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domenica 14 maggio 2023

La zona della Brianza Lecchese ha avuto una storia resistenziale difficile


In questa località denominata Gera, nella primavera del 1944, alcuni partigiani cominciarono a radunarsi alla spicciolata, sotto la guida del capitano Giacinto Lazzarini. Vennero ospitati nel cascinale della famiglia Garibaldi, la cui dimora fu spesso rifugio di Ebrei e perseguitati, prima dell'espatrio nella vicina Svizzera. Pian piano il numero dei partigiani aumentò fino ad assumere le caratteristiche di una formazione dedita ad azioni di disturbo e sabotaggio.
All'alba del 7 ottobre del 1944, sotto una pioggia battente, un commando fascista delle brigate nere, forse a causa di una delazione, sorprese nel sonno dodici partigiani rifugiati nel cascinale. Quattro di loro: Giacomo Albertoli, Alfredo Carignani, Pietro Stalivieri e Carlo Tappella furono fucilati sul posto e i loro corpi lasciati per alcuni giorni sul terreno. Gli otto partigiani superstiti vennero fatti sfilare a mani alzate per le vie di Voldomino e poi fino a Brissago Valtravaglia dove, presso il cimitero, altri cinque vennero fucilati: Giampiero Albertoli, Dante Girani, Flavio Fornara, Luigi Perazzoli, Sergio Lozio. Infine, nello stesso giorno, ultima tappa per i superstiti, l'ippodromo delle Bettole di Varese dove vennero fucilati Elvio Copelli, Evaristo Trentin e Luigi Ghiringhelli.
Il capitano Lazzarini sfuggì alla cattura, mentre la moglie Angela Bianchi, ospite della famiglia Garibaldi, subì in carcere interrogatori e intimidazioni.
Si ricordano in questo luogo altri tre partigiani della Formazione Lazzarini, caduti in imboscate o scontri a fuoco: Domenico Pagliolico, Alfredo Aime, Franco Buffoni [...]
Redazione, I Martiri della Gera, ANPI Sezione di Luino


Non mi sarei mai occupato di Giacinto Lazzarini se non avessi scoperto Gino Prinetti, un giovane militare figlio di una nobile famiglia che cade in combattimento con le brigate valsesiane di Cino Moscatelli. Prinetti è un giovane ventenne, figlio di una famiglia della nobiltà legata ai Savoia, che dopo l’otto settembre si rifugia in Svizzera e poi decide di rientrare in Italia con Edgardo Sogno e si ferma a combattere con i garibaldini. Cade in combattimento e gli è concessa una Medaglia d’Oro alla Memoria. Era nativo di Merate <1, sonnacchiosa cittadina brianzola, dove c’è ancora una villa padronale dei Prinetti. Inseguendo la sua storia scopro che nella piccola città ci sono una sala della Resistenza e un museo dedicato alla Formazione Militare Giacinto Lazzarini. Prinetti e gli altri partigiani locali, un gruppo della 104a brigata Garibaldi G. Citterio, sono relegati sulle pareti esterne e nel sottoscala, la sala è piena di manufatti militari, armi, un paracadute, una radio ricevente, un manichino con una strana divisa, una vetrinetta in cui fa bellavista la Spilla di Göring, del partito nazista, di dubbia provenienza e autenticità. C’è anche un corposo fondo, alcuni faldoni, di documenti che ha lasciato il Lazzarini.
Il 7 ottobre 1944, due compagnie della Scuola Allievi Ufficiali della Gnr di Varese, fra cui la IV, detta “Compagnia del Terrore”, sotto il comando dell’Upi, sono dirottate nel Luinese, con l’obiettivo di sorprendere la banda “Lazzarini”. I partigiani, sorpresi verso le 7.30 nel sonno, in una piccola stalla a pochi metri dalla cascina della “Gera”, sono diciotto. Il diciannovesimo, ferito, è ospitato in casa dei signori Baggiolini, proprietari del fondo. Giunge nel frattempo sul posto il colonnello Enrico Bassani, comandante della Scuola Allievi Ufficiali della Gnr, lasciando al sottotenente Carlo Rizzi dell’Upi la facoltà di soprassedere alla fucilazione “per quegli elementi che potevano interessare”. Dodici fra i partigiani catturati, sono fucilati, ma in località diverse. Alla “Gera”, base della “Lazzarini”, i fucilati sono quattro: Sergio Lozzo, Alfredo Carignani, Flavio Fornari e Pietro Stalliviere. A Brissago Valtravaglia i partigiani passati per le armi, al grido “Viva l’Italia libera”, sono cinque: Giacomo Albertoli, Carlo Di Marzio, Dante Girani, Carlo Tappella e Gianpiero Albertoli. Alle Bettole di Varese, presso l’ippodromo, i fascisti fucilano i tre partigiani più giovani: Elvio Coppelli, venti anni, Evaristo Trentini, ventitré e Luigi Ghiringhelli, di venti anni, abbandonando i loro corpi sul prato per due giorni, come monito alla popolazione. A costituire il plotone di esecuzione sono gli Allievi ufficiali della Gnr. Gli altri sette partigiani sono fatti prigionieri e trattenuti all’Upi di via Dante. Vengono fermate anche quattro donne, quasi tutte del luogo: Maria e Rosa Garibaldi, di Valdomino, Dolores Bodini, una sfollata, e la moglie del Lazzarini, Angela Bianchi. La cascina “Gera” dei coniugi Garibaldi è data alle fiamme, l’annessa casa colonica razziata di mobili, suppellettili, animali e generi alimentari <2.
Giacinto Lazzarini non era presente, si era allontanato con altri membri della banda. Il Capitano Lazzarini <3 nel 1990 donò una serie di documenti al comune di Merate (LC), l’anno successivo il comune della città costituì «Il Museo storico “G. Lazzarini” […] dopo che la moglie del colonnello Giacinto Lazzarini di Muralto donò all’Amministrazione comunale l’archivio del marito» <4.
Questo personaggio è presente in una molteplicità di racconti resistenziali con una ben precisa caratteristica, dopo la tragica conclusione della sua banda nella zona di Luino, la fonte delle notizie sulle sue gesta è solo uno: lui.
Quanto m’interessa ora è ragionare sul perché, sulle ragioni, che hanno reso possibile che i suoi racconti prendessero piede financo a diventare un emblema della Resistenza locale nel Meratese, una sala di un museo della Resistenza a suo nome, un volume che declama le sue gesta; ma anche essere inserito nello Yad Vashem come giusto tra le nazioni. Nel 1976 gli è stata data la cittadinanza onoraria di Merate con la motivazione che la città ha rischiato di essere rasa al suolo dai bombardamenti alleati ed è salvata dal suo provvidenziale intervento. Mi è successo di imbattermi in racconti e testimonianze dove l’iperbole delle vicende trascendeva la realtà degli eventi, fatti successi in altri luoghi riportati nei dintorni di Vimercate e Morbegno; si trattava però in genere di una memorialistica che aveva subito il procedere del tempo, episodi inseriti in racconti più vasti che potevano, a ben vedere, essere considerati un’elaborazione senza predeterminazione. Il muoversi di Lazzarini è diverso, c’è dell’ingegno nei suoi racconti, quasi una capacità innata di rispondere ai desiderata di chi lo ascolta, ma c’è anche una superficialità di chi utilizza quanto lui afferma e che mi lascia quantomeno stupito. Può apparire irrilevante, ma il Lazzarini passa tranquillamente dall’essere capitano all’essere colonnello, già questo dovrebbe bastare per mettere in guardia chi utilizza i suoi documenti. Mi si può obiettare che la storiografia è colma di racconti che zoppicano e che i millantatori non ci sono solo nell’ambiente resistenziale ma che coprono l’esperienza umana senza necessariamente prediligerne una condizione. Chi ha frequentato l’ambiente dell’alpinismo non può far altro che sorridere un poco di fronte a questo ragionamento, basterebbe ricordare la polemica in merito alla traversata in solitaria della Hielo Continental di Giuliano Giongo <5. Il problema dei racconti di Lazzarini si pone, però in un modo etico diverso, qui siamo dentro le vicende di una guerra, per alcuni versi civile, che lascia una scia di sangue e che interviene nella modifica dei rapporti comunitari.
Quando dopo alcuni mesi dalla vicenda di Gera di Valdomino (VA) si presenta a Lecco accompagnato da Riccardo Cassin, afferma che il suo compito è ora, fino alla fine del conflitto, quello di coordinare i collegamenti tra i partigiani dell'Alto Lario, di Lecco e della Brianza con le Forze Alleate e di monitorare la presenza e i movimenti delle truppe tedesche.
Se si considera veritiera quest’affermazione, considerando che il suo nome non appare in nessun documento <6, il passo successivo dovrebbe essere quello della riscrittura della storia degli ultimi mesi della Resistenza in questi luoghi: resta sul terreno la difficoltà di far convivere la figura di Lazzarini con i documenti che abbiamo a disposizione.
La zona della Brianza Lecchese, in altre parole il territorio che dalla periferia di Monza va verso i laghi brianzoli di Annone e Oggiono avendo come confine verso la bergamasca il fiume Adda e la stessa Lecco, ha avuto una storia resistenziale difficile. Una capillare presenza degli occupanti tedeschi, la diffusione di un numero consistente di piccole e medie aziende controllate dal RuK (Rüstung und Kriegsproduktion), la mancanza di una tradizione di conflitti operai, l’oggettiva difficoltà geografica di mantenere attive consistenti bande partigiane farà si che i gruppi che si organizzano in questa zona e che poi realizzeranno alla 104a brigata Garibaldi G. Citterio andranno a Milano ad eseguire alcune azioni.
L’altra funzione che questa zona geografica riuscirà a garantire sarà un luogo di occultamento per partigiani, disertori o renitenti alla leva che sono in procinto di salire in montagna o sono in fuga dai rastrellamenti. Non trascurabile sarà anche la funzione di zona da cui partiranno le vettovaglie o i denari per le brigate di montagna. Questo stato delle cose si scontrerà a fine guerra con la necessità nel contribuire alla narrazione di un popolo alla macchia che combatte il fascismo e della funzione che avrà questo combattere come lavacro della ventennale onta fascista. Da questa necessità prenderà vita un racconto che rivendicherà momenti di combattimento collettivi o personali. Il primo troverà nella mandellese Giulia Zucchi la sua musa con un libro di memorie pubblicato alle soglie del secondo millennio; i secondi avranno i loro momenti nelle poche memorie che verranno pubblicate nel Lecchese. La memoria racconterà di Gap e Sap che nascono a ridosso dell’8 settembre e che dalla metà dell’ottobre 1943 saranno operanti le brigate in montagna. Un volume riguardante la 104a brigata G. Citterio sconta l’appiattimento sul racconto retorico della Resistenza <7. La lotta politica che si svilupperà dopo il 1948, non solo tra i partiti di sinistra e le variegate destre ma anche tra il Pci e il Psi, opererà in modo tale che saranno solo le sinistre, e più precisamente il Pci a gestire la memoria della Resistenza locale <8. Questo stato di cose farà sì che un meritorio tentativo fatto da Franco Catalano tra la metà degli anni sessanta del secolo scorso e il decennio successivo, sarà cassato e il lavoro disperso in mille rivoli <9. Nella zona di Merate-Missaglia poi la situazione si presenta ancor più dirompente: qui il presidio meratese della Brigata Nera Cesare Rodini è comandato dal professor Giuseppe Gaidoni, preside delle scuole superiori, la piccola borghesia locale è fascista e non ha subito alcuno sbandamento dopo l’otto settembre. Nel mandamento di Missaglia a comandare il presidio della Gnr è Luigi Formigoni che si renderà compartecipe della fucilazione di quattro partigiani, Natale Beretta, Nazzaro Vitali, Mario Villa, Gabriele Colombo, il 3 gennaio 1945. Nel marzo del 1945 poi, a Merate s’istallerà il comando del Osttürkische Waffenverband der SS con una forza di 4.000 uomini distribuiti tra il Lecchese e il Bergamasco <10. All’insurrezione questo comando non si arrende ai partigiani ma assieme a loro forma delle pattuglie - armate!- miste per il controllo dell’ordine pubblico fino all’arrivo degli alleati. La sbornia per il fascismo nel mondo che aveva riempito le piazzette dei paesini brianzoli finisce nella triste considerazione che i tedeschi e i loro alleati si arrendono solo ad americani e inglesi: succede a Merate ma anche a Mandello del Lario, dove proprio Lazzarini, conosciuto come Athatos-Fulvio, responsabile di una missione dell’Oss, rischia di svelare il proprio bluff. Si è fatto passare per americano e quando i tedeschi chiedono la presenza di un ufficiale alleato per definire la resa, i mandellesi vanno a cercare lui. Riuscirà a sottrarsi con una delle sue grandi capacità inventive. La condizione pre-1945, combattenti per la causa fascista, difficilmente poteva essere sbandierata nel 1945-1946 e così la condizione che si genera successivamente: prigionieri, resistenti a volte riluttanti, occupati da un alleato e liberati da un altro, deve trovare una qualche risoluzione tra le macerie della guerra perduta. Chi la Resistenza l’ha combattuta, può certo recriminare sul dopo, sulle disillusioni e sulla quasi vergogna che alcuni si sentiranno addossata d’essere stato partigiano, ma in cuor suo ha fatto quanto era corretto per ridare e ridarsi dignità, forse prima a se stesso che alla comunità nazionale. Gli altri una qualche identità resistenziale dovranno in qualche modo crearsela. Nella zona Lecco-Brianza Lecchese, le difficoltà elevano a gesto onorevole anche dare un bicchier d’acqua al renitente, al disertore e al partigiano: non c’era nessun ordine o comando da soddisfare se non la propria dignità. Questo dovrebbe bastare, ma non è così, ci si sente inferiori, incapaci di aver affrontato qualcosa di più radicale: nasce un senso d’inadeguatezza. Perché qui non ci si trova senza le case perché bombardate, a Lecco bombardano la ditta Fiocchi e i binari ferroviari, a Merate il vicino ponte sul fiume Adda. Non sono passate le divisioni tedesche in ritirata come sull’Appennino o i militi criminali della Tagliamento; in un paese del Meratese, quando a fine ottobre 1944 si allontana la conclusione della guerra, tutti i renitenti e i disertori si consegneranno e nessuno subisce il carcere o la deportazione, nulla impedisce che lo stesso succeda nei paesi vicini <11. Una volta finita la guerra, passato qualche anno, non ci si può consolare con i caduti partigiani a Milano o con quelli rientrati dalle brigate liguri o comasche, dalla dura esperienza della Jugoslavia o con il ricordo di qualche caduto nei campi di concentramento. Anzi, queste realtà costringerebbero a fare i conti con quanto è successo e della lontananza dalla retorica tradizionale, e allora meglio il silenzio. Val la pena ricordare che la fucilazione di quattro partigiani, il 3 gennaio 1945 a Valaperta di Casatenovo, diventa di pubblico dominio quando Umberto Bossi, segretario della Lega Lombarda, coinvolge il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni perché figlio di Luigi, uno dei presenti alla fucilazione dei quattro. Ci vorranno anni per ricordare Antonio Bonfanti morto a Mauthausen e ancora, qualche anno per riprendere la memoria di Gino Prinetti, mentre sono ancora nell’oblio tre partigiani fucilati a Pusiano: Giuseppe Viganò, Innocente Valassi e Stefano Lanfranconi [..]
[NOTE]
1 Cfr. GABRIELE FONTANA, MASSIMO FUMAGALLI, Gino Prinetti e gli altri caduti e resistenti Merate 1920-1945, Ass. Culturale Banlieue, 2015; ANGELO BORGHI, La storia che non c'è osservazioni sulla Resistenza e sulla Liberazione nel Meratese, «Archivi di Lecco e della provincia rivista di storia e cultura del territorio» a cura dell'Associazione Giuseppe Bovara di Lecco. N. S., a. 27, n. 1 (gen.-mar. 2004), Cattaneo, Oggiono 2004; ANSELMO LUIGI BRAMBILLA, ALBERTO MAGNI, Partigiani tra Adda e Brianza Antifascismo e Resistenza nel Meratese storia della 104^ Brigata S.A.P. Citterio, cit.
2 http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=5045. La località della strage è Luino, Brissago, Varese, in data 7 ottobre 1944. CLAUDIO MACCHI, Antifascismo e Resistenza in Provincia di Varese, Tomo I e Tomo II, Macchione, Varese 2016.
3 Domenico Lazzarini si autonomina capitano o colonnello, non si comprende in base a quali considerazioni. Non ha gradi militari quando si trova citato in documenti pubblici. Nel Registro matricolare del Distretto militare di Milano, è soldato di leva in congedo illimitato perché rivedibile nel tardo 1941. Nel 1982 gli verrà consentito di fregiarsi del titolo onorifico di Tenente. Per ulteriori notizie si rimanda al sito: www.55rosselli.it
4 https://www.memoranea.it/luoghi/lombardia-lc-merate-museo-storico-lazzarini. Ultima visualizzazione 18 luglio 2018.
5 Ancor oggi si può leggere su http://www.barrabes.com/actualidad/noticias/1-1165/hielo-continentalpatagonico-tierra-viento.html questo paragrafo: «El italiano Giuliano Giongo reclamó, con una tienda muy ligera y 35 kilos de carga total, haber sido el primero en cruzar el Hielo Continental en solitario, aunque su logro (que incluía unas cuantas contradicciones e imprecisiones) fue discutido, entre otros, por un polemista nato: Walter Bonatti». Ultima visualizzazione 18 luglio 2018.
6 Ultimamente, la presenza in rete dei documenti delle Brigate Garibaldi e del Partito Comunista Italiano Direzione Nord da parte della Fondazione Gramsci di Roma ha tolto anche l’alibi della difficoltà della consultazione.
7 Cfr. A. BRAMBILLA, E. MAGNI, Partigiani fra Adda e Brianza. Antifascismo e Resistenza nel Meratese. Storia della 104^ Brigata S.A.P. “Citterio”, Cattaneo, Oggiono-Lecco 2005.
8 Va dato merito a Silvio Puccio di aver, per così dire, gettato il sasso nello stagno con il suo volume "Una Resistenza" edito in Lecco da Stefanoni nel 1965.
9 La ricostruzione del lavoro di Franco Catalano è presente nel sito: www.55rosselli.it
10 G. FONTANA, M. FUMAGALLI, Gino Prinetti e gli altri caduti e resistenti Merate 1920-1945, cit., p. 14-15.
Gabriele Fontana e Massimo Fumagalli, La Storia, la politica, la memoria: il caso G.D. Lazzarini, responsabile della Unione Nazionale dei resistenti autonomi e delle delegazioni per l’Italia della Resistenza estera, Associazione Culturale Banlieu

martedì 25 aprile 2023

Gli ultimi scontri armati e le ritorsioni naziste sui civili nell’area ovest della Val di Nievole

Pescia (PT). Fonte: mapio.net

Dopo aver colpito il 23 agosto del '44 nell'area del padule di Fucecchio, le operazioni dell'esercito tedesco, temendo, da quando l'armata britannica si era sganciata per dirigersi a Pesaro, una imminente avanzata degli americani nel territorio della Val di Nievole, si concentrarono a nord-ovest della piana tra Pescia e Collodi e lungo la via di fuga nell'area collinare da Vellano a Pietrabuona, San Quirico, Medicina, Sorana, Malocchio e Prunetta.
Nella zona di Malocchio nel Comune di Buggiano il 24 novembre del '43 vi era stato un grande rastrellamento tedesco con diversi civili trasferiti temporaneamente alle carceri di Pistoia a seguito dell'uccisione, in date diverse, di due noti fascisti. Si trattava del pesciatino Romolo Del Sole fucilato da ignoti antifascisti in località Le Carde, di Orlandi Gherardo detto 'Crispino' ritenuto complice dell'uccisione di due giovani avvenuta a Malocchio ai tempi del primo squadrismo nel lontano 29 settembre 1922.
Come viene rievocato da Amleto Spicciani <71, accadde che il 5 settembre '44, mentre la città di Pescia veniva devastata dai genieri tedeschi in ritirata e si vedevano le brutali impiccagioni di civili lungo il fiume, una pattuglia di tedeschi e di militi repubblichini si mosse verso Malocchio per attuare una operazione di rappresaglia e di cattura dei soldati angloamericani che da mesi avevano trovato rifugio e protezione in quella zona. Si trattava di alcuni prigionieri inglesi fuggiti dai campi di concentramento di Lucca e di due piloti americani di un aereo alleato precipitato in località La Serra.
Dopo aver catturato Gino Ricciarelli e aver trovato nella casa di Stefano Lavorini un fucile dimenticato dai partigiani, i tedeschi uccisero sul colpo Mazzino Gigli che usciva dal bosco scambiato, solo per questo, per un partigiano. Uccisero poi, fuori della loro casa, Lida Menni e Laura Lavorini che aveva in bracco il figlio Aldo rimasto ferito al pari di Gina Papini e dell'anziana Bruna Lavorini. La generosa accoglienza ai prigionieri alleati portò la piccola frazione collinare a subire questa ultima violenza.
Ad ovest di Borgo a Buggiano, nella zona di Pescia, sporadici scontri fin dal mese di luglio avevano acuito la tensione delle truppe tedesche dopo l'uccisione di un loro soldato, avvenuta il giorno 21 a Vellano, ad opera di un partigiano. Il giorno 24 sulla via per Pietrabuona, a seguito di un lancio di bombe a mano all'interno di una cartiera che i tedeschi stavano perlustrando, un altro soldato tedesco era rimasto ucciso ed un terzo, gravemente ferito, all'indomani era morto all'ospedale di Pescia.
Questo stillicidio di assalti partigiani e di vittime tra le proprie file, come era prevedibile, acuì il desiderio di ritorsioni da parte dei tedeschi che intensificarono le loro perlustrazioni nell'intera area collinare della cosiddetta 'Svizzera pesciatina' per cui il 17 agosto a Vellano si ebbero altri due morti per parte nel corso di un violento scontro a fuoco tra tedeschi e partigiani. Il vescovo diocesano monsignor Simonetti, che aveva chiesto clemenza verso la popolazione civile direttamente presso Kesselring, nei giorni in cui, fino a metà luglio, questi stava a Monsummano, si rivolse ai parroci della Val di Nievole.
Il suo messaggio invitava i sacerdoti a capo delle varie parrocchie affinché dicessero a “quei ragazzi dei boschi”, cioè ai partigiani, di stare molto attenti a quello che facevano dal momento che i manifesti affissi dal Comando tedesco avvertivano che per ogni soldato tedesco ucciso dieci italiani sarebbero a loro volta stati fucilati. Ma ormai si era giunti alla resa dei conti tra l'ansia di cacciare i tedeschi e la ferocia con la quale questi difendevano palmo a palmo la loro ritirata. La via di fuga verso La Lima e l'Abetone per attestarsi sulla Linea Gotica era divenuto il più tormentato passaggio e obiettivo da dover raggiungere.
Tra il 17 e il 19 agosto era poi accaduto il caso di San Quirico. Due ufficiali tedeschi in località La Piana, mentre accompagnavano a casa un fascista che, sapendosi ricercato dai partigiani, aveva chiesto protezione a quegli ufficiali germanici, vennero uccisi da un gruppo di disertori tedeschi. Questo episodio avrebbe dato luogo ad una sanguinosa ritorsione che di seguito riferiamo nella testimonianza del sacerdote Vincenzo Del Chiaro costretto a presenziare alla fucilazione di venti persone.
«La sera del 17 agosto '44 in casa degli eredi di Eufisio Quilici di Pariana, casa posta in San Quirico, località La Piana, abitata da Salvatore Altiero sfollato da Livorno, si teneva una cena tra i dirigenti della Todt alla quale prendevano parte anche gli ufficiali tedeschi Flozet Iacchin, Fopp Fleinz e Cinbet Wichert, dei quali i primi due rimarranno uccisi nelle circostanze di cui appresso.
Nel frattempo, persone dal fare sospetto si aggiravano nei pressi della casa di Edoardo Consani nella quale, sfollato da Pescia, abitava Nello Scoti, repubblichino inviso ai partigiani e sospetto di possedere una radio trasmittente al servizio dei tedeschi della quale i partigiani volevano impossessarsi. Due ufficiali tedeschi si dissero disposti ad accompagnarlo fino a casa.
Lungo la strada che conduce ad Aramo, giunti nei pressi della casa del Consani, incontrarono sei tedeschi che, pur vestendo ancora la divisa militare, avevano disertato e si erano uniti ai partigiani che stavano nel paese di Medicina. Erano accompagnati da Roberto Darini e da un francese; il gruppo era invece capitanato dal ben noto Franz. Gli ufficiali tedeschi intimarono l'alt e dissero: 'Voi essere partigiani'. No, rispose Franz, 'noi camerati'.
Alla richiesta di documenti, Franz estrasse una pistola, mentre teneva quella d'ordinanza nella fodera, e fece fuoco contro i due ufficiali che non fecero in tempo a difendersi dal fulmineo gesto. Uno dei due morì sul colpo e l'altro appena raggiunto l'ospedale di Pescia. La mattina del 19 agosto il paese di San Quirico fu raggiunto da un reparto tedesco che lo circondò affinché nessun uomo tra quegli validi, che comunque si erano allontanati fin dal giorno precedente, ne uscisse fuori.
Il paese venne saccheggiato e poi messo a ferro e fuoco; 50 furono le case distrutte, 19 quelle incendiate, le altre danneggiate. Contemporaneamente l'ufficiale ordinò al pievano di far preparare nel cimitero una fossa capace di contenere 20 cadaveri mentre un altro reparto in prossimità di Pietrabuona fermava sulla via Mammianese un gruppo di 47 persone che, dopo essere state rastrellate e condotte alla Lima per eseguire fortificazioni sulla Linea Gotica, erano state mandate indietro perché risultate non idonee a quel lavoro. Tra queste vi era un solo residente del posto. Ne vennero scelti a caso 20 e avviati a San Quirico dove vennero fucilati in quattro gruppi davanti alla fossa comune». <72
Questo episodio si distingue per la sua tragicità che vede soldati tedeschi (disertori) che uccidono altri soldati tedeschi e quella di una rappresaglia nella quale morirono ben due decine di civili - tra i quali di abitanti della zona di Pescia, dove erano stati uccisi in località La Piana due ufficiali, ve ne era uno solo - civili che erano da poco tornati liberi dato che gli stessi tedeschi li avevano rimandati a casa, perché non più necessari al lavoro in corso sulla Linea Gotica.
Un assassinio a sangue freddo, perché fuori da ogni logica di rappresaglia per precedenti attacchi subiti dai tedeschi, fu invece quello compiuto il 14 settembre nel cimitero di Vellano dove una donna, Giuseppina Sansoni, venne uccisa da soldati tedeschi di passaggio mentre era china a pregare sulla tomba del figlio Vittorio, partigiano ammazzato giorni prima al ponte di Sorana. Brutale assassinio fu anche quello di due giovani donne livornesi, Iris Stiavelli e Miriam Cardini, mutilate e gettate in una fogna a Pietrabuona da un manipolo di soldati tedeschi “senza onore” mentre stavano risalendo la collina verso settentrione.
Nella sua rievocazione, Giorgio Calamari ricorda molti altri episodi accaduti nell'area pesciatina che portarono al sacrificio di cento e più vittime civili molte delle quali nell'imminenza della ritirata dei tedeschi, ma anche altri episodi precedenti come quella di impiccati, nella zona centrale del paese, appesi ai rami degli alberi lungo il fiume Pescia. Vittime di pattuglie tedesche in transito verso la Lima erano state il 5 settembre anche due donne a Malocchio e altri tre giovani alla Serra.
Il 6 settembre molte case di Pescia vennero minate da genieri tedeschi per ostacolare l'imminente avanzata degli Alleati. Nella circostanza rimasero uccisi i coniugi Orsucci e le vedove Magnani con le loro giovani figlie. Il 7 settembre a Collodi vennero giustiziati tre partigiani livornesi che operavano nella zona di Villa Basilica. Persino l'8 settembre, mentre Pescia veniva liberata dagli Alleati, una pattuglia tedesca tra Ponte di Sorana e Ponte a Coscia fucilava due giovani partigiani sorpresi armati mentre tornavano da una missione.
Nello stesso giorno altri soldati tedeschi sparavano e uccidevano tre uomini mentre cercavano di sottrarsi alla cattura. Infine in località Medicina venivano ammazzati due partigiani, Elio Mari e Foro Lenci. L'8 settembre Pescia fu finalmente liberata, ma i tedeschi, annidati sulla collina e non paghi del sangue che avevano fatto versare a decine di innocenti, nei giorni 12 e 13 continuarono a cannoneggiare il centro di Pescia causando ulteriori 14 vittime. <73
[NOTE]
71 Amleto Spicciani (don), Il 5 settembre 1944 a Malocchio di Buggiano, Stampria Vannini, Buggiano, 2008.
72 Vincenzo Del Chiaro, (don) Le tragiche giornate di San Quirico in Valleriana, in Memorie di guerra, Stamperia Benedetti, Pescia, 1944, trascitto in www. digilander/sanquiricoinvalleriana/eccidio.
73 Giuseppe Calamari, In memoria delle vittime pesciatine della barbaria nazifascista, Stamperia Benedetti, Pescia, 1945. Dino Birindelli, Pescia 1944. Tre giorni di settembre, Stamperia Benedetti, Pescia, 1984.
Vasco Ferretti, La resistenza nel pistoiese e nell'area tosco-emiliana (1943-1945). Rivisitazione e compendio di una terribile guerra di liberazione, guerra civile e guerra ai civili, Firenze, Consiglio regionale della Toscana, giugno 2018

venerdì 2 dicembre 2022

La missione che portò migliori risultati per la causa partigiana fu quella del 10 ottobre 1944

Marina di Massa, Frazione di Massa. Fonte: Wikipedia

Già dal mese di settembre [1944], con l'avvicinarsi delle truppe alleate alla zona di Massa, il GPA [Gruppo Patrioti Apuani] cercò di stabilire un contatto con i comandi americani. Furono allo scopo mandati sia via mare che attraverso i valichi delle Apuane delle missioni. L'obiettivo era rendere nota la grave situazione della popolazione civile di Apuania e spingere gli Alleati ad avanzare e ad armare le formazioni partigiane tramite lanci paracadutati. La prima missione inviata fu quella comandata dal tenente “Pippo”, Franco Guidi, composta dal capo squadra Bosi Raffaele e dai partigiani Natali Domenico e Bellè Alfredo. Per superare la linea del fronte venne scelto di passare dal mare. La notte del 14 settembre <380 partendo da Marina di Massa su una piccola imbarcazione, gli uomini riuscirono nell'impresa, nonostante venissero individuati e bersagliati dalle artiglierie tedesche.
Questa prima missione aveva il preciso scopo di richiedere un lancio per il GPA <381. Il giorno seguente partì un'altra missione guidata questa volta da Andrea Vatteroni, “Nino” <382 composta dal tenente Tognini Carlo e dal tenente Navarini. L'itinerario scelto per l'attraversamento del fronte era quello dalle montagne, partendo da Antona e dirigendo verso Montignoso e da qui a Ruosina. Partiti il 15 dopo varie peripezie, i partigiani decisero di cambiare rotta e puntarono anche loro sull'attraversamento via mare. Scopo della missione era quello di fornire notizie dettagliate delle postazioni tedesche nella zona della Linea Gotica. Fu a tale scopo disegnata una carta topografica. Subito intercettati dai tedeschi sulle montagne sopra al paese di Altagnana, dopo uno scontro a fuoco furono costretti a nascondersi sui monti nei pressi di Ripa perdendo contatto dal Navarini. Ormai impossibilitati a proseguire in quella direzione, scesero verso il mare e trovata una barca proseguirono. Durante la traversata l'imbarcazione imbarcò acqua ed affondò; a nuoto i due partigiani riuscirono a prendere terra fra il Cinquale e Forte dei Marmi, nella spiaggia di Vittoria Apuana. Arrivati a Viareggio il 21 settembre, vennero arrestati dai soldati americani ma riuscirono a fornire i disegni delle postazioni naziste <383.
La missione che portò migliori risultati per la causa partigiana fu quella del 10 ottobre, guidata da Gino Briglia, “Sergio” comandante della 5^ compagnia “Falco” del GPA. Partito da Antona con una decina di uomini <384 portava con sé un memoriale sulla situazione disperata di Massa, da consegnare al comando alleato:
“1- Sulle Alpi Apuane e precisamente nel centro della zona si trova e agisce il Gruppo Patrioti Apuani forte di circa mille uomini, costituito sotto l'attuale denominazione e con l'attuale sistemazione organica già da parecchi mesi. L'armamento è scadente specie per quanto riguarda le armi di reparto e il munizionamento scarsissimo.
2 - La popolazione della zona dichiarata militare che, secondo gli ordini tedeschi avrebbe dovuto sfollare a Pontremoli o nella Valle Padana si è invece riversata dopo il 15 settembre, donne e bambini in maggioranza, sulla montagna nei pressi dei nostri reparti con una scorta di viveri per circa una settimana, con indumenti leggeri da estate, senza possibilità di alloggio nei paesi per timore delle rappresaglie tedesche e quindi con sistemazioni provvisorie nei boschi, sotto grotte, capanne o addirittura all'aperto.
3 - La zona è, come risaputo, agrariamente fra le più povere d'Italia […] le poche risorse alimentari che esistevano al 15 settembre sono completamente esaurite […].
4 - Sono esauriti i medicinali che la formazione aveva con sé.
I numerosi cannoneggiamenti tedeschi di paesi e località ove era ricoverata la popolazione civile hanno causato vittime e feriti […]. Premesso quanto sopra posso asserire che la situazione della formazione è critica e quella della popolazione disastrosa. […] Militarmente la nostra attività è limitata dalla mancanza di armi pesanti di reparto e dallo scarso munizionamento anche delle armi individuali. Nella zona è piuttosto limitato.” <385
La missione fu frutto di una decisione presa in piena autonomia dal comandante Pietro [Pietro del Giudice] che ne informò il CPLN e la Brigata Garibaldi “U. Muccini” solo il giorno 12:
“Trovandoci tanto disorientati per lo strano arresto delle truppe alleate a pochi chilometri da noi, ho deciso di mandare ai rappresentanti del comando alleato una missione, comandata dal Tenente Sergio, con un memoriale in cui sono descritti brevemente le preoccupanti condizioni della zona per chiedere direttive ed aiuti. La missione si trova attualmente a Viareggio e dovrebbe ritornare salvo inconvenienti, domenica.” <386
Sergio, una volta giunto al di là delle linee, fu ascoltato dagli ufficiali americani ma non riuscì nell'intento di convincerli ad avanzare, né in quello di ottenere dei lanci per il GPA. Impossibilitato a rientrare, riuscì ad ottenere la fiducia dei comandi Alleati, soprattutto grazie all'incontro con il tenente dell'O.S.S. <387, Formichelli, che capì l'importanza di avere dei partigiani affidabili ed esperti conoscitori della zona, da impiegare sia come guide che come avanguardie dell'avanzata. Si avviò così il processo che portò alla nascita del Gruppo F 3388, composto dalle tre compagnie “Fulgor”, costituita a Forte dei Marmi il 14 novembre, “Falco”, nata il 27 dicembre a Seravezza, e la “Ferox” 16 gennaio a Stazzema. Le tre compagnie erano in gran parte formate da partigiani massesi affluiti in territorio liberato dopo il rastrellamento e i combattimenti del 2 dicembre. La “Fulgor” andò a sostituire il ruolo svolto da alcuni reparti partigiani versiliesi, in particolar modo la formazione Canova, poi ribattezzata “Tigre”, e la Bandelloni.
Il 3 novembre venne inviato oltre le linee il comandante della 2^ compagnia del GPA, il tenente Orlandi. Il tentativo di Pietro mirava a concordare con gli Alleati il passaggio delle linee di centinaia di partigiani del Gruppo, che avrebbero dovuto essere armati dagli americani nelle zone ormai liberate e poi reinviati in zona di guerra per guidare un'offensiva sulle Apuane. Del Giudice informò della missione, a cosa già avvenuta, il maggiore Oldham con una comunicazione datata 4 novembre:
“Caro Maggiore, avevo deciso di venire al Comando Divisione per mettervi al corrente di quanto ho potuto fare in obbedienza alle direttive fissatemi nell'ultimo nostro incontro se non chè una pattuglia americana proveniente dal fronte guidata dal comandante la formazione Tigre che combatte al fianco degli alleati, mi ha aperto una nuova possibilità di cui credo conveniente e doveroso tenerne conto. Si tratterebbe di passare il fronte in forze con almeno 300 uomini bene inquadrati per convincere i comandi di Viareggio a sferrare una piccola offensiva che dovrebbe portare a liberare ad una modifica del fronte sufficiente a liberare le popolazioni di Montignoso e Massa in condizioni veramente disperate. Di questa azione il nostro Gruppo, armato convenientemente (inutile aspettare quei lanci che non verranno: occorre andare di là ad armarsi, se almeno questo ci può venire concesso), è disposto a sopportare tutti gli oneri. Il passaggio del fronte non ci preoccupa, purché gli americani di Viareggio ci armino convenientemente siamo disposti a tutto.” <389
Questa strategia, pensata da Pietro, come visto, si realizzerà solo in parte con la nascita, qualche giorno dopo, della formazione “Fulgor” e poi, dopo il rastrellamento del 2 dicembre, con la costituzione delle altre due compagnie del gruppo F 3. Emerge, ancora una volta, la capacità di iniziativa di Del Giudice, abile nel capire, sia dal punto di vista militare che politico, l'evolversi della situazione. Ma appare con altrettanta chiarezza la ricerca di autonomia della formazione, incapace, nei suoi vertici, di rimanere semplice pedina all'interno di un piano militare stabilito da altri.
[NOTE]
380 Alcuni testi riportano come data della missione Guidi il 13 settembre ma due dichiarazioni presenti in archivio e firmate da alcuni dei partecipanti alla missione parlano esplicitamente della partenza la sera del 14: “Io sottoscritto tenente Franco Guidi “Pippo” dichiaro che la sera del 14 settembre fui inviato dal GPA in missione oltre il fronte via mare. […] durante il traffico essendoci accorti che la barca procedeva lentamente verso le linee alleate ed essendo stati avvertiti dalle sentinelle tedesche che dettero l'allarme a tutta la costa, tanto dalla Punta Bianca di La Spezia, fu lanciato un bengala e subito presi a bersaglio da colpi di cannone.” AAM busta 5, fascicolo 27.
381 La notizia è ricavata dal manoscritto di Andrea Vatteroni, “Nino”, che incontrò il Guidi a Viareggio.
382 Vatteroni divenne in seguito il comandante della compagnia “Fulgor” del Gruppo F 3. compagnia costituita il 14 novembre 1944 a Forte dei Marmi con lo scopo di affiancare le truppe Alleate.
383 Le notizie sulla missione Vatteroni sono ricavate dal manoscritto, A. Vatteroni, Pagine dal diario di un partigiano, AAM busta 25, fascicolo 23.
384 Dalle pagine del manoscritto del Vatteroni sappiamo anche i nomi dei nove partigiani che accompagnarono “Sergio” e sono: Piero Masnadi, Sandro Bonini, Vincenzo Rossi, Pietro Bigarani, Mario Conti, Ovidio Buffoni, Francesco Badiali, Francesco Giusti, Bengasi Tongiani. Assieme a loro il partigiano pisano Luciano Ceccotti, ferito il 16 maggio nell'attacco della formazione di “Tito” al paese di Altagnana, e due ufficiali inglesi il colonnello Gordon De Bruyne e il capitano Browne.
385 AAM busta 33, fascicolo 1.
386 AAM busta 20, fascicolo 2.
387 Sigla dell'Office of Strategic Services, servizio segreto americano antesignano della CIA, costituito nel giugno 1942 con lo scopo di raccogliere ed analizzare informazioni e per svolgere operazioni speciali. Notizie dettagliate sull'organizzazione OSS nel settore apuano si trovano nel saggio G. Cipollini, La Linea Gotica - settore occidentale 1943-45, atti del convegno di studi, pubblicato nel sito web ANPI Versilia che riporta: “L'attività della F 3 rientrava nell'area di competenza del Fifth Army Detachement, di cui era responsabile il maggiore Vincent Abrignani, dal quale dipendeva il Forth Corp Detachment, comandato dal maggiore Stephen Rossetti. Dei quattro reparti che lo costituivano, il primo indicato con la lettera A doveva occuparsi dei rapporti con i partigiani ed aveva il comando a Viareggio. Dall'inizio di novembre al 13 marzo 1945 fu guidato dal capitano James Manzani, quindi dal maggiore Frank T. Blanas. I primi contatti con i partigiani versiliesi dopo la liberazioni erano stati tenuti dal tenente Michael Formichelli.” pp. 7-8. Altre e maggiori notizie in Eserciti Popolazione e Resistenza sulle Alpi Apuane, cit. che contiene il saggio di G. Petracchi e R. Vannucci, Rapporti delle formazioni apuane con gli Alleati. Petracchi spiega come l'O.S.S. fosse composto da due strutture nel proprio lavoro sul fronte italiano: la Secret Intelligence Branch guidata da Vincent Scamporino e da Max Corvo e il Fifth Arm Detachment creato nel luglio 1943 con scopi tattici per sostenere l'avanzata della V^ armata.
388 Comandante del Gruppo F 3 fu Loris Palma, “Villa”, vice comandante Gino Briglia, “Sergio”.
389 AAM busta 24, fascicolo 1
Marco Rossi, Il Gruppo Patrioti Apuani attraverso le carte dell'archivio A.N.P.I. di Massa. Giugno - Dicembre 1944, Tesi di laurea, Università di Pisa, 2016

venerdì 25 novembre 2022

Il maggiore Wilkinson fungeva da collegamento diretto tra le truppe alleate e le forze della Resistenza nel Veneto

Venezia. Foto: S.M.

Nell'agosto del 1944 furono paracadutate alcune squadre che dovevano operare nella zona di Rovereto (guidate dal maggiore Ferrazza), sull'altopiano di Asiago (guidate dal maggiore John Prentice Wilkinson “Freccia”, che venne paracadutato proprio nella notte tra l'11 e il 12 agosto nella zona di Granezza), sul Grappa (capitano Brietsche), nel bellunese (maggiore Tilman).
Il maggiore Wilkinson, che venne poi ucciso, <17 fungeva da collegamento diretto tra le truppe alleate e le forze della Resistenza nel Veneto.
Dalle parole di “Colombo” <18: “Quando la Missione fu lasciata vicino a Monte Paù nella notte del 12/13 agosto, era formata da tre persone: Maggiore John Wilkinson (“Freccia”), io (allora Tenente, ma più tardi Capitano “Colombo”), Caporale (più tardi Sergente) Douglas Archiblad (“Arci”)...Lo scopo principale di missioni come la nostra, che erano mandate a lavorare con le principali formazioni partigiane italiane nelle zone montane del nord e centro Italia, era di cercare per quanto possibile di coordinare le attività con quelle delle maggiori forze alleate.” <19
[...] A Venezia, dopo le prime figure antifasciste di rilievo (Trentin, Borin, Luzzato) la Resistenza sembrò acquisire nuova forza dopo il 25 luglio del 1943. La città lagunare era animata da socialisti (Emilio Scarpa, Tonetti, Lombroso, Rossi, Giancarlo Matteotti) e comunisti (Pizzinato, Trevisan, Turcato), ma anche dagli azionisti organizzati da Egidio Meneghetti (rettore all'università di Padova). Molti insegnanti dell'università Ca' Foscari (Trentin, Luzzato, Longobardi, Rigobon, Armanni) aderirono al manifesto di Benedetto Croce.
Gli antifascisti erano particolarmente attivi, se si pensa che alcuni gappisti, capeggiati da Giuseppe Turcato, riuscirono a impadronirsi per alcuni minuti del teatro Goldoni, interrompendo lo spettacolo e lanciando dal palco la loro critica al fascismo (12 marzo 1945). “Se in teatro c'è qualche spia o traditore fascista venga fuori, che avrà piombo patriottico...” <20 diceva Ivano Chinello “Cesco” al pubblico sorpreso del teatro.
Grande rilevanza ebbe la bomba che i partigiani misero a Ca' Giustinian (26 luglio 1944). In tale attentato rimase ucciso un soldato, dato che il palazzo era sede del comando provinciale della Gnr (Guardia nazionale repubblicana). La reazione fu durissima e tredici persone verranno fucilate per rappresaglia dai fascisti sulle macerie dello stesso palazzo.
La resa tedesca venne firmata a Venezia il 29 aprile 1945; gli alleati arriveranno solamente il 2 maggio in città.
Grosso contributo alla Resistenza venne anche dai centri della terraferma; a Mirano, Portogruaro, Cavarzere si formano Cln locali. Importanti furono anche le azioni di sabotaggio alla ferrovia di Mestre.
Nel Polesine e in provincia di Rovigo l'organizzazione resistenziale assume alcuni tratti caratteristici, legati soprattutto alla conformazione del territorio (pianeggiante, scarse protezioni naturali, molte vie d'acqua).
Un aiuto consistente alla Resistenza viene dunque dai contadini e da tutte quelle persone legate al lavoro nei campi. Anche qui, però, come nelle altre province, i partigiani si organizzarono con la brigata “Silvio Trentin“, la brigata “Maurizio Martello” e alcuni gruppi di Gap e Sap. Anche qui, puntualmente, il tributo di sangue fu pagato in modo particolarmente brutale il 15 ottobre del 1944, quando vennero uccisi nell'eccidio di Villamarzana 42 persone, tra partigiani e civili, come vendetta in seguito al ritrovamento dei cadaveri di 4 fascisti.
La città di Treviso fu decorata con la medaglia d'oro al valore militare. In città il 12 settembre, quattro giorni dopo il proclama di Badoglio, veniva riaperta la Federazione provinciale fascista. Le zone montuose sopra la città vedranno la concentrazione dei primi partigiani.
Le formazioni che qui nascono saranno impegnate negli scontri violentissimi sul Monte Grappa e sull'Altopiano del Cansiglio. Operano a Treviso e provincia formazioni garibaldine; nell'aprile 1945 c'era la divisione “Nannetti”, al confine tra Belluno e Udine, la divisione “Sabatucci”, la divisione “Monte Grappa” al confine con Vicenza e Padova. Una figura di grande rilievo per la Resistenza nel Trevigiano fu inoltre quella di Primo Visentin “Masaccio”, che diceva: “Forse è mio destino cadere prima di raggiungere la vetta, e cadere da solo; ma nella mia caduta mi si troverà con gli occhi rivolti al sole, con nella mano stretti tenacemente i fiori dei miei ideali.” <21
La Resistenza padovana fu invece incentrata e organizzata soprattutto all'interno dell'università della città, o comunque da personalità legate al mondo accademico, tanto che all'università di Padova, unica in Italia, venne assegnata nel dopoguerra la medaglia d'oro al valore militare. Nei giorni seguenti l'armistizio Silvio Trentin, (già professore a Ca' Foscari), Concetto Marchesi e Egidio Meneghetti, rispettivamente rettore e prorettore dell'università patavina, organizzano il Cln Veneto (dotato anche di una sua propria pubblicazione, ”Fratelli d' Italia”) che aveva la sua sede a Padova nel palazzo Papafava.
Oltre all'università operano anche altri protagonisti. Il partito comunista aveva insediato a Padova la delegazione triveneta delle brigate “Garibaldi”; squadre di Giustizia e Libertà, guidate dall'ingegnere Otello Pighin, si dedicavano ad attentati e sabotaggi a fabbriche e mezzi di comunicazione. Arrivarono anche ad incendiare la sede, in uno studio dell'università, del giornale studentesco fascista “Il bò”.
A Padova operava anche la banda fascista chiamata “Carità“ (dal nome di Mario Carità). Dopo un trascorso in Toscana, la banda scelse come sua sede il Palazzo Giusti, continuando nel tentativo di indebolire la Resistenza, tramite frequenti torture e uccisioni.
Padova insorge il 28 aprile; il giorno dopo l'esercito nazista in fuga darà prova della sua ferocia uccidendo 127 persone tra S. Giorgio in Bosco, S. Martino di Lupari e Villa del Conte.
La provincia di Verona fu una zona verso la quale le truppe naziste e fasciste nutrirono sempre un grosso interesse. A Salò e dintorni avevano trovato sede i principali uffici della Rsi.”Verona diventa la città più nazistizzata d'Italia. Alberghi, ospedali, uffici diventano sedi dell'attività repressiva tedesca, i vecchi forti austriaci sulle colline diventano carceri dove saranno rinchiusi i patrioti” <22
Il 14 novembre 1943 veniva emanato il manifesto di Verona che in 18 punti dettava le linee guida della neonata Repubblica sociale italiana. Sempre a Verona si insediò il comando di tutte le forze di polizia naziste in Italia (Gestapo, Ss) al comando di Wilhelm Harster.
Nella città si alternano, a causa delle defezioni provocate dalla repressione, tre Cln. Nella Lessinia orientale opera la divisione “Pasubio”, guidata da Giuseppe Marozin “Vero”, figura discussa della Resistenza veneta. Sul monte Baldo è poi molto attiva la divisione garibaldina “Vittorio Avesani”.
L'azione forse più temeraria della resistenza veronese è da attribuirsi ai Gap, che il 17 luglio 1944 riuscirono a liberare dal carcere degli Scalzi un loro compagno, Giovanni Roveda, che diventerà primo sindaco di Torino del dopoguerra.
Vicenza e la nascita delle brigate garibaldine “Ateo Garemi”
La zona di Vicenza è quella su cui, per ovvi motivi, mi sono soffermato maggiormente. Bruno Viola, nato a Vicenza il 6 settembre 1924, faceva parte delle formazioni garibaldine “Ateo Garemi”.
Si può correttamente affermare che la Resistenza vicentina fu “egemonizzata” dalle formazioni garibaldine, senza con ciò voler sottovalutare l'importanza delle altre formazioni.
Il Cln vicentino nacque il 20 settembre, formato da rappresentanti di tutti i partiti: Domenico Marchioro e Emilio Lievore per il P.C.I, Segala per il P.S.I.U.P, Ettore Gallo, Mario Dal Prà per il partito d'azione, Andrea Rigoni. Dipendeva dal Cln il Comitato militare provinciale (Cmp) ed entrambi riferivano la loro azione al Clnai (Comitato di liberazione nazionale alta Italia).
Questo primo Cln durò per tutto il 1944, fino a dicembre quando i suoi membri furono quasi tutti arrestati.
Si tenga comunque presente che i primi Cln, locali e provinciali, nascevano come aggregazione di quei gruppi e comitati antifascisti che per primi si erano mossi, in qualche caso già prima del 25 luglio, per dare un'organizzazione all'opposizione al fascismo.
La situazione era, come facilmente comprensibile, in continua evoluzione; pur apparendo semplicistico e riduttivo mi sembra importante offrire un riassunto delle forze resistenziali e delle relative zone d'operazione.
Le prime formazioni partigiane operavano e si erano sapientemente divise il territorio già ad inizio 1944.
A fine guerra si contano 3 divisioni partigiane.
Sono la “Vicenza”, la “Monte Ortigara” e la “Garemi”. <23
[NOTE]
17 Egidio Ceccato, “Freccia, una missione impossibile. La strana morte del maggiore inglese J.P. Wilkinson e l'irresistibile ascesa del col. Galli (Pizzoni) al vertice militare della Resistenza veneta, Cierre EdizioniIstresco, Verona 2004
18 Christopher Woods
19 Lettera agli autori di Christopher Woods “Colombo”, in Sergio Fortuna, Gianni Refosco, Tempo di guerra. Castelgomberto: avvenimenti e protagonisti del secondo conflitto mondiale e della Resistenza, Odeonlibri Ismos, Schio, 2001, pag. 177-178
20 Giuseppe Gaddi, I comunisti nella Resistenza veneta,Vangelista Editore, Milano, 1977, pag. 182
21 Umberto Dinelli, La guerra partigiana nel Veneto, Marsilio Editori, Venezia, 1976, pag. 147
22 Ivi pag. 149
23 Alcune formazioni della “Garemi” vennero in seguito elevate a divisioni
Francesco Corniani, Un marinaio in montagna. Storia di Bruno Viola e dell’eccidio di Malga Zonta, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari, Venezia, Anno accademico 2009-2010

sabato 22 ottobre 2022

Di tanto in tanto i briganti neri attraversavano Bologna su camioncini

Bologna: Via Malaguti. Fonte: mapio.net

Ai primi del dicembre 1944, le forze tedesche e fasciste di Bologna, riavutesi degli scacchi subiti il 7 ed il 15 novembre dello stesso anno, erano passate decisamente al contrattacco con notevole successo.
Particolarmente attive erano le forze di polizia dirette dal Questore Fabiani, che si era trincerato nel grande palazzo d’angolo fra via Rizzoli e via Castiglione, e da quel suo fortilizio dirigeva un’azione accorta e spietata contro i partigiani.
L’aspetto della città era mutato e si era trasformato in quello di una piazzaforte. Tutte le vie d’accesso al nucleo urbano erano state chiuse da muri e da reticolati; soltanto in corrispondenza delle porte era rimasto un passaggio per il tram e per gli autoveicoli, sorvegliato da soldati tedeschi e da poliziotti italiani. Le caserme delle brigate nere, la casa del fascio, la residenza del Questore e tutti gli uffici pubblici in genere erano cinti di filo spinato, con opere di protezione in muratura fornite di feritoie, con postazioni di mitragliatrici, con riflettori, con cavalli di frisia, che sbarravano tratti di strada.
Di tanto in tanto i briganti neri attraversavano la città su camioncini, tenendo le armi automatiche puntate sui passanti. I tedeschi avevano dichiarata zona proibita, « Sperrzone », per i loro soldati la città vera e propria e così era ben rarò che se ne incontrasse uno; ritenevano molti che il comando germanico avesse voluto chiudere nella «Sperrzone» partigiani e fascisti perchè si distruggessero a vicenda. Si sussurrava anche che Kesserling avesse inviata a Bologna una compagnia di carristi tedeschi per la lotta antipartigiana e che questa compagnia avesse debuttato, in modo veramente non molto felice, nei combattimenti della Bolognina.
Uscendo dalla Città e spingendosi alla periferia, sulle strade principali che conducevano al fronte, distante pochi chilometri dal lato dell’appennino e parecchi da quello della Romagna, passavano spesso isolati di giorno, in colonna di sera, dei militari tedeschi per lo più a piedi, qualche volta in bicicletta. Alla notte transitavano su carrette trainate da cavalli, dando un’impressione di miseria, di sfacelo e di cocciutaggine a chi ricordava le eterne colonne motorizzate, che pochi mesi prima avevano percorso le stesse strade per raggiungere il fronte di Cassino.
Nei quartieri spesso diroccati, posti fra le vie principali, erano sistemati i reparti partigiani, che cercavano faticosamente di riorganizzarsi e di sfuggire al controllo delle varie polizie.
Per poter dirigere la lotta della nostra Brigata (7ª G.A.P.) da un luogo relativamente sicuro, trasportai il comando in via Malaguti N. 31, in un appartamento all’ultimo piano. Avevo scelto quel domicilio perchè si trovava fuori dalla cinta urbana ed in un angolo morto di Bologna; infatti via Malaguti si unisce a via Zanolini e assieme formano un’ansa che congiunge due punti del viale di circonvallazione fra Porta Zamboni e porta San Vitale. La casa scelta era l’ultima di via Malaguti, si trovava proprio all’estremità dell’ansa e, non essendovi quasi mai passaggio di persone per quel punto della strada, si poteva agevolmente controllare la via e, in certo qual modo, prevenire sorprese ed appostamenti polizieschi.
Non appena mi fui trasferito, incominciò il lavoro di riorganizzazione della Brigata che, dal 15 novembre ai primi di dicembre era entrata in crisi. I tedeschi infatti, dopo aver catturato un gruppetto di sappisti, ne uccisero il comandante Mosca ed alcuni componenti, risparmiando coloro che accettarono di entrare al loro servizio, E questi ultimi, scortati da agenti delle SS, presero a pattugliare le vie della città, per far arrestare ogni partigiano che eventualmente incontrassero e riconoscessero. Questo rendeva molto pericoloso ogni spostamento di uomini e poneva in difficoltà anche i collegamenti.
Era in quei giorni ben viva in tutti l’angosciosa impressione suscitata dall’assassinio di quattro notissimi cittadini (prof. Busacchi, avv. Maccaferri, avv. Svampa, industriale Pecori) e già si sussurrava che erano pronte liste di proscrizione per uccidere o deportare in Germania i più eminenti professionisti.
In quest’atmosfera d’incertezza riprendemmo il nostro lavoro; come obbiettivo immediato avevamo la ricerca dei nostri sbandati, il loro inquadramento nei reparti e la sistemazione di questi ultimi in luogo sicuro, perchè potessero riacquistare rapidamente la loro efficeriza combattiva.
Stabilimmo anche un comando accessorio in via Ca’ Selvatica 8/2, da Nazzaro, dove risiedeva l’ufficiale di collegamento Giacomo. Al mattino del 5 dicembre mi recai nella suddetta casa e trovai Giacomo che usciva per recarsi ad un appuntamento con il vice comandante di Brigata, Biondino. Mi promise che sarebbe ritornato alle quattordici, rimasi ad attenderlo, ma all’ora fissata non giunse; il comandante Luigi, arrivato nel frattempo, avanzo l’ipotesi che Giacomo si fosse improvvisamente ammalato ed avesse raggiunta la sua famiglia io invece pensavo al peggio. Aspettammo fino al mattino uccessivo, poi ce ne andammo, ma il dubbio che fosse caduto nelle mani dei nemico era divenuto certezza.
Da via Ca’ Selvatica ci portammo in via Duca D’Aosta, nell’infermeria, dove erano ricoverati 17 feriti dei combattimenti del novemìbre, curati dal capitano medico austriaco Alexander che aveva disertato alcuni mesi prima dall’esercito tedesco ed era passato nelle nostre file. Controllato il buon andamento dell’infermeria, uscimmo ed entrammo in città da porta Sant’Isaia, sorpassando un infinità di carri e carretti tirati da buoi da cavalli da uonuni e carichi di masserizie che affluivano a Bologna dopo lo sfollamento coatto ordinato dai tedeschi nei paesi pedemontani. All’inizio di via Sant’Isaia, presso lo sbocco di via Pietralata proveniente da via Pratelio osservammo che un piccolo gruppo di persone sostava, guardando con curiosità e con timore, ci avvicinammo e vedemmo che via del Pratello era tutta bloccata dalle Brigate Nere. Il nostro pensiero corse subito a Paolo, il vice comandante di Brigata che vi abitava.
Ad un tratto i militi avanzarono verso il gruppo di curiosi, cui ci eravamo mischiati, ed il gruppo si dileguò rapidamente.
Anche Luigi ed io ci salutammo; nel rientrare in via Malaguti, riflettevo sul fatto che in due giorni avevamo perduti i due vice, comandanti di Brigata e l’ufficiale di collegamento. Era pertanto urgente chiudersi nella cospirazione più stretta e passare al contrattacco per generare un po’ d’incertezza nel campo nemico, che, fino a quel momento, dimostrava di esser compatto e ben guidato.
Mentre stavamo prendendo le prime disposizioni per attuare il programma, cominciarono a giungerci cattive notizie da tutti i reparti: ogni giorno qualcuno dei nostri cadeva nelle mani della polizia, diventando una vittima o un provocatore.
Apprendemmo che anche due dei più valorosi gappisti Tempesta e Terremoto erano rimasti nella rete delle SS.
Il 12 dicembre le Brigate Nere piombarono sull’infermeria: personale d’assistenza e feriti arrestati, seviziati e trucidati, tranne il capitano medico austriaco, che si offrì di cercarci, sperando di salvare la propria vita col consegnare la nostra.
In queste condizioni estremamente difficili ricostituimmo i quadri dirigenti, primo passo per arrivare alla riorganizzazione dei reparti ed alla lotta. Libero e Aldo vennero nominati vicecomandanti di Brigata, il posto di ufficiale di collegamento fu assunto dal ravennate Alberto, arrivato in quei giorni da Ferrara, dopo essere sfuggito con audacia alla cattura da parte delle Brigate Nere. Nella casa di via Malaguti, dove tenevo il comando e dove vivevo con la famiglia, tutti i coinquilini, che mi conoscevano con il nome buono e credevano che esercitassi ancora la mia professione di medico, mi creavano attorno una certa atmosfera di sicurezza e di legalità, che, in quei momenti, era preziosa.
Ogni sera la famiglia del piano di sotto, antifascista, saliva da noi ad ascoltare radio Londra e a commentare gli avvenimenti del giorno. Questa condizione di legalità era preziosa e bisognava mantennerla, perciò l’accesso alla casa venne limitato alle persone più fidate, con cui era indispensabile riunirsi per un buon funzionamento del comando.
Venivano: Luigi, che passava per un medico mio amico, il comandante generale Dario, che promovemmo professore, la staffetta Diana, pseudo sarta di mia moglie, Libero, sedicente allievo della facoltà di medicina, e infine Pietro, che, per il suo aspetto dimesso, veniva presentato come l’uomo che porta la spesa ed aiuta nelle faccende di casa.
A mezzo dicembre si seppe che certa Lidia Golinelli (Olga, Vienna), staffetta, era stata catturata assieme al partigiano Formica. Il giovane subito passato per le armi, la ragazza risparmiata ed assunta in servizio dall’ufficio politico investigativo fascista. Lo stesso giorno Alberto dovette fuggire da Bologna perchè individuato da alcuni suoi concittadini fascisti.
Ci chiudemmo in una ancor più stretta cospirazione, mutando anche il nome di battaglia: Luigi divenne Rolando, io Africano, Dario si cambiò in Ciro e Pietro in Rachele. Gli uomini, che da quel momento non ebbero più con noi contatti diretti, ricevettero la comunicazione che i comandanti erano cambiati e che, in considerazione della gravità del momento, era opportuno esercitare l’azione di comando attraverso ordini scritti.
Però, malgrado ogni provvidenza, i compagni continuavano a cadere: uno, due quasi tutti i giorni. Ora era la volta dell’Ada, che uscita per acquistare i viveri ad una squadretta, veniva riconosciuta e prelevata da un reparto di polizia. Ormai sembrava che bastasse affacciarsi all’uscio di casa, per essere impacchettati e portati al fresco.
I piccoli nuclei superstiti ebbero il divieto di uscire dalla base, chè noi avremmo provveduto a tutto. Sostituimmo anche le staffette femminili con elementi nuovi e sconosciuti. Ci occorreva però un uomo che fungesse da tessuto connettivo fra questi vari gruppi, che li vettovagliasse, che trasmettesse gli ordini scritti, che fosse in grado di passare inosservato per ogni via della citià, che potesse entrare in tutte le case senza destar sospetti.
E Pietro incominciò la sua opera di ragno paziente, tessendo solidi fili fra le diverse basi.
Pietro era ricercato dalla polizia con il suo nome vero di Orlandi Diego, non solo, ma molti agenti giravano per la città con la sua fotografia in tasca per riconoscerlo, se per caso lo avessero incontrato, e catturarlo. Pietro però era il miglior cospiratore che io abbia conosciuto. Tutti ignoravano allora il suo nome buono, nessuno sapeva dove dormisse e dove mangiasse. Puntualissimo ai convegni, vi compariva sbucando all’ultimo momento dalla più impensata via d’accesso. Non pronunziava mai una parola più del necessario.
Eravamo d’inverno, la neve, caduta abbondantemente, non era stata rimossa ed aspettava di sciogliersi al sole, e fra la neve, talvolta spingendo un ciclofurgone, tal altra a piedi con una sporta in mano, avvolto nella capparella comune ai nostri contadini, con sul capo un berrettino senza visiera, puntualmente, ogni pomeriggio vedevamo arrivare Pietro, ed il suo arrivo ci dava il senso della continuità e della marcia fatalmente sicura della nostra lotta.
Piuttosto piccolo, dimesso, silenzioso, con un aspetto così umile da non essere notato, Pietro passava dovunque senza incontrare inconvenienti. Del resto aveva ormai una lunga esperienza, tutti i partigiani lo conoscevano di soprannome e di fama, tutti avevano per lui un affettuoso rispetto.
Entrato nella 7ª Brigata G.A.P. poco dopo la costituzione dell’unità, venne destinato, per le sue qualità di ottimo meccanico, alla fabbricazione degli oridigni esplosivi e, accessoriamente, ai servizi di rifornimento in generale. Distese allora una fitta rete di magazzini attraverso tutti i quartieri cittadini, magazzini di cui egli solo conosceva l’ubicazione, destinati a depositi di viveri, di equipaggiamento, di armi, e creò il laboratorio per la fabbricazione degli ordigni esplosivi in via Jacopo della Quercia, laboratorio in cui egli ed i suoi aiutanti confezionavano quegli strumenti di lotta che non servivano soltanto per Bologna, ma per tutta l’Emilia e spesso partivano anche per 1’Italia del Nord.
Quando ci si recava al laboratorio, si vedeva Pietro tranquillo, che lavorava fra casse di tritolo, assistito di solito da Sergio, più raramente da Piccio o da Stefano; lavorava con calma, con pazienza, con metodo, ed esigeva che anche durante i bombardamenti aerei anglosassoni qualcuno rimanesse in laboratorio per impedire che qualche ladro, di quelli che dopo i bombardamenti si abbandonavano al saccheggio, non entrasse nell’appartamento e non scoprisse ciò che era il più geloso segreto della Brigata. I suoi aiutanti arricciavano un poco il naso perchè via Jacopo della Quercia è vicina alla stazione ferroviaria e pertanto al centro di una zona bombardatissima; ma l’esempio del loro capo li costringeva alla disciplina e ve li costrinse anche il giorno in cui una bomba distrusse metà del fabbricato in cui lavoravano. Pietro confezionava ordigni esplosivi di tutti i generi, bombe a miccia, a tempo, a percussione, scatolette per far saltare locomotive in corsa, bottiglie incendiarie da lanciare sugli autocarri; l’arte degli esplosivi non aveva per lui alcun segreto.
Pietro dirigeva anche la riproduzione e la diffusione del materiale di propaganda e dei giornali clandestini, Pietro provvedeva al vettovagliamento della Brigata, Pietro curava che gli uomini avessero le scarpe, i vestiti, le munizioni.
Si diceva che Pietro fosse avaro e i vecchi partigiani giurano ancor oggi che Pietro era avaro, mentre era soltanto un equo e parsimonioso distributore delle nostre magre risorse. Affermavano che si faceva pregare perfino per dare le bombe, mentre voleva essere certo che non andassero sciupate e, prima di mettere in circolazione qualche nuovo tipo, lo collaudava personalmente, di solito contro installazioni ed automezzi tedeschi.
La mattina del 7 novembre Pietro, con un furgoncino carico di bombe, stava dirigendosi verso la base di via del Macello, accerchiata proprio in quel momento dalle Brigate Nere, che lo bloccarono e lo chiusero, assieme al suo accompagnatore Piccio, in un grosso edificio in cui erano raccolti altri rastrellati. Fortunatamente i militi indugiarono prima di verificare il contenuto del furgoncino e Pietro, col suo aiutante e con due partigiane che si trovavano fra rastrellati, scalando muri, calandosi da finestre, entrando in cantine, riuscì a prendere il largo. Il giorno dopo le pattuglie tedesche e fasciste di vigilanza non solo controllarono il contenuto dei furgoncini, ma anche quello delle sporte e perfino delle borsette da donna.
Così Pietro, ricco della passata esperienza, divenne l’assiduo collegamento fra noi e gli uomini immobili nelle basi, mentre Gino, che aveva sostituito Alberto, si occupava di stabilire la rete delle nuove staffette femminili, e Libero preparava al combattimento gli uomini più ardimentosi, che vennero riuniti nella « squadra di polizia ».
Ma i successi nemici continuavano: i gappisti Fulmine e Ciclone; che si erano azzardati ad uscire, vennero attaccati. Fulmine rimase ucciso, Ciclone ferito e prigioniero. Battista, che già aveva abbozzato coi suoi uomini qualche contrattacco ai reparti fascisti, venne incontrato da Olga, che lo fece uccidere dai militi che l’accompagnavano.
La morte di Battista fu 1’ultimo dei colpi avversari perchè ormai i nemici erano stati individuati e gli uomini, squadra di polizia in testa, desideravano il combattimento. Pietro, nel suo continuo peregrinare, era riuscito ad appurare che la cattura di Giacomo e del Biondino era avvenuta in via Sant’Isaia, su indicazione del traditore Giulio Cavicchioli, già appartenente alla squadra Mosca. Mentre i due gappisti venivano tradotti in carcere, Giacomo tentava di fuggire e rimaneva ucciso. La cattura di Paolo restava un mistero, ma non restava un mistero la sua fine eroica. Egli ammise di essere il gappista Paolo, non solo, ma affermò di farsi chiamare anche Luigi, in modo da raccogliere su di sè le responsabilità del comandante di Brigata. Venne fucilato.
Ormai sapevamo che il maggior pericolo era rappresentato dai tre traditori che ci andavano cercando per le vie della città, fortemente scortati da tedeschi e da fascisti: Olga, Cavicchioli e il capitano medico austriaco. Di quest’ultimo si apprese, sui primi di gennaio, che, avendo fatto arrestare soltanto qualche gregario partigiano, non veniva giudicato abbastanza utile dalle SS. le quali lo portarono alla Certosa e lo soppressero.
Muovendoci con molta precauzione, verso il dieci gennaio lanciammo all’attacco la squadra di polizia, comandata da Italiano, che in pochi giorni aprì qualche vuoto nelle file nemiche senza subire perdite.
Incoraggiati, demmo l’ordine di attaccare anche ai distaccamenti di Anzola, Castelmaggiore, Castenaso, Medicina, mentre in città si costituivano altre squadre, che entravano immediatamente in azione.
Allora si vide nettamente quanto fosse effimera la forza tedesca e fascista, che, non avendo capacità di difesa diretta, anticipò per qualche giorno il coprifuoco dalle 20 alle 18, iniziò rastrellamenti in grande di interi quartieri, bloccò strade e piazze per controllare l’identità dei passanti, impose l’affissione davanti alle porte degli appartamenti di un cartello col nome degli occupanti. Ma tutte queste misure valsero soltanto a rendere solidale con noi la popolazione, che sentiva in modo sempre più chiaro il peso dell’occupazione straniera.
La vita di comando, con lo svilupparsi della nostra offensiva, aveva ripreso una sua regolare serenità.
“Jacopo” Aldo Cucchi (Commissario Politico 7ª G.A.P.), Pietro l’artificiere in (a cura di) Antonio Meluschi, Epopea partigiana, ANPI dell’Emilia Romagna, 1947, op. qui ripresa da Istituto Parri

domenica 16 ottobre 2022

Dove era operante una compagine di partigiani comandata da Vittò

Una vista su Taggia (IM) e, a sinistra, su Castellaro. Foto: Eraldo Bigi

Con la Repubblica di Salò si formarono le Brigate Nere [n.d.r.: a quella data per la RSI era attiva la G.N.R., non ancora le Brigate Nere, perlomeno intese in senso con questa denominazione ufficiale] che sparsero il terrore in gran parte d’Italia. Intanto nel novembre 1943 fui chiamato alle armi. Essendo della leva di mare dovevo presentarmi a Vercelli il 20 novembre per essere arruolato nella Decima Mas e inviato in Germania per un periodo d’istruzione: Così era scritto nella cartolina precetto, ma non avevo ancora compiuto 19 anni ed era molto difficile prendere delle decisioni. Avevo molte amicizie fra gli antifascisti e questi mi consigliarono di non partire: unitamente ad altri commilitoni, anche loro chiamati alle armi, decidemmo di nasconderci sui monti che sovrastavano la nostra città. Così abbiamo fatto: ci siamo rifugiati in una casetta di proprietà di uno dei compagni di ventura. Ci portavano da mangiare i nostri parenti con grave rischio per tutti, per cui subito dopo Natale nel gennaio 1944, avuta notizia che sui monti sopra Sanremo si andava costituendo le prime formazioni partigiane, abbiamo deciso di raggiungere quelle località per unirci a quei gruppi combattenti. Eravamo armati con armi recuperate, quando dopo l’8 settembre, i militari avevano abbandonato le caserme, molte delle quali dislocate proprio a Taggia, zona limitrofa al confine di stato. Abbiamo deciso di abbandonare il nostro precario rifugio e siamo partiti per Baiardo (piccolo paese di 900 abitanti sito nell’entroterra di Sanremo). La strada era lunga una quarantina di km, compiendo il seguente percorso: Taggia - Badalucco - Ciabaudo - Vignai - Baiardo, senza mai percorrere le strade carrozzabili passando sempre lungo i boschi limitrofi alle strade principali. Arrivati a Baiardo avevamo già i nomi dei compagni di quella località, che ci hanno ospitato nei loro casolari, uno fra tutti “Garibaldi” [Giuseppe Gaminera] come nome di battaglia. Lungo il percorso siamo stati aiutati e rifocillati dai contadini di quelle borgate che dobbiamo ringraziare per sempre. Dopo alcuni giorni i compagni di Baiardo ci hanno accompagnato a Carmo Langan a 1727 metri di altitudine, dove era operante una compagine di partigiani comandata da “Vittò” (Vittorio Guglielmo), vecchio comunista reduce dalla guerra di Spagna insieme al compagno Longo. E lì incominciai la vera vita da partigiano, assumendo il nome di battaglia “Tarzan”. Intanto continuavano ad arrivare molti giovani e altri meno giovani, militari che l’8 settembre avevano disertato ed erano ricercati dalle Brigate Nere. Mentre si andavano delineando le vere formazioni partigiane. Noi facevamo parte della 1a Zona Liguria, che andava dai confini della Francia all’inizio della Provincia di Savona, ed eravamo inseriti nella 2a Divisione Felice Cascione. Felice Cascione era un medico di Imperia, infatti, il suo nome di battaglia era “u Meigu”. E’ stato uno dei primi partigiani della provincia ed è stato catturato dai nazi-fascisti e fucilato ad Alto piccolo paese sulle alture di Albenga. Cascione fra l’altro aveva scritto la canzone fischia il vento. Intanto la formazione di “Vittò” diventava Brigata formata da tre distaccamenti, io ero nominato comandante di uno di questi distaccamenti e dislocato in una località sita fra Baiardo e Castel Vittorio
[...] Intanto sulle alture di Taggia si era costituito un battaglione di partigiani, chiamato battaglione Luigi Nuvoloni, che era il nome di un caduto in combattimento originario di un paese della valle Argentina. Detto battaglione era costituito in gran parte da partigiani di Taggia e località limitrofe ed era comandato da un vecchio socialista che si chiamava Simi di cognome, col nome di battaglia “Gori”; era molto anziano e cagionevole di salute. Poiché questo battaglione faceva parte della brigata “Vittò” mi chiamò e mi invitò a raggiungere quel battaglione e ad assumere la carica di commissario: in effetti poiché “Gori” era sempre indisposto dovevo portare avanti quella formazione come comandante e come commissario. Intanto eravamo giunti ai primi giorni del 1945 e sapendo che gli Inglesi dovevano fare un lancio di armi e di viveri per le formazioni della 1a zona Liguria ed esattamente sul Mongioie 2600 m. di altitudine, mi fu ordinato di raggiungere tale località poiché conoscevo già il percorso, raggiunsi di nuovo Piaggia e più avanti Viozene provincia di Cuneo, dove ci accampammo in vecchi casolari di pastori, da Viozene al Mongioie la strada era abbastanza breve. In attesa dei lanci abbiamo fatto diverse imboscate sulla strada statale n° 28 che da Imperia porta a Pieve di Teco, Colle di Nava, Ormea, Garessio, Ceva e avanti fino a Torino. Durante uno di questi attacchi abbiamo dovuto ritirarci precipitosamente per non essere sopraffatti dai nazi-fascisti sul Pizzo di Ormea a m. 2475 sul livello del mare dove abbiamo bivaccato all’aperto tutta la notte. Rientrati a Viozene, dopo qualche giorno, seguendo le istruzioni di radio Londra, nella notte stabilita abbiamo acceso dei falò su una spianata alle falde del Mongioie. Tutto si è svolto nella massima semplicità, i lanci si sono svolti regolarmente, abbiamo ricevuto armi e viveri col consueto cioccolato. Armi e viveri sono stati divisi con le formazioni partigiane operanti nella zona fra la provincia di Cuneo e quella di Imperia. Intanto siamo arrivati ad Aprile del 1945, i Tedeschi e le Brigate Nere consapevoli della disfatta, pressati dalle forze alleate e dalle nostre formazioni, si ritiravano verso il nord dell’Italia con la speranza di raggiungere la Germania, molti di loro sono caduti e molti altri fatti prigionieri. Noi abbiamo avuto l’ordine di portarci sulle alture sopra Taggia e Sanremo, durante il trasferimento che è durato alcuni giorni, siamo stati attaccati dai Tedeschi in fuga con raffiche di mitragliatrice, anche se sparavano da molto lontano e disordinatamente, una pallottola ha ferito alla gamba il Comandante Gori che non ha avuto la sveltezza di gettarsi a terra.
Ormai i Tedeschi e i fascisti erano in fuga. Noi abbiamo proseguito la nostra marcia verso Taggia e Sanremo portando a spalle su di una barella improvvisata il Comandante Gori che era stato medicato alla meglio. Si trattava di una ferita lieve, arrivati a Sanremo, è stato ricoverato nel locale Ospedale. Intanto siamo arrivati prima a Taggia e poi a Sanremo, era il 25 aprile 1945, contemporaneamente sono arrivate le truppe alleate e insieme abbiamo presidiato quelle città ormai abbandonate dai nazi-fascisti. Dalla vicina Francia sono arrivate anche delle truppe francesi formate da soldati di colore Senegalesi questi, dopo qualche giorno sono rientrati in Francia. Dopo i festeggiamenti per la vittoria sul nazifascismo, siamo rimasti a presidiare la città con le truppe alleate, fin quando il Comitato di Liberazione che si era costituito, dopo avere regolarmente registrato le nostre generalità e le formazioni in cui avevamo operato, ci ha messo in libertà e siamo rientrati nelle nostre famiglie.
Gio Batta Basso (Tarzan)
Chiara Salvini, Ricordi di un partigiano, Nel delirio non ero mai sola, 29 luglio 2012


Chissà se lassù da qualche parte

sventoleranno le bandiere rosse,

se ci sarà quel mondo di fratelli

che hai sognato nelle gelide

veglie di partigiano.

Come in un film

della Resistenza spagnola

hai fatto saltare

il ponte della vita

e ancora una volta

hai opposto il tuo sdegnoso rifiuto

ad una realtà vile e cialtrona.

Non così avremmo voluto lasciarci.

Tutti insieme

avremmo voluto sfidare con te

la morte

che fa il nido negli angoli bui

della nostra anima

Nelle piazze, sulle strade faticose

delle montagne,

nel gelo degli inverni infiniti

non saresti mai morto.

Non posso che cantarti,

disperata e triste

per la tua bella vita perduta.

Voglio cantarti,

smarrita e triste

contro la morte assassina

per far vivere il tuo ricordo.

Donatella D’Imporzano, In memoria di Vittò, capo partigiano

Chiara Salvini, Vittò, poesia di Donatella D’Imporzano, Nel delirio non ero mai sola, 29 luglio 2012

domenica 2 ottobre 2022

Vera si vide costretta a ripartire alla volta di Milano dove, tramite un agente dell'OSS, riuscì ad ottenere nuovi piani di trasmissione

Viareggio (LU). Fonte: mapio.net

All’inizio del mese di settembre del 1943, sulle montagne della Versilia molti giovani - tra di loro anche alcuni soldati sbandati - si rifugiarono per organizzarsi e combattere i nazifascisti che erano arrivati a portare morte e distruzione sul territorio.
L’atmosfera di grande rischio ed incertezza richiedeva la soluzione di alcuni problemi logistici, primo fra tutti quello dell’armamento di questi coraggiosi. Si rendeva quindi necessario stabilire un contatto con gli Alleati. La mente instancabile di Manfredo Bertini detto “Maber”, attivo nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), nonchè talentuoso tecnico della fotografia, molto conosciuto anche per la collaborazione alla regia della prima pellicola di Mario Monicelli, aveva già in mente un piano, quello di inviare un emissario per informare gli alleati di quanto si stesse organizzando sul territorio Versiliese e contestualmente richiedere l’invio degli aiuti necessari per poter combattere i nazifascisti. “Maber” finanziò l’Operazione Gedeone - così fu chiamata - , vendendo qualche anello, una catenina ed un fermaglio d’oro.
Su incarico del CLN Vera Vassalle, una donna che non aveva ancora compiuto ventiquattro anni e alla quale in tenera età una poliomielite aveva causato una menomazione permanente alla gamba destra, fu inviata presso un comando alleato a Montella Irpinia da dove, di lì a breve, sarebbe salita al comando della missione “Radio Rosa”. Vera, nata a Viareggio il 21 gennaio 1920, diplomata all'Istituto Magistrale, era stata, per le sopraggiunte difficoltà economiche in famiglia, costretta a lasciare gli studi universitari e a trovare impiego in banca, dove si trovava nel 1941 quando suo padre, Eugenio Vassalle, morì nell'affondamento di una nave da guerra al largo della Sicilia. Di fede antifascista, prese parte attiva alla resistenza nel gruppo di cui faceva parte il cognato Manfredo Bertini.
Il 14 settembre 1943 Vera partì alla volta di Montella Irpinia servendosi di qualche raro treno, di una bicicletta e percorrendo lunghi tratti a piedi. Impiegò due settimane per raggiungere il comando alleato attraversando pericolosamente le linee nemiche e riuscendo finalmente, il 28 settembre, a stabilire un contatto con ufficiali dell'esercito americano. Dopo un breve addestramento presso l'Office of Strategic Service (OSS) di Napoli, viene trasferita a Capri, Pozzuoli, Taranto, Palermo ed infine, a bordo di un aereo alleato, a Bastia in Corsica da dove riuscirà a tornare in Toscana, a Castiglione della Pescaglia, a bordo di una motosilurante dell'esercito inglese in qualità di agente del 2677° Reggimento dell'OSS. Dorme in un cascinale e la mattina successiva con un treno arriva fino a Cecina dove è costretta a scendere e a scappare nei campi in quanto la linea ferroviaria era interrotta. Il 19 gennaio 1944 raggiunge a piedi Viareggio, portando con sé una radiovaligia, spacciata per un bagaglio a mano, riuscendo a sfuggire a diverse perquisizioni.
 


La ricetrasmittente, la radiospia modello A MKIII prodotta dalla compagnia Marconi nel Regno Unito nel 1944, era destinata alle operazioni clandestine sul territorio occupato da parte degli agenti, delle forze speciali e delle unità della Resistenza. Questa radio, molto piccola per l'epoca, poteva essere facilmente collocata all'interno di una valigia di cartone per bambini in modo da eludere controlli e le perquisizioni. Poteva funzionare sia con l'alimentazione di rete (110-130V o 200-250V, 40-60Hz) o tramite un'unità opzionale, con una sorgente esterna 6V DC come la batteria di un auto. Sempre all'interno della valigia venivano posizionati la cuffia e il tasto telegrafico completando la dotazione. L'apparato radio era in grado di trasmettere su tutte le frequenze comprese tra 3 e 9 Mhz divise in gamme con una potenza di uscita di 5 Watt.
La missione “Radio Rosa” consisteva nel rendere operativo un contatto radio clandestino per coordinare le azioni alleate con quelle partigiane ma purtroppo, per negligenza di un radiotelegrafista che aveva perduto i piani di trasmissione, non fu possibile implementare il piano subito dopo l'arrivo di “Rosa” con la radiospia.Vera si vide costretta a ripartire alla volta di Milano dove, tramite un agente dell' OSS, riuscì ad ottenere nuovi piani di trasmissione e la promessa dell'invio di un radiotelegrafista fidato.
Fu così che alla fine di marzo del 1944, Mario Robello detto “Santa”, ex Radiotelegrafista della Marina Militare, venne paracadutato sull'Alpe delle Tre Potenze sull'Appennino Tosco-Emiliano nella missione “Balilla” e fu quindi possibile dare inzio alla missione.
“Radio Rosa” inizia a operare a servizio della libertà.
 

L'osteria della famiglia Frugoli

L'attività clandestina e frenetica di Radio Rosa, dapprima situata in località Focette a Marina di Pietrasanta per poi spostarsi in un’osteria della Famiglia Frugoli nelle campagne di Capezzano Pianore in località Cateratte [n.d.r.: nel territorio del comune di Camaiore, in provincia di Lucca] e per muoversi definitivamente nell'abitazione di Vincenzo Bonuccelli presso il Convento dei Frati di Camaiore, riuscì a trasmettere trecento messaggi e, oltre a fornire notizie sugli spostamenti dell'esercito tedesco alle truppe Anglo-Americane, riuscì ad ottenere sessantacinque lanci di armi e munizioni da parte degli alleati ai partigiani Versiliesi e Toscani.
Il 18 febbraio 1944, alle quattro del mattino, preceduto dal messaggio “Per chi non crede” (frase in codice coniata da Manfredo Bertini - la frase voleva essere un monito per chi nell'antifascismo ancora titubava a passare alla lotta armata -), trasmesso dalla B.B.C., in località Foce di Mosceta (quota 1170m) avvenne il primo lancio effettuato da un Halifax Inglese. Vennero sganciati diciassette bidoni contenenti 50 “Sten” automatici, varie munizioni, materiale da sabotaggio, vestiario, viveri e generi di conforto. Nonostante tutte le precauzioni prese, però, l'iniziativa non passò inosservata ai fascisti che presero coscienza che anche in Versilia si cominciava ad operare seriamente e che occorreva stroncare ad ogni costo e con ogni mezzo il movimento di Resistenza armata.
Il 2 luglio 1944, su delazione di tre donne amiche di ufficiali tedeschi, Radio Rosa dovette cessare le trasmissioni a seguito dell'irruzione dei soldati. Così la Vassalle ricordava l’accaduto:
”Il comando tedesco inviò nella zona tutti i radiogoniometri, riuscendo ad individuare l’apparecchio radio nella stessa casa in cui era il “Santa” e a conoscere le ore di trasmissione. In quella mattina, alle ore 11 circa, mentre “Santa” era intento alla trasmissione, due vetture, da diversa direzione, si avvicinarono alla casa e ne scesero una decina di SS comandate da un maggiore, che circondarono la casa. “Santa” ebbe subito la percezione del pericolo e, dopo aver lanciato cinque bombe a mano con le quali colpì il maggiore e altri quattro tedeschi, si lanciò armato di mitra per le scale riuscendo ad uscire incolume dal portone e a raggiungere i campi. Di tale scena sono stata testimone oculare, trovandomi alla finestra di una casa vicina. I tedeschi credendo che Ciro Del Vecchio, un pensionato che per caso si trovava nei pressi del portone, fosse un altro nostro agente, lo uccisero con una raffica di mitra. Operarono pure numerosi arresti tra cui quelli di una mia cugina, che ospitava “Santa” con la radio, a nome Emilia Bonuccelli, che fu sottoposta a lunghi interrogatori e, poi, con gli altri condotta a Bologna, dove fu in un secondo tempo rilasciata. Io, intanto, ero riuscita a fuggire, portando con me tutta la documentazione, inerente al servizio. Riparai a Monsagrati, dove il giorno successivo ebbi notizia della salvezza di “Santa”. Ma, ricercata dai tedeschi, fui costretta ancora una volta a fuggire e a trovare rifugio presso la formazione “Marcello Garosi”, dove fui raggiunta da “Santa”.
Per la sua preziosa attività la Vassalle fu decorata di Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
”Ventiquattrenne, di eccezionali doti di mente, d’animo e di carattere, all’atto dell’armistizio, incurante di ogni pericolo, attraversava le linee tedesche e si presentava ad un comando alleato per essere impiegata contro il nemico. Seguito un breve corso d’istruzione presso un ufficio informazioni alleato, volontariamente si faceva sbarcare da un Mas italiano, in territorio occupato dai tedeschi. Con altro compagno R.T. portava con sé una radio e carte topografiche, organizzava e faceva funzionare un servizio dì collegamento fra tutti i gruppi di patrioti dislocati nell’ Appennino toscano, trasmettendo più di 300 messaggi, dando con precisione importanti informazioni di carattere militare. La sua intelligenza e coraggiosa attività rendeva possibile sessantacinque lanci da aerei a patrioti. Sorpresa dalle SS. tedesche mentre trasmetteva messaggi radio riusciva a fuggire portando con sé codici e documenti segreti e riprendeva la coraggiosa azione clandestina. Pochi giorni prima dell’arrivo degli alleati passava nuovamente le linee tedesche portando preziose notizie sul nemico e sui campi minati. Animata da elevati sentimenti, dimostrava in ogni circostanza spiccato sprezzo del pericolo. Degna rappresentante delle nobili virtù delle donne italiane.
Italia occupata, settembre 1943 - luglio 1944”.
Anche Mario Robello detto Santa fu insignito della Medaglia d'Argento al valore militare. Nel dopoguerra Vera e Mario si sposarono e si trasferirono in Liguria a Lavagna dove Vera morì a causa di un male incurabile nel novembre del 1985.
Gabriele Pardini, IZ5JLW, NOME IN CODICE ROSA, “per chi non crede”. Un'affascinante storia di coraggio, di ideali e di radiantismo che hanno contributo in maniera determinante alla liberazione del territorio Versiliese durante il secondo conflitto mondiale