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martedì 26 gennaio 2021

Sono un pittore naturalista

Joffre Truzzi, Pescatori, 1955 (olio su tavoletta) - Fonte: Joffre Truzzi

Joffre Truzzi nasce a Revelastocke in Canada il 18 marzo 1915 da genitori mantovani emigrati in cerca di fortuna in Canada.
Ma la vita dura, la mancanza degli affetti, fanno ammalare il padre di Joffre, e dopo pochi anni ritornano sulle rive del Po nel loro paese di origine San Benedetto Po.
Già da giovane Joffre amava i colori,  la pittura, ma fu solo durante la seconda guerra mondiale, mentre lui era stato "liberato" dagli Americani che venne scoperto dal Principe Pignatelli Cortès di Napoli, che lo prese sotto la sua protezione affinchè le sue doti evolvessero... ma la fidanzata Angela lo reclamava a casa... e così, suo malgrado, fece ritorno al paese e si trasferì in Liguria, a Bordighera, dove visse sino alla sua morte, avvenuta il 28 febbraio 2006.
A Bordighera, pur lavorando, entrò a far parte della scuola serale d'arte del Maestro Giuseppe Balbo, dove conobbe altri allievi poi diventati famosi, come Maiolino, Sergio Biancheri, Renzo Cassini, Sergio Gagliolo ed altri. Vinse alcune manifestazioni, fra cui il premio delle 5 bettole, che possiamo considerare il suo riconoscimento ufficiale, partecipò al premio di pittura americana (mentre a Bordighera venivano esposte opere di artisti americani, opere dei nostri artisti vennero esposte  negli Stati Uniti, in una mostra itinerante che toccò 20 città importanti).
Le opere esposte, tra le quali alcune di Truzzi, fecero poi parte della collezione della Galleria di Stato dell'Oregon, considerato a tutt'oggi una fra le più importanti rassegne d'arte contemporanea degli anni cinquanta sul territorio ligure. Truzzi espose anche in Francia a Villefranche sul Mer, nella vicina Costa Azurra nel 1957. In quell'anno fece una delle più importanti conoscenze, sia a livello personale che artistico: conobbe Ennio Morlotti, il quale, anch'esso lombardo, veniva volentieri a Bordighera, dove aveva in affitto un atelier, e dove dipingeva insieme a Truzzi. Ma non si accontentavano di dipingere e viaggiare per le strade tortuose del nostro entroterra, alla ricerca di anfratti, viste di rovi o uliveti... essi andavano alla ricerca dei luoghi frequentati da un loro idolo, il Maestro Cézanne, che aveva il suo studio-abitazione a Aix en Provence.
dal catalogo della Mostra: Joffre Truzzi. Dipinti, disegni, incisioni, Centro Culturale Polivalente ex Chiesa Anglicana di Bordighera (IM), 3 dicembre 2005 - 8 gennaio 2006, a cura del prof. Leo Lecci di Genova

[Joffre Truzzi] è rimasto com'era, con qualcosa di più gracile, di più poetico nei suoi quadri: gli stessi paesaggi d'allora, ma come sospesi nel vuoto, con dolcezze più apparenti e toccate dalla vertigine". "L'inevitabile manto della malinconia s'è istoriato di scene gioiose, di azzurri aggrediti dall'ombra, di viola vibranti, di dorati che vanno verso il caos o la pace materica. Possibile che la vita nella sua erosione sia sempre eguale?  Francesco Biamonti

Bordighera ha un suo muratore-pittore, si chiama Joffre Truzzi, ha 33 anni, i competenti gli pronosticano un brillante avvenire.
[...] Truzzi dipinge soltanto la domenica, gli altri giorni li trascorre sugli alti ponti delle case in costruzione. [...]
Una sua personale, ha ottenuto in questi giorni, a Bordighera, un ottimo successo e le vendite sono state notevoli. Ma Truzzi non si è montata la testa e continua, nei giorni feriali, a lavorare di cazzuola [...]
La sera - tutte le sere , dopo il duro lavoro - frequenta lo studio del professor Giuseppe Balbo. Gli tengono compagnia altri giovani allievi che ascoltano le “storie” dei grandi pittori del passato con gli occhi sgranati, come fossero fiabe. Mario Caudana, 1948

Dieci anni fa Truzzi, la domenica batteva le strade delle nostre campagne; le dipingeva instancabilmente; riempiva due o tre cartoni nella stessa giornata. Il paesaggio era studiato con amore, con ostinazione; fino a che il pittore non ne avesse sceverato i caratteri distintivi di paesaggio ligure.
Questo contatto durò sino al 1950, poi ci fu una specie d’arresto. Il pittore si chiuse nel suo studio, elaborò composizioni che s’ispiravano al lavoro dei contadini e in modo particolare a quello dei muratori, tra i quali egli viveva e lavorava. Il colore s’incupì, agli accordi squillanti dei gialli, dei rossi, dei verdi, dei precedenti paesaggi, seguirono accordi di terre e di neri.
Era nata una pittura che poteva chiamarsi neorealista.
Ma il paesaggio ligure lo riprese. Questa volta fu l’architettura dei paesi a incantarlo. Costruzione di muri screpolati, archi, blocchi desolati, Truzzi vagava di paese in paese, solo prendendo qualche appunto. [...].
Dipinse quindi grandi tempere, drammatiche architetture in bleu e in terra rossa. Egli mostra eccezionali doni di fantasia: come dire che è artista per essenza. (Ci sono nei suoi quadri accordi di colore del tutto nuovi).
Parte dal vero verso liriche variazioni, in visioni delicatissime di case, alberi, colline. La voce del suo paesaggio è nuova (austera e anche mistica) sconosciuta è l’aria e la poesia che lo anima.
Giacomo Ferdinando Natta, 1957

È un merito, il tuo, di poesia, del quale tu sai che penso quello che pensa il finissimo amico Natta.
Carlo Betocchi, 1959

Nei “Paesaggi dell’entroterra ligure” di Joffre Truzzi, dominano gli alberi, quali protagonisti dei misteriosi drammi ignoti all’uomo e dietro si mostrano rudi case o s’aprono scenari di cieli gialli o verdi, rossi o cinerei, accesi o cupi […]. Fantasioso e spontaneo, c’è un impeto primitivo in queste tele, un soffio aspro e nuovo nelle tonalità accese. Il tocco a spatola è denso, talora violento. Jole Simeoni Zanollo, 1959

Truzzi è un pittore in cui l’affetto alla terra in cui vive e lo spasimo della memoria che vorrebbe conservare ogni momento felice, restituirlo in note ferme e definitive, operano con egual forza permettendogli di colmare, talvolta con reale felicità, lo iato tra la tradizione di una pittura condizionata al sapore di una regione, di un paesaggio, e le più remote ricerche intorno all’autonomia del quadro inteso come oggetto in sé sufficiente, cadenza di colori e di forme disposte secondo un ordine di individuale invenzione. Nessuna polemica esplicita in questa pittura; eppure una carica densa, un gruppo di ragioni pro qualcosa e contro qualche altra cosa [...] che, comunque la si giudichi, è una delle forze di questi quadri, sotto la loro più superficiale apparenza quasi crepuscolarmente gentile o vivacemente lieta. Riteniamo che la loro lettura non sia poi così facile come può sembrare. Ma che tanto più premieranno l’attenzione di chi vorrà non amarli di un’immediata adesione, accoglierli per un movimento incontrollato, ma scrutarne il riposto vigore, ripercorrere il lavoro da cui è nato il loro sbocciare felice. Che è poi sempre il miglior modo di aderire ad espressioni che si presentino cordiali e quasi disarmate. Far insomma del consenso alla bellezza del colore, alla spontaneità della resa mezzo per un ulteriore approfondimento. Albino Galvano, 1962

Joffre Truzzi, Paesaggio (olio su tela) - Fonte: Joffre Truzzi

Nato in Canada, Joffre Truzzi, vive a Bordighera dove la malia della natura, per un pittore che per temperamento deve sentirne tutto il fascino, gioca il suo ruolo ispiratore. Luci e colori, come si nota nei dipinti ch’egli espone ora al Grifo, si configurano nei rapporti di quelle macchie cromatiche sottilmente modulate negli impasti dosati con abilità: modulazioni e dosature che in fondo caratterizzano la sua pittura anche rispetto ai riferimenti stilistici che, nel presentarlo, Albino Galvano riassume con un appropriato “Morlotti revu par Bonnard”. Angelo Dragone, 1962

[Truzzi] si presenta con una serie di interessanti paesaggi, realizzati ad olio, nei quali case, colline ed alberi della riviera ligure appaiono calati in una unità tonale a basse vibrazioni cromatiche di alta suggestività lirica. La luce, che nei quadri di Truzzi nasce dall’interno delle piatte zone di colore, commenta strutture paesistiche dove i muretti a secco, i casolari di campagna, le masse di verde rappresentano momenti di una visione sensibilizzata della realtà, visione non ignara delle ultime resultanze della più valida pittura italiana. Carlo Segala, 1963

Se penso sia raro trovare un pittore altrettanto fedele alla sua natura (ch’è segno probante di vocazione); credo appaia altrettanto evidente che lo stimolo maggiore al suo lavoro, Truzzi lo attinge dal più complesso moto della realtà. Questa realtà, egli sa benissimo che in parte preponderante e in primo luogo si trova dentro se stesso e non sopra, non fuori, non in gazzette, in professori, in ideogrammi; sa ancora che parte importantissima della realtà, oggi quasi totalmente trascurata, è il paese dove si vive, con la gente, gli alberi e il cielo, sa inoltre che la realtà sono la storia e la tradizione […] Dagli impressionisti, e soprattutto quelli legati al suo paesaggio, Renoir-Monet-Piana, su su fino alla svolta più recente e determinante – quest’ultima di Wols, Pollock, Gorky, De Staël. Quella che ha portato una più profonda coscienza dell’”organico” in contrapposizione ai giochi intellettuali estetisti; quella che ha affrontato – e per me in modo più diretto dei surrealisti – le zone più remote, segrete e misteriose dell’essere, il conflitto tra idea e realtà, tra momento razionale della realtà, e quello irrazionale nell’istanza poetica. 
Le intelligenti argomentazioni non sono riuscite a spiegarmi come si possa prescindere da questa recente storia così drammatica e viva.
Comunque in questa mostra è molto evidente come questa realtà così tesa e scottante sia utile affrontarla anziché pensare all’abiura e all’ostracismo.
E’ affrontando questa situazione che secondo me, Truzzi ha formato le sue sicure radici, s’è stabilito un preciso impegno, s’è scrollato abitudini e atavismi ormai devitalizzati, ha determinato questa sua attuale felice pienezza creativa.”
Ennio Morlotti, 1964
 
Con una vivace interpretazione in catalogo di Ennio Morlotti, apre la sua personale alla galleria del Mulino [...] il pittore ligure Joffre Truzzi. Si sono conosciuti dietro le colline di Bordighera e affiatati per una comune disposizione verso la realtà di natura: siepi, sterpi, prati, vegetazioni selvatiche, che occupano con insistenze di primo piano lo spazio del quadro e lasciano poco margine alla striscia di cielo. [...]
L’interpretazione di Truzzi, rispetto a quella drammatica sempre di Morlotti: è di più aperta elegia; c’è una felicità nel suo rapporto con questa natura, uno scambio di interiori sensazioni, perciò la pittura ne è tutta illuminata e il colore si ravviva di preziosi splendori.
Marco Valsecchi, 1964
 
Il pittore Truzzi si è presentato in Bordighera con una personale condensata in venti opere che esprimono l’intendimento sobrio di un artista molto prossimo alla maturità.
Abbandonate talune compiacenze pittoriche [...] il Truzzi si è indirizzato verso una semplicità geometrizzata quasi, forse un poco rigida, ma di induttiva affermazione stilistica. Con impasti rinnovati ed accostamenti di toni fermi e saporosi, i nuovi paesaggi presentati, pur svelando un legame a esperienze già note, contengono una personalità manifesta nella costruzione prevalentemente pittorica dell’atmosfera e della prospettiva fatte soltanto di colore.
Giuseppe Balbo, 1966
 
[…] si rimproverava a Truzzi l’influenza esercitata sulla sua pittura dall’opera e dalla frequentazione di Morlotti.
Che l’opera del maestro lombardo, prima, e di Sutherland più recentemente, abbiano lasciato profonde tracce sulla pittura di Truzzi di questi ultimi anni, è innegabile. Né poteva essere altrimenti, se si pensa che nel guardare a questi due significativi pittori del nostro tempo Truzzi, pittore prevalentemente di paesaggi, di aspetti e di elementi naturali, ha dimostrato di sapere operare una scelta intelligente, coerente col proprio temperamento. Tuttavia in questa personale, accanto ad opere in cui la presenza dei due maestri è ancora chiaramente avvertibile, Truzzi ci ha sottoposto (e questo è un merito che gli va riconosciuto) un buon numero di dipinti che dimostrano in modo convincente come egli, assimilate e superate le due influenze, sappia approdare ad un suo più personale linguaggio.
Enzo Maiolino, 1967
 
Joffre Truzzi, Gli ulivi, 1970 (carboncino) - Fonte: Joffre Truzzi

“Sono un pittore naturalista. Dipingo la natura. Da sempre”. Così dice Truzzi della sua pittura e di se stesso.
Di se stesso perché la natura è il suo mondo, il suo ambiente, meglio ancora il suo elemento: in cui egli si ritrova e si muove.
Dalle sue parole, che sono poi dichiarazioni abbastanza esplicite, la natura appare ancor più come verbo, norma di vita ed esigenza: certo una meta costante del suo essere. “Forse perché sono nato in un bosco” (è figlio di emigrati nel Canada), Joffre tiene a ricordare, quasi che per lui stesso la persistenza e l’attualità di quell’ispirazione costituiscano ancora un interrogativo. [...].
La sua natura è di sicuro vivente, ampia, generatrice; ricca di linfa.
Così che egli, più che osservarla e rappresentarla, la sente e la dice: la sua è la pittura di un contatto. E il suo senso della natura (senso piuttosto che sensibilità) ricorre particolarmente al colore come al mezzo precipuo e più indicato per la propria espressione.
Natura e colore appaiono quindi il binomio di base della sua pittura.
Massimo Cavalli, 1977
 
Ennio Morlotti, Francesco Biamonti e Joffre Truzzi nel 1960 davanti all'atelier di Cezanne - Fonte: Joffre Truzzi

A Truzzi mi lega un lungo rapporto, consolidato dalla comune amicizia con Morlotti. Ricordo di lui un vagabondare alla ricerca delle luci dei costoni, delle dolcezze di un’aspra terra, fatte di cielo, di tramonti rosati, di silenzi nascosti nelle vegetazioni. La sua pennellata è istintiva e nel contempo guidata da un sentimento virgiliano della vita (Truzzi è di Mantova) con qualche collera da animo offeso.
Truzzi sa ciò che gli è necessario. Quante volte Ennio [Morlotti] ed io, lo abbiamo sentito mormorare qualche brano delle Bucoliche: l’uomo che abbandona i campi, l’uomo dell’esilio, che aspira a tornare al suo regno. Forma d’elegia che in pittura si è sovente tradotta in soffi leggeri, in brezze che animano le cose: crinali toccati dalla grazia, casette raccolte nel fervore del verde, rocce clonate di azzurro e polvere.
Era un uomo sempre disponibile al lavoro e alla vita, sempre pronto a partire, verso una tomba, un rudere, un fiore. Poteva anche essere insopportabile, litigioso in superficie, ma a Morlotti e a me strappava sempre un sorriso, perché ne conoscevamo la malinconia fondamentale.
Ora non riesco a immaginarlo vecchio: è rimasto com’era con qualcosa di più gracile, di più poetico nei suoi quadri: gli stessi paesaggi d’allora, ma come sospesi nel vuoto, con dolcezze più apparenti e toccate dalla vertigine. L’inevitabile manto della malinconia s’è istoriato di scene gioiose, di azzurri aggrediti dall’ombra, di viola vibranti, di dorati che vanno verso il caos o la pace materica. Possibile che la vita nella sua erosione sia sempre eguale?
Francesco Biamonti, 1996   


martedì 19 gennaio 2021

Beppe Porcheddu sa far suo, nel disegno e nei toni, il pensiero dello scrittore

Nello sviluppare la ricerca sulla Resistenza sulla costa del Ponente ligure, da Imperia al confine francese, ho incrociato la figura di Giuseppe Porcheddu, antifascista e pittore-grafico-illustratore di significativo rilievo, vissuto prima a Torino e poi a Bordighera.
La novità è giunta, invece, dalla scoperta che fu il casalese Leonardo Bistolfi a motivare e valorizzare l’artista Porcheddu. Non solo, attivando la dottoressa Varvello del Museo Civico Bistolfi di Casale Monferrato e il dott. Mantovani della Biblioteca Civica Canna, ho ritrovato il catalogo di una mostra di opere di Porcheddu avvenuta a Torino nel 1928, con una originalissima prefazione di Leonardo Bistolfi.
Giuseppe Porcheddu Beppe, nato a Torino il 1 maggio 1898 scomparve il 27 dicembre 1947 in una vicenda non ancora del tutto ricostruita; sardo di origini (il padre Giovanni Antonio era nativo di Ittiri, in provincia di Sassari; ingegnere molto noto per aver introdotto e sviluppato in Italia le tecniche del cemento armato, fu progettista anche del Lingotto di Torino e di vari silos al porto di Genova) fu pittore, incisore, scultore, grafico, fumettista ed illustratore di grande talento. Venne scoperto e incoraggiato da Leonardo Bistolfi già a Torino, dove viveva e studiò alla facoltà di architettura al Politecnico.
È noto per le bellissime illustrazioni del Pinocchio di Collodi edite nel 1942, per i disegni delle bambole Lenci, per i disegni e la creazione di personaggi di fumetti diffusi in tutta Italia. Molte sue opere sono oggi custodite e promosse dal Museo della Scuola e del Libro per l'Infanzia MUSLI di Torino e dalla Fondazione Tancredi di Barolo di Torino, sotto la direzione del prof. Pompeo Vagliani.
Accanto all’arte coltivò sempre la convinzione antifascista; promosse poi l’attività resistenziale fra Sanremo e Bordighera, divenne membro del CNL di Bordighera.
Porcheddu, con Renato Brunati, Renzo Rossi e Lina Meiffret, si era legato al gruppo torinese di Guido Hess Seborga, Ada Gobetti, Piero Bargis, Giorgio Diena, Vincenzo Ciaffi, Domenico Zuccaro, Raffaele Vallore, Luigi Spazzapan, Umberto Mastroianni, Carlo Musso. Nella sua villa di Bordighera, Porcheddu nascose la moglie Ada e la figlia Lidia del latinista Concetto Marchesi, esponente antifascista rifugiato in Svizzera. Ospitò pure gli ufficiali inglesi Michael Ross e George Bell, paracadutati in missione fra il Piemonte e la Liguria. Le vicende di Porcheddu a sostegno della Resistenza sono pienamente riscontrate nel recente libro di Michael Ross, The British Partisan, pubblicato da Pen & Sword, London 2019. Il nuovo libro è la riedizione aggiornata della prima pubblicazione del volume Michael Ross, From Liguria with love. Capture, imprisonment and escape in wartime Italy, Minerva Press, London, 1997. Nel volume del 2019 il nipote David Ross apporta alcune integrazioni, grafici e foto.
Beppe Porcheddu sparì da Bordighera e non diede più tracce dal 27 dicembre 1947. A Roma si stava realizzando una sua mostra retrospettiva di dipinti e disegni, curata dall'amico Piero Giacometti. Lasciò una lettera indirizzata alla sorella Ambrogia, con una frase enigmatica: "... la vita è un continuo tradimento. I più bei sogni... restano sogno. Chissà quando ci rivedremo".
Leonardo Bistolfi, a Torino, intuì il genio di Porcheddu, lo incentivò e lo promosse, ne coltivò amicizia e relazione artistica.
È sufficiente leggere alcuni tratti della prefazione per scoprire un Bistolfi anche critico d’arte: "... In un giorno lontano, quando l’autore delle visioni di bellezza qui raccolte aveva appena sette anni, il padre suo - animatore di geniali costruzioni, aspramente combattute al loro apparire, e diffuse ora in tutto il mondo - venne a me, portandomi alcuni disegni del piccolo Beppe. Erano paesaggi fantastici, strani aggruppamenti di figure umane, bizzarre scene di sapere fiabesco, trattate con mano già capace di esprimere le vicende delle forme e degli spazi. Chiesi come il fanciullo si esercitasse a copiare quelle figurazioni; ma le parole commosse del padre mi gridarono che tutti i disegni del suo Beppe erano esemplari di una spontanea e originale creazione, manifestata senza fatica e senza esitazioni. Così fu che io conobbi e seguii poi, nello svolgersi degli anni, l’arte di Beppe Porcheddu: fecondo suscitatore di sensazioni e di emozioni, creatore inesauribile di fisionomie fisiche e spirituali, immaginoso descrittore di ambienti e di anime. Arte che crea (come poche, forse, nel campo dell’illustrazione letteraria) l’atmosfera chiara e completa del momento psicologico; arte che, a primo aspetto, si presenta con forme che paiono caricaturali, ed è invece l’esaltazione della personalità umana precisata in tutte le caratteristiche esteriori ed interiori. Per questo le creature delle composizioni di Beppe Porcheddu nel loro silenzio lineare parlano ardentemente, e nella irrealtà del sogno vibrano di verità e di passione".
Bistolfi commenta le varie illustrazioni di Porcheddu, dedicate a personaggi letterari ed epici; richiama i tratti grafici e l’insieme delle figure. "Molti furono gli artisti che tentarono di rievocare in vaste opere aspetti di uomini e di cose appartenenti a tempi antichi o remoti - commenta Bistolfi - ma pochi riuscirono a raggiungere il senso intimo dell’essere... ogni opera di Porcheddu dà una vibrazione nuova. E questa vibrazione si esprime per mezzo di ignoti elementi tecnici, I quali traggono origine da quella che si potrebbe definire una esperienza improvvisa, volta alla volta suggerita o imposta dal significato del tema... tutte le opere di Porcheddu non sono già il frutto di studi scolastici, nè derivano sia pure lontanamente da opere preesistenti, ma nascono in modo esclusivo dal suo istinto, e sempre senza l’aiuto del modello umano... eccezionale procedimento creativo che sospinge l’artista alla più intensa ricerca di un’ideazione quasi esaltata... col procedere degli anni l’arte di Beppe Porcheddu ha acquistato una vigoria sempre più significativa... sia che realizzi un’ispirazione propria o sviluppi un argomento suggerito da uno scrittore, questo artista - come un musico sapiente - trova i modi sempre più adatti all’estrinsecazione dell’idea, e assume una facoltà rara e quasi unica per rivelare le immagini vere di quel determinato stato d’animo; e ciò non coi segni di una cifra personale, ma con uno stile conveniente in tutto e per tutto al carattere del motivo da sviluppare... codesta anzi della perfetta aderenza tra la visione del poeta e la realizzazione dell’illustratore costituisce indubbiamente una delle più belle doti di questo giovane artefice. I suoi disegni rivelano sempre uno studio lungo e paziente dello scritto che vogliono decorare... Beppe Porcheddu sa far suo, nel disegno e nei toni, il pensiero dello scrittore. Ma, nel tempo stesso, la sua illustrazione è sempre un quadro, vale a dire un’opera completa che può vivere, e vive a sè... ".
Il pensiero di Bistolfi su Porcheddu non è solo una prefazione di circostanza, ma assume il significato di convinto apprezzamento per la tecnica, la passione e l’innovazione dei disegni e illustrazioni di Porcheddu. È un Bistolfi critico d’arte, attento osservatore di un artista in affermazione. Siamo nel 1928, a Torino. Porcheddu diverrà poi in seguito e fino alla sua scomparsa nel 1947 un genio indicusso della grafica, delle illustrazioni.
Sergio Favretto, Come Leonardo Bistolfi scoprì e valorizzò il grafico e illustratore Beppe Porcheddu, Il Monferrato.it, 13 gennaio 2021
[Alcune pubblicazioni di Sergio Favretto: Con la Resistenza. Intelligence e missioni alleate sulla costa ligure, Seb27, Torino, 2019; Fenoglio verso il 25 aprile (Falsopiano, 2015); La Resistenza nel Valenzano. L’eccidio della Banda Lenti (Comune di Valenza, 2012); Resistenza e nuova coscienza civile. Fatti e protagonisti nel Monferrato casalese (Falsopiano, 2009; Giuseppe Brusasca: radicale antifascismo e servizio alle istituzioni (Atti convegno di studi a Casale Monferrato, maggio 2006); Casale Partigiana: fatti e personaggi della resistenza nel Casalese, Libertas Club, 1977]

martedì 12 gennaio 2021

Giuseppe Balbo e la “I^ Mostra dei Pittori Americani in Europa” di Bordighera (IM)

 Archivio Balbo

Nel 1952 Giuseppe Balbo è il regista di una sorprendente iniziativa artistica che pone Bordighera (IM) al centro dell’attenzione internazionale, al pari di altre più importanti città italiane tradizionalmente note come centri promotori di cultura. La “I^ Mostra dei Pittori Americani in Europa” s’inserisce in un clima di intensi rapporti del nostro paese con gli Stati Uniti.

Un momento dell'allestimento della Mostra - Archivio Balbo

Scrive Walter Shaw nell’opuscolo di presentazione: “Nel prendere sotto i propri auspici questa prima esposizione dei pittori americani in Europa, la città di Bordighera raggiunge il più alto ideale di buona volontà e di fratellanza. Tale è il senso di questo reciproco gesto verso il popolo americano quale lo fu il Piano Marshall nei riguardi del popolo italiano. Tutti i pittori americani che lavorano in Europa sono stati invitati a presentare le loro opere davanti ad una giuria composta da pittori-artisti francesi, americani e italiani. Questa esposizione quindi può ben definirsi internazionale in scopi e sentimento. E’ un panorama che dimostra gli effetti che le diverse concezioni culturali europee passate e presenti hanno avuto nell’animo degli artisti americani“.

Sally Nichols, La piccola strada - Archivio Balbo

Pegeen Vail, Piccolo nudo - Archivio Balbo

Balbo e con lui gli operatori culturali e gli enti pubblici che promuovono la manifestazione, investono sul binomio cultura-turismo che aveva qualificato la storia di Bordighera già nel tardo Ottocento. Credono che sia ancora attuale per far ripartire un’economia svilita dal recente conflitto mondiale e che possa fondare le future sorti della città.

Edward Melchart, Scala a Coney Island - Archivio Balbo

Jean Guerin, Ninfa in solitudine - Archivio Balbo

E. Vardi, Composizione musicale - Archivio Balbo

"E’ difficile trovare uno stile, un carattere che possa classificare la Mostra e potremmo meglio definirla un riflesso delle più disparate esperienze artistiche e d’avanguardia; riassunto che d’altronde è il risultato più logico delle fonti ispirative cui fa capo questa pittura. Fonti che vanno dalle tendenze impressionistiche e postCezanne a quelle fauviste e picassiane, da un astrattismo piuttosto formale ad un realismo con carattere intimista e talvolta anche primitivamente ingenuo e personalistico. Non siamo dinanzi ad arte americana nè di tradizione americana è il caso di parlare … Ognuno di questi pittori si è rivolto al maestro, per non dire all’esemplare…" G.C. Ghiglione, 5 giugno 1952, Il Secolo XIX

Archivio Balbo

Archivio Balbo

Archivio Balbo

Nonostante la tiepida reazione dei critici va considerata una importante caratteristica di questa esposizione: l’istituzione di premi d’acquisto da assegnare mediante una giuria. Il Comune di Bordighera ha quindi la possibilità di acquistare le migliori opere esposte, iniziando così la costituzione di una Galleria d’Arte Contemporanea, primo passo per un Centro internazionale d’arte e di cultura.

Nel 1953 Walter Shaw e Jean Guerin, due miei vecchi amici che vivevano a Bordighera, mi chiesero in prestito dei quadri perchè volevano organizzare un’esposizione di pittori americani che sarebbe stata patrocinata dal Comune, e perciò piuttosto ufficiale. Cocteau scrisse l’introduzione al catalogo ed io accettai di prestare i quadri e andai a Bordighera con Laurence Vail… Il pranzo che Walter e Jean offrirono in onore nostro e di Cocteau fu molto divertente… Con mia grande sorpresa scoprii che eravamo tutti e tre ospiti della città di Bordighera e ci furono offerte tre splendide stanze in un albergo. Peggy Guggenheim

Marco Balbo

giovedì 31 dicembre 2020

In realtà, Talbot aveva praticato a lungo la pittura

William Henry Fox Talbot, fotografato nel 1864 da John Moffat -
Fonte: Wikipedia

Nei primi decenni dell’Ottocento, fra i grand-touristi che esplorano in lungo e in largo l’italica penisola, c’è anche William Henry Fox Talbot: è sul Lago Maggiore con la moglie, che è un’abile pittrice. Talbot assai meno, e cercando di riprendere gli ambienti che gli si parano davanti agli occhi inciampa in notevoli difficoltà tecniche. Non si sa se per sconforto o ira ma - così si racconta - decide di gettar via l’armamentario da pittore e di studiare un metodo automatico per riprodurre ambienti e paesaggi.

In realtà, Talbot aveva praticato a lungo la pittura (e fu anche un letterato e un decifratore di scritture cuneiformi) ma era infine giunto all’idea che questo mezzo non riusciva a rappresentare il mondo nella sua complessità.

Pensò allora - come in quegli anni anche altri stavano pensando - di percorrere la “strada della luce”, cioè di utilizzarne l’azione diretta per creare immagini foto-chimiche.

L’uso della luce per creare immagini era studiato già da secoli, e ce ne racconta qualcosa Francesco Ginatta (“giovine molto competente in questa materia, per aver frequentato riputati stabilimenti fotografici della Francia e dell’Austria”, come spiega …, e specialista degli ingrandimenti indelebili al carbone, secondo quanto egli stesso dichiarava), fotografo nella Sanremo del XIX secolo: La fotografia è fondata sull’azione della luce, e quest’azione fu riconosciuta prima dai greci. Vitruvio aveva rimarcato che il sole alterava certi colori e metteva i suoi quadri in una sala esposta al nord. Però il trovato del Porta, il quale inventò la camera oscura fu l’origine della fotografia. Nel 1556, poco tempo dopo dell’invenzione della camera oscura, un alchimista, Fabricio, trovò il cloruro d’argento, osservò la proprietà di quel sale di annerire sotto l’azione della luce, e per mezzo d’una lente egli prospettò sul cloruro d’argento un’immagine che vi rimase impressa. Era già un bel risultato, ma quello scienziato ricercava la pietra filosofale e passò quindi oltre […]

Nel 1834 William Henry Fox Talbot fa esperimenti sull’immagine latente, da rivelare grazie a particolari sostanze, esperimenti che sono già un primo esempio di quel processo che in seguito sarà chiamato “sviluppo”: Proposi di spargere sopra un foglio di carta una sufficiente quantità di nitrato d’argento, e di porlo alla luce del sole, avendo prima collocato avanti la carta qualche oggetto che vi gettasse una ben decisa ombra. La luce agendo sul rimanente del foglio, naturalmente lo annerirebbe, mentre le parti ombreggiate riterrebbero la loro bianchezza.

I fogli risultano sorprendentemente colorati: Le immagini ottenute in questo modo sono bianche; ma il fondo, sul quale si disviluppano è variamente e piacevolmente colorato.
Tale è la varietà, di cui il processo è capace, che soltanto col cambiare le proporzioni, e qualche lieve dettaglio di manipolazione si ottengono varj dei seguenti colori:

Bleu Celeste
Giallo
Color di rosa
Bruno di varie gradazioni
Nero

Il verde unicamente non è compreso, ad eccezione di un’ombra oscura di esso, che si approssima al nero.

Talbot, Disegno fotogenico, 1839
Fonte: Wikipedia

Realizza icone “in negativo”, ponendo foglie o spighe su un foglio particolarmente trattato - un gesto che chissà quanti avevano già fatto e chissà quanti altri poi faranno, dai facitori di erbari a Man Ray - ed esponendo il tutto ai raggi solari.

Sono i disegni fotogenici: Il primo genere di oggetti, che provai di copiare con questo processo furono fiori e foglie freschi e scelti dal mio erborario, ed apparvero della maggiore verità e fedeltà, offrendo anche le diramazioni delle foglie, i minuti peli, le tessiture delle piante, ecc.

Talbot, Latticed window, immagine ricavata dal più antico negativo esistente, 1835
Fonte: Wikipedia

All’inizio non riesce a stabilizzare queste immagini che per poche ore soltanto: le foto da lui ottenute continuano ad essere suscettibili alla luce. Occorreva bloccare il successivo annerimento. Nel 1835 studia la qualità dei sali d’argento, le concentrazioni necessarie, le procedure per eliminare l’argento non ossidato. Grazie a Sir Frederick William Herschel conoscerà le proprietà fissative del tiosolfato e quindi troverà un metodo sicuro per arrestare l’annerimento. E nel 1841 mette a punto la tecnica della calotipia (detta poi talbotipia): adoperando carta resa trasparente dalla paraffina e sensibilizzata con bagni in soluzioni di cloruro di sodio e nitrato d’argento e sviluppando poi l’immagine con acido pirogallico: otteneva così un negativo dal quale era possibile trarre un qualsivoglia numero di copie.

Nel 1844-46 Talbot darà alle stampe il fotolibro The Pencil of Nature, a cui seguirà, nel 1848, Sun Pictures in Scotland.

Lo studio di Talbot a Reading
Fonte: Wikipedia

Quel che è certo, dunque, è che, quando viene inventato il dagherrotipo, lo scienziato inglese già da molti anni stava sperimentando le sue mouse traps, cioè le prime box fotografiche, riuscendo a riprodurre scorci del “mondo vero”.

Marco Innocenti in Sanremo e l’Europa. L’immagine della città tra Otto e Novecento. Catalogo della mostra (Sanremo, 19 luglio-9 settembre 2018), Scalpendi, 2018



 

[  Marco Innocenti è collaboratore de IL REGESTO, Bollettino bibliografico dell’Accademia della Pigna - Piccola Biblioteca di Piazza del Capitolo, Sanremo (IM) ed autore di diversi lavori, tra i quali: Verdi prati erbosi, lepómene editore, 2021; Libro degli Haikai inadeguati, lepómene editore, 2020; Elogio del Sgt. Tibbs, Edizioni del Rondolino, 2020; Flugblätter (#3. 54 pezzi dispersi e dispersivi), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2019; Flugblätter (#2. 39 pezzi più o meno d’occasione), Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2018; Sanguineti didatta e conversatore, Lo Studiolo, Sanremo (IM), 2016; Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, Ventimiglia, Philobiblon, 2014; Sull’arte retorica di Silvio Berlusconi (con uno scritto di Sandro Bajini), Editore Casabianca, Sanremo (IM), 2010; Prosopografie, lepómene editore, 2009; Flugblätter (#1. 49 pezzi facili), lepómene editore, 2008; con Loretta Marchi e Stefano Verdino, Marinaresca la mia favola. Renzo Laurano e Sanremo dagli anni Venti al Club Tenco. Saggi, documenti, immagini, De Ferrari, 2006  ]

 

sabato 26 dicembre 2020

La poesia del beà

Il tramonto ci invitava verso casa.
La nonna raggruppava parte del raccolto e quello che non stava sulla carriola del nonno finiva in due canestri.

Erano i regali quotidiani del Prau [nel territorio di Camporosso (IM)].

Un fascio profumato di erbe e scarti di verdure dell’orto, che finiva in un telo. Fatto con due sacchi cuciti insieme con quattro lacci ai lati, si chiamava “lensurun”, un lenzuolo povero e disprezzato.

Conteneva la cena per conigli e galline.

Poi la nonna, con un fazzoletto dai colori di un prato sbiadito, fazzoletto che girava attorno alle mani, costruiva un piccolo cerchio, simile ad un nido che finiva sulla sua testa.
Serviva da ammortizzatore al peso di quello che sembrava un grande ombrello rovesciato.
Quando era ben posizionato sul suo capo, il nonno caricava il “lensurun.”

La nonna con i due canestri, uno per mano per l’equilibrio, sembrava un‘acrobata.
Il percorso non era facile: occorreva superare il bedale rialzato.
Ad un lato del sentiero scendeva veloce alle fasce sottostanti un’acqua trasparente.

Le gambe strofinavano, salendo, menta acquatica e nepeta, che esalavano i profumi della fine del giorno.
A noi nulla davano da portare, sapendo che avremmo perduto il carico per strada, mentre raccoglievamo piccoli maggiolini verde-blu. Insetti dal colore delle opali, piccoli gioielli.

Povera nonna carica come un somaro, che giunta a casa doveva ancora lavare, tagliare, cuocere la fatica dell’orto!

Quanti soli di tarassaco, violette, selene, abbiamo reciso, noi bambine per farle naufragare nel nostro mare. Un rigagnolo nel verde, percorso dall’acqua a giorni prestabiliti.

Quanti concerti con improvvisati flauti di germogli di canne riempivano i pomeriggi!

La nostra merenda vicino ad una baracca di canne era un banchetto.
Per il nonno e per noi aveva il sapore di una liturgia.
Mentre l’acqua scivolava nei solchi e abbeverava tutte le verdure si poteva fare una sosta.
Sempre con un occhio vigile all’acqua che facesse il giro giusto.
Non dimenticando nessuno degli assetati.

Estraeva il suo coltellino a scatto, quello per fare gli innesti con la punta curva. Lo puliva sulle braghe di fustagno e tagliava i pomodori da mettere sul pane. Una fiaschetta di olio, il sale estratto da un fazzoletto, che aveva visto tempi migliori, e poi l’operazione magica che riduceva il cetriolo in quattro perfette strisce, lasciando i semi intatti.

Ne ricordo il colore, il gusto ed il rumore sotto i denti.

Continuo a tagliare ancora il cetriolo in quattro per vedere luccicare i semi, per ricordare quei momenti magici.

Questi i ricordi di noi bambine, quando in estate, libere dalla scuola, seguivamo i nonni nel loro grande orto.
Percorrevamo una strada dai bordi fioriti, che seguiva prati a fieno e campagne curate come le stanze di casa.

Tutto serviva alla sopravvivenza.

Libere di correre e giocare, ma guai a rovinare i canaletti o “surchi“, strade che il nonno tracciava all’acqua: le piante dovevano bere tutte!
Quella terra non lontana dal torrente era di consistenza sabbiosa.

Un passo falso e quello sbarramento disegnato con cura dal nonno crollava.
Seguivano le terribili minacce di cacciata dall’eden.

Gris de lin

venerdì 18 dicembre 2020

Gli artisti Enzo Maiolino e Giuseppe Balbo

Giuseppe Balbo, Ritratto di Enzo Maiolino - Fonte: Archivio Balbo

Scrive Enzo Maiolino nel suo libro Non sono un pittore che urla [Conversazioni con Marco Innocenti, con uno scritto introduttivo di Leo Lecci, Ventimiglia,  Philobiblon, 2014]:

"Balbo  fu l’incontro più importante dei miei vent'anni. Devo a Balbo, alla sua generosità, la realizzazione del sogno della mia adolescenza: diventare pittore".


Balbo e Maiolino si sono conosciuti nel 1946, quando Enzo si unì ad un primo gruppo di pittori che cominciò a radunarsi  nello studio allestito [in Bordighera (IM)] da Balbo al ritorno dall’Africa. "Noi, allievi della sua Scuola serale, fummo subito etichettati “pittori dilettanti” o “pittori della domenica”.".

Balbo insegnava a “vedere” da pittore. Cosa complessa, una vera e propria tecnica. La scelta del soggetto, la comprensione dell'”insieme”, l’osservazione e il confronto tra i vari elementi, la percezione dei “valori” chiaroscurali e tonali, ecc. Tutto ciò, insomma, che precede la trasposizione di un soggetto sul supporto (carta, tela, tavola)… Secondo me Balbo conosceva molto degli antichi procedimenti. Come provava la sua consuetudine, specie nelle tempere murali, di abbozzare con toni freddi e procedere, poi, con velature di colori caldi”.
"Poiché ognuno di noi si guadagnava da vivere con un secondo mestiere, a volte, la domenica, la Scuola al completo si trasferiva in campagna per esercitazioni en plein air." (Maiolino, op.cit.) 
 
L’incontro fu fondamentale per la formazione del giovane pittore, ma fu importante anche per Balbo, che trovò in Enzo e nel fratello Beppe Maiolino due validi collaboratori. In particolare Beppe Maiolino, come fotografo, ha documentato momenti importanti della Mostre organizzate da Balbo.

I percorsi artistici di Balbo e Maiolino andranno avanti in autonomia, ma resterà sempre tra di loro un legame speciale, una vicinanza artistica nonostante gli opposti mondi pittorici. In particolare Maiolino  scrive due attente recensioni nel 1966 e nel 1972, in occasione delle personali di Balbo, rispettivamente nella galleria del “Piemonte Artistico Culturale” di Torino e nella galleria della “sua” Accademia di  Bordighera.
In particolare, nel 1972,  Maiolino analizza con grande efficacia il mondo di Balbo:"… l’eclettismo di Balbo, più appariscente nelle due precedenti mostre, appare in questa più contenuto e un attento esame delle opere esposte ci permette una più serena riflessione sulla sua opera. La quale , a nostro avviso, presenta due aspetti fondamentali: il primo riguardante il diretto contatto del pittore con alcuni aspetti della realtà circostante; il secondo, l’estrinsecazione del suo mondo fantastico nel quale confluiscono spesso suggestioni letterarie e una sincera componente “surrealista”…".

Enzo Maiolino e Giuseppe Balbo - Fonte: Archivio Balbo

Alla fine di questo articolo Maiolino si sbilancia:
Augurandogli altri lunghi anni di sereno lavoro, sentiamo che ci riserverà ancora delle sorprese (il suo recente entusiasmo per alcune tecniche calcografiche mai prima sperimentate, ci fa ben sperare in tal senso).

Enzo Maiolino, La Cattedrale di Ventimiglia (tempera) - Fonte: neldeliriononeromaisola

Le sperimentazioni calcografiche di Balbo si erano fermate alla puntasecca e alla xilografia, le tecniche incisorie più immediate, dove il segno morde e comanda, senza ripensamenti ma anche con minori possibilità espressive.
 
Un lavoro di Enzo Maiolino - Fonte: Laura Hess

Invece Maiolino già negli anni 50 affrontava il mondo delle acqueforti, e proprio nel 1972 realizza una significativa cartella di sei acqueforti dal titola “La casa nera”, a cura di Vanni Scheiwiller.

Ho un ricordo vivido di una estate dei miei sedici anni; nel magazzino dei fiori di mio padre Elio, spesso usato dallo zio Beppe per i lavori ingombranti, appare un torchio da stampa, bottiglie di acido, carte preziose, e con la guida tecnica di Enzo, Balbo realizzerà una bellissima serie di acqueforti con acquatinta, allo zucchero e a pasta molle.
 

Marco Balbo © Archivio Balbo Archivio Balbo

 
 
“È guardando agli innumerevoli aspetti della natura e della vita, come ai più diversi momenti della vicenda umana, che Giuseppe Balbo ha creato una inesauribile e ricchissima antologia, mosso da una mai quieta curiosità esplorativa e, più nel profondo, da una assoluta necessità di intendere le cose e la realtà intorno a sé attraverso la pittura stessa. Per tutta la vita egli ha visto, ha osservato, ha raccontato o ha illustrato e, soprattutto, tutto ciò ha dipinto, respingendo suggestioni e modi che non lo riguardavano, lavorando con assiduità e convinzione. Balbo ha saputo dare l’esempio di un impegno dignitoso e severo ed ha fornito insieme una lezione della più alta fedeltà”. 
Massimo Cavalli, “La Voce Intemelia” del 23 gennaio 1978 

A partire dagli anni Settanta Enzo Maiolino approda ad un astrattismo di matrice neoconcreta, attraverso un’inedita combinazione di forme geometriche basate sui giochi del Tangram, dei Pentamini e degli Esamini. Numerose le personali a lui dedicate, dalle prime mostre liguri alle grandi esposizioni tedesche di Ingolstadt, Bottrop, Bonn, Colonia, Münster. Nel 2007, in occasione del suo ottantesimo compleanno, il Museo Civico di Sanremo gli dedica la Mostra “Geometrie in gioco. Enzo Maiolino. Opere 2000-2007”, a cura di Leo Lecci e Paola Valenti. Oltre ad una ricca selezione di opere grafiche e pittoriche, una sezione della mostra espone i documenti raccolti da Enzo Maiolino nella sua lunga attività di artista e studioso: libri, fotografie, manifesti, depliant, pubblicazioni, articoli di giornali che testimoniano e raccontano tutte le vicende legate alla vita culturale dell’ultimo cinquantennio. Una parte consistente dell’Archivio Maiolino è attualmente conservata presso l’AdAC (Archivio di Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Genova) al quale l’artista ha deciso di destinare la sua intera raccolta documentaria.
Comune di Sanremo (IM), ottobre 2014
 
Enzo Maiolino, calabrese di nascita (1926) e ligure d’adozione (dal 1937), pubblicò le sue prime acqueforti negli anni Settanta e iniziò a orientare la propria opera verso una pittura aniconica di matrice neoconcreta con splendide scansioni cromatiche, praticando intanto l’arte incisoria per sperimentare ancor meglio l’astrazione delle forme.
Nel 1993 il critico e storico d’arte tedesco Walter Vitt conobbe l’opera di Maiolino e cominciò a promuoverla tramite una mostra monografica e itinerante per la Germania (1996-1997) e poi curò un prezioso catalogo (1).
Con l’aprirsi del nuovo millennio anche l’Italia s’è accorta dell’artista, nel 2001 alcune sue creazioni sono entrate nella collezione permanente del Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce e, nello stesso anno e sempre a Genova, la Fondazione Novaro gli ha conferito il premio per la cultura con la rondine in ceramica (oltre ad avergli dedicato per intero il quaderno numero 35 de «La Riviera Ligure»).
Maiolino, per limitarsi a qualche esempio emblematico, ha pubblicato testimonianze inedite e rare su Amedeo Modigliani (2), ma anche una raccolta di racconti di Giacomo Natta (3), ha impreziosito con i suoi disegni diverse sillogi poetiche (soprattutto per Vanni Scheiwiller) e ha rilasciato una lunga intervista su se stesso, eloquente sin dal titolo Non sono un pittore che urla (4).
Il sapere del poliedrico pittore si poggiava saldamente su una memoria fatta di mille cassetti dove tutto era stato messo gelosamente al sicuro e ordinato con paziente perizia, mentre la sua curiosità e la sua generosità rendevano d’impiccio chiavi e combinazioni: era sempre pronto ad archiviare un nuovo documento, ad aggiornare una vecchia bibliografia, ad attentare all’intrico di una questione complicatissima, e con forza uguale e teneramente contraria ti concedeva di guardare da vicino, ti coinvolgeva nella gioia di una scoperta, ti chiedeva di ripartire daccapo e insieme per una ricerca fin lì infruttuosa (quella relativa a Natta e Zambrano ci ha appassionato particolarmente).
Alessandro Ferraro, La memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, XXVIII, 83, maggio/settembre 2017
 
1 Walter Vitt, Enzo Maiolino 1950-2000. Das druckgrafische Werk. Opera incisa e serigrafica, Nördlingen, Steinmeier Verlag, 2000. Segnalo anche il catalogo a colori Geometrie in gioco. Enzo Maiolino. Opere 2000-2007 (Genova, De Ferrari, 2007), curato da Leo Lecci e Paola Valenti che tante attenzioni hanno dedicato all’artista “ligure”. 
2 Modigliani vivo. Testimonianze inedite e rare, a cura di Enzo Maiolino, con una presentazione di Vanni Scheiwiller, Torino, Fogola, 1981. Dopo 35 anni l’importante volume è pronto ed è tornato in circolazione grazie a una nuova edizione: Modigliani, dal vero: testimonianze inedite e rare raccolte e annotate da Enzo Maiolino, a cura di Leo Lecci, De Ferrari, Genova, 2016.
3 Giacomo Natta, Questo finirà banchiere. Racconti. Un ricordo di Giacomo Natta, a cura di Enzo Maiolino, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1984.
4 Enzo Maiolino, Non sono un pittore che urla. Conversazioni con Marco Innocenti, con uno scritto introduttivo di Leo Lecci, Ventimiglia, Philobiblon, 2014. 


 

domenica 13 dicembre 2020

I Bassi di ebrei ne hanno fatti sconfinare molti verso Francia

Ventimiglia (IM), Largo Ettore e Marco Bassi,  a fianco del negozio che era stato della famiglia

Con gli anni si dorme di meno e Pierin ne ha ottantasette e la sera da un po’ di tempo fa fatica a prendere sonno.
E poi c’è quella scena che gli viene in mente tutte le sere.
Sono a cena da Tornaghi, il commissario Pavone è passato con la scusa di bere una volta; ha avvertito Marco Bassi che il giorno dopo passerà a prenderlo, arrestarlo, lui e suo padre Ettore.
Li avvisa per dar loro l’ultima occasione per fuggire, in un certo senso sono tutti amici, compagni di ribotte.

I Bassi di ebrei ne hanno fatti sconfinare molti verso Francia e stavolta dovrebbero scappare loro.

Pierin ha capito al volo ed ha subito pensato alle valli di Cuneo, già in mano ai partigiani ed ai contrabbandieri, alla possibile salvezza a Caraglio, a Castelmagno dove conosce molti amici.
E’ pronto col tassista Cavallotti per portarli via, padre e figlio.
Anche Marco ha capito, ma il padre è già anziano e non vuole lasciarlo solo; la mamma l’hanno già sistemata con l’aiuto dei Notari alla clinica Moro, sulla via Romana.
Sono lì e si guardano indecisi; Marco si toglie dal polso l’orologio d’oro di marca e lo offre in ricordo a Pierin che tentenna, vuole ancora convincerlo a scappare.
Così l’orologio lo prende la Giretto, che gestiva il negozio dei Bassi.
Quell’orologio gli manca da più di sessant’anni e quel gesto è l’ultimo che gli viene in mente ogni sera prima di addormentarsi. E prendere sonno è sempre più difficile.

Arturo Viale (3), ViteParallele, 2009

(1)  [ristorante in Ventimiglia (IM), vicino alla stazione ferroviaria]

(2) [I commercianti ebrei Bassi, Ettore, il padre, e Marco, il figlio, benefattori non solo degli ebrei stranieri in fuga, a causa delle Leggi Razziali del 1938, tramite Ventimiglia e zona verso la Francia nel periodo 1938-1939, ma anche benemeriti della città e del comprensorio, i Bassi, arrestati a Ventimiglia il 26 novembre 1943, incarcerati a Milano e deportati ad Auschwitz, da dove non fecero più ritorno. In proposito degli ebrei stranieri: Paolo Veziano, Ombre al confine. L’espatrio clandestino degli Ebrei dalla Riviera dei Fiori alla Costa Azzurra 1938-1940, ed. Fusta, 2014].

(3) [  Arturo Viale, La Merica...non c'era ancora, Edizioni Zem, 2020; Arturo Viale, Oltrepassare. Storie di passaggi tra Ponente Ligure e Provenza, Edizioni Zem, 2019; Arturo Viale, L'ombra di mio padre, 2017; Arturo Viale, Quaranta e mezzo; Arturo Viale, Viaggi; Arturo Viale, Mezz'agosto; Arturo Viale, Storie&fandonie; Arturo Viale, Ho radici e ali  ] 

 

lunedì 7 dicembre 2020

Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano De Giovanni (particolare di un disegno del 1957) - Fonte: La Riviera..., Op. cit. infra

Volevo tanto bene a Natta da essermi prefisso di assistere ad ogni costo ai suoi prestigiosi “Lunedì Letterari”, malgrado che si svolgessero nel Teatro dell’Opera del Casinò Municipale [di Sanremo (IM)].
E non soltanto, si capisce, perché sapevo di dargli un piacere - quelle conferenze, alle quali intervenivano valenti scrittori e autorevoli critici non potevano non interessarmi - ma bisogna anche sapere che a quei tempi - si era nel 1958 - io facevo l’idraulico e poteva succedere che proprio durante uno di quegli attesi pomeriggi culturali mi toccasse, per esempio, di dover andare a pulire le stufe di qualche albergo, per cui, scappando poi a casa per lavarmi alla meglio e cambiarmi d’abito, pur giungendo col fiato in gola a occupare una poltroncina in fondo alla sala, non mi trovassi nello stato d’animo ideale per conformarmi di punto in bianco alla sontuosità dell’ambiente, ancora impregnato come mi pareva d’essere di fuliggine e di sudore.
Ma ero giovane e testardo e in quella breve parentesi di brusii e andirivieni che prevedevano l’inizio della conferenza riusciva quasi sempre a rinfrancarmi.
All’apparire sul palco di Natta al fianco del suo illustre ospite, io mi sentivo, ormai, a mio agio; tiravo un sospiro di sollievo e partecipavo allegro ai battimani del pubblico.
Ma Natta, decisamente, insisteva nel chiedermi troppo.
Pretendeva addirittura che, conclusosi il discorso, io lo raggiungessi dietro le quinte e mi facessi coraggiosamente avanti per stringere la mano al celebre personaggio di turno, mentre intanto, Natta, mi presentava.
L’ospite, messo alle strette, doveva pur rivolgermi qualche imbarazzato complimento…
Queste non volute intrusioni in un mondo che non mi toccava finivano con l’opprimermi e me ne tornavo a casa scontento e umiliato, tanto più se m’ero visto costretto a partecipare al rinfresco che concludeva la cerimonia.
[…] Quando ci ritrovammo soli implorai Natta di aver compassione dei miei limiti. Non me la sentivo più di far la parte del poeta del posto, e rinunciavo volentieri ai privilegi che ne derivavano.
[…] Da allora mi godetti il piacere dell’incognito nella mia poltroncina d’angolo, vicina all’uscita, e Natta, quando riusciva ad avvistarmi, mi salutava dal palco con un impercettibile gesto. 

Un lungo ricordo dei “lunedì letterari” apre Il vino schietto dello scrittore Giacomo Natta, omaggio firmato da Luciano De Giovanni per la rivista «Provincia d’Imperia» (14, 1991, pp. 14-15)

Alessandro Ferraro, Aprii, cauto, la porta. L’incontro di Luciano De Giovanni con Camillo Sbarbaro, in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro,  XXVIII, n° 84, settembre/dicembre 2017

Enzo Maiolino, Ritratto di Luciano [Luciano De Giovanni], 1956 - Fonte: Comune di Diano Marina (IM) cit. infra

Di Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1921 e morto a Montichiari (Brescia) nel 2001, amici e biografi ci hanno consegnato l’immagine “esterna” di uomo schivo e riservato, costretto a intraprendere diversi mestieri e a seguire infine il mestiere del padre idraulico per provvedere ai bisogni della famiglia.
Autodidatta di moltissime letture, negli anni ’50 ebbe presto accoglienza in un cenacolo di poeti e pittori che fiorì a Bordighera, tra i quali Enzo Maiolino e Carlo Betocchi. Fu quest’ultimo a cogliere l’originalità delle sue prime prove e ad avviarlo alla collaborazione con importanti riviste letterarie nazionali. Avvenimento assai importante degli anni successivi è la corrispondenza intensa con due grandi personalità della poesia ligure, Angelo Barile e Camillo Sbarbaro, ch’egli considerò sempre amici e maestri. Con Barile, soprattutto, il rapporto si rivelerà particolarmente affettuoso e continuo data l’affinità -non l’identità- del sentimento religioso che legava entrambi.
L’attività poetica di De Giovanni si estende, con alcune interruzioni, per tutta la seconda metà del secolo scorso. Ma l’interesse esclusivo dell’autore per l’atto creativo in sé, come partecipazione al progetto di vita piuttosto che al successo della sua produzione, ha fatto mancare la cura per il ricupero e l’organica collocazione dei testi in raccolte. Ciò spiega perché ai riconoscimenti sempre lusinghieri della critica non sia seguita la conoscenza e l’apprezzamento del grande pubblico.
Pertanto la pubblicazione delle poesie di De Giovanni, promossa da amici ed estimatori, non colma tutte le lacune e riesce oggi, in parte quasi introvabile. Spetterà ai figli del poeta, Giorgio e Anna Maria trovare mezzi ed energie per dare avvio al recupero e di riordinamento dei materiali esistenti. Solo allora potrà essere avviata un’attività critica da cui attendersi la soluzione dei problemi ancora aperti. Anzitutto quello delle fonti, non ancora esaurientemente esplorate [...]
Mario Carletto, La condizione di precarietà della vicenda umana nell’opera poetica del sanremese Luciano De Giovanni, Incontri in Biblioteca, "L’infanzia, il passato, il presente. Tre stagioni, tre autori del Ponente ligure", Comune di Diano Marina, Biblioteca "A. S. Novaro", 2007

"Ehi, sorellina!". Quasi stupito, appena addolorato, la sgrida come a dirle "Cosa stai facendo? Svegliati! È inverno, fa freddo, ma c'è il sole e il cielo è limpido. Perché sei morta, allora?"
Un minimo e preziosissimo Cantico delle creature, di francescana umiltà e letizia: come tutte le poesie che ci ha lasciato Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001.
De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell'Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro '900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato… ), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956.
Alida Airaghi in La poesia e lo spirito

Nella foto d'epoca, da sinistra, Enzo Maiolino e Luciano  De Giovanni

L’esistenza, oggi, di un Fondo De Giovanni lo si deve alla determinazione ma anche al caso. Era il febbraio del 2011, al Museo civico Borea d’Olmo di Sanremo Giuseppe Conte presentava il suo Viaggio sentimentale in Liguria (Philobiblon, 2010) ed eravamo giunti io da Ventimiglia, Enzo Maiolino da Bordighera e Stefano Verdino da Genova. Cogliendo l’occasione e utilizzando come pretesto la recente pubblicazione di un mio contributo - frondoso, barocco e, ahimè, pure acerbo - su Le case vicino al torrente di De Giovanni (Philobiblon, 2009) Verdino mi presentò Maiolino e poi Giorgio, avvicinatosi dall’angolo dove aveva assistito all’evento: ho conosciuto, così, il figlio e l’amico più fedele del poeta grazie al suo più assiduo studioso [...] Le riviste e il raccoglitore hanno costituito una base molto solida su cui ricostruire la bibliografia degli scritti di e su De Giovanni che si trova in chiusura del quaderno [...] l’autore rimane da decenni introvabile, come gli scrisse il 21 settembre 1984 un lettore d’eccezione, Fredi Chiappelli (da Los Angeles di passaggio a Genova): Gentile signore,leggo su «Resine» le sue Nove Poesie (2). Il profondo interesse di cui mi hanno colpito (e per ragioni che vanno dalla raffinatezza pressoché incredibile nella forma alla percezione degli scandagli nelle più austere aree dell’esperienza) mi spingono all’indiscrezione di scriverle direttamente.Non che non abbia, prima, tentato di rintracciare in varie librerie genovesi qualche Sua pubblicazione; e persino scomodato amici che si occupano di letteratura ligure per essere avviato su una pista bibliografica. Ma sono stati tentativi sfortunati, e anche da [Domenico] Astengo ho avuto il consiglio di scriverle.Non ho mai fatto niente di simile; ed ho tutto l’imbarazzo che potevo avere avvicinandomi alla letteratura quasi cinquanta anni fa. Persino la domanda mi pare cruda e impertinente.Ma vorrei leggere altre sue cose. Dunque: Come devo fare? Come posso procurarmi i suoi scritti?Ora dovrebbe venire un paragrafo di scusa. Me ne voglia esentare: e credermi invece con ammirazione il suo Fredi Chiappelli Sullo scaffale centrale [...]  una geografia in gran parte ligure (con edizioni e dedicatari di Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga, Savona, Genova, Recco e Sarzana) ma qualche libro gli giunse da Milano, Firenze e d’oltreoceano, tramite lo stesso Verdicchio. Oltre al Fuochi fatui con dedica di Camillo Sbarbaro nell’edizione All’Insegna del Pesce d’Oro (Milano 1958) di Scheiwiller [...] spiccano, anche per ricorrenza, i nomi di Elio Andriuoli, Fredi Chiappelli, Franco D’Imporzano, Sergio Ferrero (che attende giudizi e s’augura di non deludere De Giovanni), Roberto Rebora, Lalla Romano (che definisce De Giovanni «poeta del mare», 4 gennaio 1995), Bruno Rombi, Giovanni Testori («a Luciano De Giovanni di cui ho amato le bellissime poesie con affetto», 25 marzo 1971), Renato Turci e Guido Zavanone [...]  È la fedeltà di De Giovanni alla sua terra (nativa o d’adozione che sia), e che ben lo apparenta ai maggiori poeti della «Riviera Ligure», vero com’è ancora una volta che in Liguria non si nasce o non si vive (e soprattutto non si scrive) senza avere almeno un debito verso quel paesaggio, e il suo singolare alfabeto (6).

1 Alessandro Ferraro, Memoria di Enzo Maiolino, «La Riviera Ligure», XXVIII, 83, maggio-settembre 2017, pp. 73-77. 
2 Luciano De Giovanni, Nove poesie, «Resine», seconda serie, VI, 19, gennaio-marzo 1984, pp. 45-47 (con nota di Domenico Astengo, p. 48).
6 Giorgio Caproni, Luciano De Giovanni per i tipi di Rebellato: Viaggio che non finisce, «La Fiera Letteraria», 9 marzo 1958, p. 3. Ora in Giorgio Caproni, Prose critiche, a cura di Raffaella Scarpa, prefazione di Gian Luigi Beccaria, Aragno, Torino 2012, vol. 2, pp. 1003-1007 (1005-1007).
 
Alessandro Ferraro, Partendo dal Fondo in La Riviera Ligure, quadrimestrale della Fondazione Mario Novaro, n° 87-88, settembre 2018 - aprile 2019, Anno XXX