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lunedì 10 luglio 2023

L'11 ottobre 1937, il presidente dell'Agip Puppini informava Mussolini sugli esiti della missione Agip in Libia


Le prime manifestazioni di petrolio in Libia risalivano al 1914, ma le ricerche vere e proprie risalivano agli anni Trenta, con le prime attività di ricerca del professor Ardito Desio <922. Nel 1936 Desio venne nominato sovrintendente geologico della Libia dal Governatore della Libia Italo Balbo, con l'incarico di eseguire gli studi e le ricerche nel sottosuolo libico della Gefara <923.
Nel 1937 venne affidata a Desio una missione permanente, allo scopo di analizzare il sottosuolo libico onde accertare le sue potenzialità minerarie. Ma per quanto riguardava le prospezioni geopetrolifere, Desio aveva raccomandato lo studio del territorio con larghi mezzi di ricerca, e nonostante l'aiuto manifestato da alcune compagnie petrolifere americane, l'Italia aveva declinato l'offerta. Ciononostante, nel luglio 1937, il gruppo guidato da Desio individuò, presso il pozzo di Mellaha, la presenza di olio greggio misto ad acqua, a soli 260 metri di profondità. Questa piccola scoperta aveva eccitato gli animi a Roma, dove Mussolini, una volta appresa la notizia, incaricava l'Agip di prendere contatto col ministro dell'Africa Italiana Lessona e con Italo Balbo, Governatore della Libia. Il presidente dell'Agip Puppini, già contattato dal professor Desio a Bologna il 16 luglio, metteva immediatamente l'Agip a disposizione per le ricerche geofisiche e le perforazioni <924.
Nel settembre 1937 l'Agip si dedicò alle ricerche petrolifere in Libia, dove inviò una missione geologica, composta dai geologi Ardito Desio, Michele Gortani e Carlo Migliorini, col compito di avviare i primi studi. Secondo la relazione dei tecnici la regione libica della Gefara Tripolina era meritevole di ulteriori ricerche approfondite:
"Gli studi e le ricerche indicati hanno lo scopo di procurare gli elementi necessari onde ubicare una o più perforazioni nelle eventuali strutture favorevoli. Riteniamo peraltro che la presenza di idrocarburi nella serie miocenica della Gefara Tripolina apra alle ricerche petrolifere un vasto campo, data la grande estensione che tale formazione presenta sia nella fascia costiera ad occidente, sia più largamente verso la Sirtica" <925.
L'Agip preparò immediatamente un programma di lavoro per eseguire i lavori di trivellazione a scopo di esplorazione geologica, insieme con il relativo piano finanziario, valutato dall'Ufficio Tecnico in 5.700.000 lire, da utilizzarsi nell'arco di due anni. L'11 ottobre 1937, il presidente dell'Agip Puppini informava Mussolini sugli esiti della missione Agip in Libia, e proponeva la collaborazione con il Governatorato della Libia sotto l'aspetto tecnico e finanziario <926. La partecipazione dell'Agip in Libia, pur accettata da Mussolini, non avrebbe comportato il medesimo impiego di risorse finanziarie e tecniche che furono invece impiegate nella colossale attività di valorizzazione dell'Africa Orientale.
Con mezzi ridotti l'Agip cominciò ad inviare in Libia tutti le apparecchiature meccaniche occorrenti per avviare i lavori di ricerca <927. A partire dal marzo 1938 due geologi dell'Agip giunsero in Libia, dove installarono le due sonde tipo Calix-Davis, la prima a Giama el Turk e la seconda ad Ain-Zara. Entrambe le località erano situate nella zona libica di Gefara Tripolina, e in tutto l'anno l'Agip aveva perforato solamente 1.270 metri. Nel primo semestre del 1938 erano stati inviati in Libia solamente tre apparecchi di tipo leggero, mentre la prima sonda rotary, capace di raggiungere 1.500 di profondità, era stata inviata a settembre. La perforazione dei pozzi era seguita attentamente dallo studio geologico degli strati attraversati, con analisi petrografiche ed una precisa determinazione dei fossili sui campioni che venivano estratti dai vari pozzi <928.
Dai sondaggi effettuati nel 1938-39 nella zona di Gefara Tripolina, era risultata l'opportunità di estendere le ricerche petrolifere verso la zona interna della Gefara stessa. In una relazione del luglio 1938, Desio suggeriva di estendere le ricerche petrolifere nella regione della Marmarica, dove erano stati riscontrati indizi petroliferi nella regione confinante con l'Egitto. L'attività dell'Agip in Libia, non adeguatamente supportata da mezzi ingenti, poteva consentire in quel momento una ricognizione limitata del territorio libico, destinata alla sola individuazione della stratigrafia e della tettonica del sottosuolo <929. Questa attività di ricerca preliminare era dimostrata proprio dalle profondità di perforazione dei pozzi, che ad eccezione di un sondaggio spinto oltre i 1.500 metri, erano rimaste piuttosto basse, intorno ai 500 metri.
Nel 1939 l'Agip cominciò l'analisi dei nuovi territori in cui vennero perforati 2.011 metri distribuiti fra sette pozzi <930. Nel 1940 l'Agip aveva predisposto un ulteriore programma di ricerche finalizzato all'intensificazione dei pozzi già individuati, mentre erano state tracciate a grandi linee le caratteristiche geopetrolifere di alcune regioni libiche, come la Marmarica, la Cirenaica, la Sirtica settentrionale ed i Tavolati Tripolitani <931.
L'attività di downstream in Libia era invece cominciata qualche anno prima delle ricerche Agip. Nel dicembre 1934 venne fondata a Genova la Azienda Commerciale Italiana Olii Minerali, Aciom, con capitale iniziale di centomila lire, con lo scopo di importare e commerciare i lubrificanti della azienda statunitense Sinclair Refining Co. di New York. Nei primi mesi del 1935, l'Aciom chiese al Ministero delle Colonie di essere autorizzata a costruire a Tripoli una raffineria in grado di lavorare una quantità giornaliera di petrolio greggio compresa tra le 100-200 tonnellate, per un totale annuo di circa 50.000 tonnellate. I prodotti ottenuti dalla raffineria sarebbero stati commercializzati in Libia, e quelli in eccesso nel mercato libico, in Tunisia <932. Per la costruzione e la gestione della raffineria, l'Aciom avrebbe costituito una nuova società, la Raffineria Olii Minerali per l'Africa del Nord Anonima, Romana, con sede a Genova e capitale di 15 milioni di lire.
Nel maggio 1935 il Ministero delle Colonie aveva avvisato il Ministero delle Corporazioni, e poi l'Agip, che l'Aciom intendeva costruire una raffineria a Tripoli, ed entrambi i ministeri richiedevano un parere all'Agip sull'intera questione, prima di decidere sull'accoglimento della domanda. Nella seduta del Consiglio di Amministrazione del 18 luglio 1935, il presidente dell'Agip Puppini informava i consiglieri sulla proposta della Aciom <933. Il presidente aveva subito espresso ai ministeri competenti i dubbi dell'Agip sull'opportunità di erigere una raffineria a Tripoli, per una serie di considerazioni di ordine economico, finanziario, logistico ed industriale. In primo luogo, notava Puppini, l'importazione in colonia di prodotti finiti dalla madre Patria era più facile rispetto alla importazione di materie prime dall'estero. In secondo luogo, l'impianto da erigersi in colonia, doveva corrispondere alla capacità di assorbimento del mercato libico, del tutto modesta, ed inoltre la possibilità di esportare parte dei prodotti in eccesso sul mercato tunisino era impossibile, a causa dell'eccessivo costo che avrebbero avuto. Il costo dei prodotti ottenuti dalla raffineria, continuava Puppini, sarebbe stato superiore al costo dei prodotti petroliferi lavorati nelle raffinerie operanti nei paesi produttori. In terzo luogo, l'Agip evidenziava l'aspetto finanziario della raffineria: con una raffineria della capacità di 35-40.000 tonnellate annue, i costi di lavorazione sarebbero stati talmente elevati che solo con una adeguata protezione doganale essa avrebbe potuto funzionare. Nonostante gli aspetti negativi esposti, il presidente ritenne che l'Agip potesse partecipare alla proposta.
"Siccome però, per altre considerazioni più vaste, la costruzione della raffineria è stata ritenuta opportuna dal Ministero delle Colonie, questa Azienda, data la sua natura ed i suoi fini, non ha ritenuto dover rimanere assente dall'impresa e, previ accordi con il Ministero delle Colonie, si è messa in contatto con la A.C.I.O.M. ed avrebbe raggiunto con essa un accordo di massima che prevede la costituzione di una società Anonima il cui capitale sarebbe stato sottoscritto per il 51% dall'Agip e per il 49% dalla Aciom" <934.
Il presidente Puppini analizzava l'aspetto fiscale, ritenendo utile modificare l'intera materia doganale riguardante la colonia, proponendo un'unica tassa di vendita sulla benzina importata e prodotta dalla raffineria, al fine di garantire al bilancio della colonia gli introiti che le derivavano dai dazi sulla benzina importata <935.
Dopo aver analizzato tutti i fattori inerenti la costruzione della raffineria, il Consiglio di Amministrazione approvava la partecipazione dell'Agip nella costituenda società, purché fosse adottata una adeguata protezione doganale tale da eliminare l'eventuale concorrenza di importatori di prodotti finiti <936. Il 30 settembre 1936, il ministro delle Colonie Lessona insieme col ministro delle Corporazioni Lantini, firmavano il decreto di autorizzazione governativa per la costruzione della raffineria a Tripoli da parte dell'Aciom, inserendo nel decreto delle agevolazioni fiscali e doganali <937. I prodotti della raffineria di Tripoli avrebbero avuto la preferenza, a parità di condizioni, rispetto ai prodotti nazionali ed esteri; il decreto stabiliva alcuni impegni per la società, quali la costituzione di una apposita rete di distribuzione, e fissava in due anni il termine massimo per la realizzazione della raffineria.
Tuttavia l'Aciom non aveva le necessarie competenze tecniche e finanziarie per realizzare gli impegni assunti, tanto che il sottosegretario di Stato per l'Africa Italiana, Teruzzi, rivolgeva al Ministero delle Corporazioni la richiesta di valutare la necessità di rescindere la concessione dell'Aciom <938. Le difficoltà incontrate dall'Aciom erano tali che il presidente della società, Armando Calcagno, avviò dei contatti con la Fiat per evitare di perdere la concessione <939. Ad oltre un anno dalla concessione la Aciom non aveva cominciato i lavori di costruzione della raffineria, e il ministro Lantini, considerata la situazione di impossibilità da parte dell'Aciom di ultimare l'impianto, come previsto dal decreto, stabilì di revocare la concessione come richiesto da Teruzzi <940. La concessione dell'Aciom fu rilevata dalla Fiat che, per evitare problemi, immediatamente invitò l'Agip a collaborare.
Nel frattempo, nel settembre 1937, l'Agip aveva deciso, autonomamente, di costruire a Tripoli un impianto costiero di deposito con serbatoi adeguato all'attività svolta in colonia, che per disposizioni di carattere militare cominciava ad aumentare <941. L'Agip aderì alla richiesta di compartecipazione formulata dalla Fiat, mostrando interesse per la costruzione della raffineria che doveva avere la capacità di trattamento di 100.000 tonnellate di petrolio greggio <942. La disponibilità dell'Agip derivava dal fatto che riteneva i progetti di sviluppo agricolo della Libia funzionali all'incremento dei consumi petroliferi libici. Il Consiglio approvava il progetto, e conferiva al presidente Puppini, oppure al direttore generale Carafa d'Andria, ampio mandato al fine di proseguire le trattative con la Fiat, fino alla sottoscrizione degli accordi necessari alla costituzione della società che avrebbe costruito e gestito la raffineria di Tripoli <943.
Nell'aprile 1939 il direttore generale dell'Agip, Ettore Carafa d'Andria e l'amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta, inviarono un documento al Governo generale della Libia, in cui illustravano il programma dei lavori da attuarsi in Libia: dapprima la costruzione dei depositi e poi la costruzione della raffineria. Nel documento venivano richieste diverse agevolazioni di natura fiscale e doganale a favore della costituenda società <944. Il 26 luglio 1939 veniva costituita la società S.A. Petroli Libia, Petrolibia, con sede a Tripoli, e capitale sociale di cinque milioni di lire, sottoscritto in parti uguali dalla Fiat e dall'Agip. La società cominciava immediatamente i lavori di costruzione, nei pressi di Tripoli di un primo deposito di quattro serbatoi metallici dalla capacità di 500 metri cubi ciascuno <945. La Petrolibia nel 1940 rilevò le attività commerciali dell'Agip in Libia ed avviò la costruzione di un deposito costiero a Tripoli <946. Il progetto della Petrolibia era stato accolto con favore dal Ministero dell'Africa Italiana, che riteneva la nuova società funzionale allo sviluppo economico ed industriale della Libia. Tuttavia il Ministero delle Corporazioni, aveva manifestato un atteggiamento molto cauto nei confronti della nuova azienda, per quanto riguardava la produzione, che come comunicato dalla Fiat-Agip avrebbe dovuto raggiungere le 200 mila tonnellate. La parte in eccesso della produzione della Petrolibia, secondo i vertici dell'azienda, si sarebbe potuta commercializzare in Italia, ma proprio questo aspetto raffreddava gli animi all'interno del Ministero delle Corporazioni, in quanto non si volevano alterare le produzioni delle raffinerie nazionali <947.
L'inizio della guerra e le vicende militari libiche ebbero l'effetto di ridimensionare notevolmente i programmi della Petrolibia, che dovette limitarsi alla gestione dei depositi di carburanti e della rete di distribuzione. L'attività di downstream della Petrolibia era continuata durante la guerra con risultati apprezzabili, come evidenziava il presidente Cobolli Gigli nella seduta del Consiglio di Amministrazione del 7 ottobre 1941, soprattutto per la gestione delle vendite ai militari <948. Nei primi mesi del 1942, la Petrolibia continuava il difficile lavoro di rifornimento per le forze armate italiane, nonostante gli avvenimenti militari, per i quali aveva ricevuto un riconoscimento particolare da parte del Comando Supremo <949. Dopo i rovesci militari delle forze armate italo-tedesche in nord Africa, la situazione generale della Petrolibia peggiorò fino alla completa cessazione di ogni attività, certificata dal Consiglio di Amministrazione Agip del 9 marzo 1943 <950.
[NOTE]
922 R. DE FELICE, Mussolini l'alleato I. L'Italia in guerra 1940-1943. Tomo primo. Dalla guerra «breve» alla guerra lunga, Torino 2006, p. 81; A. DEL BOCA, Gli italiani in Libia II. Dal fascismo a Gheddafi, Roma-Bari 1988, pp. 271 sgg.
923 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 73-76. Nel 1923, il ministro delle Colonie Federzoni, inviava a Mussolini una relazione sulle ricerche minerarie nei territori di sua competenza. In Tripolitania e Cirenaica erano state individuate copiose tracce di petrolio a piccole profondità. Pur non essendo indizi sicuri, Federzoni precisava che le ricerche non furono svolte in profondità, perciò si sarebbe potuta accertare la presenza di giacimenti con delle ricerche apposite. La relazione di Federzoni si basava sugli studi dell'ingegner Camillo Crema del Regio Ufficio Geologico, ibid., pp. 141-144.
924 Ibid., pp. 76-77.
925 Ibid., p. 78 e soprattutto l'appendice 1C a pp. 155-164, cioè la relazione integrale corredata dai preventivi di spesa.
926 Ibid., pp. 78-80.
927 AS ENI, Volume I. Bilanci e relative relazioni degli esercizi dalla fondazione al 1940, Assemblea Generale Ordinaria del 30 marzo 1938, pp. 17-18.
928 Ibid., Assemblea Generale Ordinaria del 30 marzo 1939, pp. 19-20.
929 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 81-82.
930 AS ENI, Volume I. Bilanci e relative relazioni degli esercizi dalla fondazione al 1940, Assemblea Generale Ordinaria e Straordinaria del 29 marzo 1940, p. 16.
931 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., p. 82.
932 AS ENI, Libro Verbali 3, CDA AGIP, 30 giugno 1931 - 18 luglio 1935, seduta del 18 luglio 1935, p. 192; C. ALIMENTI, La questione cit., pp. 59-60.
933 AS ENI, Libro Verbali 3, CDA AGIP, 30 giugno 1931 - 18 luglio 1935, seduta del 18 luglio 1935, pp. 192-194; M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 84-85.
934 AS ENI, Libro Verbali 3, CDA AGIP, 30 giugno 1931 - 18 luglio 1935, seduta del 18 luglio 1935, p. 193; M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., p. 86.
935 AS ENI, Libro Verbali 3, CDA AGIP, 30 giugno 1931 - 18 luglio 1935, seduta del 18 luglio 1935, pp. 193-194. Nel luglio 1935 in Libia vigeva un dazio per la benzina importata dall'Italia pari a 30 lire oro per quintale, mentre il dazio per la benzina importata dall'estero era di 20 lire oro per quintale. Poiché con la costituzione della raffineria si sarebbero eliminate totalmente le importazioni di materie finite, con conseguente annullamento degli introiti fiscali della colonia, Puppini proponeva la creazione di una tassa di vendita della benzina pari a 30 lire, sia che fosse importata, sia che fosse prodotta in colonia. In questo modo si tutelava il regime fiscale della colonia e la raffineria.
936 Ibid., p. 194. Il capitale necessario all'impresa non avrebbe superato i dieci o dodici milioni di lire, per cui l'Agip avrebbe partecipato con sei milioni di lire al massimo; M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 86-87.
937 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 87-88.
938 Ibid., pp. 88-89. Nel 1937 l'Aciom intendeva rilevare gli impianti della società Abcd di Ragusa, di proprietà dell'IRI, che lavorava le rocce asfaltifere estratte a Ragusa. Inoltre il presidente Aciom Calcagno chiedeva al Ministero delle Corporazioni di poter lavorare i greggi del ragusano nella nuova raffineria di Tripoli, risolvendo sia l'approvvigionamento della Libia che lo sfruttamento delle rocce asfaltifere di Ragusa. L'IRI rispose fortemente contrariata alla proposta, in quanto lo sfruttamento delle rocce ragusane era un compito molto difficile e le capacità tecnico-scientifiche della Aciom, su cui l'IRI si era adeguatamente informata, erano del tutto inesistenti ai fini della soluzione del problema ragusano.
939 Ibid., p. 89. Il presidente dell'Aciom, Armando Paolo Calcagno informò il 14 febbraio 1938 il ministro Lantini dei suoi contatti con la Fiat.
940 Ibid., p. 90.
941 AS ENI, Libro Verbali 4, CDA AGIP, 16 ottobre 1935 - 6 marzo 1940, seduta del 23 settembre 1937, pp. 91-92.
942 Ibid., seduta del 14 dicembre 1938, p. 140. L'opportunità di costruire una raffineria a Tripoli era stata messa in dubbio dall'Agip nel 1935, quando le fu prospettato il progetto dal Ministero delle Colonie su richiesta della società Aciom. Nel 1938 l'Agip riteneva invece la situazione della colonia in fase di sviluppo, e quindi necessaria una attività di raffinazione in Libia.
943 Ivi; M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., p. 91.
944 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 91-92, vedi il documento integrale nell'appendice 1D a pp. 165-168.
945 Ibid., p. 92; AS ENI, Libro Verbali 4, CDA AGIP, 16 ottobre 1935 - 6 marzo 1940, seduta del 12 settembre 1939, p. 178.
946 AS ENI, Libro Verbali 5, CDA AGIP, 6 marzo 1940 - 29 marzo 1943, seduta del 6 luglio 1942, pp. 138-139; AS ENI, Volume I. Bilanci e relative relazioni degli esercizi dalla fondazione al 1940, Assemblea Generale Ordinaria e Straordinaria del 29 marzo 1940, pp. 10-11.
947 Cfr. M. PIZZIGALLO, La “politica estera” cit., pp. 92-93.
948 AS ENI, Libro Verbali 5, CDA AGIP, 6 marzo 1940 - 29 marzo 1943, seduta del 7 ottobre 1941, p. 90
949 Ibid., seduta del 2 febbraio 1942, p. 95.
950 Ibid., seduta del 9 marzo 1943, p. 190.
Giacinto Mascia, La nascita e lo sviluppo dell'Azienda Generale Italiana Petroli (AGIP) negli anni fra le due guerre (1926-1940), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Cagliari, Anno Accademico 2012/2013

lunedì 8 maggio 2023

Analogamente a quanto accaduto in Italia, i servizi segreti francesi costituirono delle vere e proprie reti in funzione anticomunista


Prima ancora di alimentare lo scoppio dei conflitti coloniali, l’anticomunismo [in Francia] fu il collante indispensabile delle formazioni e dei movimenti di destra, analogamente a quanto avvenuto in Italia.
L’anticomunismo si sviluppò particolarmente nella destra francese durante l’epurazione seguita alla fine del conflitto mondiale. Il Comité national des écrivains (Cne) <178, sotto la guida del comunista Louis Aragon, mise in atto una vera e propria persecuzione ai danni degli intellettuali francesi macchiatisi di collaborazionismo con il regime di Vichy, nei cui riguardi fu attuata una vera e propria schedatura già nel corso della guerra. Obiettivo del comitato comunista non fu solo l’ottenimento della giustizia, ma anche realizzare una effettiva sostituzione degli elementi sgraditi con esponenti comunisti, inseritisi così ai posti chiave della cultura, in modo da rendere più agevole e rapida la scalata al potere del partito <179. Ciò, se da una parte favorì notevolmente il Partito Comunista, destinato a diventare uno dei più forti d’Europa insieme a quello italiano, dall’altra incrementò l’anticomunismo della destra francese, interpretato in chiave nazionalistica, ovvero votato alla difesa della patria, minacciata, secondo l’opinione dei suoi esponenti, dalle mire espansionistiche di Mosca.
La lunga serie di processi finì per cancellare culturalmente e politicamente l’intero gruppo dirigente di destra degli anni Trenta, costretto ad affrontare condanne a morte o fuggire all’estero, mentre la propaganda comunista costrinse quanti scamparono all’epurazione a ritirarsi dalla vita pubblica o a stringersi intorno a Charles de Gaulle, visto come il male minore.
Con l’abbandono del Mouvement républicain populaire <180 da parte del generale de Gaulle, nel 1947, le cose cambiarono: il partito cattolico gaullista, infatti, idealmente collocato a destra rispetto ai principali partiti di sinistra, abbandonò l’impostazione moderata sviluppando un anticomunismo convinto (seppure già condiviso anche dal generale), ma evitando di appoggiarsi a elementi nazionalisti. De Gaulle, da parte sua, fondò il Rassemblement du peuple français <181 con lo scopo di combattere l’avanzata comunista, facilitato dalla rottura tra questi ultimi e i socialisti, primo serio contraccolpo al manifestarsi dei sintomi della Guerra Fredda, che favorirono il ritorno sulla scena politica della destra conservatrice, così come di di quella estrema.
La minaccia sovietica convinse allora i reduci dell’estrema destra a coalizzarsi e concentrarsi attorno alla figura di de Gaulle, mettendo allo stesso modo da parte il proprio odio contro gli Stati Uniti, visti entrambi come l’unico baluardo capace di impedire la conquista comunista della Francia. Portavoce di questa inedita alleanza con americani e gaullisti furono le riviste, come ad esempio "La Sentinelle", che ai toni antisemiti accostarono la lotta anticomunista, come fa notare lo storico Joseph Algazy, il quale spiega che «la lutte sans merci contre le communisme […] continua d’être leur principal thème, mais il ne fut cependant pas question de renoncer au thème raciste […], l’ennemi juif garda toute sa place aux côtés de l’ennemi bolchevique», motivo per cui «ils consacrèrent une part importante de leur efforts de propagande à expliquer les raisons de leur engagement récent dans le camp nazi» <182, che sfociò poi nello sviluppo di una vera e propria corrente negazionista e revisionista.
Il 1947 segnò il punto di svolta fondamentale, dunque, trasformando la lotta anticomunista nel tema cardine destinato a riunire tutte le formazioni appartenenti alla destra francese che, da parte sua, poté comunque godere di sostegni analoghi a quelli dei colleghi d’oltralpe italiani. Anche in Francia, infatti, si costituì una rete clandestina votata alla lotta contro l’invasore sovietico: il Rassemblement du peuple français, per esempio, fornì da un lato la manovalanza e, dall’altro, il polo d’attrazione principale per gli esponenti dell’estrema destra, mentre i dirigenti gaullisti continuavano a cercare di attirare tra loro quanti erano a propria volta preoccupati per l’eventuale caduta francese in mano sovietica.
Analogamente a quanto accaduto in Italia, i servizi segreti francesi costituirono delle vere e proprie reti in funzione anticomunista, servendosi di militanti appartenenti all’estrema destra collegati alle forze di sicurezza. Ne fu un esempio il commissario di polizia Jean Dides, che durante l’occupazione lavorò presso la quinta sezione dei Renseignments généraux <183, incaricata della repressione degli stranieri, il quale fu prelevato dall’Office of Strategic Services (OSS) americano proprio in virtù della sua esperienza pratica per essere riutilizzato in funzione anticomunista all’interno delle strutture di sicurezza. Dides, in particolare, utilizzando come elemento di collegamento Charles Delarue, agente di polizia collaborazionista a sua volta salvato e reclutato dai servizi americani, creò e diresse almeno fino al 1954 un gruppo interno ai servizi francesi stessi che condusse una vera e propria campagna di intossicazione ai danni dei comunisti. L’«affaire de fuites» consistette nella montatura di uno scandalo ai danni del Parti communiste français (Pcf) accusato di aver passato i piani militari francesi ai sovietici e, quindi, di aver causato la disfatta di Diên Biên Phu. La creazione, però, di una commissione ministeriale adibita alla verifica della colpevolezza del partito comunista mise a nudo il piano e smascherò la rete di complicità che legava i servizi di sicurezza americani e francesi <184.
Dides e Delarue fecero contemporaneamente parte di una struttura parapoliziesca, a sua volta creata in funzione anticomunista, chiamata "Paix et liberté". Ideata nel 1950 dal deputato radical-socialista Jean Paul David con il sostegno pratico della Central Intelligence Agency (CIA) e finanziario della North Atlantic Treaty Organization (NATO) e supportata dal ministero dell’Interno francese, ebbe come scopo principale la messa fuori legge del Parti communiste français, da realizzarsi con una feroce azione di propaganda volta a denunciare l’esistenza di «quinte colonne» sovietiche all’interno dell’amministrazione statale <185. Pur rivelandosi a sua volta un fallimento, l’iniziativa favorì il rinsaldarsi della destra francese attorno all’obiettivo comune della lotta anticomunista.
La guerra d’Algeria non fu priva di riferimenti alla lotta in atto per preservare la Francia dalla minaccia sovietica. Negli anni Cinquanta, alla vigilia del conflitto, infatti, l’Algeria era considerata non una colonia, ma parte integrante della Francia e l’insurrezione venne interpretata, erroneamente, come un attacco sovietico all’unità della nazione. La lotta al comunismo fu così, ancora una volta, egemonizzata dalle forze di destra, estrema e non, che la interpretarono in chiave nazionalistica, invece di comprendere i fermenti che avrebbero portato alla decolonizzazione.
In questo contesto, portato all’estremo proprio dai pieds-noirs <186 e dalle forze di destra, si realizzò una sorta di guerra civile francese, che vide schierarsi da un lato i difensori della conservazione dell’«Algeria francese» e, dall’altro, i sostenitori dell’indipendenza algerina. Questi ultimi, rappresentanti di un «fronte pacifista e terzomondista» <187, furono denunciati dall’estrema destra come membri della già citata «quinta colonna» sovietica, dei sabotatori aventi come fine ultimo la sconfitta della Francia, da realizzarsi privando la nazione delle sue colonie <188. Le forze politiche furono ugualmente accusate di starsene a guardare, inermi non per la forza delle rivendicazioni dei popoli sottomessi al dominio coloniale francese, ma perché succubi dei comunisti, portando a sostegno di questa tesi la perdita dell’Indocina e la disfatta di Diên Biên Phu, che consentirono alla destra di godere dell’appoggio massiccio e determinante di ampi settori militari.
Fu in questo contesto che, per esempio, venne creato l’effimero movimento chiamato «Résistance à la désagrégation de la France et l’Union française» in contatto con il Service de Documentation Extérieure et de Contre-Espionnage (SDECE), il servizio segreto francese addetto al controspionaggio, incaricato di impedire il rifornimento di armi al Front de libération nationale (Fln) algerino, traffico proveniente, secondo i servizi, dai paesi dell’Est, finanziati dall’Unione Sovietica <189. Appartenente al medesimo ambiente e con le stesse convinzioni fu anche il Front nationale de l’Algérie française (FnAf), guidato da Jean-Marie Le Pen, che a Parigi poté contare sul sostegno del Comité national pour l’integrité du territoire. A questi due movimenti se ne unirono molti altri, caratterizzati a loro volta da una durata effimera e da un’azione, per quanto articolata, effettivamente ridotta. Ciò che li accomunava, comunque, era la difesa a ogni costo, anche ricorrendo alla violenza, dell’unità territoriale dalla minaccia comunista disgregatrice.
Anche l’Organisation de l’Armée Secrète fu caratterizzata da un forte anticomunismo. Molti furono infatti i generali e comandanti aderenti all’OAS reduci dal conflitto indocinese che disertarono per unirsi all’organizzazione, convinti di agire per il bene della nazione e in sua difesa. L’esperienza indocinese fu considerata anzi un vantaggio, perché chi vi aveva preso parte aveva provato sulla propria pelle l’attacco comunista traendone degli insegnamenti, in materia di controterrorismo e guerra sovversiva, da utilizzare a proprio beneficio.
[NOTE]
178 Il Comité national des écrivains (CNE) fu un organismo della Resistenza «letteraria», emanazione del Front national des écrivains creato nel 1941 dal Partito Comunista Francese (PCF), radicalizzatosi notevolmente in seguito alla Liberazione, tanto da divenire un vero e proprio strumento di controllo dell’opposizione da parte comunista. Per ulteriori informazioni, si veda: http://vercorsecrivain.pagesperso-orange.fr/cne.html#II.
179 M. GERVASONI, La Francia in nero, cit., p. 218. Tra gli intellettuali accusati di tradimento, Gervasoni indica Céline, Châteaubriant, Drieu La Rochelle, Maurras e Brasillach. Quest’ultimo, in particolare, fu processato per collaborazionismo e fucilato.
180 Il Movimento Repubblicano Popolare (Mouvement Républicain populaire, MRP) fu un partito politico fondato da Georges Bidault in Francia nel 1944 e attivo fino al 1967, caratterizzato da un’ideologia cristiano-democratica ed europeista. Fu partito di governo per quattro volte, con l’elezione a presidente del Consiglio di Robert Schuman, Georges Bidault stesso e Pierre Pflimlin. Per ulteriori informazioni, si veda: http://chsp.sciences-po.fr/fond-archive/mouvement-republicain-populaire-mrp.
181 Il Rassemblement du peuple français (RPF) fu il partito politico fondato da Charles de Gaulle il 14 aprile 1947 e dissoltosi nel 1954. Ideato per tradurre in realtà il programma di de Gaulle esposto all’indomani dello sbarco in Normandia e all’indomani della Liberazione (i famosi «discorsi di Bayeux»), fu uno dei principali movimenti d’opposizione sotto la IV Repubblica. Per ulteriori approfondimenti, si veda: http://www.union-gaulliste-de-france.org/pages/Histoire_du_RPF_19471954-568252.html.
182 A. MAMMONE, Transnational Neofascism in France and Italy, cit., p.46.
183 I Renseignements généraux furono l’equivalente dell’Ufficio politico della Questura italiano, e si occuparono di informare il governo di eventuali minacce alla sicurezza interna dello Stato.
184 Per approfondire l’episodio, si consiglia: F. LAURENT, L’orchestre noir. Enquête sur les réseaux néofascistes, Paris, Nouveau monde éditions, 2013, pp. 45-47.
185 Ivi, p. 47.
186 L’espressione pieds-noirs è utilizzata per indicare i cittadini francesi (e, prima ancora, europei) d’Algeria, che la utilizzarono per identificarsi tra loro una volta tornati in Francia. Oggi, questa denominazione è diventata quasi sinonimo di «rapatrié», rimpatriato, poiché i francesi d’Algeria furono rimpatriati con la conquista dell’indipendenza dello Stato algerino, nel 1962. Per un ulteriore approfondimento terminologico, si veda: A. BRAZZODURO, Soldati senza causa, cit., p. 282.
187 M. GERVASONI, La Francia in nero, cit., p. 235.
188 Ibidem.
189 O. DARD, Voyage au coeur de l’OAS, cit., pp. 32-33.
Veronica Bortolussi, I rapporti tra l’estrema destra italiana e l’Organisation de l’Armée Secrète francese, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2016-2017

martedì 25 aprile 2023

Gli ultimi scontri armati e le ritorsioni naziste sui civili nell’area ovest della Val di Nievole

Pescia (PT). Fonte: mapio.net

Dopo aver colpito il 23 agosto del '44 nell'area del padule di Fucecchio, le operazioni dell'esercito tedesco, temendo, da quando l'armata britannica si era sganciata per dirigersi a Pesaro, una imminente avanzata degli americani nel territorio della Val di Nievole, si concentrarono a nord-ovest della piana tra Pescia e Collodi e lungo la via di fuga nell'area collinare da Vellano a Pietrabuona, San Quirico, Medicina, Sorana, Malocchio e Prunetta.
Nella zona di Malocchio nel Comune di Buggiano il 24 novembre del '43 vi era stato un grande rastrellamento tedesco con diversi civili trasferiti temporaneamente alle carceri di Pistoia a seguito dell'uccisione, in date diverse, di due noti fascisti. Si trattava del pesciatino Romolo Del Sole fucilato da ignoti antifascisti in località Le Carde, di Orlandi Gherardo detto 'Crispino' ritenuto complice dell'uccisione di due giovani avvenuta a Malocchio ai tempi del primo squadrismo nel lontano 29 settembre 1922.
Come viene rievocato da Amleto Spicciani <71, accadde che il 5 settembre '44, mentre la città di Pescia veniva devastata dai genieri tedeschi in ritirata e si vedevano le brutali impiccagioni di civili lungo il fiume, una pattuglia di tedeschi e di militi repubblichini si mosse verso Malocchio per attuare una operazione di rappresaglia e di cattura dei soldati angloamericani che da mesi avevano trovato rifugio e protezione in quella zona. Si trattava di alcuni prigionieri inglesi fuggiti dai campi di concentramento di Lucca e di due piloti americani di un aereo alleato precipitato in località La Serra.
Dopo aver catturato Gino Ricciarelli e aver trovato nella casa di Stefano Lavorini un fucile dimenticato dai partigiani, i tedeschi uccisero sul colpo Mazzino Gigli che usciva dal bosco scambiato, solo per questo, per un partigiano. Uccisero poi, fuori della loro casa, Lida Menni e Laura Lavorini che aveva in bracco il figlio Aldo rimasto ferito al pari di Gina Papini e dell'anziana Bruna Lavorini. La generosa accoglienza ai prigionieri alleati portò la piccola frazione collinare a subire questa ultima violenza.
Ad ovest di Borgo a Buggiano, nella zona di Pescia, sporadici scontri fin dal mese di luglio avevano acuito la tensione delle truppe tedesche dopo l'uccisione di un loro soldato, avvenuta il giorno 21 a Vellano, ad opera di un partigiano. Il giorno 24 sulla via per Pietrabuona, a seguito di un lancio di bombe a mano all'interno di una cartiera che i tedeschi stavano perlustrando, un altro soldato tedesco era rimasto ucciso ed un terzo, gravemente ferito, all'indomani era morto all'ospedale di Pescia.
Questo stillicidio di assalti partigiani e di vittime tra le proprie file, come era prevedibile, acuì il desiderio di ritorsioni da parte dei tedeschi che intensificarono le loro perlustrazioni nell'intera area collinare della cosiddetta 'Svizzera pesciatina' per cui il 17 agosto a Vellano si ebbero altri due morti per parte nel corso di un violento scontro a fuoco tra tedeschi e partigiani. Il vescovo diocesano monsignor Simonetti, che aveva chiesto clemenza verso la popolazione civile direttamente presso Kesselring, nei giorni in cui, fino a metà luglio, questi stava a Monsummano, si rivolse ai parroci della Val di Nievole.
Il suo messaggio invitava i sacerdoti a capo delle varie parrocchie affinché dicessero a “quei ragazzi dei boschi”, cioè ai partigiani, di stare molto attenti a quello che facevano dal momento che i manifesti affissi dal Comando tedesco avvertivano che per ogni soldato tedesco ucciso dieci italiani sarebbero a loro volta stati fucilati. Ma ormai si era giunti alla resa dei conti tra l'ansia di cacciare i tedeschi e la ferocia con la quale questi difendevano palmo a palmo la loro ritirata. La via di fuga verso La Lima e l'Abetone per attestarsi sulla Linea Gotica era divenuto il più tormentato passaggio e obiettivo da dover raggiungere.
Tra il 17 e il 19 agosto era poi accaduto il caso di San Quirico. Due ufficiali tedeschi in località La Piana, mentre accompagnavano a casa un fascista che, sapendosi ricercato dai partigiani, aveva chiesto protezione a quegli ufficiali germanici, vennero uccisi da un gruppo di disertori tedeschi. Questo episodio avrebbe dato luogo ad una sanguinosa ritorsione che di seguito riferiamo nella testimonianza del sacerdote Vincenzo Del Chiaro costretto a presenziare alla fucilazione di venti persone.
«La sera del 17 agosto '44 in casa degli eredi di Eufisio Quilici di Pariana, casa posta in San Quirico, località La Piana, abitata da Salvatore Altiero sfollato da Livorno, si teneva una cena tra i dirigenti della Todt alla quale prendevano parte anche gli ufficiali tedeschi Flozet Iacchin, Fopp Fleinz e Cinbet Wichert, dei quali i primi due rimarranno uccisi nelle circostanze di cui appresso.
Nel frattempo, persone dal fare sospetto si aggiravano nei pressi della casa di Edoardo Consani nella quale, sfollato da Pescia, abitava Nello Scoti, repubblichino inviso ai partigiani e sospetto di possedere una radio trasmittente al servizio dei tedeschi della quale i partigiani volevano impossessarsi. Due ufficiali tedeschi si dissero disposti ad accompagnarlo fino a casa.
Lungo la strada che conduce ad Aramo, giunti nei pressi della casa del Consani, incontrarono sei tedeschi che, pur vestendo ancora la divisa militare, avevano disertato e si erano uniti ai partigiani che stavano nel paese di Medicina. Erano accompagnati da Roberto Darini e da un francese; il gruppo era invece capitanato dal ben noto Franz. Gli ufficiali tedeschi intimarono l'alt e dissero: 'Voi essere partigiani'. No, rispose Franz, 'noi camerati'.
Alla richiesta di documenti, Franz estrasse una pistola, mentre teneva quella d'ordinanza nella fodera, e fece fuoco contro i due ufficiali che non fecero in tempo a difendersi dal fulmineo gesto. Uno dei due morì sul colpo e l'altro appena raggiunto l'ospedale di Pescia. La mattina del 19 agosto il paese di San Quirico fu raggiunto da un reparto tedesco che lo circondò affinché nessun uomo tra quegli validi, che comunque si erano allontanati fin dal giorno precedente, ne uscisse fuori.
Il paese venne saccheggiato e poi messo a ferro e fuoco; 50 furono le case distrutte, 19 quelle incendiate, le altre danneggiate. Contemporaneamente l'ufficiale ordinò al pievano di far preparare nel cimitero una fossa capace di contenere 20 cadaveri mentre un altro reparto in prossimità di Pietrabuona fermava sulla via Mammianese un gruppo di 47 persone che, dopo essere state rastrellate e condotte alla Lima per eseguire fortificazioni sulla Linea Gotica, erano state mandate indietro perché risultate non idonee a quel lavoro. Tra queste vi era un solo residente del posto. Ne vennero scelti a caso 20 e avviati a San Quirico dove vennero fucilati in quattro gruppi davanti alla fossa comune». <72
Questo episodio si distingue per la sua tragicità che vede soldati tedeschi (disertori) che uccidono altri soldati tedeschi e quella di una rappresaglia nella quale morirono ben due decine di civili - tra i quali di abitanti della zona di Pescia, dove erano stati uccisi in località La Piana due ufficiali, ve ne era uno solo - civili che erano da poco tornati liberi dato che gli stessi tedeschi li avevano rimandati a casa, perché non più necessari al lavoro in corso sulla Linea Gotica.
Un assassinio a sangue freddo, perché fuori da ogni logica di rappresaglia per precedenti attacchi subiti dai tedeschi, fu invece quello compiuto il 14 settembre nel cimitero di Vellano dove una donna, Giuseppina Sansoni, venne uccisa da soldati tedeschi di passaggio mentre era china a pregare sulla tomba del figlio Vittorio, partigiano ammazzato giorni prima al ponte di Sorana. Brutale assassinio fu anche quello di due giovani donne livornesi, Iris Stiavelli e Miriam Cardini, mutilate e gettate in una fogna a Pietrabuona da un manipolo di soldati tedeschi “senza onore” mentre stavano risalendo la collina verso settentrione.
Nella sua rievocazione, Giorgio Calamari ricorda molti altri episodi accaduti nell'area pesciatina che portarono al sacrificio di cento e più vittime civili molte delle quali nell'imminenza della ritirata dei tedeschi, ma anche altri episodi precedenti come quella di impiccati, nella zona centrale del paese, appesi ai rami degli alberi lungo il fiume Pescia. Vittime di pattuglie tedesche in transito verso la Lima erano state il 5 settembre anche due donne a Malocchio e altri tre giovani alla Serra.
Il 6 settembre molte case di Pescia vennero minate da genieri tedeschi per ostacolare l'imminente avanzata degli Alleati. Nella circostanza rimasero uccisi i coniugi Orsucci e le vedove Magnani con le loro giovani figlie. Il 7 settembre a Collodi vennero giustiziati tre partigiani livornesi che operavano nella zona di Villa Basilica. Persino l'8 settembre, mentre Pescia veniva liberata dagli Alleati, una pattuglia tedesca tra Ponte di Sorana e Ponte a Coscia fucilava due giovani partigiani sorpresi armati mentre tornavano da una missione.
Nello stesso giorno altri soldati tedeschi sparavano e uccidevano tre uomini mentre cercavano di sottrarsi alla cattura. Infine in località Medicina venivano ammazzati due partigiani, Elio Mari e Foro Lenci. L'8 settembre Pescia fu finalmente liberata, ma i tedeschi, annidati sulla collina e non paghi del sangue che avevano fatto versare a decine di innocenti, nei giorni 12 e 13 continuarono a cannoneggiare il centro di Pescia causando ulteriori 14 vittime. <73
[NOTE]
71 Amleto Spicciani (don), Il 5 settembre 1944 a Malocchio di Buggiano, Stampria Vannini, Buggiano, 2008.
72 Vincenzo Del Chiaro, (don) Le tragiche giornate di San Quirico in Valleriana, in Memorie di guerra, Stamperia Benedetti, Pescia, 1944, trascitto in www. digilander/sanquiricoinvalleriana/eccidio.
73 Giuseppe Calamari, In memoria delle vittime pesciatine della barbaria nazifascista, Stamperia Benedetti, Pescia, 1945. Dino Birindelli, Pescia 1944. Tre giorni di settembre, Stamperia Benedetti, Pescia, 1984.
Vasco Ferretti, La resistenza nel pistoiese e nell'area tosco-emiliana (1943-1945). Rivisitazione e compendio di una terribile guerra di liberazione, guerra civile e guerra ai civili, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, giugno 2018

sabato 7 gennaio 2023

Hồ Chí Minh giunse a Guìlín, utilizzando il nome di Hú Guāng


La crescente minaccia giapponese in Cina preoccupò Nguyễn Ai Quốc [n.d.r.: di lì a breve avrebbe assunto il nome di Hồ Chí Minh] che, dopo il periodo di convalescenza dalla tubercolosi, vi ritornò nell’agosto del 1938. Il paese tuttavia non era lo stesso di cinque anni prima: Chiang Kai-Shek, dopo aver ripulito dai comunisti le aree a sud del fiume Yángzǐ <4, nel 1937 fu convinto a formare un secondo fronte unito col PCC, per contrastare la minaccia nipponica. Questo episodio fu un’opportunità fortuita per NAQ: l'istituzione del fronte unito avrebbe potuto fornirgli una maggiore libertà di movimento nel tentativo di ripristinare i contatti con i rivoluzionari vietnamiti che operavano nel sud della Cina. In secondo luogo, ravvivò le probabilità di una guerra totale nell’Asia dell’Est, con la possibile espansione in Indocina  e la conseguente fine del dominio francese. Dopo aver soggiornato a Xi’ān e Yán'ān, il leader giunse a Guìlín, utilizzando il nome di Hú Guāng, dove gli fu assegnato un impiego come giornalista. Alcuni dei suoi articoli, che riguardavano la situazione cinese in tempo di guerra, furono inviati al quotidiano vietnamita - in lingua francese - di Hà Nội Notre Voix, firmati col nome di P. C. Line <5.
Nel 1939, mentre Nguyễn Ai Quốc continuava a lavorare per il fronte unito in Cina, l’Europa si apprestò ad affrontare lo scoppio la Seconda Guerra Mondiale. A febbraio, il quartier generale del PCC istruì il comandante Yè Jiànyīng di organizzare un programma di addestramento militare a Héngyáng: NAQ a giugno fu promosso commissario politico presso la missione, istruendo le truppe cinesi del fronte unito <6. Dopo aver completato il suo incarico, alla fine di settembre il leader partì per Lóngzhōu, nella speranza di stabilire un contatto con i membri del Partito Comunista Indocinese (PCI), ma senza risultati. Infatti, gli eventi in Europa ebbero un impatto catastrofico sulle operazioni del PCI: il 24 agosto la Germania nazista e l’Unione Sovietica firmarono il patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop, e una settimana dopo, le forze militari tedesche attraversarono il confine polacco, con la conseguente dichiarazione di guerra di Gran Bretagna e Francia. In Indocina, l’alleanza moscovita con Hitler ebbe come conseguenza la messa al bando di tutte le attività del PCI e di altre organizzazioni politiche radicali <7. Tale provvedimento del governatore generale Georges Catroux (1877-1969) fu dettato anche dalla necessità di rafforzare la sicurezza interna del paese, conscio dei venti di guerra che presto avrebbero soffiato8. Nel mentre, NAQ si recò a Chóngqìng, dove Chiang Kai-Shek aveva stabilito la sua capitale dopo l’occupazione giapponese della valle dello Yángzǐ, e riprese i contatti con Zhōu Ēnlái, che stava servendo come rappresentante del PCC. Oltre a quest’ultimo, pochi in ufficio conoscevano la vera identità del leader vietnamita <9.
Nel 1940 Ai Quốc riuscì a stabilire i rapporti con due membri del PCI, che diventeranno i suoi più fedeli seguaci: Phạm Văn Đồng (1906-2000) e Võ Nguyên Giáp. Il leader dunque, travestito da vecchio contadino e facendosi chiamare Ông Trần (Sig. Tran), si mise in viaggio da Chóngqìng per giungere a fine maggio a Kūnmíng, dove attese i due inviati del PCI <10. Phạm Văn Đồng, figlio di un mandarino, fu membro della TN dal 1929 e, in seguito alle retate francesi nell’aprile 1931, trascorse diversi anni in prigione finché non gli fu concessa l’amnistia nel 1937. Anche Võ Nguyên Giáp nacque da una famiglia di mandarini, e riuscì a frequentare l'Accademia Nazionale di Huế. Successivamente si unì all’ICP ma poco tempo dopo fu arrestato per aver preso parte alle manifestazioni studentesche a Huế. Quando venne rilasciato nel 1933, riprese gli studi e si laureò in giurisprudenza presso l’Università di Hà Nội. Dopo la laurea accettò un posto come insegnante di storia e divenne anche giornalista per il Notre Voix. I due infine si aggregarono al PCI e cominciarono a prepararsi per la missione che li avrebbe portati in Cina. Giunti a Kūnmíng a inizio giugno, i rappresentanti locali del PCI dissero loro di aspettare un certo signor Vương (Nguyễn Ai Quốc), il quale avrebbe assegnato loro nuovi compiti. Vương ordinò loro di recarsi al quartier generale del PCC a Yán’ān per iscriversi a un corso militare presso l’istituto del Partito. I recenti eventi in Europa, dove l'offensiva tedesca lanciata nel maggio 1940 aveva portato alla resa finale della Francia il 22 giugno, avrebbero portato rilevanti cambiamenti in Indocina. La creazione del regime fantoccio di Vichy fu una sentita sconfitta per la Francia, e per il leader un'opportunità favorevole per attuare la rivoluzione in Việt Nam <11.
Il Giappone, approfittando della caduta di Parigi, colse il momento propizio per estendere la sua influenza sui territori del Sud Est Asiatico. Nella primavera del 1940, Tokyo iniziò a esercitare forti pressioni sulle autorità coloniali francesi per vietare la spedizione di attrezzature e rifornimenti militari in Cina. Oltre alle pressioni dall’esterno, anche internamente la situazione indocinese non era delle migliori. A seguito dei reclutamenti dei vietnamiti per servire nelle unità militari in Europa, il malcontento generale scatenò un'ondata di ribellioni, specialmente nelle aree rurali, che vennero represse col sangue <12. Il governatore Catroux, in assenza di qualsiasi sostegno da parte del governo assediato di Parigi e dopo aver rivolto una fallimentare richiesta di aiuto agli Stati Uniti <13, decise di aderire alle file della Francia Libera, l’organizzazione politico-militare organizzata dal generale Charles de Gaulle per contrastare il governo di Vichy <14. Quest’ultimo nominò come governatore dell’Indocina l’ammiraglio Jean Decaux (1884-1963). A seguito degli accordi franco-giapponesi del 30 agosto, Decaux diede ai nuovi invasori il permesso di utilizzare le basi aeree e navali, oltre allo stanziamento delle truppe nipponiche in Việt Nam: anche se il Paese del Sol Levante riconobbe la sovranità francese in Indocina, l’avanzata giapponese era ormai inevitabile <15.
[NOTE]
4 Evento che segnò l’inizio della Lunga Marcia e la conseguente istituzione della nuova base comunista a Yán'ān, nel nord della Cina. Duiker, Ho Chi Minh, 172.
5 Duiker, Ho Chi Minh, 173-74.
6 Lacouture, Ho Chi Minh, 80.
7 Duiker, Ho Chi Minh, 179.
8 Taylor, A History of the Vietnamese, 524.
9 Duiker, Ho Chi Minh, 177.
10 Lacouture, Ho Chi Minh, 83.
11 Duiker, Ho Chi Minh, 178-80.
12 Duiker, Ho Chi Minh, 184.
13 Il presidente Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) respinse la richiesta sulla base del fatto che qualsiasi aereo militare disponibile nella regione sarebbe stato utilizzato solamente per difendere gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Duiker, Ho Chi Minh, 182.
14 Charles André Joseph Marie de Gaulle (1890-1970) fu un generale e statista francese. Nel giugno del 1940, de Gaulle fuggì a Londra, e col sostegno britannico, unì i francesi nelle aree controllate da Vichy alle sue forze della Francia Libera appena organizzate. Il 26 agosto 1944 tornò a Parigi e insediò il suo governo provvisorio nella Francia metropolitana e nel novembre 1945 ne fu eletto presidente provvisorio. Tuttavia, di fronte a una forte opposizione politica tuttavia fu costretto a dimettersi l’anno seguente. In seguito alla crisi del 1958 (rivolta algerina) tornò alle cariche pubbliche come premier, per essere eletto come primo presidente della Quinta Repubblica di Francia nel gennaio 1959. Dopo diversi turbolenti mandati, si dimise ancora una volta e andò in pensione nel 1969. Archimedes L. A. Patti, Why Viet Nam?: Prelude to America’s Albatross (University of California Press, 1982), 507.
15 Taylor, A History of the Vietnamese, 525.
Giada Secco, Zio Hồ, Zio Sam. Le relazioni tra Hồ Chí Minh e gli Stati Uniti prima della Guerra del Việt Nam, Tesi di Laurea, Università Ca' Foscari Venezia, Anno Accademico 2019/2020

venerdì 30 dicembre 2022

Nei confronti dell'Italia il polo di rigidità era in Washington, piuttosto che Londra


Il 26 settembre 1944, a margine della seconda conferenza di Quebec, i leader anglo-americani concordavano una dichiarazione programmatica che prometteva l’avvio di una nuova fase nelle relazioni tra gli Alleati e l’Italia, in conseguenza delle dimostrazioni di parziale affidabilità offerte da quest’ultima dopo aver combattuto al fianco delle forze antifasciste e partecipato attivamente alla rinascita di una parvenza di sistema democratico rappresentata dal governo di coalizione insediatosi in giugno nella capitale liberata <603. Le potenze occupanti, dunque, stabilivano che una «increasing measure of control will be gradually handed over to the Italian administration» mediante il ripristino di normali relazioni diplomatiche e un progressivo ridimensionamento delle funzioni e delle ingerenze dell’ACC nella vita istituzionale italiana, simboleggiato dalla nuova denominazione di Allied Commission (AC) <604.
L’impressione che una maggiore attenzione all’elemento liberale della politica alleata per l’Italia provenisse dal versante americano dell’alleanza era diffusa tra i contemporanei e confermata in sede storiografica. Nella versione tradizionale, il cambio direzionale operato dagli anglo-americani nella penisola era da ascriversi interamente o quasi all’atteggiamento progressista e amichevole manifestatosi tra le fila americane con maggiore evidenza sin dal gennaio 1944 quando, come si è raccontato nel capitolo precedente, la politica di non intervento preferita dagli statunitensi prendeva la forma di una agevolazione della formazione di un gabinetto marcatamente antifascista e dell’estromissione della figura del monarca dalla scena pubblica italiana. La storiografia, fosse questa di matrice britannica, americana o italiana, ha sottolineato quanto americani e inglesi avessero affrontato la sconfitta dell’Italia e le responsabilità che ne erano seguite con prospettive alquanto differenti, tratteggiando una contrapposizione di fondo tra una Washington interessata alla ricostruzione democratica dell’Italia e una Londra dedita alla conservazione dei propri interessi regionali, per la quale un’Italia debole risultava un fattore indispensabile. Se per gli americani la concentrazione militare nella penisola era stata prevalentemente una tappa nella guerra contro la Germania, «a defeat administered more in sorrow that in anger», per gli inglesi l’eliminazione del nemico mediterraneo, cercata con una determinazione vicina all’ossessione per l’intera durata del conflitto anglo-italiano, costituiva un traguardo a conclusione di un lungo periodo di confusione politica e ansie strategiche, «the elimination of a local rival who had come dangerously close to making good his boasts» <605. Uno tra i maggiori storici dell’occupazione, David Ellwood, sosteneva che il rifiuto britannico di prendere atto del drastico mutamento nella reale consistenza della minaccia rappresentata dagli italiani nel Mediterraneo ora che lo status di potenza era stato annientato da una doppia occupazione aveva portato Londra all’incapacità di definire «in any precise, non-arbitrary way a positive role for Italy in a post-war international system» <606. Secondo Varsori, il fallimento della linea conciliatoria britannica era dovuto alla constatazione della relativa inutilità dell’apporto fornito dalla macchina amministrativa e militare brindisina allo sforzo alleato, che aveva fatto svanire la disponibilità londinese a compiere concessioni modulate sul principio del “payment by results”. Nella delusione provocata dallo scontro dei progetti britannici con la sconfortante realtà del governo provvisorio in fuga da Roma, «i motivi, già emersi in precedenza, che giustificavano un atteggiamento duro verso l’Italia, ripresero il sopravvento» <607.
La differenza sostanziale, insomma, stava nell’importanza che si dava, nelle due capitali alleate, alla lettera dell’armistizio e alle azioni compiute dal governo italiano nelle fasi successive al cambio di campo. Gli inglesi, in una accurata descrizione del loro stato d’animo tracciata dal Dipartimento di Stato, consideravano quella italiana una nazione sconfitta che si era arresa senza condizioni, facendovi riferimento come ad un nemico e insistendo su una rigida applicazione dello strumento di resa, mentre dall’altra parte dell’Atlantico si era preso con serietà lo status della cobelligeranza, traendo le conseguenze dovute dalla cessazione de facto dello stato di guerra tra i due paesi <608. Al forte supporto fornito dagli americani al recupero dell’Italia, rifletteva Gat, faceva da contrappeso la rigidità britannica che, volendo mostrare al mondo che una politica di aggressione non avrebbe pagato, «was not willing to forget Italy’s deeds during three years of war» <609. L’approccio americano, in sostanza, come evidenziano le conclusioni cui giunge lo storico Buchanan, sembrava offrire un’alternativa allo spirito punitivo patrocinato dagli inglesi: «America’s paternalistic intervention in Italian politics had a fundamentally redemptive rather than punitive thrust»; laddove Londra minacciava, Washington offriva speranza <610.
La percezione condivisa da protagonisti e storici aveva raggiunto anche gli ambienti italiani, dove si credeva che gli inglesi, in particolar modo il Foreign Office di Eden, «tenderebbero a mantenere un’Italia debole, che non pensi e non possa dar ulteriori fastidi nel Mediterraneo», mentre gli americani sarebbero invece convinti «della necessità di un’Italia forte che possa riprendere in Europa la sua missione di civiltà e dunque il suo posto, che non può in nessun caso che essere quello di una potenza dirigente»611. Da parte italiana si tendeva a denunciare lo spostamento semantico operato da Churchill, sempre più portato ad addossare alla popolazione italiana la colpa delle condizioni drammatiche nelle quali questa si trovava a vivere, quando invece, in diverse occasioni precedenti, aveva enfatizzato come la responsabilità della guerra italiana fosse da attribuire esclusivamente alle azioni di Mussolini <612.
In sede di analisi conclusiva si possono discutere le possibili accezioni e sfaccettature che la mitezza attribuita alla politica sviluppata in Italia dagli americani a partire dal 1944 poteva assumere, ma l’insistenza sulla natura diretta del controllo da imporre nei territori occupati e il netto rifiuto di una collaborazione con le autorità italiane nella gestione dell’amministrazione che avevano caratterizzato la posizione americana nel periodo precedente al luglio 1943 erano segnali inconfondibili a dimostrazione di un’alleanza che aveva, quantomeno nelle sue fasi iniziali, il suo polo di rigidità in Washington, piuttosto che Londra. Il fatto che a partire dai primi mesi del 1944 le posizioni si fossero soltanto in parte invertite non giustifica la convinzione, piuttosto diffusa, come si accennava, che ad un atteggiamento morbido scelto dagli americani se ne contrapponesse uno duro da parte degli inglesi. La critica alla condotta britannica nel trattamento riservato all’Italia occupata faceva il paio con quella riguardante la strategia mediterranea tradizionalmente articolata in modo esclusivo e autonomo dagli inglesi che tendeva ad escludere dal ragionamento l’attiva collaborazione americana alla definizione di un progetto a lungo termine, anch’essa determinata da interessi e considerazioni strategiche che, seppur diversi da quelli inglesi, rispondevano comunque ad esigenze di carattere nazionale <613. La strategia alleata per l’Europa occupata non era certamente frutto di una elaborazione solitaria compiuta da Londra: Washington aveva iniziato a contribuire ben prima del 1944, riuscendo in più occasioni ad intervenire con l’intento di arginare l’incontinenza strategica mostrata dagli alleati. Con lo sguardo volto agli sviluppi futuri, le posizioni erano destinate a ribaltarsi ancora una volta: gli inglesi mostravano sì un intento punitivo nei confronti dell’Italia, una necessità geopolitica di neutralizzare il pericolo italiano nel Mediterraneo britannico, ma, almeno a detta degli stessi protagonisti della politica londinese in diverse occasioni, l’Italia non rientrava nei piani postbellici inglesi né era considerata una pedina fondamentale nella scacchiera strategica britannica <614. Londra aveva convinto l’alleato d’oltreoceano a partecipare attivamente alla gestione del Mediterraneo e aveva incentivato lo sviluppo di una presenza militare ed economica americana in Italia; l’emergere di particolari interessi nella regione aveva definitivamente legato Washington all’Italia e coinvolto gli americani nella conduzione degli affari locali.
Che il governo inglese avesse mantenuto una posizione a tratti ostile nei confronti del nemico finalmente sconfitto e riportato alla sua condizione di potenza minore è fuor di dubbio. Tra l’aprile e il maggio 1944, quando nelle capitali alleate si discuteva della richiesta riguardante la revisione dello status italiano avanzata da Badoglio, la politica londinese si opponeva con fermezza all’innalzamento della cobelligeranza in alleanza, mostrando scarso interesse ad incoraggiare «too rapidly a marked tendency in her part to forget altogether her position as a defeated enemy or to claim privileges of an ally at the expense of an armistice». Nella visione inglese, quanto più abbondanti le concessioni fatte nel momento di minore capacità italiana, tanto più difficile sarebbe stato imporre le sanzioni desiderate una volta liberata la penisola dalla presenza tedesca <615. Il Foreign Office in particolare non era pronto a intaccare le fondamenta delle relazioni intrattenute con gli italiani e metteva in guardia il War Cabinet dal rischio di essere indotti a fare sempre nuove concessioni dietro la minaccia di una caduta del governo qualora queste non fossero state soddisfatte. Accanto ad un incontrovertibile elemento di verità, secondo l’interpretazione che se ne dava a Londra, nelle lamentele italiane si trovava anche «an unpleasant flavor of blackmail». La linea da adottare, dunque, doveva consistere in un netto rifiuto «even to consider the question of giving Italy Allied status during the war», e subordinare il miglioramento delle condizioni armistiziali al soddisfacimento delle richieste alleate <616. Gli italiani, d’altra parte, secondo la visione condivisa da larghe parti dello schieramento britannico, dovevano considerarsi fortunati ad aver ricevuto la grazia di una permanenza in posizioni di responsabilità governative e amministrative e Londra «shall be very lucky if we never have anything worse than the present Italian government to deal with» <617.
A seguito del rovesciamento di Badoglio in giugno, il fastidio per le macchinazioni degli italiani portava a rigurgiti di quel risentimento che aveva contraddistinto alcune delle reazioni britanniche all’ingresso in guerra dell’Italia. Riflettendo sulla ambigua realtà della resa incondizionata nella sua applicazione al caso italiano, Churchill si chiedeva «whether it was they who had unconditionally surrendered to us or whether we were about unconditionally to surrender to them», richiamando il trattamento di favore riservato agli italiani e il mancato intervento alleato nelle evoluzioni del quadro politico del paese occupato <618. In aggiunta, gli eventi del marzo, con l’avvicinamento sovietico al governo italiano, determinavano un duplice effetto che, spinto dalla paura per la perdita della posizione di predominio nella regione, istigava da una parte una politica di concessioni che motivasse l’Italia a rimanere nella sfera d’influenza anglo-americana, e dall’altra restringesse ulteriormente la morsa del controllo alleato per evitare che si lasciasse libero il governo italiano di passare volontariamente sotto la protezione dell’alleato/nemico sovietico. Pur riconoscendo l’importanza in prospettiva futura di avere un’Italia con la quale poter collaborare in armonia per il mantenimento di un Mediterraneo prospero e pacifico, il Foreign Office era convinto della necessità imperativa di rifiutare «the Italian threat that if we do not go fast enough in transforming Italy from a defeated enemy into a new-made ally, she will at once go Communist and throw herself into the arms of the Soviet government» <619. In considerazione del turbolento passato recente condiviso con l’Italia, gli inglesi intendevano combinare i piani strategico e geopolitico in una politica che impedisse la ricostituzione di una Italia «with an exaggerated sense of her own strength, for that leads to trouble» <620, sviluppando una strategia che indebolisse il paese «so as to deprive her of the capacity for future aggression, while leaving her sufficient power to check the spread of communism» <621.
La situazione sembrava abbastanza chiara. Gli inglesi intendevano tenere a bada le aspirazioni italiane intervenendo con una politica repressiva che rendesse improbabile, se non impossibile, una riemersione dell’imperialismo mediterraneo fascista. Qualche dubbio sulla monoliticità del giudizio generalmente espresso, tuttavia, rimane. L’ostilità manifestata da Londra in diverse occasioni e in particolare nel periodo successivo alla perdita del punto di riferimento rappresentato da Badoglio era essa stessa espressione di valutazioni non unanimemente condivise da tutti gli agenti politici e militari britannici, o comunque figlia di un lungo periodo di inimicizia avviato da una decisione unilaterale italiana che, come si è visto, gli inglesi avevano tentato in ogni modo di scongiurare. Accanto alla fazione capeggiata da Eden, tendenzialmente contraria al riconoscimento di privilegi e scorciatoie agli italiani, ancora ritenuti nemici tout court, nella politica britannica per l’Italia vi era una seconda anima, moderata e pragmatica, che, prendendo atto della precaria posizione inglese nella regione e dell’effettivo rischio di perdere il controllo della situazione italiana in mancanza di gesti concreti in aiuto della popolazione e delle forze liberali, guidava Londra in direzione di un controllo meno duro, partecipando in maniera decisiva alla costruzione di una politica che, nel giro di pochi mesi, si sarebbe rivelata vincente, culminando nell’enunciazione di una nuova direzione alleata in Italia.
I primi segnali di ammorbidimento venivano inviati da Londra già in occasione della pianificazione per la commissione di controllo nelle settimane immediatamente successive all’imposizione dei termini di resa. Con gli sviluppi post-armistiziali, la concezione britannica del controllo sul governo italiano cambiava radicalmente, in considerazione del fatto che l’Italia non aveva passivamente accettato la capitolazione, ma si era offerta di cambiare campo. Il 7 settembre, ancor prima dell’annuncio ufficiale, Churchill mostrava un atteggiamento assai più accomodante di quanto fatto in precedenza riflettendo sul fatto che le guerre non si vincessero «in order simply to pay off old scores but rather to make beneficial arrangements for the future» <622. Un mese più tardi, il Foreign Office, proponendo una mitigazione delle clausole armistiziali sulla base dei servizi resi dagli italiani nella lotta contro il nemico comune, riteneva la rigida struttura della commissione di controllo inadeguata alle esigenze di promozione di una massima collaborazione con gli italiani, anche nel contesto dell’occupazione militare <623.
Il terreno di coltura di questa nuova politica consisteva, oltre che delle considerazioni strategiche tornate all’attenzione dei leader britannici con la penetrazione sovietica e il sorpasso subito dagli americani in Italia, delle precarie condizioni in cui il governo italiano si trovava ad operare e la popolazione civile a vivere. Una serie di rapporti provenienti dai territori occupati ricordavano ai policy-maker britannici che la situazione istituzionale dell’Italia alleata era ancora tutt’altro che stabile. Nonostante la mancata esecuzione di diverse clausole e il processo di costante rafforzamento della macchina amministrativa italiana, ragionava il Foreign Office, «the Italian government are still not masters in their own house» ed era in ultima istanza costretto ad uniformarsi agli ordini esecutivi del Comandante Supremo, oltreché a dovere la propria sopravvivenza economica alla carità dei governi anglo-americani <624. Lo scontento italiano derivava anche e soprattutto, stando all’analisi di Caccia da Brindisi, dal visibile distacco creatosi tra la propaganda effettuata dagli Alleati in Italia nel periodo pre-armistiziale, con la promessa di un trattamento giusto ed equo, e il trattamento imposto dopo l’8 settembre, segnato da un atteggiamento scarsamente conciliante nei confronti delle richieste e delle esigenze italiane <625. In gennaio, Macmillan denunciava un certo dualismo nella politica adottata dagli inglesi verso il governo italiano che rendeva difficili consistenti progressi e invitava di conseguenza Londra a svolgere un ruolo costruttivo che evitasse di affiancare al rafforzamento di Badoglio e del suo governo la tendenza «to deal him fresh blows», sperando che la ricezione della nuova entità governativa italiana presso le opinioni pubbliche e i governi alleati fosse determinata dall’osservazione della sua performance presente tanto quanto dal ricordo dei suoi misfatti passati. Ricorrendo ad una analogia religiosa, il Resmin, pur valorizzando la funzione di confessione e penitenza nella conversione di un peccatore, riteneva sbagliato «to refuse absolution altogether, however tactfully» e, riferendosi al rifiuto opposto dal Foreign Office all’inclusione dell’Italia nella Carta Atlantica, commentava che se Paolo di Tarso avesse adottato un atteggiamento analogo nei confronti dei gentili, «Christianity would have remained a small Jewish sect» <626. Le contraddizioni presenti nella produzione politica britannica nel contesto dell’occupazione italiana erano inconciliabili con gli obiettivi che questa stessa politica si prefiggeva: talvolta si consideravano gli italiani nemici, talaltre cobelligeranti; «sometimes we wish to punish them for their sins; sometimes to appear as rescuers and guardian angels. It beats me» <627.
Il riconoscimento dei limiti della politica restrittiva britannica, considerata parzialmente responsabile degli aspetti più negativi della situazione italiana, generava una istanza di rinnovamento che veniva portata avanti dai tre uomini inviati da Londra ad operare a stretto contatto con gli italiani, Caccia, Macmillan e, ad uno stadio più avanzato delle relazioni, Charles. La prima concreta proposta di allentamento dei legacci armistiziali giungeva nel marzo 1944 sotto forma di una lunga riflessione sulle complicazioni imposte dall’esistenza di un doppio armistizio in Italia sviluppata da Caccia con la collaborazione del collega americano Reber. Le difficoltà esperite dal governo italiano erano da imputare in gran parte al fatto che i termini di resa erano stati preparati con tanto anticipo «that it bore little relation to the conditions of the Italian capitulation and Allied requirements thereafter». La reale applicazione delle clausole si limitava infatti ad una serie di articoli, approssimativamente la metà di quelli previsti dai long terms, che erano eseguiti al massimo delle potenzialità governative, che in quei mesi equivaleva ad un rinvio della piena esecuzione alla fine della guerra, quando l’intero territorio italiano sarebbe stato sottoposto al controllo dell’amministrazione italiana. La mancanza di una politica costruttiva che prevedesse quantomeno l’abolizione delle clausole in disuso, non rispondenti alla realtà militare e istituzionale dell’Italia occupata, era da considerarsi alla radice dell’iniziativa sovietica e soprattutto della felice ricezione di questa nel campo italiano. Come sottolineato dai due emissari anglo-americani, «if by accident or fortuitous circumstances our treatment of a conquered people grows severer, the result is the same as if this had been a considered policy» <628.
[NOTE]
603 La Second Quebec Conference aveva luogo, con il nome in codice Octagon, tra il 12 e il 16 settembre 1944 nella città di Quebec.
604 Il testo integrale della dichiarazione in FRUS, Conference at Quebec, 1944, Washington D.C., U.S. Government Printing Office, 1944, p. 494. L’assunzione della carica di ambasciatore da parte di Charles, già Alto Commissario britannico in Italia, sarà annunciata a Bonomi il 10 ottobre, mentre il rappresentante americano a Roma, Alexander Kirk, ne portava già il titolo; il governo italiano era contestualmente invitato a nominare propri rappresentanti presso le capitali alleate. Pur non essendo ancora possibile la ripresa delle normali relazioni diplomatiche tra i due paesi, veniva stabilito un contatto diretto con il governo italiano per le questioni riguardanti interessi politici tra Italia e Gran Bretagna, cfr. Charles a Bonomi, MAE, SG, vol. XXII.
605 Cit. Reitzel, The Mediterranean, p. 26.
606 Ellwood, Italy, 1943-45, cit., pp. 100-1.
607 Varsori, L’atteggiamento britannico verso l’Italia, cit., p. 156.
608 La posizione americana nel telegramma di Dunn a Offie, Office of US Political Adviser, del 14 febbraio 1945, riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, p. 31.
609 Gat, Britain and Italy, 1943-49, cit., p. 89.
610 Cfr. Buchanan, “Good morning, Pupil!”, cit., p. 240.
611 Cit. l’appunto di Prunas del 29 settembre 1944 su un colloquio avuto con Kirk, in cui si riportava la convinzione di Kirk che durante le conversazioni di Quebec fossero affiorati in tutta la loro evidenza due atteggiamenti radicalmente diversi tra i due alleati circa l’Italia, MAE, AP, Stati Uniti, b. 89.
612 Il 6 settembre 1944, il quotidiano della comunità italiana negli Stati Uniti, Il Progresso Italo-Americano, pubblicava un editoriale dal titolo Italy and Churchill nel quale si denunciava l’inconsistenza della politica del Primo Ministro nei confronti dell’Italia. Nel saluto trasmesso agli italiani alla partenza dal suo viaggio nella penisola, Churchill aveva ricordato come gli italiani non potessero ritenersi immuni da biasimo per essersi lasciati governare per un ventennio dal regime fascista. Secondo il giornale, tuttavia, questa era una conclusione radicalmente diversa da quella presentata da Churchill nel messaggio del 23 dicembre 1940, quando si era proceduto a scindere il giudizio del popolo italiano dalle colpe del Duce. PREM 3/243/15. Altri riferimenti ad una politica britannica tendente a separare i mali del regime dalla popolazione italiana si trovano nei documenti riguardanti la definizione della propaganda politica da adottare in Italia prima dell’invasione, FO 898/163.
613 Per citare Leighton, lo stereotipo consolidato che voleva gli inglesi intenti a manovrare dietro le quinte per indebolire Overlord al fine di dare precedenza alle operazioni mediterranee per poi essere costretti, soltanto in extremis, ad allinearsi controvoglia alla posizione americana non era coerente con le indicazioni della documentazione anglo-americana, Leighton, Overlord Revisited, cit., p. 922.
614 In un discorso ai Comuni del 18 gennaio 1945, Churchill dichiarava che per il governo britannico non vi erano «political combinations in Europe or elsewhere in which we need Italy as a party», MAE, ADG, b. 48.
615 Si vedano il memorandum del Foreign Office del 20 aprile 1944, poi trasmesso a Washington il 24, FO 115/3604; e il telegramma di Churchill a Eden del 26 aprile, in cui si definiva un errore la prematura liberazione del governo italiano dai vincoli armistiziali, CAB 120/584.
616 Cit. la nota di Sargent dell’11 maggio, FO 371/43911. Sulla questione del rancore nutrito da Eden nei confronti dell’Italia, significativa la riflessione di Ellwood, secondo il quale il ministro inglese, «who apparently had not yet heard that Mussolini is dead and is no longer running Italy», era considerato dagli stessi suoi subordinati all’interno del ministero «most unreasonable on subject of Italy and indeed almost psychopathic», Ellwood, Italy, 1943-45, p. 208.
617 Cit. il messaggio di Churchill a Eden del 26 maggio 1944, CAB 120/584.
618 Il commento di Churchill è ripreso dal discorso del gennaio 1945 già citato.
619 Cit. il telegramma di Eden a Charles del 14 agosto 1944, FO 954. Cfr. anche quello di Churchill a Macmillan del giorno precedente, in cui si leggevano le perplessità del Primo Ministro circa la concessione intempestiva all’Italia di uno status che avrebbe affrancato le relazioni anglo-italiane dalle costrizioni dell’armistizio, CAB 120/584.
620 Cit. il Memo on British Long Term Interests in Italy preparato da Caccia e inviato il 26 ottobre 1944 da Charles al Foreign Office, FO 371/43915.
621 Gat, op. cit., p. 89.
622 La citazione nella lettera di Churchill a Eden e ai COS del 7 settembre 1943, PREM 3/245/7.
623 Cfr. la nota FO del 4 ottobre 1943, Relations with the Italian Government and Control Commission in Italy, FO 371/37310. Con questo suggerimento Whitehall non rinunciava alla creazione dell’ACC, ritenuta comunque necessaria alla supervisione del governo italiano, ma intendeva limitare l’insistenza su alcune clausole dell’armistizio che, nelle circostanze di quel periodo, risultavano inapplicabili (l’esempio evidenziato riguarda quella sul disarmo italiano mentre si tentava di formare divisioni italiane per combattere i tedeschi al fianco delle forze alleate).
624 Si veda la nota FO (Williams) del 21 novembre 1944, British Policy Towards Italy, FO 371/43916.
625 Cfr. il rapporto di Caccia al Foreign Office del 27 dicembre 1943, FO 371/43909.
626 24 gennaio 1944, Macmillan a Eden, PREM 3/243/8.
627 Il telegramma di Macmillan a Eden del 10 settembre 1944 è riportato in Ellwood, Italy, 1943-45, cit., p. 105.
628 Cfr. il memorandum inviato a Londra e Washington il 31 marzo 1944, in ACC, b. 959. Secondo Caccia e Reber, gli articoli 16, 25, 28, 29, 30, 33 e 34 dei long terms non erano mai stati eseguiti o in modo soltanto parziale; gli articoli 1-27 (con l’eccezione del 16) erano stati o continuavano ad essere eseguiti dal governo al massimo delle sue potenzialità, il che però significava che non sarebbero stati pienamente eseguiti fino a quando il governo italiano non avrebbe governato l’intero paese.
Marco Maria Aterrano, “The Garden Path”. Il dibattito interalleato e l’evoluzione della politica anglo-americana per l’Italia dalla strategia militare al controllo istituzionale, 1939-1945, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Napoli Federico II, Anno Accademico 2012-2013

lunedì 31 ottobre 2022

Ai primi anni Cinquanta risalgono molte delle operazioni clandestine più ambiziose messe in atto dalla Cia


Sull’argomento delle covert operations sarebbero successivamente tornate due direttive: la Nsc 5412/1 del 15 marzo 1954, e la Nsc 5412/2 del 28 dicembre 1955, che ampliavano le regole sulla base delle quali la Cia aveva agito sino ad allora <213. Questi ultimi due documenti arricchivano infatti la rosa degli obiettivi delle covert operations, che consistevano nel creare e sfruttare i problemi del comunismo internazionale; screditare il prestigio e l’ideologia del comunismo internazionale; limitare il controllo del comunismo su ogni area del mondo e rafforzare il consenso dell’opinione pubblica mondiale nei confronti degli Stati Uniti. Infine, alle covert operations veniva assegnato lo scopo di sviluppare un piano di resistenza efficace che, in caso di guerra, prevedesse la presenza di elementi civili di appoggio all’esercito, una base a partire dalla quale le forze militari potessero espandere le loro forze all’interno del territorio, e la presenza di facilities per eventuali fughe <214.
Nel quadro giuridico relativo alle covert operations rientra anche la direttiva Nsc 68 dell’aprile 1950, intitolata United States Objectives and Programs for National Security <215. Questo documento nasceva in un contesto profondamente mutato. Nel 1950, infatti, la nascita della Repubblica popolare cinese, la fine del monopolio nucleare statunitense e la guerra in Corea avevano aperto scenari cupi per la leadership americana e rendevano necessaria una revisione della strategia estera. L’Unione sovietica si stava infatti dimostrando un avversario ancor più temibile e tecnicamente competente di quanto previsto. La Nsc 68 rifletteva quindi l’esigenza di ristabilire la supremazia statunitense e di uscire dalla logica del contenimento, accusata di inerzia e passività. Era necessario reagire all’avanzata comunista in maniera più incisiva in quanto “una sconfitta in qualsiasi luogo” sarebbe stata percepita come “una sconfitta ovunque” <216. Nello specifico, il documento contiene gli strumenti necessari per garantire integrità e vitalità al sistema occidentale e per correggere le storture tipiche dei regimi democratici che l’Unione sovietica, spinta da una “fede fanatica” ed erede dell’imperialismo russo, avrebbe cercato di sfruttare per portare il continente euroasiatico sotto il proprio dominio. Nella realizzazione di questo disegno, gli Stati Uniti rappresentavano una minaccia permanente, in quanto l’idea di libertà di cui erano incarnazione era totalmente incompatibile con quella di schiavitù sovietica <217. La direttiva Nsc 68 contiene numerosi riferimenti al concetto di “credibilità”, una componente fondamentale per riaffermare la supremazia americana <218. Oltre alla reale distribuzione del potere, infatti, ciò che contava era il modo in cui l’immagine di forza e di fermezza degli Usa era percepita esternamente dal nemico sovietico, dagli alleati europei e dal resto del mondo. La direttiva ebbe tra i suoi principali effetti la “successiva militarizzazione della presenza americana in Europa, premessa per il riarmo della Germania e per la trasformazione del Patto Atlantico in North Atlantic Treaty Organization (Nato), una struttura militare che rendesse possibile la creazione di un esercito permanente in tempo di pace”. Inoltre, la Nsc 68 portò ad un incremento delle spese militari, che dai 22,3 miliardi di dollari (1951) salirono a 44 miliardi (1952) <219. “Ideologicamente e retoricamente sovraccarico”, il documento si inserisce nella serie di direttive volte ad imprimere un cambiamento alla politica estera e a integrare i mezzi tradizionali della politica, inadeguati nel contenere la crescita sovietica, attraverso il dispiegamento di mezzi dall’efficacia più diretta e immediata <220.
Un altro organismo che prese parte attiva nella guerra non ortodossa al comunismo fu, fin dalla sua creazione, la Nato stessa, che diede luogo ad una profonda revisione dei sistemi di sicurezza e di difesa statunitensi, con particolare riferimento alle operazioni clandestine condotte nei paesi dell’Europa occidentale <221. Attraverso protocolli segreti, la Nato assegnava ai servizi segreti dei paesi firmatari compiti di guerra non ortodossa contro il comunismo <222. Nel settembre 1951, ad Ottawa, Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia crearono lo Standing Group, un comitato d’emergenza e direzione militare interno alla Nato, creato con lo scopo di dividere gli scacchieri militari in “gruppi regionali di operazioni”, e tra i cui compiti rientravano anche quelli relativi alla pianificazione di una strategia di guerra non convenzionale <223. Sempre a partire dal 1951, iniziò ad operare un altro organismo interno alla Nato nell’ambito della guerra non ortodossa: il Clandestine Planning Committee (Cpc), nato dall’approvazione di una direttiva del Saceur (Supreme Allied Commander in Europe) <224, da parte di Eisenhower, allora comandante delle forze Nato presso il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (Shape) con sede a Bruxelles. Il Cpc aveva lo scopo di pianificare, preparare e dirigere guerre clandestine condotte da Forze speciali e dalla Stay Behind net in Europa <225. Quest’ultima rappresentò una rete clandestina operante in tutti i paesi del Patto Atlantico allo scopo di impedire l’espansione del comunsimo in Europa occidentale e, in caso di aggressione esterna, di organizzare la resistenza in ottemperanza della dottrina Nato della “difesa arretrata e manovra in ritirata” <226. In assenza di un attacco diretto, che effettivamente non avvenne mai, la rete servì principalmente ad organizzare una guerra occulta contro i Partiti comunisti dell’Europa occidentale, cui doveva essere impedito di ottenere il potere pena la compromissione della collocazione atlantica dei paesi stessi. Di fatto, le organizzazioni di Stay behind furono coinvolte, a partire dagli anni Cinquanta, in azioni sfuggite al controllo dei governi europei e non conformi alle loro costituzioni. Tali strutture avrebbero inoltre agito subordinatamente agli obiettivi di un più vasto e continuativo disegno atlantico, cui erano strettamente legati per mezzo di accordi militari e protocolli segreti. Rimasta a lungo occultata, dell’esistenza della Stay behind si sarebbero avuto le prime informazioni nell’ottobre 1990, grazie alle dichiarazioni dell’allora Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti <227. Un’altra costola della guerra non ortodossa in Europa fu l’Allied Clandestine Committee (Acc), che a partire dal 1958 fu preposto al coordinamento delle varie reti di Stay behind europee e, come il Cpc, direttamente sottoposto al controllo degli Stati Uniti e collegato al Saceur <228.
La convinzione che le operazioni di tipo non convenzionale fossero lo strumento più efficace nella lotta al comunismo portò gli Stati Uniti ad impegnarsi in molte parti del mondo, attraverso una grande molteplicità di strumenti: l’elargizione di cospicui finanziamenti ai partiti di centro, il sostegno ai sindacati anticomunisti, la propaganda e l’infiltrazione di gruppi di resistenza armata. Oggi, le attività illegali della Cia sono note grazie ai lavori delle diverse commissioni di inchiesta statunitensi che si susseguirono in seguito allo scandalo Watergate, e che finirono per travolgere la reputazione dell’agenzia di intelligence <229. Le prime attività clandestine di carattere offensivo furono rivolte ai paesi dell’Europa dell’Est e ai paesi satelliti dell’Unione Sovietica, in particolare nei confronti dei paesi baltici e dell’Ucraina. In queste “denied areas” i servizi segreti americani operarono su due fronti: da un lato, misero in campo un’intensa attività di propaganda contro l’Unione sovietica, attraverso i canali ufficiali come The Voice of America, ma anche attraverso la creazione di apposite stazioni radiofoniche come Radio Liberty e Radio Free Europe <230. Gli Stati Uniti sfruttarono inoltre i contatti con le forze politiche antistaliniste, e l’infiltrazione di agenti locali. Le prime azioni di carattere difensivo furono invece destinate all’Europa occidentale, soprattutto a Francia e Italia, ove il peso del Partito e del sindacato comunista rischiava di consegnare i due paesi al blocco comunista. L’intervento più significativo ebbe luogo nei mesi che precedettero le elezioni italiane del 1948. In quell’occasione, gli Stati Uniti affiancarono a interventi di propaganda palese, volti alla costruzione di una immagine positiva di sé, covert operations come il finanziamento occulto alle forze politiche e ai sindacati anticomunisti <231.
A partire dagli anni Cinquanta, la stabilizzazione dell’Europa e il cambio ai vertici dell’amministrazione statunitense, con l’elezione di Eisenhower, portarono la Cia a rivolgere il proprio interesse verso scenari extra europei, ove il processo di decolonizzazione apriva nuovi contrasti con l’Urss <232. A questi anni risalgono molte delle operazioni clandestine più ambiziose messe in atto dalla Cia <233. Molte di queste si conclusero con clamorosi insuccessi, causati dalla superficialità e dalla scarsa lungimiranza con cui la componente operativa della Cia ne faceva un uso indiscriminato. Più che per gli effetti prodotti sul comunismo, queste operazioni sono ricordate per essersi tradotte in limitazioni “della libertà di espressione e di associazione”, in piani di detenzione d’emergenza per presunti “sovversivi”, in violazioni di diritti civili, e soprattutto in “liste nere”, “esecuzioni sommarie”, arresti per semplici “reati di opinione”, e nel “ricorso a dittature militari” <234. Nonostante ciò, le covert operations poterono godere sempre di una grande popolarità all’interno dell’establishment statunitense, divenendo uno strumento il cui ricorso fu costante per tutta la durata della guerra fredda <235. Questo fu principalmente dovuto alla “ubiquità strategica” delle covert operations, quindi alla loro flessibilità, “standardizzazione”, e alla facile applicabilità in contesti e situazioni diverse <236. Un’altra caratteristica che rese le covert operations uno strumento imprescindibile della politica estera americana fu la loro economicità, funzionale a contenere le spese militari senza compromettere la sicurezza e la difesa del blocco occidentale <237. In ultimo luogo, alla legittimazione delle covert operations concorse il ruolo svolto “dalla mentalità della guerra fredda ma anche dalla crescente frustrazione riguardo la passività della politica estera statunitense, che in quegli anni tendeva al “contenimento” dell’Unione sovietica. Alla crescente legittimazione della Cia corrispose così un costante potenziamento delle strutture e degli strumenti destinati alle covert operations” <238.
[NOTE]
213 L. Sebesta, L’Europa indifesa. Sistema di sicurezza atlantico e caso italiano. 1948-1955, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, p. 215.
214 Frus, 1950-1955, The Intelligence Community, NSC 5412/1, Covert Operations, Washington, 12 marzo 1955, pp. 624-625, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1950-55Intel/pg_624; Frus, 1950-1955, The Intelligence Community, NSC 5412/2, Covert Operations, Washington, undated, pp. 746-747, disponibile al link: https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1950-55Intel/pg_746.
215 Nsc 68, United States Objectives and Programs for National Security, 14 aprile 1950, disponibile al link: https://www.trumanlibrary.org/whistlestop/study_collections/coldwar/documents/pdf/10-1.pdf.
216 Ibid. p. 8.
217 Ibid., p. 38.
218 M. Del Pero, Libertà e impero, cit. p. 301.
219 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 774.
220 M. Del Pero, Libertà e impero, cit. p. 302.
221 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato. Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, Roma, Fazi, 2008, p. 38.
222 P. Willan, I Burattinai. Stragi e complotti in Italia, Napoli, Tullio Pironti, 1993, p. 33.
223 E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 788; G. Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991, Torino, Einaudi, 2014, p. 178.
224 Il Saceur nacque come il comando unificato supremo, con uno stato maggiore (lo Shape), che riuniva gli ufficiali dei diversi paesi alle dipendenze dell’autorità comune della Nato.
225 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 39.
226 Tale dottrina prevedeva che fosse lasciata, “all’inizio delle ostilità, una parte del territorio nazionale in mano all’avversario, per poi rallentarne l’avanzata e logorarlo”. Lo scopo era quello di far arretrare le proprie forze e sistemarle in posizioni più idonee da cui sarebbe partita la controffensiva. In estrema sintesi, quindi, tale dottrina comportava la nascita di determinate strutture paramiliari che, “anziché cercare di respingere sul nascere un’invasione e rischiare di essere decimati fin da subito, rimanessero “in sonno” per alcune ore, lasciando avanzare il nemico per poi prenderlo alle spalle”. G. Pacini, Le altre Gladio.p. 179.
227 D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 7.
228 Ibid., cit. p. 39.
229 Verso la metà degli anni Settanta il Parlamento statunitense avviò tre indagini, le cui relazioni finali restano ancora oggi un punto di riferimento per ricostruire l’espansione dei poteri della Cia e del Pentagono al di fuori fuori del controllo democratico. Le tre Commissioni incaricate di condurre queste indagini furono la Pike Committee, la Church Committee, e la Murphy Committee. D. Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, cit. p. 377.
230 J. Campbell, American Policy Toward Communist Eastern Europe: The Choices Ahead, Minneapolis, The University of Minnesota Press, 1965, p. 88; V. Marchetti, J. Marks, Cia, cit. p. 43.
231 A. Silj, Malpaese. Criminalità, corruzione e politica nell’Italia della prima Repubblica. 1943-1994, Roma, Donzelli, 1994, p. 31.
232 La questione coloniale fu centrale nella definizione dei rapporti tra le due potenze. Il modello socialista e l’Urss, per le loro posizioni notoriamente antiimperialiste e a favore dei paesi sottosviluppati, furono assurti a modello di riferimento delle forze nazionaliste locali, e Stalin strumentalizzò questa posizione, con conseguenze nefaste per il modello di sviluppo e di indipendenza dei Paesi del Terzo mondo, che finirono sotto una nuova forma di imperialismo. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, cit. p. 924.
233 A. Colonna Vilasi, Storia della Cia, Roma, Sovera Edizioni, 2014, p.17.
234 Ibidem.
235 L. K. Johnson, American Secret Power, cit. p. 100.
236 M. Del Pero, Cia e covert operation nella politica estera americana, p. 709.
237 J. L. Gaddis, Strategies of Containment, cit. pp. 225 e ss; L. Sebesta, L’europa indifesa, cit. pp. 213-215.
238 A. Colonna Vilasi, Storia della Cia, cit. p. 18.
Letizia Marini, Resistenza antisovietica e guerra al comunismo in Italia. Il ruolo degli Stati Uniti. 1949-1974, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Macerata, 2020