 e ucciso subito dopo, veniva indicato quale comandante dei GAP di Parma da un volantino che lo descriveva come un eroico gappista, ma alla prova delle carte d'archivio risulta che dal colpo di febbraio fino al 10 aprile - quando sulla strada Parma-Colorno venne ferito gravemente da un ciclista un milite della Gnr - non si verificò più nessun attentato. Un ultimo colpo di coda del gappismo parmense si ebbe tra i mesi di maggio e luglio 1944, quando vennero segnalate dai Notiziari della GNR alcune sparatorie compiute da ignoti in bicicletta contro militi della RSI.
Maria Grazia Conti, Gruppi di azione patriottica (GAP) in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza nell’Emilia Occidentale, Progetto e coordinamento scientifico: Fabrizio Achilli, Marco Minardi, Massimo Storchi, Progetto di ricerca curato dagli Istituti storici della Resistenza di Parma, Piacenza e Reggio Emilia in Rete e realizzato grazie al contributo disposto dalla legge regionale n. 3/2016 “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento”

Nella provincia di Parma le SAP si organizzarono a partire dall'estate del 1944 nella zona della bassa parmense limitrofa ai paesi di Colorno, Roccabianca, San Secondo e Mezzano di Sotto. Durante l'estate esse disarmarono alcune caserme, effettuarono frequenti sabotaggi alla rete telefonica, alle linee ferroviarie e ai cartelli stradali e sparsero sulle principali vie di comunicazione chiodi antipneumatici per bloccare i mezzi nemici, senza però riuscire ad innescare un movimento di massa nelle campagne circostanti. Queste problematiche furono denunciate nel novembre 1944 proprio dal Comando Terza zona che, in una nota al Comando generale delle brigate Garibaldi, lamentava «l'attendismo» delle comunità locali e la sconnessione esistente tra lotta militare e lotta politica. Sempre nel primo autunno del 1944 cominciò ad esserci traccia di nuclei sappisti anche nella zona a sud della via Emilia, ai bordi della città, ma le azioni, anche in questo caso, non andavano oltre qualche disarmo. Come è noto, i grandi rastrellamenti dell'inverno del 1945 costrinsero le SAP a ritirarsi in montagna per impedire gravose perdite di uomini, lasciando la pianura sotto il controllo dei nazifascisti.
Maria Grazia Conti, Squadre di azione patriottica (SAP) in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza... op. cit.

domenica 29 gennaio 2023

A Cuneo venni processata nel settembre del '25

Garessio (CN). Fonte: Borghi Storici

Il giorno che venne a Garessio un responsabile regionale dei chimici ci fu un tafferuglio con i carabinieri sul ponte sul Tanaro: un operaio prese un fucile ad un carabiniere e lo gettò nel fiume. Sul momento presero nota solo del nome, ma due anni dopo quell'operaio fu arrestato.
Nel frattempo i fascisti pubblicarono a Garessio un manifesto firmato da Gigetto Malatesta, un parente del famoso Malatesta, l'anarchico, che aveva fatto scoppiare la bomba al Diana di Milano, causando molte vittime.
Ricordo ancora il tono di quel manifesto, frasi come "perché tutti sappiano cos'è il fascio di combattimento" oppure "i conigli saranno schiacciati".
I carabinieri ricevettero l'ordine dalla Questura di perquisire alcune abitazione e prima ancora di effettuare la perquisizione arrestarono il compagno responsabile della commissione interna della Lepetit.
I carabinieri vennero a perquisire anche casa mia. La sezione si era disfatta; molto materiale era a casa mia; la moglie del segretario della sezione, che in quei giorni era fuori Garessio, venne da me la sera prima della perquisizione portandomi un fascio di documenti, perché non voleva passare dei guai. Il maresciallo dei carabinieri mise sottosopra la casa, io mi sentivo umiliata davanti ai miei genitori.
Ricordo che dopo la perquisizione il maresciallo dimenticò la sciabola da noi; quando tornò a riprenderla mi comunicò che, non essendoci stanze libere per trattenermi quella notte stessa in caserma, mi sarei dovuta preparare per essere accompagnata il mattino seguente a Mondovì.
Ricordo ancora mia madre che mi venne ad avvisare il giorno dopo, per dirmi che i carabinieri mi stavano aspettando: fu davvero un brutto momento.
Mi portarono a Mondovì, davanti a tre delegati di pubblica sicurezza, tre persone di cui non conoscevo neppure il nome. Nel materiale sequestrato il giorno avanti a casa mia, c'erano tutti i documenti relativi alla sezione, i nominativi degli iscritti, le tessere. L'interrogatorio durò dalla mattina alle nove alla sera alle cinque. Cercavo di inventare delle frottole per coprire i compagni. Romagnolo era già stato arrestato, ma dopo di me non presero più nessuno. Rimasi sette o otto giorni a Mondovì, poi mi trasferirono nel carcere di Cuneo. A Cuneo venni processata nel settembre del '25 e mi diedero nove mesi con il beneficio della condizionale.
Quando ero in carcere venne un giorno da me una donna con un biglietto indirizzato a me. Le parole che vi erano scritte sono rimaste impresse nella mia memoria, diceva: "Lucia, piccola maestrina, cosa insegnavi alle tue alunne? La filosofia di Aristotele o l'astronomia? O forse era meglio la teoria di Marx e di Gramsci? Ti ho visto mentre guardavi le rondini sul tetto. Forse pensavi alla tua, o meglio alla nostra libertà". Non sono mai riuscita a scoprire chi mi aveva mandato quel biglietto in cui mi chiamava maestrina, non sapendo che non avevo avuto la possibilità di studiare.
Nel '26 sono di nuovo in carcere con un nuovo processo a carico. Il titolo che apparve nell'articolo del "Subalpino" era: 'Il processo ai sovversivi'.
L'antefatto era questo: nel 1926 il Partito Comunista era già fuori legge; venne convocata una riunione a Mondovì, mi pare in un caffè dell'altipiano. Non potendo recarmi alla riunione scrissi una lettera ai compagni, informandoli della mia assenza e dei suoi motivi.
Il motivo era la presenza a Ceva del principe, accompagnato da tutte le autorità fasciste. Ricordo che usai queste parole: "...non posso transitare per Ceva a causa di tutto quel bordello..."; avevo l'abitudine di scrivere come parlo.
Al processo, l'avv. Lastrucci mi domandò se avevo partecipato alla riunione per cui erano stati arrestati gli altri compagni e io negai. Avevano però in mano la mia lettera di adesione alla riunione e mi chiesero spiegazione dell'uso della parola "bordello", riferita al principe e alla sua visita a Ceva. Ovviamente era stata interpretata come un'offesa al principe stesso e a tutta la casa reale. Io mi difesi dicendo che in piemontese questa parola si usa per indicare una gran confusione, e io del resto l'avevo veramente adoperata intendendo questa accezione, e comunque Dante l'aveva usata prima di me nei famosi versi: "Ahi serva Italia di dolore ostello/non donna di provincia ma di bordello".
Fummo assolti, ma nel frattempo avevo fatto un altro po' di galera.
Tornai alla vita di tutti i giorni. Sbrigavo le faccende domestiche e per un certo periodo lavorai ad imballare la frutta. Mi presentai anche alla Lepetit, avendo saputo che assumevano manodopera femminile. Andai con un'amica, ma né io né lei fummo assunte. Il direttore mi disse esplicitamente che temeva che "facessi fare la rivoluzione là dentro".
I contatti con il Partito erano in quegli anni piuttosto sporadici. Una volta andai ad Alba per una riunione. All'epoca c'era ancora Roberto. Arrivò un compagno ad avvisarci che c'era la polizia, così ci trovammo in un campo un po' fuori città. In quella riunione si decise di cercare di mantenere i contatti con Torino, perché troppo difficile era riuscire a tessere una trama di punti di riferimento in provincia di Cuneo, perché questa era troppo estesa e quindi i contatti difficili e sporadici.
Ricordo che tornando dalla riunione incontrammo la ronda (erano i tempi in cui si cantava "lenta va in giro la ronda"), così il compagno che era con me mi abbracciò e facemmo finta di essere due fidanzatini a passeggio, per passare inosservati.
Anche a Garessio discutemmo su come potevamo mantenere i collegamenti con gli altri gruppi. Una volta ricevetti una lettera di recarmi a Torino, in Via Nizza, in un caffè; ci andai ma non incontrai nessuno. Un altra missiva mi invitava a recarmi a Mondovì, in occasione del congresso eucaristico, dove avrei potuto incontrare altri compagni. Anche quella volta non incontrai nessuno.
Ricevetti in seguito un'altra lettera di convocazione a Torino, ma non ci andai più perché temevo una trappola.
Dopo il 1926 feci per un certo periodo la segretaria per una mutua di contadini della zona di Ormea, Garessio, Priola. I contadini avevano assicurato i capi di bestiame contro la mortalità, insomma se morivano dei capi di bestiame la società ne risarciva una parte del valore; io facevo la segretaria per questa società per L. 100 all'anno. I fascisti non potevano digerire la faccenda perché avevo sempre dei contadini in casa; un paio di volte all'anno facevamo delle riunioni pubbliche e in quelle occasioni avevo sempre presenti al mio fianco due carabinieri: io quasi mi divertivo a provocarli.
Poi venne la guerra. Quando la guerra cominciò ad andare male cercavamo di incontrarci, su in montagna per tentare di riorganizzarci. Dopo l'8 settembre il Partito si ricostituì e incominciammo di nuovo a lavorare. Mandammo tutti gli sbandati della 4^ Armata che transitavano nella nostra zona, specialmente quelli che arrivavano da Albenga, a Valcasotto. Vestivamo quei soldati con abiti civili e li accompagnavamo in montagna, a Valcasotto dove si stavano organizzando le formazioni di Mauri.
Testimonianza di Lucia Canova in Sergio Dalmasso, Lucia Canova, donna e comunista, CIPEC, Quaderno n° 1, Cuneo, 1995

domenica 2 ottobre 2022

Vera si vide costretta a ripartire alla volta di Milano dove, tramite un agente dell'OSS, riuscì ad ottenere nuovi piani di trasmissione

Viareggio (LU). Fonte: mapio.net

All’inizio del mese di settembre del 1943, sulle montagne della Versilia molti giovani - tra di loro anche alcuni soldati sbandati - si rifugiarono per organizzarsi e combattere i nazifascisti che erano arrivati a portare morte e distruzione sul territorio.
L’atmosfera di grande rischio ed incertezza richiedeva la soluzione di alcuni problemi logistici, primo fra tutti quello dell’armamento di questi coraggiosi. Si rendeva quindi necessario stabilire un contatto con gli Alleati. La mente instancabile di Manfredo Bertini detto “Maber”, attivo nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), nonchè talentuoso tecnico della fotografia, molto conosciuto anche per la collaborazione alla regia della prima pellicola di Mario Monicelli, aveva già in mente un piano, quello di inviare un emissario per informare gli alleati di quanto si stesse organizzando sul territorio Versiliese e contestualmente richiedere l’invio degli aiuti necessari per poter combattere i nazifascisti. “Maber” finanziò l’Operazione Gedeone - così fu chiamata - , vendendo qualche anello, una catenina ed un fermaglio d’oro.
Su incarico del CLN Vera Vassalle, una donna che non aveva ancora compiuto ventiquattro anni e alla quale in tenera età una poliomielite aveva causato una menomazione permanente alla gamba destra, fu inviata presso un comando alleato a Montella Irpinia da dove, di lì a breve, sarebbe salita al comando della missione “Radio Rosa”. Vera, nata a Viareggio il 21 gennaio 1920, diplomata all'Istituto Magistrale, era stata, per le sopraggiunte difficoltà economiche in famiglia, costretta a lasciare gli studi universitari e a trovare impiego in banca, dove si trovava nel 1941 quando suo padre, Eugenio Vassalle, morì nell'affondamento di una nave da guerra al largo della Sicilia. Di fede antifascista, prese parte attiva alla resistenza nel gruppo di cui faceva parte il cognato Manfredo Bertini.
Il 14 settembre 1943 Vera partì alla volta di Montella Irpinia servendosi di qualche raro treno, di una bicicletta e percorrendo lunghi tratti a piedi. Impiegò due settimane per raggiungere il comando alleato attraversando pericolosamente le linee nemiche e riuscendo finalmente, il 28 settembre, a stabilire un contatto con ufficiali dell'esercito americano. Dopo un breve addestramento presso l'Office of Strategic Service (OSS) di Napoli, viene trasferita a Capri, Pozzuoli, Taranto, Palermo ed infine, a bordo di un aereo alleato, a Bastia in Corsica da dove riuscirà a tornare in Toscana, a Castiglione della Pescaglia, a bordo di una motosilurante dell'esercito inglese in qualità di agente del 2677° Reggimento dell'OSS. Dorme in un cascinale e la mattina successiva con un treno arriva fino a Cecina dove è costretta a scendere e a scappare nei campi in quanto la linea ferroviaria era interrotta. Il 19 gennaio 1944 raggiunge a piedi Viareggio, portando con sé una radiovaligia, spacciata per un bagaglio a mano, riuscendo a sfuggire a diverse perquisizioni.
 


La ricetrasmittente, la radiospia modello A MKIII prodotta dalla compagnia Marconi nel Regno Unito nel 1944, era destinata alle operazioni clandestine sul territorio occupato da parte degli agenti, delle forze speciali e delle unità della Resistenza. Questa radio, molto piccola per l'epoca, poteva essere facilmente collocata all'interno di una valigia di cartone per bambini in modo da eludere controlli e le perquisizioni. Poteva funzionare sia con l'alimentazione di rete (110-130V o 200-250V, 40-60Hz) o tramite un'unità opzionale, con una sorgente esterna 6V DC come la batteria di un auto. Sempre all'interno della valigia venivano posizionati la cuffia e il tasto telegrafico completando la dotazione. L'apparato radio era in grado di trasmettere su tutte le frequenze comprese tra 3 e 9 Mhz divise in gamme con una potenza di uscita di 5 Watt.
La missione “Radio Rosa” consisteva nel rendere operativo un contatto radio clandestino per coordinare le azioni alleate con quelle partigiane ma purtroppo, per negligenza di un radiotelegrafista che aveva perduto i piani di trasmissione, non fu possibile implementare il piano subito dopo l'arrivo di “Rosa” con la radiospia.Vera si vide costretta a ripartire alla volta di Milano dove, tramite un agente dell' OSS, riuscì ad ottenere nuovi piani di trasmissione e la promessa dell'invio di un radiotelegrafista fidato.
Fu così che alla fine di marzo del 1944, Mario Robello detto “Santa”, ex Radiotelegrafista della Marina Militare, venne paracadutato sull'Alpe delle Tre Potenze sull'Appennino Tosco-Emiliano nella missione “Balilla” e fu quindi possibile dare inzio alla missione.
“Radio Rosa” inizia a operare a servizio della libertà.
 

L'osteria della famiglia Frugoli

L'attività clandestina e frenetica di Radio Rosa, dapprima situata in località Focette a Marina di Pietrasanta per poi spostarsi in un’osteria della Famiglia Frugoli nelle campagne di Capezzano Pianore in località Cateratte [n.d.r.: nel territorio del comune di Camaiore, in provincia di Lucca] e per muoversi definitivamente nell'abitazione di Vincenzo Bonuccelli presso il Convento dei Frati di Camaiore, riuscì a trasmettere trecento messaggi e, oltre a fornire notizie sugli spostamenti dell'esercito tedesco alle truppe Anglo-Americane, riuscì ad ottenere sessantacinque lanci di armi e munizioni da parte degli alleati ai partigiani Versiliesi e Toscani.
Il 18 febbraio 1944, alle quattro del mattino, preceduto dal messaggio “Per chi non crede” (frase in codice coniata da Manfredo Bertini - la frase voleva essere un monito per chi nell'antifascismo ancora titubava a passare alla lotta armata -), trasmesso dalla B.B.C., in località Foce di Mosceta (quota 1170m) avvenne il primo lancio effettuato da un Halifax Inglese. Vennero sganciati diciassette bidoni contenenti 50 “Sten” automatici, varie munizioni, materiale da sabotaggio, vestiario, viveri e generi di conforto. Nonostante tutte le precauzioni prese, però, l'iniziativa non passò inosservata ai fascisti che presero coscienza che anche in Versilia si cominciava ad operare seriamente e che occorreva stroncare ad ogni costo e con ogni mezzo il movimento di Resistenza armata.
Il 2 luglio 1944, su delazione di tre donne amiche di ufficiali tedeschi, Radio Rosa dovette cessare le trasmissioni a seguito dell'irruzione dei soldati. Così la Vassalle ricordava l’accaduto:
”Il comando tedesco inviò nella zona tutti i radiogoniometri, riuscendo ad individuare l’apparecchio radio nella stessa casa in cui era il “Santa” e a conoscere le ore di trasmissione. In quella mattina, alle ore 11 circa, mentre “Santa” era intento alla trasmissione, due vetture, da diversa direzione, si avvicinarono alla casa e ne scesero una decina di SS comandate da un maggiore, che circondarono la casa. “Santa” ebbe subito la percezione del pericolo e, dopo aver lanciato cinque bombe a mano con le quali colpì il maggiore e altri quattro tedeschi, si lanciò armato di mitra per le scale riuscendo ad uscire incolume dal portone e a raggiungere i campi. Di tale scena sono stata testimone oculare, trovandomi alla finestra di una casa vicina. I tedeschi credendo che Ciro Del Vecchio, un pensionato che per caso si trovava nei pressi del portone, fosse un altro nostro agente, lo uccisero con una raffica di mitra. Operarono pure numerosi arresti tra cui quelli di una mia cugina, che ospitava “Santa” con la radio, a nome Emilia Bonuccelli, che fu sottoposta a lunghi interrogatori e, poi, con gli altri condotta a Bologna, dove fu in un secondo tempo rilasciata. Io, intanto, ero riuscita a fuggire, portando con me tutta la documentazione, inerente al servizio. Riparai a Monsagrati, dove il giorno successivo ebbi notizia della salvezza di “Santa”. Ma, ricercata dai tedeschi, fui costretta ancora una volta a fuggire e a trovare rifugio presso la formazione “Marcello Garosi”, dove fui raggiunta da “Santa”.
Per la sua preziosa attività la Vassalle fu decorata di Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
”Ventiquattrenne, di eccezionali doti di mente, d’animo e di carattere, all’atto dell’armistizio, incurante di ogni pericolo, attraversava le linee tedesche e si presentava ad un comando alleato per essere impiegata contro il nemico. Seguito un breve corso d’istruzione presso un ufficio informazioni alleato, volontariamente si faceva sbarcare da un Mas italiano, in territorio occupato dai tedeschi. Con altro compagno R.T. portava con sé una radio e carte topografiche, organizzava e faceva funzionare un servizio dì collegamento fra tutti i gruppi di patrioti dislocati nell’ Appennino toscano, trasmettendo più di 300 messaggi, dando con precisione importanti informazioni di carattere militare. La sua intelligenza e coraggiosa attività rendeva possibile sessantacinque lanci da aerei a patrioti. Sorpresa dalle SS. tedesche mentre trasmetteva messaggi radio riusciva a fuggire portando con sé codici e documenti segreti e riprendeva la coraggiosa azione clandestina. Pochi giorni prima dell’arrivo degli alleati passava nuovamente le linee tedesche portando preziose notizie sul nemico e sui campi minati. Animata da elevati sentimenti, dimostrava in ogni circostanza spiccato sprezzo del pericolo. Degna rappresentante delle nobili virtù delle donne italiane.
Italia occupata, settembre 1943 - luglio 1944”.
Anche Mario Robello detto Santa fu insignito della Medaglia d'Argento al valore militare. Nel dopoguerra Vera e Mario si sposarono e si trasferirono in Liguria a Lavagna dove Vera morì a causa di un male incurabile nel novembre del 1985.
Gabriele Pardini, IZ5JLW, NOME IN CODICE ROSA, “per chi non crede”. Un'affascinante storia di coraggio, di ideali e di radiantismo che hanno contributo in maniera determinante alla liberazione del territorio Versiliese durante il secondo conflitto mondiale 

domenica 18 settembre 2022

Macciocchi operava al cuore di una rete femminile che aveva il suo territorio d'azione nel centro di Roma

Roma: uno scorcio di Piazza Navona

4. L’incontro con i GAP <45
“Dato che il partito non poteva fornirci un poligono di tiro, per esercitarci a sparare, con Maria Antonietta andavamo alle bancarelle di Piazza Navona” <46. Così Rinaldo Ricci <47, membro dei GAP romani, in seguito assistente regista di Luchino Visconti, ricorda oggi i giorni in cui lui e Macciocchi facevano “coppia” nell’organizzazione romana della Resistenza. I due si conobbero all’inizio degli anni ‘40, quando entrambi, giovani studenti, davano ripetizioni ai figli del ministro della Cultura, Pavolini.
L’antifascismo, per loro come per tanti altri giovani, era prima di tutto un fatto culturale, alimentato da letture vaste e spesso proibite, sintomo di un'inquietudine delle coscienze cui il plumbeo clima culturale del regime non poteva dare risposte. “Ci influenzava la letteratura americana, ma anche Malraux, Marx”, ricorda Rinaldo Ricci. La condizione umana era stata infatti una lettura determinante per Macciocchi: “Ho letto La condizione umana di Malraux (…) Il fascismo ci aveva tenuto all’oscuro di tutta la cultura straniera, eppure, chissà come, questo Malraux era stato tradotto” <48. Il libraio era meta quotidiana per la giovane, che acquistava libri usati, spesso tenuti “sottobanco”, come nel caso dell’autore francese che tanto la influenzò: “Solo Malraux mi aveva messo in rapporto con i comunisti” <49.
Fu Rinaldo Ricci invece a metterla materialmente in contatto con gli ambienti romani della Resistenza, e in primis con Guttuso <50, che nel suo studio di via Pompeo Magno ospitava gli antifascisti. Come ha scritto Giorgio Galli nella sua Storia del Partito Comunista Italiano, i primi sintomi del risveglio di una coscienza politica durante la guerra erano giunti, già dal 40-41, proprio dagli intellettuali, in particolare quelli dell’ambiente romano: Renato Guttuso, Ruggero Zangrandi <51, Mario Alicata <52, Pietro Ingrao <53, Paolo Bufalini <54, Aldo Natoli <55, Fabrizio Onofri <56, Marco Cesarini Sforza <57, Antonello Trombadori <58. Dopo il 25 luglio del ‘43 Guttuso aveva costituito un comitato pluripartitico per dare assistenza agli antifascisti in carcere, rappresentandovi il PCI. Macciocchi entrò in contatto con quest‟ambiente: incontrò Negarville <59, Di Vittorio <60, Giorgio Amendola <61. Quest'ultimo in particolare avrà un ruolo determinante nella vita di Macciocchi, sia dal punto di vista politico, sia personale, visto che diventerà suo cognato. Figlio di Giovanni Amendola <62, Giorgio si era assunto il compito di seppellirne l’eredità idealista liberale - scrisse Macciocchi - in nome dell’ideologia ufficiale del PCI <63. Giorgio Amendola era un politico accorto, estremamente realista, fedele a Mosca. Il partito doveva seguire la linea dettata dall’URSS, il che in questa fase significava accreditarsi come leale agli occhi delle forze politiche democratiche e degli alleati. Per chi si formò politicamente in quel periodo la parola d'ordine democratica era persino più forte del richiamo alla centralità del proletariato, temporaneamente passata in secondo piano. Con la svolta di Salerno Togliatti propose la collaborazione tra tutte le forze che volessero battersi per la libertà d'Italia accantonando la pregiudiziale dell’abdicazione del re. Nel frattempo la presenza delle truppe angloamericane sul territorio italiano veniva presentata dal PCI come la causa transitoria che impediva di portare avanti una linea rivoluzionaria. Si cominciava a parlare di attesa di “nuove più favorevoli condizioni di lotta per le situazioni future” <64.
Macciocchi intanto fu nominata responsabile delle donne della zona centrale di Roma, e si vide assegnare come primo compito la distribuzione de l’Unità <65. In questa fase iniziale, nella distribuzione di materiali di propaganda, fu affiancata da una giovanissima Miriam Mafai, che ricordò in seguito: “Per tutti i mesi dell’occupazione, continuammo a incontrarci, a distribuire volantini e l’Unità (…). Mi fece leggere Malraux e mi spiegò che i comunisti cinesi erano 'gagliardissimi'” <66.
Dopo l’8 settembre 1943 si assisteva alla rinascita dei partiti politici, l’opposizione antifascista si riorganizzava e nel settembre nasceva il CLN. Accanto a questo, al Nord, nascevano i Gruppi di difesa della donna. A Roma invece era l’occupazione tedesca. Furono mesi interminabili e tragici per la città, durante i quali Macciocchi svolse tutti i compiti propri di una staffetta, facendo da tramite per operazioni militari e di sostegno ai partigiani. Accompagnò Giorgio Amendola, suo futuro cognato, in diversi rifugi, e come lui altri esponenti della rete clandestina, introducendoli in alloggi segreti dove sarebbero stati ospitati e tenuti al riparo. Così conobbe tra gli altri Sandro Pertini, avendo l’incarico di accompagnarlo nell’alloggio clandestino indicatole dal comando della zona <67.
Macciocchi operava al cuore di una rete femminile che aveva il suo territorio d'azione nel centro della città, tra il Lungotevere, piazza del Popolo e piazza Colonna. “Il lavoro femminile nella quinta zona clandestina di Roma (…) non era difficile. Cercavo ragazze antifasciste disposte a svolgere un piccolo lavoro politico come la distribuzione de l’Unità, o qualche volantino clandestino da sparpagliare per Roma, oppure disposte a stare nei posti di blocco sulle arterie stradali che uscivano da Roma, per contare i convogli militari che vi passavano” <68. Le clandestine della zona centrale erano una quindicina, ed erano divise in due spezzoni: quello con compiti di propaganda e di sostegno alle famiglie degli antifascisti incarcerati e quello con compiti propriamente militari. Quest'ultimo dipendeva in parte dal PCI, in parte dal CLN. Erano le partigiane più anziane, sulla quarantina, ad istruire le giovani come Maria Antonietta non solo sui compiti pratici di una staffetta, ma anche sui fondamenti teorici della lotta, trasmettendo alle ragazze rudimenti della filosofia marxista-leninista.
La guerra ha spesso costituito per le donne un'esperienza senza precedenti di responsabilità e libertà, legata alla conquista di spazi tradizionalmente riservati agli uomini, all’apertura di nuovi orizzonti professionali, e spesso, come nel caso della Resistenza, alla partecipazione militare <69. L’attivismo femminile alterava la chiusura sociale ma anche “la rigidità dei modi di abbigliamento e di socialità borghesi” <70. Si tratta spesso di un‟esperienza illusoria, poiché i mutamenti legati alla guerra sono limitati dal rafforzamento, pratico e simbolico, dei ruoli sessuali, oltre ad essere funzione di svariati parametri, quali il gruppo sociale, l’età, la situazione familiare e naturalmente la storia individuale <71.
Nell’autobiografia di Macciocchi si ritrova l’immagine di una vera e propria trasfigurazione legata all’esperienza resistenziale, in linea con altre testimonianze che ci rinviano un'immagine di liberazione femminile legata alla fase del conflitto. Se infatti le donne sono spesso doppiamente travolte dalle guerre, divenendo oggetto di specifiche violenze di genere legate ai conflitti, in molte memorie si ritrova invece come elemento comune l’euforia per la liberazione provvisoria dalle regole e dai rigidi ruoli vincolanti in tempo di pace. Macciocchi descriveva in questi termini la sua liberazione: “Di quell’epoca, mi resta il ricordo di giornate intense, e libere. Provavo la gioia assoluta di voltare le spalle a padre, sorelle, tutela casalinga. La mia emancipazione stava nel mescolarmi agli uomini, ai ragazzi, ai compagni, che avevo visto fino allora solo nell’altra fila di banchi a scuola” <72. Dunque fine della segregazione sessuale, della divisione dei ruoli, anche se solo apparente e transitoria. Il desiderio di emancipazione individuale, la volontà di scardinare un sistema di relazioni sociali soffocanti, appaiono come altrettante motivazioni importanti per comprendere il protagonismo delle donne in quel periodo.
Il 15 febbraio 1944 Macciocchi riceveva l’input per entrare nei gruppi di azione partigiana, i GAP <73. Questi le apparvero come un gruppo di giovani borghesi sicuri, decisi, persino altezzosi.
[NOTE]
45 I GAP, Gruppi d'Azione Patriottica, nacquero su iniziativa del Partito Comunista Italiano, sulla base dell’esperienza della Resistenza francese. Erano articolati in piccoli nuclei di quattro o cinque persone e portavano avanti azioni di sabotaggio nei confronti delle truppe nazifasciste. Sui GAP romani e in particolare su una delle vicende più controverse legate alla loro esperienza, ovvero l’attacco di via Rasella, si veda la ricostruzione del comandande GAP Rosario Bentivegna, protagonista dell’assalto di via Rasella, Achtung Banditen!, Milano, Mursia, 1983, n. ed. 2004. E ancora sulla Resistenza a Roma M. Avagliano G. Le Moli, Muoio innocente. Lettere di caduti della Resistenza a Roma, Milano, Mursia, 1999.
46 Testimonianza di Rinaldo Ricci
47 Rinaldo Ricci (Roma, 1923); è stato assistente alla regia di Luchino Visconti, Franco Zeffirelli e Billy Wilder. Nella sua filmografia ricordiamo con Visconti Il Gattopardo e Rocco e i suoi fratelli, con Franco Zeffirelli Romeo & Juliet. Ha partecipato alla Resistenza.
48 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 77
49 Ivi, p. 77
50 Renato Guttuso (Bagheria, 1911 - Roma, 1987) è stato un pittore italiano, esponente del cosiddetto realismo sociale, e uno dei più illustri nomi della cultura vicini al Partito comunista italiano.
51 Ruggero Zangrandi (1910-1970) è stato un giornalista e scrittore italiano. Si impone al largo pubblico negli anni Sessanta per le sue inchieste sul Sifar e per la sua ricostruzione della mancata difesa di Roma, nel 1943, da parte dello Stato Maggiore italiano.
52 Mario Alicata (Reggio Calabria, 1908 - Roma, 1966) è stato un giornalista e politico italiano. Ha partecipato alla Resistenza. Membro del Comitato centrale del PCI è stato uno dei più stretti collaboratori di Palmiro Togliatti. Ha diretto il quotidiano comunista ‘L’Unità’.
53 Pietro Ingrao (Lenola - Latina 1915), è un giornalista e politico italiano. Partecipò alla Resistenza a Roma e Milano, è stato membro del Comitato centrale del PCI, parlamentare per numerose legislature e presidente della Camera dei Deputati. Ha diretto il quotidiano ‘L’Unità’ e partecipato alla fondazione del Partito Democratico di Sinistra, per abbandonarlo il seguito e aderire al partito della Rifondazione Comunista.
54 Paolo Bufalini (Roma, 1915 - Roma, 2001) è stato un politico italiano. Partigiano, eletto più volte in Parlamento, è stato fra i massimi dirigenti del Partito Comunista Italiano.
55 Aldo Natoli (Messina, 20 settembre 1913) medico, antifascista e deputato italiano per il PCI, fu radiato dal partito con Rossana Rossanda, Luigi Pintor e il gruppo del quotidiano “Il Manifesto” a causa del dissenso sulL’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
56 Fabrizio Onofri (Roma, 1917 - 1982) è stato uno scrittore e dirigente comunista, Medaglia di bronzo al valor militare per il suo impegno nella Resistenza. Fu espulso dal PCI nel '57 in seguito ad una polemica con Togliatti sullo stalinismo.
57 Marco Cesarini Sforza è stato un giornalista e membro del PCI.
58 Antonello Trombadori (Roma, 1917 - Roma, 1993) è stato un giornalista, critico d'arte e politico italiano. Partecipò alla Resistenza e dopo la Liberazione entrò a far parte del Comitato centrale del PCI. Collaboratore di importanti riviste come 'La Ruota', 'Primato', ‘Città’, ‘Corrente’, ‘Cinema’ e ‘Rinascita’, fu eletto quattro volte deputato. Dopo il 1968, si avvicinò dapprima alla corrente migliorista di Paolo Bufalini e Giorgio Napoletano, quindi alle posizioni socialiste. Giorgio Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Milano, Kaos edizioni, 1993.
59 Celeste Negarville (Avigliana, 1905 - Torino, 1959) è stato un politico italiano. Antifascista, nel dopoguerra sarà uno dei maggiori esponenti del PCI e il primo a dirigere l’Unità dopo gli anni di diffusione clandestina. Fu deputato alL’Assemblea Costituente, quindi senatore e più volte sottosegretario. E' stato sindaco di Torino nell’immediato dopoguerra. Ha contribuito alla sceneggiatura del film di Rossellini Roma città aperta.
60 Giuseppe Di Vittorio (Cerignola, 1892 - Lecco, 1957) è stato un politico e sindacalista italiano. Proveniente da una famiglia di contadini, partecipò da antifascista alla guerra civile spagnola e quindi alla Resistenza in Italia nelle Brigate Garibaldi. Nel 1945 fu eletto segretario della CGIL che aveva contribuito a rifondare e che guidò fino alla sua morte.
61 Giorgio Amendola (Roma, 1907 - Roma, 1980) è stato un politico italiano, autore di numerosi libri. Figlio di Giovanni Amendola e dell’intellettuale lituana Eva Kuhn, aderì al PCI nel 1929 militando nell’antifascismo e quindi nella Resistenza, entrando nel comando generale delle Brigate Garibaldi assieme a Luigi Longo, Pietro Secchia, Gian Carlo Pajetta e Antonio Carini. Fu deputato per il PCI dal 1948 fino alla morte. Fu cognato di Maria Antonietta Macciocchi, che sposò il fratello Pietro Amendola.
62 Giovanni Amendola (Salerno, 1882 - Cannes, 1926) è stato un politico italiano. Docente di filosofia teoretica all’Università di Pisa, parlamentare liberale, fu ispiratore del Manifesto degli intellettuali antifascisti e uno dei principali artefici della secessione aventiniana. Inviso al regime, fu una delle prime vittime del fascismo. Morì a Cannes, in Francia, in seguito ad una lunga agonia, per le percosse ricevute a Serravalle Pistoiese (PT) il 20 luglio 1925 da un gruppo di squadristi.
63 Maciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 70.
64 G. Galli, op. cit, p. 239.
65 L’Unità era il quotidiano della sinistra italiana, quindi organo ufficiale del PCI, fondato il 12 febbraio 1924 da Antonio Gramsci. Messo fuori legge nel 1925 dal Prefetto di Milano, uscirà clandestinamente, tra Francia e Italia, sino alla seconda guerra mondiale; solo con l’arrivo degli alleati, dal 1944 riprese a Roma la pubblicazione ufficiale del giornale. Il nuovo direttore era Celeste Negarville.
66 M. Mafai, Addio alla Macciocchi, comunista eretica, ‘La Repubblica’, 16/04/07. In realtà Mafai sembra ricalcare il suo ricordo della Resistenza con Macciocchi dalle pagine di Duemila anni di felicità, cit., p. 77
67 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit, p. 85
68 Ivi, p. 88
69 Sulle donne e la guerra alcune considerazioni interessanti si trovano in F. Thébaud, La Grande Guerra, in Storia delle donne. Il Novecento, a cura di F. Thébaud. Bari, Laterza, 1997 “Gli anni della guerra hanno costituito per le donne un‟esperienza positiva, e persino - interrogativo provocatorio quant‟altri mai - un happy time?”, si chiedeva la storica francese analizzando L’impatto della Grande Guerra sulla condizione femminile. Ivi, p. 42. La studiosa rileva come numerose fonti femminili ci rimandino quest‟immagine. L’espressione “good time” è stata usata dalla femminista inglese C. Gasquoine Hartley in Women’s Wild Oats, mentre di “fine time” ha parlato L. Pruette. La propagandista inglese Jessie Pope e la romanziera americana Willa Cather hanno esaltato il rovesciamento dei ruoli sessuali. L’Inghilterra di Harriot Stanton Blatch nel 1918 era un mondo di sole donne, che apparivano sicure nel loro spazio, capaci, felici, gli occhi brillanti.
70 Ivi, p. 46
71 Ivi, p. 49
72 Macciocchi, Duemila anni di felicità, cit., p. 87
73 Ivi, p. 89
 


Eleonora Selvi, Maria Antonietta Macciocchi: profilo di un'intellettuale nomade nel secolo delle ideologie, Tesi di Dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2009

martedì 13 settembre 2022

Si giunse così a dare nuovo impulso alla persecuzione dei criminali fascisti grazie all’istituzione delle Corti di assise straordinarie, le Cas



Con il 25 luglio del 1943, in Italia, si apre una nuova fase politica dopo un ventennio di dittatura. Il Gran Consiglio del Fascismo, in una seduta estremamente tesa, sfiducia a maggioranza il Duce, Benito Mussolini. Hans Woeller, bene racconta il clima di quei momenti <3, quando alle 22:45 di sera, ora in cui viene ufficializzata pubblicamente la sfiducia a Mussolini, scoppia un vero e proprio “terremoto”: la gente per le strade è festante e aggredisce i simboli tangibili del regime (i monumenti e altri manufatti), anche se in alcune città, come a Milano, si procede all’aggressione caotica ai rappresentanti del regime che arrivano sotto tiro. Mussolini si presenta dal re per rassegnare nelle sue mani, come dal vigente Statuto Albertino, le proprie dimissioni e da questi viene fatto arrestare. Il Generale Badoglio è il nuovo Primo Ministro che già il 27 luglio decreta lo scioglimento del partito fascista e la soppressione del Gran Consiglio del Fascismo. Ma di perseguitare gli ex fascisti ancora non se ne parla. In realtà, l’obiettivo principale di Badoglio è di uscire da una guerra tanto rovinosa quanto violenta a fianco degli alleati tedeschi senza preoccuparsi eccessivamente delle epurazioni, anche se qualcosa venne fatto, come l’arresto avvenuto a fine agosto 1943 di alcuni esponenti di spicco del partito fascista al fine di evitare un complotto antigovernativo; ma questa è un’altra cosa rispetto all’epurazione per aver commesso crimini fascisti o per aver collaborato con essi. I primi veri interventi sono svolti in Sicilia dall’Amgot (Allied Military Government of Occupaid Territory) che altro non è che un organismo amministrativo espressione del governo alleato che intanto si estende alla Sicilia e che, nelle intenzioni di Churchill, avrebbe dovuto fare piazza pulita del regime mussoliniano e dell’alleanza dell’Asse, ma seppur occupandosi dell’epurazione non era assolutamente diretto a licenziamenti indiscriminati e di massa. Per gli alleati, insomma, era necessario cacciare i responsabili della grave situazione italiana e tutto si sarebbe ricomposto.
Il Governo Militare Alleato procedette così allo scioglimento del PNF e dei sindacati ad esso collegati, proibendo qualsiasi forma di manifestazione di natura fascista; parallelamente si procedette all’arresto dei fascisti considerati pericolosi. Si proseguì poi, non senza difficoltà, alla sostituzione di amministratori e funzionari collusi con il vecchio regime.
L’8 settembre del 1943 veniva firmato l’armistizio tra il governo italiano, rappresentato da Badoglio, e gli alleati anglo-americani. I tedeschi invadono Roma e il re scappa a Brindisi, creando le premesse di quello che sarà il Regno del Sud. Mussolini, il 12 settembre, viene liberato dai tedeschi presso il Gran Sasso, dove era detenuto, e di lì a poco darà vita nel nord Italia alla Repubblica Sociale Italiana che durerà fino all’aprile del 1945 e farà “epurazione” a modo suo, quando, a ottobre del 1943, creerà un Tribunale Speciale Straordinario per punire con pene capitali chi aveva votato contro il dittatore nella seduta del 25 luglio (vittime illustri saranno il generale de Bono e Galeazzo Ciano, fucilati di lì a poco a Verona).
Intanto, al Sud, con l’estendersi del controllo anglo-americano a Napoli, la defascistizzazione prosegue con l’epurazione delle istituzioni scolastiche e delle università e con l’epurazione degli enti locali; anzi, per garantire una maggiore efficacia alle politiche alleate viene creata la Allied Control Commission (Acc) con funzioni operative. Invece nelle zone sotto il controllo del governo Badoglio, molto frequentemente, i fascisti erano tornati al potere o perlomeno esercitavano poteri ufficiosi ancora rilevanti senza che il legittimo governo potesse operare se non per sedare le rivolte di cittadini disperati dal ritorno ad una sorta di status quo. Così si dovette ripartire quasi da zero nel campo dell’epurazione. Nonostante non ritenesse il problema di prioritaria importanza, Badoglio, provvide con un ordinanza ad epurare le forze dell’ordine (ottobre 1943) anche se non pensò mai di estendere l’epurazione alla pubblica amministrazione. Nel novembre del 1944, Badoglio, giunge a catalogare, dopo molteplici pressioni politiche, quattro tipi di fascisti: “Del primo gruppo, considerato relativamente inoffensivo, facevano parte gli iscritti al partito da lungo tempo e magari di alto rango che tuttavia si erano sempre comportati abbastanza degnamente e che quindi non andavano annoverati tra i profittatori e gli sfruttatori di regime; certo, dovevano perdere i loro privilegi ma non era necessario sottoporli a misure coercitive. Un analogo riguardo, invece, non bisognava dimostrare nei confronti dei componenti il secondo gruppo, nei confronti, cioè, di quei fascisti che non solo avevano ricoperto cariche pubbliche, ma “sono stati fautori di favoritismi, scorrettezze amministrative, abusi, violenze contro non fascisti ecc…” e che quindi andavano arrestati come del resto gli appartenenti al terzo gruppo, vale a dire gli attivisti e i fascisti della prima ora. Badoglio, infine, considerava particolarmente pericolosi i fascisti del quarto gruppo, cioè quegli “individui che, pur non appartenendo in primo piano alla vita politica, hanno sempre aiutato sottomano i gerarchi con tutti i mezzi specialmente illeciti, per ottenere protezione e favori”; essi sono - continuava Badoglio - “i vermi più luridi del letamaio fascista (…) che occorre ricercare, scoprire e colpire inflessibilmente”. <4 Quest’ultimi, i più deleteri per il paese, andavano perseguiti. Il risultato di questa valutazione sarebbe stato un Regio Decreto del 9 dicembre 1943, “Defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato degli enti locali e parastatali, degli enti comunque sottoposti a vigilanza e tutela dello Stato e delle aziende private esercenti pubblici servizi o di interesse nazionale”, sintesi di tutte le direttive in materia emanate fino a quel momento. Lo scopo della defascistizzazione degli enti statali era evidente.
All’atto dell’applicazione però tale decreto non si mostrò particolarmente gradito a coloro che dovevano applicarlo, poiché non chiariva i molti dubbi procedurali legati alla sua applicazione; fu così che venne rallentato e boicottato. Questa situazione si sarebbe protratta fino all’aprile 1944, quando il governo sostenuto da una nuova coalizione di partiti, tra cui socialisti e azionisti, diede vita ad un nuovo esecutivo che nel maggio 1944 allargò grazie a un nuovo decreto, la platea dei punibili anche a coloro che avevano organizzato e diretto la marcia su Roma, gli squadristi autori di violenze, gli autori del colpo di stato del 3 gennaio 1925 e a chi aveva mantenuto in vita il fascismo con atti rilevanti. Per la prima volta si prendeva in considerazione la “lesione della fedeltà e dell’onore militare per fatti commessi dopo l’8 settembre 1943”. Il ministro Sforza, appena insediato, dovette agire in materia di epurazione colpendo anche banchieri ed ex prefetti.
E ci avviciniamo alla liberazione di Roma. Il Mercuri <5 sottolinea moltissimo le responsabilità della figura del maresciallo Badoglio che più di ogni altra cosa si sarebbe preoccupato di smantellare le strutture politiche del defunto regime con lo scopo solamente che queste non collidessero con il nuovo corso italiano e non per senso di giustizia verso il popolo italiano, indicando con i primi provvedimenti del suo Governo le direttrici di un colpo di stato regio che nel regno del Sud. Infatti, al crollo del fascismo, in assenza di tentativi di rivolta, accadde lo scioglimento del PNF, del Grande Consiglio del Fascismo, del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, della Camera dei fasci e delle Corporazioni, all’incorporamento della MVSN nel Regio esercito e all’arresto di alcuni gerarchi come misura di sicurezza. Chi non fuggì in Germania si affrettò a professarsi leale al nuovo corso politico e manifestando fiducia nel Re si mise a disposizione della patria.
E così si giunge alla liberazione di Roma avvenuta ad opera delle forze alleate il 4 giugno 1944 che, come era avvenuto dieci mesi prima, passa da una esplosione di gioia, all’accanimento esasperato contro i simboli del regime. Si forma un nuovo governo che scalza quello reazionario di Badoglio, presieduto da Ivanoe Bonomi, figura di spicco dell’antifascismo italiano. Il passo, rispetto al governo precedente, cambia poiché ora la compagine parlamentare è composta da azionisti, socialisti, comunisti e dai partiti moderati borghesi, molto poco disposti ad entrare a compromessi con gli ex fascisti. Il 27 luglio 1944 viene controfirmato dal Luogotenente del Regno ritornato a Roma, Umberto di Savoia, dopo la provvida abdicazione di Vittorio Emanuele III, il Decreto Luogotenenziale 159: potremmo definirlo come fa il Woeller la Magna Charta dell’epurazione politica <6. In esso furono accorpate tutte le precedenti “sanzioni contro il fascismo”. In materia penale si prevedeva una responsabilità di livello costituzionale per gli atti che avevano favorito l’avvento del regime fascista compromettendo la sicurezza e l’ordinamento dello stato. Per i membri del governo fascista e i gerarchi “colpevoli di annullare le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del paese” si prevedevano pene dall’ergastolo alla pena di morte. I giudizi sulla colpevolezza erano demandati ad un’Alta Corte di Giustizia presieduta da un presidente e composta da otto membri di nomina del Consiglio dei Ministri tra gli alti magistrati dello stato (nomine difficilissime da fare, perché o i magistrati erano compromessi col precedente regime, o erano prossimi alla pensione, o proprio non volevano saperne di addossarsi responsabilità così grandi <7). Inoltre, erano considerati colpevoli di altri delitti commessi “per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo” gli organizzatori di squadre fasciste colpevoli di violenze e devastazioni, coloro che avevano diretto la insurrezione del 28 ottobre 1922, coloro che avevano promosso e diretto il colpo di stato del 3 gennaio 1925, e chiunque avesse contribuito con atti delittuosi commessi “per motivi fascisti o valendosi della situazione politica creata dal fascismo”.
Questi casi appena citati erano sottoposti al giudizio della magistratura ordinaria. Era inoltre prevista la sospensione temporanea dai pubblici uffici o dall’esercizio dei diritti politici nonché l’assegnazione a colonie agricole o a case di lavoro fino a dieci anni per coloro che, avvalendosi della situazione politica creata dal fascismo o per motivi fascisti avevano compiuto fatti di particolare gravità che, pur non configurando gli estremi di reato, fossero apparsi “contrari a norme di rettitudine o di probità politica”. Accanto alle norme penali che colpivano le responsabilità nell’avvento e nel sostegno del regime fascista, si introdusse anche il concetto di collaborazionismo con l’occupante tedesco. In materia di epurazione si prevedeva la dispensa del servizio in ragione della qualifica ricoperta; questo valeva per gli squadristi, per i partecipanti alla marcia su Roma, per gli insigniti di sciarpa littorio, per i sansepolcristi e per i fascisti ante marcia e gli ufficiali della Milizia Volontari Sicurezza Nazionale, con la possibilità di applicare misure disciplinari meno gravi per chi non si era comportato in modo settario o intemperante. In caso di indebiti avanzamenti di carriera per titoli fascisti, era prevista la retrocessione alla posizione precedente anziché procedere al licenziamento.
Vi era poi un titolo che si occupava dell’avocazione dei profitti di regime che prevedeva che gli arricchimenti patrimoniali avvenuti dopo il 28 ottobre del 1922 da chi aveva ricoperto cariche pubbliche o politiche fasciste avrebbero dovuto essere stati avocati.
Nel complesso per la prima volta ci si trovava di fronte ad una legge organica ed esaustiva, almeno nelle intenzioni.
E qui si potrebbe aprire una riflessione su un fenomeno che Claudio Pavone affronta nel saggio sulla “continuità dello Stato nell’Italia 1943-‘45” <8. Molto sinteticamente l’autore pone l’accento su due piani distinti ai quali, a mio parere, ne va aggiunto un terzo. Vi è infatti un tema della continuità inteso in senso ristretto e formale, come rottura o meno della legalità costituzionale e di una legalità nell’ambito del Regno, ancora esistente, della Repubblica, che vi sarà tra pochissimo. Un secondo livello è poi quello legato all’apparato e organizzazione e il complesso di istituzioni che il fascismo chiamò “parastato” e che venne lasciata in eredità al postfascismo. Aggiungiamo qui un terzo elemento di discontinuità che andrà a rallentare significativamente la macchina burocratica e altri non è se non ciò che consegue alla suddivisione italiana in tre zone di influenza: legislazione in materia di epurazione efficace nelle zone amministrate dagli alleati, inefficienza della legislazione epurativa nella zona in mano alla monarchia nel regno del sud, per finire con la zona corrispondente alla ex RSI che vedrà un accavallarsi di normative, con prevalenza di quelle alleate, se non altro più pratiche.
Vi è poi il tema dell’epurazione spontanea che si cerca di soppiantare con questa normativa [...]
Infine, l’epurazione giudiziaria, concentrata più che altro tra l’estate e l’autunno 1944. Questa la situazione al momento della pubblicazione della nuova legge. E l’attività dell’Alto Commissariato diede i suoi frutti: all’inizio di ottobre del 1944 l’organismo in questione aveva sottoposto ad indagine 6000 persone con 3500 deferimenti alle 61 commissioni costituite e 650 proposte di sospensione con 167 licenziamenti effettivi <10 solo nei Ministeri e nelle altre amministrazioni centrali dello Stato. E alla fine dell’anno, con le dimissioni dell’Alto Commissario, Scoccimarro, i numeri erano ancora più importanti: l’Alto Commissario e la stessa amministrazione pubblica avevano segnalato ben 16000 persone e per 3600 di questi si era finalmente giunti a un giudizio di primo grado da parte delle commissioni con 600 rimozioni e 1400 sanzioni meno pesanti <11. Vi è una rinnovata spinta a procedere contro i rei di atti criminali e di collaborazionismo durante il regime. Un esempio per tutti è il processo che si svolge a Roma il 20-21 settembre 1944 contro l’ex capo della polizia Pietro Caruso: l’accusa mossa era quella di aver preso parte ai rastrellamenti tedeschi o di averli personalmente organizzati, di collaborazione con la Gestapo e le SS. Ma l’accusa di maggior peso lo vedeva responsabile della collaborazione con i tedeschi nel redigere la lista di 335 persone detenute che verranno poi massacrate, nella primavera del 1944, alle Fosse Ardeatine, per rappresaglia contro l’attentato di via Rasella a Roma, che era costato la vita a 35 soldati tedeschi. La corte, nell’applicazione del decreto del 27 luglio, comminò una pena capitale che sembrò più un verdetto “contro l’intero fenomeno del collaborazionismo” <12.
Il contesto politico, nel frattempo, stava mutando nuovamente con la virata dei partiti moderati verso destra e con la convinzione sempre più forte di democristiani e liberali di un effettivo pericolo di rivoluzione socialista in Italia. Era il momento, per i politici, di cambiare registro. A suffragare quanto detto arriva un’inaspettata svolta del comunista Togliatti che già verso la fine del 1944, pur rimanendo fermo nella sua convinzione di una epurazione politica severa, passa a più miti consigli rispetto alla epurazione giudiziaria, constatando una parziale paralisi del paese che non poteva durare ancora per molto senza creare danni irreparabili. Nella primavera del 1945 questo era il sentimento prevalente nella classe politica italiana anche se nessuno pensava di rendere pubbliche queste riflessioni. Di fatto, però, la tendenza a un disimpegno dal terreno si faceva sentire in seno all’Alto Commissariato che a dicembre del 1944 aveva visto i suoi componenti dimissionari. L’Istituzione perse progressivamente significato fino a svuotarsene, e nei primi mesi del 1945 non si ebbero eventi significativi sul fronte epurazione. Poi, nella notte del 5 marzo 1945 fuggì dal carcere un criminale di guerra, il Generale Mario Roatta; questo evento sollevò indignazione generale e sospetti, da parte dei partiti della sinistra, di complicità tra governativi di destra, forze dell’ordine ed ex fascisti. Si giunse così a dare nuovo impulso alla persecuzione dei criminali fascisti grazie all’istituzione delle Corti di assise straordinarie, le CAS, che, con D. Lgs. L. 22 aprile 1945 n. 142, vennero istituite presso i capoluoghi di provincia con competenza a giudicare chi, dopo l’8 settembre 1943, si fosse macchiato di delitti contro la fedeltà e la difesa militare dello Stato con qualunque forma di intelligenza o corrispondenza o collaborazione con i tedeschi e di aiuto o assistenza ad essi prestato. Era considerato pertanto colpevole: 1) chi avesse ricoperto cariche di ministro o sottosegretario di stato o cariche direttive del PFR; 2) Presidenti o membri del tribunale speciale per la difesa dello stato o altri tribunali straordinari istituiti dal governo fascista repubblicano; 3) capi di provincia o segretari o commissari federali o cariche equivalenti; 4) direttori di giornali politici; 5) ufficiali superiori in formazioni di camicie nere con funzioni politiche o militari. In parallelo, inoltre, vengono emanati il D. Lgs. Lgt. 26 aprile del 1945 n. 195 che stabilisce sanzioni penali per l’attività fascista nell’Italia liberata (il 25 aprile il CLNAI aveva proclamato la insurrezione del nord Italia contro i tedeschi occupanti), e il D. Lgs. Lgt. 26 aprile 1945 n. 149 che stabiliva sanzioni a carico dei fascisti particolarmente pericolosi e prevedeva interdizioni dai pubblici uffici e privazione dei diritti politici per chi aveva compiuto atti particolarmente gravi mosso da motivi fascisti pur non essendo configurabili come reati. Le sanzioni erano applicate da commissioni provinciali presiedute da tre membri. Molto spesso però nell’Italia liberata al Nord, venivano applicate le Ordinanze generali dell’American Military Government (in particolare la 35) che prevedeva una autodichiarazione scritta, su modelli predisposti dall’AMG, del proprio passato politico e militare e che le Commissioni di epurazione aziendali applicavano regolarmente. Tale ordinanza agiva similmente alle leggi italiane, colpendo le varie categorie di fascisti (sciarpa littorio, marcia su Roma…), trasferendo alle commissioni di epurazione provinciali il potere, dopo avere visionato le schede personali e le prove accusatorie, di sospendere dal lavoro il soggetto sotto giudizio. Era previsto anche un ricorso da effettuarsi da parte dell’epurato nel termine perentorio di 10 giorni dalla comunicazione della sentenza. Dunque, come si evince da questa ultima normativa, erano previsti provvedimenti penali per i crimini, e sanzioni amministrative per le “colpe minori”: due aspetti, il penale e l’amministrativo, che viaggiavano su binari differenti se pure paralleli. Le CAS durano poco.
[NOTE]
3 Hans Woeller, I conti con il fascismo - l’epurazione in Italia. 1943-1948, Bologna, Il Mulino, 1977, pagg. 19 e seguenti.
4 Hans Woeller, op. cit, pag 111.
5 Lamberto Mercuri, l’epurazione in Italia. 1943-1948, Cuneo, ed. l'Arciere, 1988, pagg.9 e segg.
6 Hans Woeller, op. cit. pag. 193.
7 Cfr., a cura di Giovanni Focardi e Cecilia Nubola, Nei Tribunali - Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, Bologna, Il Mulino, 2016.
8 Claudio Pavone, Rivista di Storia Contemporanea, Sulla continuità dello Stato, fascicolo 2 anno 1974, Torino, Loescher, pagg. 172-205.
10 Dalla relazione di Upjhon davanti all’Advisory Council for Italy, 6 ottobre 1944.
11 Rapporto conclusivo di Scoccimarro, 3 gennaio 1945.
12 Hans Woeller, op. cit. pag 255.

Fabio Fignani, L’epurazione in Veneto. Alcuni casi di studio, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2015/2016

sabato 6 agosto 2022

La Resistenza prese le mosse in Friuli nel marzo 1943


L’organizzazione di un movimento di opposizione armata all’occupante nazista e politicamente antagonista al regime fascista prese le mosse in Friuli sei mesi prima che nel resto d’Italia, cioè sei mesi prima dell’8 settembre 1943, col formarsi del 1° distaccamento Garibaldi nel marzo 1943. Si trattò di un piccolo reparto armato che ebbe da 12 a 25 uomini a seconda dei momenti.
Questa significativa specificità, come del resto la maggior parte dei caratteri distintivi assunti dal movimento resistenziale nella regione, deve la propria origine alla particolare posizione geografica del Friuli, terra di confine tra Italia, Jugoslavia e Austria e al fatto che fin dal 1942 comparvero sul nostro territorio i reparti partigiani sloveni. <4 Fu proprio questa presenza partigiana slovena sulle montagne del Friuli, con cui le formazioni comuniste presero contatti e accordi fin dal 1942, a determinare l’esigenza dell’insorgere di una formazione partigiana italiana prima dell’8 settembre 43. <5
Questa vicinanza territoriale e la collaborazione basata su una certa affinità ideologica riproponeva, però, anche antichi e irrisolti problemi di convivenza tra etnie diverse, rivendicazioni territoriali e rivalità nazionali che si esacerbarono verso la fine del conflitto.
In principio, in seguito ai fatti dell’8 settembre, il movimento partigiano friulano si andò allargando. L’originale distaccamento Garibaldi si trasformò in battaglione e contemporaneamente si costituì ex novo, presso Faedis, sulle Prealpi Giulie, il battaglione Friuli.
Accanto a queste formazioni, a prevalente direzione comunista, sorsero nello stesso lasso di tempo altri due gruppi di combattenti: uno di Giustizia e Libertà, creato dagli uomini del Partito d’Azione, organizzato da Fermo Solari (Somma-Sergio) e Carlo Comessatti (Spartaco) a Subìt, una frazione del comune di Attimis, e uno, a prevalenza democristiana e costituito in gran parte da ex militari, organizzato sempre nella zona di Attimis da Manlio Cencig (Mario).
Il gruppo di Giustizia e Libertà entrò subito in contatto, tramite il commissario Solari, con Mario Lizzero (Andrea), commissario della formazione Garibaldi Friuli e le due unità operative instaurarono una stretta collaborazione tattica militare, pur non riuscendo a rimuovere gli ostacoli che le separavano dalla realizzazione di un’effettiva unificazione dei comandi.
Quello del comando unico delle formazioni partigiane fu anche uno dei primi problemi ad essere affrontato, benché senza successo, dal neocostituito CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) di Udine. Esso era composto da Giovanni Cosattini per il Partito Socialista, don Aldo Moretti (Lino) per la Democrazia Cristiana, Carlo Comessatti per il Partito d’Azione ed Emilio Beltrame per il Partito Comunista. La controversia tra le varie componenti del comitato traeva origine da proposte mal conciliabili, in base alle quali si sarebbe dovuto scegliere il criterio da usare per l’indicazione del comandante. Azionisti e democristiani desideravano che la designazione del comandante unico venisse effettuata, per selezione, nella ristretta cerchia dei militari di carriera, mentre i comunisti, inclini a dare più valore alle azioni effettivamente svolte nell’ambito della lotta partigiana piuttosto che ai gradi conseguiti nell’esercito, si rifiutavano di accettare un comandante rigidamente imposto dall’alto.
In ogni caso, nonostante queste prime diatribe, gli accordi militari tra garibaldini e giellisti restarono operanti fino ai grandi rastrellamenti tedeschi dell’ottobre-novembre 1943, in occasione dei quali le due formazioni furono costrette a separarsi. Successivamente il Partito d’Azione avrebbe svolto una parte importante nella costituzione delle formazioni Osoppo, in totale antitesi rispetto a quanto avvenne nel resto dell’Italia, in cui le brigate di Giustizia e Libertà rimasero sempre al fianco delle Garibaldi. <6
I feroci rastrellamenti tedeschi dell’autunno 1943, misero a dura prova non solo le giovani formazioni italiane, ma anche le più solide formazioni slovene. I partigiani in parte scesero in pianura mantenendo l’attività, in parte si dispersero, tutti comunque furono costretti a ripiegare. Da quella terribile esperienza, le forze della Resistenza italiana uscirono estremamente provate. Rimasero in tutto, sui monti, una cinquantina di uomini delle formazioni Garibaldi Friuli, che si erano ritirati, almeno la maggior parte, in una zona sicura a occidente del Tagliamento, sul monte Ciaurlec, mentre a est, sul Collio, restò il battaglione Mazzini, con una decina di uomini in tutto.
Un’altra importante formazione italiana prese le mosse in questo tempestoso periodo: il 24 dicembre 1943 il CLN di Udine, vista l’impossibilità di giungere ad un accordo sul problema del comando unificato delle formazioni di montagna, autorizzò la costituzione di un altro gruppo partigiano, che avrebbe dovuto impegnarsi a combattere a fianco delle Garibaldi, ma in modo autonomo.
La nuova formazione, che avrebbe in seguito adottato il nome di Osoppo <7, era destinata ad assumere un ruolo particolarmente importante nella società rurale friulana. A differenza delle unità garibaldine, più unite dal punto di vista ideologico, nelle Osoppo confluirono forze varie, spesso distanti le une dalle altre per posizioni, sentimenti e propositi. Intorno al partigianesimo “politico” del PdA e della DC, si muovevano un generico sentimento socialisteggiante delle masse popolari che invocava giustizia sociale, il modernismo cattolico e del clero friulano, il patriottismo degli ex militari, soprattutto degli ufficiali, fedeli al giuramento e, in genere, l’apporto degli apolitici, civili o militari che fossero.
Un ruolo fondamentale nell’aggregazione delle spinte potenzialmente antagoniste al nuovo ordine nazifascista fu svolto dal clero friulano, che vedeva nelle nascenti formazioni osovane un argine al dilagare del comunismo. Numerose furono le parrocchie che si occuparono dall’assistenza ai partigiani sbandati, ai militari e agli ex prigionieri, dell’attività di informazione e di sostegno materiale alle bande armate, nonché della diffusione, all’interno della società contadina friulana, della quale spesso rappresentavano l’unico centro di coesione e partecipazione, di sentimenti antinazisti e patriottici che esortavano ed incoraggiavano la popolazione alla resistenza passiva. Alcune parrocchie e istituti religiosi friulani divennero, inoltre, veri e propri centri di reclutamento del personale da inviare in montagna, in particolare, ovviamente, presso le formazioni Osoppo. Numerosi anche i preti “patrioti”, schierati in prima linea nelle file dell’antifascismo militante: si trattò perfino, a volte, di veri e propri preti combattenti, come fu ad esempio don Ascanio De Luca (Aurelio).
Ma è a don Aldo Moretti, figura decisamente più moderata, che deve tributarsi il merito di aver contribuito al superamento di tutte quelle remore di carattere etico e religioso che rendevano difficoltosa per qualunque cattolico l’ammissione della necessità e del dovere, in determinati frangenti, di aderire alla lotta armata. Per il clero infatti l’adesione alla guerriglia presuppose una serie di approfondimenti e di premesse, senza le quali esso sentiva di non poter agire. <8
Le discussioni che ebbero luogo a Udine, nel “Cenacolo di Studi Sociali per sacerdoti”, tra il 10 novembre 1943 e il 29 marzo 1944, furono in tal senso decisive, in quanto finirono per riconoscere la legittimità della resistenza non solo passiva ma anche militarmente attiva.
Quest’ultima tuttavia, seppur imposta dalle tragiche circostanze del momento, doveva essere praticata il meno possibile e, salvo il caso di legittima difesa, solo quando tutti gli altri mezzi di dissuasione avessero dimostrato la loro inefficacia. La Resistenza, inoltre, si configurava come emanazione della volontà del governo nazionale, espressione di tutto il popolo e dopo la dichiarazione di guerra alla Germania, proclamata dal re il 13 ottobre 1943, non poteva più configurarsi come guerriglia anarcoide o rivoluzionaria.
Tale impostazione era ben diversa da quella del partigianato comunista, e ciò suscitò non pochi attriti. I cattolici vennero accusati di "attendismo", soprattutto nella prima fase della Resistenza, mentre ai comunisti veniva spesso rimproverato di non tener conto, nelle loro azioni, dei costi umani pagati dalle popolazioni. <9
Le distanze tra le posizioni osovane e quelle garibaldine risultarono piuttosto evidenti anche su altri temi. Se i garibaldini ritenevano che la lotta contro il nemico dovesse puntare ad una partecipazione quanto mai estesa e popolare, gli osovani cercavano invece di limitare il ricorso alle armi e tendevano a privilegiare il reclutamento, soprattutto ai livelli di comando, di personale specializzato, generalmente ex ufficiali dell’esercito.
Oltre a ciò, a dividere e differenziare le due organizzazioni della Resistenza c’era la questione dei rapporti con gli sloveni. I garibaldini sostenevano e avrebbero continuato a sostenere, che nonostante le ripetute ed intransigenti prese di posizione jugoslave sulla questione territoriale, sarebbe stato impensabile combattere da rivali una stessa guerra contro lo stesso nemico e che del resto il modo migliore per lavare l’onta del fascismo, che macchiava il nome del popolo italiano, era quello di mostrare attraverso il combattimento comune il volto diverso e umano dello stesso popolo. La linea adottata dai comunisti friulani fin dalle prime trattative con gli sloveni, si fondò sul rifiuto di dibattere questioni che riguardassero la futura sistemazione del territorio, e sul rinvio a fine guerra e alle trattative dei futuri governi, del problema dei nuovi confini. Da parte osovana si registrava, invece, una maggiore diffidenza alla collaborazione con l’esercito di Tito e la netta ripulsa delle rivendicazioni territoriali slovene. <10
Dopo una stasi invernale, con la primavera del 1944 le formazioni di montagna ripresero ad aumentare in numero e dimensioni.
[NOTE]
4 In Jugoslavia, infatti, la Resistenza iniziò già nel 1941, dopo che il 6 aprile fu invasa da Germania e Italia (con l’appoggio di Bulgaria e Ungheria) e occupata nel giro di soli 11 giorni.
5 M. Lizzero, Considerazione sui reparti partigiani e sui gruppi di resistenza passiva nel ‘43 in Friuli, in “Storia Contemporanea in Friuli” n°10, anno IX, 1979, pp.255-256. Per una panoramica generale sulla Resistenza in Friuli vedi G.C. Bertuzzi, La Resistenza in Friuli e Venezia Giulia, in “Storia del ‘900”, IRSML-LEG, Gorizia 1997, pp.371-382, cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia.
6 M. Lizzero, Origini e peculiarità della Resistenza in Friuli, in “Storia Contemporanea in Friuli”, n°2/3, anno II, 1972, pp.221-223
7 Il nome fu tratto dall’omonima località friulana dove nel 1848 i patrioti resistettero all’assedio austriaco.
8 R. Mascialino, La Resistenza dei cattolici in Friuli (1943-1945), Udine 1978, pp.70-71
9 M. Lizzero, Considerazione sui reparti partigiani e sui gruppi di resistenza passiva nel ‘43 in Friuli, in “Storia Contemporanea in Friuli” n°10, anno IX, 1979, pp.249-250
10 D. Franceschini, Porzûs. La Resistenza lacerata, IRSML, Trieste, pp.1-12
Eleonora Buzziolo, Partigiane in Friuli: storia e memoria, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2003/2004