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giovedì 13 maggio 2021

Giovani intellettuali nella Bologna di metà anni '30 del secolo scorso

Bologna: Via Santo Stefano - Fonte: Mapio.net

[...] Per Arcangeli, Bertolucci e Rinaldi era divenuto consueto anche fermarsi, spesso insieme agli altri sodali, alla bottega di stufe di Giuseppe Raimondi in via Santo Stefano [a Bologna] <118. Sebbene Raimondi avesse deciso dall’inizio degli anni Trenta di dedicarsi completamente alle “ingenue faccende” <119 della vita d’officina “regolata dagli orari, e dal gusto delle preoccupazioni materiali” <120 che bucavano “la giornata come tarli” <121, appartandosi intenzionalmente dalla vita letteraria cittadina <122, la sua figura continuava ad esercitare un estremo fascino sui giovani universitari. Dalla fumisteria erano passati infatti intellettuali come Bacchelli, conosciuto fin dall’adolescenza nonché collega del progetto di «Raccolta» <123 e poi della «Ronda», Cardarelli, nonché lo stesso amico pittore <124 Giorgio Morandi <125. "Quell'eredità letteraria" <126 che Raimondi "era rimasto in loco ad amministrare" <127, continuava a difendere “l’autonomia e l’efficacia" <128 di un'esperienza squisitamente culturale come era stata la «Ronda». Ma se in momenti complessi come quelli tra il '19 e il '22, era stato possibile tenere “nei confronti della politica, un atteggiamento distaccato e alquanto ironico” <129 nel '36-'37 la nuova generazione di intellettuali, consapevole di vivere in “anni minacciatissimi eppure liberi, per chi voleva esserlo” <130, cominciava a rileggere il ritorno all'ordine rondista come la mancanza di una “una schiettezza totalmente equilibrata” <131.
3. L'esperienza del «Corriere Padano»
Nonostante il ruolo appartato di provincia Ferrara, “assonnata e conformista” <132, pur avendo vissuto la non lontana avventura metafisica di Carrà, De Chirico e dell'instancabile <133 De Pisis <134, che aveva aperto, sebbene per breve tempo, la città al panorama europeo, si apprestava a svolgere un ruolo importante nella formazione degli intellettuali emiliani dimostrandosi insospettati luoghi di incontro e di dibattito. La città però era “intensamente devota al regime: al punto che le poche persone che fasciste non erano, vivevano ai margini, non avevano alcun rapporto con gli altri, coi più” <135.
Bassani e Caretti avevano frequentato il Liceo Ariosto <136 in via Borgo Leoni, nel quale insegnavano Francesco Viviani <137, docente di greco e di latino, un "uomo scarsamente amabile, quasi sempre corrucciato" <138 ma "intransigente antifascista" <139, e Francesco Carli <140, "cattolico comacchiese" <141, ricordato per le intelligenti letture critiche, con tagli un po’ distanti da quelli ufficiali <142. A partire dal 1937 i due giovani studenti avevano conosciuto Giuseppe Ravegnani il quale, oltre a esortarli a seguire le pubblicazioni della casa editrice Taddei <143, aveva aperto ai giovani la sua "ricchissima e modernissima biblioteca” <144, come ricorda lo stesso Caretti, che insieme a Bassani aveva preso a frequentarla con una certa assiduità:
"Là io ho trovato il Proust francese di Gallimard, là per la prima volta ho letto l'Ulisse di Joyce nella traduzione di Valèry Larbaud, oltre agli italiani moderni, agli americani. Personalmente poi mi tenevo aggiornato acquistando oculatamente tutto ciò che non bisognava lasciarsi sfuggire. È il tempo dell'incontro con i nostri prosatori, a cominciare da Moravia (ma anche Bacchelli, per intenderci e i prosatori d'arte, Cecchi in primo piano) e dei poeti: da Saba a Montale, da Ungaretti a Quasimodo, e i più giovani via via sino a Sandro Penna su cui scrissi anche una noticina premonitrice, se non mi inganno. E feci tesoro degli stranieri della Medusa di Mondadori e dei Corvi della editrice Corbaccio: memorabile l'incontro con l'Alain Fournier del Grande amico e con il Faulkner di Oggi si Montale e altri vola, e anche con Dos Passos e con lo stesso Steinbeck, poi vituperato ma allora raccomandato dalla traduzione di Montale e rivelatore in Furore dei primi grandi scioperi americani sino a quel momento a me ignoti" <145.
"Il più illustre, allora, dei letterati ferraresi" <146, era diventato poi direttore della terza pagina del «Corriere Padano» <147, una rivista a cui i due intellettuali si erano avvicinati fin dal 1935. Caretti era comparso per la prima volta con un articolo, In tema di celebrazioni <148, dedicato al centenario carducciano, seguito, appena un mese dopo, dalla pubblicazione del racconto di Bassani Terza classe <149, che lo stesso autore ricordava profondamente influenzato dalle letture trovate in casa Ravegnani:
"Credo sia stato proprio lui a darmi da leggere, fra gli altri, parecchi libri usciti in quegli anni a Firenze: i libri, voglio dire, di Alessandro Bonsanti, di Arturo Loria, di Tommaso Landolfi eccetera, nonché l'Antologia della letteratura italiana del Novecento di Papini e Pancrazi" <150.
La possibilità di collaborare al «Corriere padano» in una pagina che permettesse, in campo letterario, un margine di libertà tale da consentire loro di discorrere degli scrittori a cui credevano, era apparsa ai "giovani tra i venti e i ventidue anni un'occasione favorevole per uscire dall'isolamento" <151. Si trattava di una libertà limitata e "strumentalizzata nell'ambito dello scontro politico tra fascismo ferrarese e fascismo nazionale" <152. Il fascismo locale, sostenuto da un capitalismo agrario che si stava giocando “le sorti della sua stessa sopravvivenza” <153, aveva assunto fin dal 1920 caratteristiche proprie grazie a Italo Balbo, giovane segretario del fascio di Ferrara nonché efficace organizzatore dello squadrismo fascista. La forte personalità di Balbo aveva dato alla redazione un'autonomia indiscussa, tanto che fu possibile per Quilici e Ravegnani "alimentare una terza pagina non del tutto ortodossa sul piano letterario e aperta ai contributi dei giovani di qualche merito e di non troppo convenzionale zelo" <154, al quale si aggiungevano esponenti di avanguardie artistiche e letterarie non graditi al potere <155. A Bologna, invece, mancavano dei “centri di elaborazione culturale non istituzionali” <156 e un’editoria militante, se si eccettua “l’attività benemerita quanto sconosciuta del Testa, primo editore di Gaetano Arcangeli e di Meluschi” <157.
Ancora per tutto il 1936 Caretti <158 e Bassani <159 avevano continuato a pubblicare sulla rivista ferrarese, con il coinvolgimento, a metà anno, di altri due compagni di studi, Giovanelli <160 e Vegliani <161, mentre nel 1937, divenuto Bassani, appena ventenne, un giovanissimo redattore della terza pagina, il «Corriere» si era aperto a tutti gli esponenti del gruppo bolognese: Arcangeli <162, Frassineti <163, Giovanelli <164 e Rinaldi <165, con i quali la collaborazione sarebbe proseguita per il biennio '38-'39 sebbene con minor intensità fino a scomparire, se si eccettua il caso di Caretti, nel 1940 <166. Anche Bertolucci, sebbene attratto dal fervore intellettuale dei "caffè letterari più famosi d'Italia" che si erano andati formando nella sua città d'origine, divenuta un fecondo luogo di incontro di scrittori e artisti, aveva inviato alcuni testi al «Corriere» <167 segno di fedeltà a quel "sodalizio letterario di profonda e durevole natura" che aveva stretto coi suoi compagni di studi. Si era aggiunto inoltre al gruppo Giuseppe Dessí <168, appena giunto in città, che avrebbe continuato a pubblicare sulle pagine della rivista per circa due anni <169. Il fondamentale collante che univa giovani provenienti da esperienze culturali estremamente eterogenee era "la comune inclinazione a stringere amicizia con chi, in qualche modo, si collocava culturalmente fuori dalle istituzioni pubbliche" <170 da loro "egualmente rifiutate" <171.
I giovani camarades pisani erano stati infatti attratti da questa, seppur limitata, "libertà operativa" <172, che era garantita, nonostante il regime, soprattutto da alcune testate giornalistiche come il «Corriere padano» <173 e, successivamente, «Primato»:
"Dietro i racconti e le prose che scrissi nel '35 fino a tutto il '37, buona parte dei quali avrei poi messi insieme nel volume Una città di pianura, stampato a mie spese nel '40, c'è dunque Bologna. Ma non basta. Non si potrebbe intendere un racconto come Un concerto, che avevo pubblicato su «Letteratura» di Alessandro Bonsanti nel '37, ed è compreso in Una città di pianura, senza tener conto della presenza a Ferrara, a cominciare dal tardo '35, di Claudio Varese e di Giuseppe Dessí, due giovani letterati, sardi entrambi, ed entrambi usciti dalla scuola normale di Pisa. Si è parlato spesso, da parte della critica, di una mia derivazione da Proust. Non sono completamente d'accordo. Più che da Proust, nella cui opera mi sarei immerso di lì a poco, Un concerto deriva da San Silvano, un libro per lui fondamentale che Dessí veniva scrivendo in quegli anni e che lui stesso soleva leggermi si può dire ogni giorno, pagina dopo pagina" <174 [...]
118 In Lettera ad un amico poeta apparsa sul «Mondo» il 26 luglio del 1955 (p. 8) Raimondi allude a un’amicizia ventennale con Rinaldi (“Libro dove ritrovo, non il ricordo ma il sentimento vivo di un’esperienza di affetti e di pensieri che ci è stata, mi perdoni, un poco comune in questi ultimi vent’anni”) confermata anche da Bassani in Di là dal cuore ("L'incontro a Bologna con Carlo Ludovico Ragghianti avvenne nel '37, se non ricordo male, per me significò moltissimo. Dal giovane letterato che ero mi trasformò in breve tempo in un attivista politico clandestino, sottraendomi sia alle amicizie letterarie ferraresi sia a quelle bolognesi. L'unico sodale a seguirmi in questa nuova vicenda della mia vita fu Antonio Rinaldi. Entrambi da allora, per qualche tempo almeno, cominciammo a disertare sia le lezioni universitarie di Roberto Longhi, sia la bottega di stufe di Giuseppe Raimondi" (In risposta (V), in G. Bassani, Di là dal cuore cit., p. 379, poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1320).
119 G. Raimondi, Giuseppe in Italia, Milano, Il Saggiatore, 1973, p. 128.
120 Ibidem.
121 Ibidem.
122 “Qualche profonda ragione di dubbio mi sorprendeva, quando, la sera, riaprivo libri e carte letterarie. Non vedevo la pratica destinazione di un simile lavoro. Per chi fare arte e poesia, in Italia, nell’anno 1930? Si manifestava, da parte della classe dirigente, un interesse verso gli scrittori abbastanza offensivo e provocatorio. Il gusto per la prosa scientifica del Seicento; la propensione ad affondarmi in esplorazioni pascaliane; lo studio in un certo modo seguito e circostanziato della poesia di Baudelaire; tutti elementi sufficienti ad escludermi, ad esimermi dalla vita letteraria. Sinceramente desideravo di essere dimenticato. […] Certi giorni mi scoprivo ad osservare, sopra pensiero, la scritta, composta di grosse lettere di legno, a vernice nera, disposta in lieve curva, o arco, sopra quella che un tempo fu la cucina (la stanza di soggiorno) della mia famiglia. Dice la scritta: «Fumisteria»; e suona con sottinteso involontario di burla e di tristezza. Ma in quell’arco di forti, serie, decise lettere, è anche un ricordo di difesa; di difesa civile e morale. Oltre quella porta non è facile darla a bere. Principi, ideologie vi passano certe prove. Chi sperimenta paga di persona. Anche la gloria; i sogni lungamente portati, e fermati in qualcosa di esteticamente definito, sono soggetti a trattamenti attentissimi; ad attese estenuanti” (ivi, pp. 127-128).
123 “Al rientro a casa, nel ’18, mi ritrovai con Bacchelli nelle sere al caffè. Riprendemmo le nostre conversazioni letterarie e con questo animo si ventilò di stampare una nostra rivista e fu quella che si chiamò «La Raccolta». Invitammo per collaborarvi gli scrittori lasciati da poco in guerra e altri già legati a Bacchelli, come Emilio Cecchi, Carlo Linati, Lorenzo Montano, Antonio Baldini e Ardengo Soffici, in aggiunta ai più giovani miei amici, che erano Raffaello Franchi e Filippo De Pisis. Dei pittori pubblicammo cose di Morandi e gli scritti metafisici di Carlo Carrà. Da Cardarelli ci giunse un bel gruppo di prose inedite. In tal modo si era consolidato una sorta di ponte culturale tra il territorio bolognese e l’atmosfera dell’ambiente romano uscito dagli impacci bellici. A Roma poi mi trasferii fra il ’19 e il ‘20 dove mi occupai come segretario della redazione della «Ronda» la rivista che nel frattempo fecero uscire Cardarelli e Bacchelli, venuta in luce sulle indicazioni e sull’indirizzo affermatisi con la bolognese «Raccolta»” (G. Raimondi, Introduzione, in Giuseppe Raimondi fra poeti e pittori: Mostra di carteggi, Bologna, Museo Civico, 28 maggio-30 giugno 1977, Bologna, Edizioni Alfa, 1977, p. 14).
124 Ivi, p. 85. Su «Raccolta» avviene la prima pubblicazione di un lavoro di Morandi un’acquaforte del 1915 che rappresenta un natura morta («Raccolta», 2, 15 aprile 1918).
125 “E Bologna, quando noi ci siamo affacciati al mondo delle lettere, godeva di una decisa autorità e simpatia nazionale. Qui, ai primi passi mi sono incontrato con Riccardo Bacchelli e con Giorgio Morandi. I due bolognesi, già legati fra di loro non solo per la nascita geografica dovettero lasciare un segno nella mia formazione giovanile. Questo incontro avvenne verso la fine del 1916” (G. Raimondi, Introduzione, in Giuseppe Raimondi fra poeti e pittori cit., p. 13).“Si passavano serate al caffè in discorso per me come nuovi e fino da allora si affacciò l’idea di una sorta di triangolo di rapporti artistici: Cardarelli, Bacchelli, Morandi, dove avrei aspirato di entrare. Furono sentimenti, idee e modo di vivere continuati nel tempo” (ivi, p. 14).
126 In risposta (V), in G. Bassani, Di là dal cuore cit., p. 377 (poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1318).
127 Ibidem.
128 Ibidem.
129 L. Caretti, Politica rondiana, in Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, V, Marzorati, Milano, 1979, p. 3899.
130 A. Bertolucci, Testimonianza, in Alberto Graziani, Lettere cit., p. 7.
131 “Sono andato due volte a trovare Morandi. Il quadro dei bottiglioni dipinti di biacca è quasi finito. Splendido. Ma ne ha altri che non conoscevo, spettacolosi. Mi sono divertito molto ad assistere ai suoi colloqui col cane; gli dà del lei:«Su fermo, stia, stia qui». Ho conosciuto anche Raimondi che sembra uno di quei bolognesi che dovevano fare festa a Leopardi. È molto simpatico e gli farò vedere i disegni. Ho letto qualcosa di suo e mi sembra molto in gamba. Soltanto io non riesco a superare l’impressione che quelli della «Ronda» non siano riusciti a trovare una schiettezza totalmente equilibrata: ogni tanto sembrano persone serie serie, rispettabili con un collettino di pizzo” (Lettera di Alberto Graziani a Roberto Longhi, 13 luglio 1937, in Alberto Graziani, Lettere cit., p. 156).
132 L. Caretti, Memorie ferraresi cit., p. 178.
133 "Lavora di solito nello studio: anche in ciò differenziandosi dal grande De Pisis, sempre in giro, lui, instancabilmente, come una farfalla avida di succhi, di colori e di odori" (G. Bassani, Mimì Quilici Buzzacchi, in Di là dal cuore cit., p. 292, poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1235).
134 "A proposito di Ravegnani l'amico Moretti potrà farne studiare utilmente, pur nei suoi limiti, la funzione mediatrice tra Ferrara e la cultura più avanzata del nostro paese sia al tempo della casa Taddei e poco appresso, e quindi anche al tempo del soggiorno ferrarese di Carrà, dei fratelli De Chirico e De Pisis e della pittura metafisica, sia al tempo del «Corriere padano» nella sua fase più liberale" (ivi p. 171).
135 “La Ferrara di cui mi sono occupato scrivendo è soltanto la Ferrara dell’epoca del fascismo. Per quel che ricordo io, si trattava di una città intensamente devota al regime: al punto che le poche persone che fasciste non erano, vivevano ai margini, non avendo alcun rapporto con gli altri, coi più” (In risposta (VI), in Giorgio Bassani, Di là dal cuore cit., p. 386, poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1327).
136 Per l'esattezza Bassani e Caretti avevano frequentato insieme per tre anni anche le elementari in una scuola di campagna tra Ferrara e Copparo come segnala la Cronologia a cura di Roberto Cotroneo pubblicata in Giorgio Bassani, Opere cit., pp. L-XCVIII.
137 "Viviani insegnava latino e greco. Era un uomo scarsamente amabile, quasi sempre corrucciato, duramente ironico. Era anche laureato in legge e intendente di musica e collaborava al «Corriere padano» con articoli dedicati ai classici greci e latini, con amichevole tolleranza di Giulio Colamarino e Nello Quilici, ma era un intransigente antifascista. Allontanato nel 1936 dall'insegnamento finì alla fine in mano dei tedeschi e trovò la tragica morte in un campo di concentramento. Non intendo assolutamente dire che appresi da Viviani l'antifascismo: voglio piuttosto e più semplicemente dire che lasciarono certo in me una traccia, destinata in seguito a farsi più chiara e parlante, certi suoi scatti d'umore anticonformista, certo trattenuto sarcasmo su uomini ed eventi, la sua orgogliosa solitudine. E così mi piacquero persino la sua scarsa amabilità, proprio perchè rivelava il rifiuto del paternalismo bonario, e quel suo trattarci con un lei molto distaccato perchè mi parve di intuirvi, più che sentimenti ostili, la dolorosa consapevolezza di non potere liberamente e compiutamente comunicare con i giovani" (Memorie ferraresi, in L. Caretti, cit., pp. 166-167). Per un approfondimento su Francesco Viviani si rimanda a La figura postuma di Cazzola: Francesco Viviani e il «Corriere padano», a cura di Stefano Cariani e Claudio Cazzola, con una nota introduttiva di Giuseppe Inzerillo, Ferrara, Tipografia artigiana, “Quaderni del Liceo Classico L. Ariosto di Ferrara”, 1999.
138 Ibidem.
139 Ibidem.
140 "Carli, amabilissima persona, non era nè un formalista nè un ideologo: era un intelligente cattolico comacchiese, con tutta la vivacità e l'arguzia di un comacchiese. Ci faceva lezione di italiano in maniera tutta personale: stando sempre in piedi, saltando da un angolo all'altro dell'aula, recitando e pressochè mimando versi, quelli di Dante soprattutto. Era una didattica bilicata tra la recitazione verbale e la gestualità. Voi direte: un istrione insomma! Niente affatto! Carli era l'antiretorica fatta persona: con quella sua vocetta acuta di testa, e con quella sua sorridente follia nello sguardo, faceva sommaria giustizia di ogni atteggiamento enfatico e prosopopeico. Era un personaggio un pò surreale, librato a mezz'aria nei suoi velocissimi balletti: a me ancor oggi sembra scaturito da una novella palazzeschiana. Ebbene, va detto che Dante e Pascoli ci giunsero, prima che attraverso il difficile e contraddittorio passaggio crociano attraverso le sagaci lezioni di Carli, il quale, già scolaro di Pascoli, ci fece intendere, da un lato, l'unità del poema dantesco anche quando leggeva il Paradiso senza nulla concedere alle distinzioni di «poesia non poesia»; dall'altro lato ci indusse ad apprezzare la modernità della poesia pascoliana lasciando nell'ombra il Pascoli «alto» e celebrativo e mettendo invece in luce il Pascoli «basso» e intimista di Gelsomino notturno, cioè quello che più conta, proprio oggi, per i lettori avveduti" (ivi, p. 169).
141 Ibidem.
142 Ibidem.
143 La casa editrice Taddei fu fondata a Ferrara nel 1840. Nel 1897 fu rilevata da Antonio Soati e nel 1914 da Giulio e Alberto Neppi.
144 “Torniamo a Ferrara, e qui devo ricordare, proprio a questo punto, un luogo deputato delle mie più interessanti e rivelatrici esperienze libresche. Si tratta della ricchissima e modernissima biblioteca di Giuseppe Ravegnani che io e Bassani abbiamo doviziosamente saccheggiato non avendo altro luogo della nostra città dove raggiungere i testi preziosi del Novecento italiano e europeo. [...] A Ferrara Ravegnani ebbe un posto come bibliotecario all'Ariostea e, quel che più conta, gli fu offerto da Quilici la redazione della terza pagina del «Corriere padano». Tornando a Ferrara Ravegnani riportò nella nostra città la sua nutrita biblioteca, e generosamente l'aperse ai giovani, come me e Bassani, che avevano dimostrato di accedere con qualche profitto a quella preziosa miniera" (ivi, pp. 171-172).
145 Ibidem.
146 In risposta (V), in G. Bassani, Di là dal cuore cit., p. 376 (poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1317).
147 Il «Corriere Padano» nacque il 5 aprile 1925 e fu fondato da Italo Balbo. Uscì con grande regolarità fino al 20 aprile 1945 con la sola interruzione del periodo che andò dal 26 agosto al 3 novembre 1943. Dal 9 maggio 1927 fu arricchito dal «Corriere del lunedì». Dopo pochi mesi dalla fondazione Balbo divenne sottosegretario dell’economia nazionale e la direzione fino al 28 giugno 1940 passò a Nello Quilici. A lui successe Giuseppe Ravegnani che era stato direttore della terza pagina dal 1929 al 1943. Anna Folli nel suo libro Vent'anni di cultura ferrarese. Antologia del «Corriere padano» (Bologna, Patron, 1978) parla di una "stagione padana" che si apre con la pubblicazione della poesia Parco di Lanfranco Caretti nel 1935 (Lanfranco Caretti, Parco, in «Corriere padano», 3, p. 3). Ad inaugurarla saranno appunto tre ferraresi, Bassani, Caretti e Antonioni, ma ben presto si uniranno a loro anche Rinaldi, Giovanelli, Bertolucci e i fratelli Arcangeli. "Affiorò in quegli anni un singolare reticolato geografico letterario che congiungeva Parma, Modena, Ferrara e Bologna (non ignorando le esperienze contemporanee di Firenze e quelle, molto lontane ormai, della Cesena di Marino Moretti) nel quale varie generazioni si incontrarono su due piani. Uno padano con tutte le caratteristiche orizzontali del comune denominatore, che rimandava ad una mitica, materna terra d’Emilia come presupposto archetipico; l’altro universale e centrifugo rispetto ad esso che presupponeva il diverso e ascoltava le voci del mondo. Una specie di continuum padano che aveva la sua matrice nella mediazione che di Pascoli avevano fatto Marino Moretti e Govoni, si prolungava nel tempo: direttamente, attraverso Bertolucci, Bassani, Giovanelli; indirettamente e con dosaggio anche consistente di diversità attraverso i più conosciuti Delfini e i meno conosciuti Cavani e D’Arzo tra Modena e Reggio Emilia, attraverso Rinaldi, Gaetano e Francesco Arcangeli a Bologna. Su questa persistente linea padana, di lontana matrice pascoliana si innestarono in funzione esorcizzante le più varie esperienze. Bertolucci si liberò delle radici attraverso la letteratura inglese e americana; Bassani attraverso la storia, come s’è detto; Delfini attraverso un salto all’indietro nella storia e uno scambio di vita con letteratura; mentre i bolognesi si diversificarono tramite l’esperienza di un tardo ermetismo" (Anna Folli, Vent'anni di cultura ferrarese. Antologia del «Corriere padano», Bologna, Patron, 1978, pp. XL-XLI).
148 L. Caretti, In tema di celebrazioni (centenario carducciano), in «Corriere padano» (30 marzo 1935, p. 3). In quello stesso anno Caretti pubblicò anche la lirica il Parco (in «Corriere padano», 27 dicembre 1935, p. 3).
149 G. Bassani, III° classe, in «Corriere padano», 1° maggio 1935, p. 3. Nei successivi numeri del 1935 Bassani pubblicò anche il testo Primavera (9 dicembre 1935, in «Corriere del lunedì», p. 3).
150 In risposta (V), in G. Bassani, Di là dal cuore cit., p. 376 (poi in G. Bassani, Opere cit., p. 1317).
151 Memorie ferraresi, in L. Caretti, Montale e altri cit., p. 174.
152 Ibidem.
153 Alessandro Roveri, Le origini del fascismo a Ferrara 1918-1921, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 133.
154 Ibidem.
155 "Nel «Labriola» si incrociarono all’inizio le singolari esperienze ferraresi del «Corriere padano» diretto da Nello Quilici dal 1925 al 1940 con altre che nel bolognese avevano lasciato nel foglio universitario «Architrave» specie nel periodo 1940-‘42 della gestione di Roberto Mazzetti e persino ne «L’Assalto», foglio del fascio locale. Nella terza pagina del «Padano», diretto da Giuseppe Ravegnani avevano infatti trovato ampi spazi, già intorno agli anni Trenta, avanguardie letterarie che giungevano ai confini del realismo e persino lo anticipavano, voci di ispirazione liberale, suggestioni critiche non gradite al potere, innovazioni del linguaggio nella letteratura come nell’arte con presenze di prestigio come quelle dei fratelli De Chirico, De Pisis, arricchite da aperture particolari verso giovani all’esordio che peraltro recavano i nomi di Antonioni, Dessí, Bassani, Caretti, Giovanelli, Meluschi, la Viganò, Colamarino, lo stesso Fortunati, e altri ancora, locali o presenti per soggiorni in città, chiamati a collaborare senza alcun intento discriminatorio" (Luciano Bergonzini, La svastica a Bologna: settembre 1943-aprile 1945, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 128).
156 “Per una città come Bologna, in cui, negli anni fra le due guerre, mancano centri di elaborazione culturale non istituzionali, aspetto peculiare è l’assenza di un’editoria militante, sul modello ad esempio della Einaudi o, con un raggio di azione più limitato, della Guanda di Parma, se si esclude la limitata iniziativa della Biblioteca di studi sociali, collana dell’editore Cappelli, diretta da Rodolfo Mondolfo, cessata alla fine del ’25 oppure l’attività benemerita quanto sconosciuta del Testa, primo editore di Gaetano Arcangeli e di Meluschi” (Anna Maria Andreoli, Luisa Avellini, Andrea Battistini, Cristina Bragaglia, Marilena Ermilli, Ezio Raimondi, Crisi della cultura e dialettica delle idee cit., p. 19).
157 Ibidem.
158 Caretti pubblicò i seguenti testi sulla Terza pagina del «Corriere padano» durante il 1936: Il legionario (15 febbraio); La crisi spirituale del Leopardi (7 marzo); Poesie (15 aprile); Poesie (12 maggio); Gozzano e altre cose di cattivo gusto (13 giugno); Epistolario leopardiano 1823 (25 agosto); Liriche (5 novembre); L’ultimo Commisso (24 novembre).
159 Bassani pubblicò i seguenti testi sul «Corriere padano» nel 1936: Nuvole e mare (21 gennaio); I mendicanti (22 marzo); Incontro con Bertolucci (15 aprile); Poesie (13 giugno); I pazzi (16 giugno), La fuga al mare (in «Il Corriere del lunedì», 10 febbraio).
160 F. Giovanelli, Il furto, in «Corriere padano», 13 luglio 1936.
161 F. Vegliani, Vigilia, in «Il corriere del lunedì», 1° giugno 1936.
162 F. Arcangeli, Scoperta di Rimini, in «Corriere padano», 14 marzo 1937.
163 “Tu non hai parole gravi / tu non hai pensieri profondi / tu hai capelli biondi / ed occhi chiari // Tu sai che tutto deve / essere come è // Al mio ramo arido greve / darai leggerezza di foglia / ed ora non ho più voglia / che di tremar con te” (A. Frassineti, Canzonetta (a Luisa R.), in «Corriere padano», 9 febbraio 1937, p. 3).
164 F. Giovanelli, Primavera, in «Corriere padano», 23 febbraio 1937, p. 3 e A proposito di un bardo, in «Corriere padano», 21 aprile 1937, p. 3.
165 “[…] / s’appoggia / al muro della casa, / cresce leggero / sotto le stelle // Abbiamo parlato / con voci quete / (la voce certo del cuore / sepolta) // ora ascoltiamo / dal campo alzarsi altre voci // Influsso d’astri / mite chiarore // Lungo la scala / poggiati al muro di casa / aspettiamo (A. Rinaldi, Il grano verde, in «Corriere padano», 9 febbraio 1937, p. 3) e Suoni del vento / ai limiti di un campo / rimangono sospesi / al fondo di un abisso, // tagliano come falci / il grano che stride, // mi ritrovano solo / con quel rombo di fiume / che non vedo. // Silenzio di rupi / cade sotto il sole / trova il verde freddo / dei fondi” (A. Rinaldi, Suoni del vento, in «Corriere padano», 9 febbraio 1937, p. 3. La poesia è stata pubblicata con varianti in A. Rinaldi, La valletta cit. Rinaldi sostituì al v. 4 «sul ciglio» ad «al fondo»; al v. 8 «con quel tuono» a «con quel rombo»; al v. 11 «vuoto» a «sotto»; viene eliminato «dei fondi» al v. 13 e sostituito con trasparenti muschi / limpidi al fondo, con l’aggiunta quindi di un verso).
166 A. Bertolucci, Il cuculo, in «Corriere padano», 21 gennaio 1938; A. Rinaldi, Di notte, in «Corriere padano», 21 gennaio 1938; Caretti pubblicò sul «Corriere padano» Jean de Valdes (1° febbraio 1938), L'ultimo Angioletti (29 giugno 1938), Un romanzo sbagliato (9 luglio 1938), Achille innamorato (2 settembre 1938), Gente qualunque (6 ottobre 1938), Lettura (3 gennaio 1939), Tre poeti (7 gennaio 1939), Meravigliosa (8 gennaio 1939), Poesia (24 gennaio 1939) e Memorie e inediti (14 marzo 1939).
167 A. Bertolucci pubblica sulla terza pagina del «Corriere padano» nel 1937 i seguenti testi: Passero (27 gennaio); Crepuscolo; Infanzia (9 febbraio) e Inverno (23 febbraio).
168 Giuseppe Dessí pubblicò sulla terza pagina del «Corriere padano» nel 1937 i seguenti testi: Inverno (9 febbraio); La passeggiata (14 marzo); Finire un quadro (21 aprile). Per un approfondimento sui rapporti tra Dessí e Bassani ai tempi del «Corriere padano» si rimanda al testo di Anna Dolfi, Due scrittori, la forma breve e l’azzurro, in Narrativa breve, cinema e TV. Giuseppe Dessí e altri protagonisti del Novecento, a cura di Valeria Pala e Antonello Zanda, Roma, Bulzoni, 2011.
169 Di Giuseppe Dessí uscirono sulle pagine del «Corriere padano» nel 1939 La sposa in città (30 marzo), Poesia (21 maggio), Romanzo e teatro (2 giugno), Poesia e critica (15 giugno), Sandro Penna (18 novembre).
170 Ibidem.
171 Ibidem.
172 "Ferrara, d’altronde, era la città emiliana dove più che altrove pareva imporsi il ruolo prioritario degli intellettuali, non solo per quel fascino di sinistra, di fronda, incoraggiato da Italo Balbo, ma anche per quel margine, sia pure molto cauto, di libertà operativa che le iniziative concrete, giornalistiche, sembravano consentire e autorizzare. Il «Corriere padano», fondato da Balbo nel 1925, fu forse, sia pure in tonalità minore, un’anticipazione della più importante iniziativa di «Primato», maturatasi intorno agli anni ’40. La terza pagina del «Corriere» diretta da Giuseppe Ravegnani, raccolse negli ultimi anni del fascismo (dal 1938 al 1943, gli anni tra l’altro della comune permanenza ferrarese di Dessí, Bassani, Varese) accanto alle firme ricorrenti di Ravegnani, Titta Rosa e Camerino, quelle più prestigiose di Silvio Benco, Sergio Solmi, Neri Pozza, Antonio Delfini, Filippo De Pisis, Beniamino Dal Fabbro, Mario Soldati, Giorgio De Chirico… e quelle dei più giovani Lanfranco Caretti, Geno Pampaloni, Michelangelo Antonioni, Mario Pinna, Guido Aristarco, Luciano Anceschi, Paolo Grassi, Giorgio Bassani. Talvolta la pagina letteraria era dedicata interamente alla poesia (all’antologizzazione di scabri dettati novecenteschi), altre volte si riaccendevano le polemiche sul romanzo, iniziate negli anni Trenta poi riesplose violentemente nel periodo post-bellico dei programmi, della ricostruzione" (A. Dolfi, Dessí e Bassani. Due esperienze ferraresi, in Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia, Roma, Bulzoni, 2003, p. 188).
173 È conservata nel Fondo Dessí la prima lettera spedita da Bassani allo scrittore sardo: è senza data ma l'allusione alla pubblicazione delle poesie Passeggiata e Congedo e del racconto Inverno rimandano proprio al quel '37. Bassani dichiara di aver sentito parlare molto di lui dal "comune amico Varese" (Lettera di Giorgio Bassani a Giuseppe Dessí, tra il 26 settembre 1936 e il 23 maggio 1937. La lettera è conservata nel Fondo Dessí dell'Archivio Bonsanti, Gabinetto Vieusseux, [GD.15.1.33.1]) e di aver tanto apprezzato il suo S. Silvano. "Ho sempre pensato a Proust in Italia e mi è dolce ritrovarlo ai piedi dell'Arcuentu" (ibidem), scriverà alla fine, esortando Dessí ad inviargli ancora materiale per la rivista. Per informazioni più approfondite sul carteggio tra Giorgio Bassani e Giuseppe Dessì si rimanda a Francesca Nencioni Tempi, spazi e caratteri di un’amicizia letteraria: l’incontro Bassani-Dessí, in Ritorno al giardino. Una giornata di studi per Giorgio Bassani. Firenze, 26 marzo 2003, a cura di Anna Dolfi e Gianni Venturi, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 225-232 e al già citato A. Dolfi, Dessí e Bassani. Due esperienze ferraresi, in Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia, Roma, Bulzoni, 2003.
174 G. Bassani, Di là dal cuore, in G. Bassani, Opere cit., pp. 1318-1319.

Francesca Bartolini, Antonio Rinaldi. Un intellettuale nella cultura del Novecento, Tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, 2013

giovedì 6 maggio 2021

Li scrivevo per necessità economiche


[...] A detta dell’autore le prose da raccogliere sarebbero talmente tante da poter costituire un intero volume, ma il lavoro di revisione, riscrittura e riordino richiederebbe un grande impegno sul quale Caproni stesso, che ha lasciato dispersa sui giornali la maggior parte della sua opera narrativa, mostra molti dubbi:
"Ecco, siccome io li scrivevo, appunto, e li intitolerei “Racconti scritti per forza”, li scrivevo per necessità economiche, non mi curavo se un’immagine, un periodo, che già era nel precedente, entrava nel suo seguente… dico: “intanto il lettore figuriamoci se se lo ricorda”. Non c’è mai stata l’intenzione di raccoglierli. Quindi adesso io dovrei fare questa revisione e proprio non me la sento. A parte, poi, il genere di scrittura: io, essendo appassionato di latino… e si sente in questi racconti… proprio l’uomo abituato ad andare a cavallo che quando cammina a piedi caracolla… almeno, io così sento; e molti invece vedono proprio in questo l’originalità". <27
Il poeta torna più volte a ricordare la necessità economica che lo spinse a scrivere in prosa, quasi giustificando la precarietà di alcuni racconti che, soprattutto stilisticamente, non lo soddisfano per certi errori compiuti con leggerezza, contando sulla disattenzione del suo lettore e sulla libertà di un genere sottoposto a regole meno rigide di quelle che governano il verso. Egli ribadisce anche l’influenza degli autori latini sulla sua scrittura, originale e particolare e dotata di un’individualità che la rende difficile da confrontare con altre. A questo proposito, Adele Dei evidenzia come la prosa dell’autore sembri essersi svolta «soprattutto in solitudine e dall’interno» <28, senza l’aiuto di esempi cui attingere o di suggestioni altrui cui fare riferimento. Riprendendo un’espressione attraverso la quale Pier Vincenzo Mengaldo descrive l’esordio del poeta, si può quindi affermare che anche il Caproni narratore «non somigliava a nessuno» <29 ed era uno scrittore «subacqueo». <30
L’interesse che l’autore rivolge ai propri scritti è piuttosto tardo e solamente a partire dagli anni Settanta egli esprime la volontà di scegliere parte delle sue prose da raccogliere in volume, così il memoriale di guerra Giorni aperti, il racconto lungo Il labirinto e Il gelo della mattina, ultimo capitolo di quel romanzo rimasto incompiuto, entrano a far parte di una piccola raccolta intitolata Il labirinto e pubblicata per Rizzoli nel 1984. Le tre storie, scritte in anni diversi, hanno tutte vicende editoriali differenti, ma sono caratterizzate da un autobiografismo che le accomuna tra loro e dal tema della guerra che, seppur non con la stessa intensità, fa da sfondo a ciascuna trama. Per la loro apparizione in volume, Caproni corregge e rende più moderni i tre racconti scelti, i quali passano attraverso una ferrea revisione che tuttavia non toglie loro «il sapore dei tempi in cui furono scritti». <31
Le altre prose invece, rimaste disperse su riviste e giornali, catturano l’attenzione del loro autore soprattutto grazie al consolidato successo poetico, unito all’incoraggiamento di critici quali Luigi Surdich e Pier Vincenzo Mengaldo che insistono per un’edizione degli scritti narrativi e che spingono Caproni a riconsiderare i propri racconti e a progettarne una raccolta alla quale si dedicherà in maniera intermittente fino agli ultimi anni.
Nell’archivio delle carte del poeta sono conservati due elenchi di racconti, uno intitolato Racconti da me scritti e l’altro Racconti scritti per forza: il primo è a sua volta bipartito in Racconti brevi, circa trentasei prose, e Racconti lunghi tra i quali sono inclusi Il gelo della mattina, Il labirinto e La maliarda; un posto indipendente è riservato invece alle Cronache per il lotto. [...]
27 G. Caproni, “Era così bello parlare”. Conversazioni radiofoniche con Giorgio Caproni. cit. p.179.
28 A. Dei, Introduzione a G. Caproni, Racconti scritti per forza, cit. p.9.
29 P.V. Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, in L’Opera in versi, cit. p.XI.
30 Ivi, p. XI: «Oggi non c’è dubbio per qualunque persona sensata che Caproni sia tra i massimi e piùoriginali poeti del dopo-Montale. Ma a lungo la sua è stata invece una storia subacquea, tanto da non consentirgli neppure l’ingresso nei Lirici nuovi di Anceschi (1943), bibbia poetica dell’epoca, quando già aveva fatto conoscere alcune raccolte più che notevoli».
31 A. Dei, Introduzione a G. Caproni, Racconti scritti per forza, cit. p. 10.
Lucia Pasqualotto, «Del racconto però mi è sempre rimasta la nostalgia»: Giorgio Caproni narratore, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari, Venezia, anno accademico 2014-2015
 
Patrizia Traverso e Luigi Surdich
Genova ch’è tutto dire. Immagini per Litania di Giorgio Caproni
Prefazione di Giuseppe Conte
Genova
Il canneto
2012
ISBN: 978-88-9643-031-6

In occasione del centesimo anniversario della nascita di Giorgio Caproni si moltiplicano le iniziative per celebrare degnamente la ricorrenza; tra queste rientra la pubblicazione di un libro davvero originale che, unendo le raffinate qualità fotografiche di Patrizia Traverso e la competenza critica di Luigi Surdich, illustra come meglio non si potrebbe una delle più meritatamente famose poesie di Caproni dedicate a Genova, dove egli, livornese, non era nato ma che di fatto considerava la «mia città intera», interamente sua, quella nella quale si era formato come uomo e come scrittore e della cui nostalgia molto soffrirà quando le scelte della vita lo porteranno a vivere a Roma. Il libro raccoglie un centinaio d’immagini fotografiche, l’una più suggestiva dell’altra, a colori e in bianco e nero, direttamente collegate ai luoghi che di volta in volta sono citati nei novanta distici di Litania; certo, la poesia risale ai primi anni Cinquanta (probabilmente al 1952) e le fotografie sono dei giorni nostri, però è anche vero che non par di riscontrare, tra queste e i versi che le hanno ispirate, oltre mezzo secolo di distanza, nel dubbio che sia stato premonitore il poeta o che la città sia rimasta alquanto immobile.
La struttura del libro (arricchito nelle ultime pagine da un’utile nota bibliografica aggiornata: e non sfugge la ricchezza degli interventi che si sono succeduti negli ultimi anni) è dunque binaria: i distici di Litania di volta in volta riportati sono puntualmente accompagnati da una fotografia del luogo citato e da un commento critico sui versi medesimi. Quella che altrimenti sarebbe una sequenza funzionale per illustrare un testo - già di per sé formato da immagini in forma di versi -, una sequenza essenziale e didatticamente utile, viene dilatata da una parte dalla creatività artistica della fotografa - che in più occasioni va legittimamente oltre i suggerimenti ambientali dell’autore - e dall’altra dagli interventi di Luigi Surdich, certo uno degli studiosi di più lungo corso dell’opera del poeta livornese e autore di quella monografia Giorgio Caproni. Un ritratto (Genova, Costa & Nolan, 1990) che rimane tuttora un punto di riferimento indispensabile per chi vuol conoscere l’opera del Poeta. Surdich, prendendo spunto di volta in volta dalle immagini suggerite da Litania, affronta con chiarezza e competenza non solo il tema del rapporto di Caproni con Genova, che è presenza centrale nella sua vita, tra gli anni livornesi dell’infanzia e quelli romani della maturità, e nella sua opera - la città e la Liguria di fatto sono presenti in quasi tutte le sue raccolte e in particolare nel Passaggio di Enea (1956) -, ma anche estende la sua attenzione all’essenza della sua opera, con opportuni richiami ad altri poeti (inevitabilmente Montale e Sbarbaro su tutti) e con una ricca serie di osservazioni e d’informazioni anche sugli aspetti meno noti della sua attività letteraria, a cominciare da quella di autore di racconti e di prose varie. Insomma Litania e Genova finiscono per essere il punto di partenza per una rilettura di Caproni e il saggio finale di Surdich Genova Genova Genova. L’“infinita litania” di Giorgio Caproni è un nuovo accattivante ritratto di questo poeta che, a ragione, lo studioso definisce in apertura e ribadisce in chiusura come «uno dei maggiori poeti del Novecento» e le sue pagine, ben documentate e anche emotivamente partecipi e partecipabili, che scorrono tra l’inizio e la fine, dimostrano l’assoluta legittimità di questa sua perentoria affermazione.
Maria Teresa Caprile, Patrizia Traverso, Luigi Surdich, Genova ch’è tutto dire. Immagini per Litania di Giorgio Caproni, Prefazione di Giuseppe Conte, Oblio, Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca, Anno II, numero 6-7, Settembre 2012

giovedì 29 aprile 2021

Antonicelli fu arrestato una seconda volta

Franco Antonicelli e Ferruccio Parri - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] «Molti anni fa, prima della seconda guerra mondiale, un’occasione mi portò nell’Italia del Sud, giù dopo Salerno e dopo la bellissima Paestum, e dove comincia il Cilento. L’occasione fu la stessa che in quei giorni condusse i miei amici Carlo Levi e Cesare Pavese press’a poco nei medesimi luoghi, al di là della famosa terra invalicata da Cristo. In quel lontano paese, mai sentito nominare prima, ci andai dunque per obbligo; ci fui mandato quasi come in una prigione, e vi godetti invece, lo dico con gratitudine, tutta la libertà che si può godere al mondo.
... C’è dunque un nome nella mia vita, una memoria breve o lunga secondo la nostalgia del momento, un nome e una stagione che vorrei portarmi dietro fino all’ultimo giorno... Questo nome è Agropoli, quel tempo è l’autunno... Eppure passa il tempo, molto tempo, e nella mia vita avverto quel riferimento, quel punto fermo: io mi muovo e quel punto è là. È tutto quello che mi resta di allora... Penso soltanto con un rammarico che mi brucia, mi umilia ancora, di non aver ricavato nulla da quella mia esperienza, nulla, dico di scritto».
Franco Antonicelli, Il soldato di Lambessa
 

Benedetto Croce e Franco Antonicelli - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] Bobbio scrive: «L’autorità di Croce era indiscussa: armati dei suoi concetti, ci sentivamo superiori ai nostri stessi maestri... Croce era la voce del tempo: stare dalla parte di Croce voleva dire essere nella corrente della storia.
Croce era, personalmente, un esempio di libertà intellettuale, di saggezza, di dignità, di operosità, di serietà negli studi: adunava in sé tutte le qualità dell’educatore, che altri autori o maestri possedevano solo parzialmente».
Tra il 1931 e il 1937 il filosofo napoletano si recò spesso nel Biellese.
Antonicelli ebbe modo di frequentarlo e di ospitarlo nella sua villa.
Il suo rapporto con Croce era di rispetto, quasi di timore: «Oh io non starò più davanti a lui con quell’imbarazzo che tanti, credo tutti, anche gli studiosi di valore, avevano come me di non sapere che cosa dire per meritare la sua attenzione, la sua attenzione che si faceva subito prodiga e per questa sua affabilità scoraggiava che si era preparato a qualche vanteria».
Franco Antonicelli, Il soldato di Lambessa

[...] Antonicelli fu arrestato una seconda volta il 15 maggio 1935; fu una retata nella quale vennero coinvolti il gruppo di Giustizia e Libertà e il gruppo einaudiano della rivista La Cultura: Vittorio Foa, Massimo Mila, Carlo Zini, Luigi Salvatorelli, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Norberto Bobbio, Carlo Levi.
 

Un giovane Giulio Einaudi - Fonte: Catalogo cit. infra

Scrive Stajano: «Non c’era nessun complotto, ma preoccupava l’esistenza di un nucleo organizzato e operante contro il regime, in maggior parte giovane, capace di diffondere idee e di creare una rete di propaganda politica per l’azione antifascista in Italia... Antonicelli non aderiva alle idee di Giustizia e Libertà, impedito dalla sua fede liberale priva di correttivi e dalla sua educazione crociana, ma i “GL” erano i suoi amici più cari, visse con loro la giovinezza... li aiutava nel loro lavoro che per lui continuò a essere un lavoro di professore della politica, non certo di uomo d’azione».
Accusato di aver frequentato la casa della professoressa Barbara Allanson dove si radunavano personaggi ritenuti oppositori del regime (Leone Ginzburg, Mario e Alberto Levi), Antonicelli venne condannato a tre anni di confino presso il paesino di Agropoli, in provincia di Salerno.
Vi trascorse l’estate, l’autunno e l’inverno e l’inizio della primavera del 1936; in Il soldato di Lambessa scrive: «È diventato autunno anche l’estate che vi giunsi, l’inverno che vi trascorsi e quell’inizio di primavera che me ne andai». Nel marzo 1936 la pena di tre anni fu sospesa per un condono nazionale.
[...] «L’occasione (del mio confino) fu la stessa che in quei giorni condusse i miei amici Carlo Levi e Cesare Pavese press’a poco nei medesimi luoghi, al di là della famosa terra invalicata da Cristo... I miei due amici portarono, via qualcosa di meglio per sè e per gli altri, cioè due libri che scrissero, l’uno il celebre Cristo si è fermato a Eboli e l’altro il meno noto ma bellissimo racconto Il carcere».
Franco Antonicelli, Il soldato di Lambessa
 

Da Sinistra Carlo Levi e Gaetano Salvemini nel 1947 - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] «Voi (portuali di Livorno) sapete chi era Salvemini. Era un grande uomo e affettuosamente, ricordandolo, dico che era politicamente uno sconclusionato, e dico sconclusionato con molto affetto, con l’affetto di chi ama gli uomini sconclusionati, cioé gli uomini che non predicano niente, che non fanno profezie e che sbagliano sempre, ma che hanno un meraviglioso vigore. Hanno un meraviglioso vigore. È stata, questa, la coscienza di italiano di Gaetano Salvemini.
Gaetano Salvemini uomo era così; era un vecchio socialista, poi persino abbandonò il Partito Socialista più che altro per ragioni di indipendenza».
Franco Antonicelli, Le letture tendenziose
 

Mario Fubini - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] L’Ovra, la polizia del regime fascista, incominciò a sospettare che il gruppo costituitosi intorno alla casa editrice e alla rivista La Cultura fosse legato al movimento clandestino Giustizia e Libertà: i controlli si fecero più assidui e in un rapporto di polizia del 1935 i collaboratori einaudiani vengono definiti “intellettualoidi con sentimenti di ostilità nascosta o palese nei confronti del regime fascista”. Comune al movimento Giustizia e Libertà e a questi “intellettualoidi” era, secondo le parole di Leo Levi, l’“antitesi spirituale contro il clima storico del fascismo”: da un lato i giellisti con la loro attività cospirativa, dall’altra i liberali crociani fra cui Francesco Ruffini, lo storico Nino Valeri, il critico letterario Mario Fubini, l’avvocato Anton Dante Coda direttore, negli anni venti, de La Tribuna biellese, organo del partito liberale biellese. Molti di essi caddero nella retata del maggio 1935: Giulio Einaudi fu arrestato e dopo qualche giorno, rilasciato, ma la rivista La Cultura fu soppressa.
 

Luigi Salvatorelli - Fonte: Catalogo cit. infra

[...] All’inizio della guerra una bomba francese distrusse il tetto della casa di Salvatorelli a Torino.
Antonicelli, in una minuta di lettera a Mario Vinciguerra, scriveva: «Tutti bene, ma chinando la testa come sotto una minaccia. (I Salvatorelli) stanno bene; la sera vanno a dormire fuori. Dispersi dovunque un po’ tutti... Torino faceva pensare al dopo la peste dei Promessi Sposi... ».
Il 27 novembre del ‘42 c’era chi annotava: «L’esodo dalla città ha assunto proporzioni che superano ogni immaginazione: qualunque mezzo è buono, dall’autocarro al triciclo, dal carro alla bicicletta».
Infatti i Salvatorelli col camioncino di un verduriere si rifugiarono nell’alessandrino presso una cascina di Antonicelli.
[...] Nella Torino di Gobetti e del gruppo Giustizia e Libertà Antonicelli appare come “professore della politica, non certo uomo d’azione”: «Gli azionisti, i liberalsocialisti erano tutti amici miei, però io non ero dentro, cioé non ero militante di quei gruppi». Nel 1973 scriverà: «Ho necessità di vendicarmi della mia giovinezza in fondo pigra e velleitaria... La storia della mia vita è di una lentissima gestazione... Ero maturo in alcune cose, ero sano moralmente, ma non avevo preparato nulla di serio alla mia maturità spirituale e politica. Solo da trent’anni mi sono avviato bene». A trent’anni, ossia nel 1943, si colloca l’anno di svolta: la Resistenza di Antonicelli inizia con la caduta del regime fascista. Il 26 luglio scrive la prima dichiarazione unitaria dei partiti antifascisti ed entra a far parte del Fronte nazionale; dopo la vana difesa di Torino contro i nazisti e il tradimento del generale Adami Rossi che consegna la città al nemico, Antonicelli diventa ‘uomo d’azione’. Lavora al Risorgimento liberale ed è nuovamente arrestato il 6 novembre 1943 e condotto a Regina Coeli dove vede per l’ultima volta l’amico Leone Ginzburg: «Ci scorgemmo appena: egli fece finta di non conoscermi e passò innanzi come chi va cauto nel buio... di giorno eravamo accanto come una volta lo eravamo stati per anni davanti a libri, riviste, a carte bianche o scritte, passando fervidi e ironici da un progetto all’altro... La notte dal 1° al 2 febbraio fui portato via... a Forte Urbano... seppi ch’egli era morto. Mai una morte mi parve meno vera, meno possibile, meno giusta... Egli era uno di quegli uomini nati a guidare: nati col prestigio istintivo, col dominio immediato e incontrastato sugli altri».
Tradotto al carcere di Castelfranco Emilia, vi uscì il 18 aprile 1944 e cominciò l’attività clandestina.
[...]
Catalogo della Mostra Franco Antonicelli. Galleria di simboli, Viscione Editore, II Edizione, 2010

Franco Antonicelli, Federico Ghedini, Bice Bertolotti - Fonte: Catalogo cit. supra

Come ricordare la ricca personalità e biografia di un uomo come Franco Antonicelli? A questo interrogativo risponde un prezioso volume appena pubblicato dalla casa editrice torinese Seb 27 e curato in modo eccellente da Diego Guzzi. Il libro s’intitola In sintonia con il presente. Franco Antonicelli tra politica e cultura. Guzzi, docente e vice-presidente dell’Unione culturale «Franco Antonicelli», ha raccolto sette contributi di studiosi e studiose che permettono di ricostruire le molteplici attività di Antonicelli (vissuto tra il 1902 e il 1974), sempre al confine tra letteratura, politica culturale e impegno politico diretto.
Come ricordarlo dunque? In primo luogo come un raffinato letterato, capace di trasmettere in forme diverse la sua cultura. Supplente al Liceo D’Azeglio di Torino, precettore di Gianni Agnelli, direttore della collana «Biblioteca Europea» dei libri dell’editore Frassinelli attraverso la quale fece conoscere in Italia le opere, tra gli altri, di Franz Kafka, Herman Melville e James Joyce (senza dimenticare il «Topolino» di Walt Disney), fondatore nel 1942 della casa editrice «Francesco da Silva».
In secondo luogo come un combattente per la libertà. Anzi, un capo della lotta per la libertà. Nel 1945, alla vigilia della liberazione, assunse le funzioni di Presidente del Comitato Liberazione Nazionale piemontese, di cui faceva parte come rappresentante del partito Liberale. Proprio a Antonicelli come «oratore della Resistenza» è dedicato nel libro un interessante saggio di Barbara Berruti e Chiara Colombini.
In terzo luogo, finita la guerra, come un instancabile organizzatore di cultura, animatore dei più importanti centri culturali torinesi. Sia per trasmettere la memoria della Resistenza, sia per tenere sempre viva la tensione etica e politica per la piena attuazione della Costituzione e per combattere ogni tentativo di restaurazione autoritaria. Impegno politico e politica culturale, strettamente intrecciati tra di loro, analizzati nel volume dai saggi di Claudio Panella, Pietro Polito e Paola Olivetti (la quale ha studiato più precisamente l’attività di Antonicelli al cinema, alla radio e alla televisione).
Nel 1968 fu eletto senatore nelle liste del Pci, diventando uno dei fondatori della Sinistra Indipendente. La rottura con il partito liberale era avvenuta al tempo del referendum tra Monarchia e Repubblica (1946) e Antonicelli aveva sempre collaborato con gli esponenti della sinistra torinese e in particolare con i comunisti. Il progetto della creazione di un gruppo della «Sinistra Indipendente» avrebbe dovuto realizzarsi già nel 1963, ma il tentativo era fallito. Questa vicenda è importante perché permette di capire una dinamica che era, in effetti, iniziata, un decennio prima. Gli esponenti dell’antifascismo democratico torinese, di area liberale e azionista, avevano reagito con preoccupazione alla sconfitta del movimento sindacale alla Fiat e alle dure repressioni all’interno delle fabbriche che ne erano seguite. A loro giudizio si correva il rischio di rendere più complicato un sano conflitto politico all’interno dela città e in generale in Italia: un conflitto che permetesse di selezionare le energie migliori e quindi di rafforzare uno Stato democratico debole. Per questa ragione alcuni di loro scelsero di collaborare più strettamente con i comunisti, pur preservando la loro indipendenza.
Il volume è inoltre arricchito da un ricordo personale della figlia Patrizia e da un apparato di fotografie ancora inedite. L’attore Marco Gobetti - che ha recitato in diversi licei piemontesi la «Lezione Recitata Franco Antonicelli», anch’essa pubblicata nel libro - nel suo intervento riporta un commento scritto da una studentessa, Giulia Barattini, dopo avere assistito a una recita. Vale la pena leggerne un breve brano:
«In un Paese che sperpera la parola… e spesso vede la cultura unicamente come fonte di guadagno, chi si adopera per per cambiare qualcosa è visto come un salmone che risale il fiume. A lungo termine, però, solo i pesci morti vanno con la corrente, e ci si rende conto che non sono i banchi, o le lavagne multimediali, a garantire ciò di cui abbiamo bisogno, ma le persone in quanto esseri umani, che vivono e sentono davvero ciò che dicono, che se ne appropriano per elargirlo agli altri».
Vivere con passione le cose che si vogliono trasmettere agli altri è un principio che Franco Antonicelli avrebbe sicuramente condiviso e a cui ha effettivamente ispirato gran parte della sua vita e della sua azione.
In sintonia con il presente. Franco Antonicelli tra politica e cultura - Edizioni Seb27
Leonardo Casalino, Antonicelli, da precettore di Agnelli alle battaglie politiche a fianco del Pci, striscia rossa, 5 aprile 2019

Franco Antonicelli, presidente del Cln del Piemonte, comizio in piazza Vittorio Veneto a Torino il 6 maggio 1945 - Fonte: Catalogo cit. supra

La primavera del 1963 fu per Einaudi una stagione di libri straordinari. Nel giro di poche settimane uscirono La cognizione del dolore di Gadda, La giornata di uno scrutatore di Calvino, Lessico famigliare della Ginzburg, il Consiglio d'Egitto di Sciascia, Le memorie di Adriano della Yourcenar, Lo scialle andaluso della Morante, Una giornata di Ivan Denisovic di Solgenitsyn, Franny e Zooey di Salinger, Gli incolpevoli di Broch. Il giovane germanista Claudio Magris pubblicava nei "Saggi" la sua tesi di laurea, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna. «Il 1° febbraio ero stato assunto    all'ufficio stampa dopo una specie di piccolo concorso. [...] Verso i primi di marzo mi trovai sul tavolo le bozze di un libro di un certo Primo Levi, La tregua. Non sapevo niente dell' autore, e cominciai a leggere. A pagina due, come un rullare di tamburi in un concerto beethoveniano, ecco la scena dell' arrivo nel Lager abbandonato a se stesso dei quattro giovani soldati russi, "sospesi sui loro enormi cavalli", "oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno... Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa"... Restai folgorato. Persino un giovane redattore di nessuna esperienza poteva cogliere la grandezza di quelle pagine, in cui si saldavano la profondità del magistero morale e fermezza classica del dettato. Eccolo lì sul vetrino del microscopio, il male oscuro del Novecento, il virus dell' infezione che ha debilitato il secolo. Nemmeno Montaigne avrebbe potuto dire meglio. Anni dopo, seppi che i primi due capitoli della Tregua erano stati scritti di getto nel 1946-47, coevi dunque della stesura di Se questo è un uomo. Il racconto allora si era fermato lì, perché a Levi premeva soprattutto testimoniare l'incredibile». Allora quel dovere primario era stato assolto, anche se in mezzo alle nebbie di un incubo ricorrente: non essere ascoltati, non essere creduti. Incubo realistico, come sappiamo. Nel 1947 Einaudi si era detto non interessato al libro, e Franco Antonicelli l'aveva pubblicato da De Silva, cambiandogli titolo: da I sommersi e i salvati a Se questo è un uomo, appunto. [...]
Ernesto Ferrero, La tregua, il romanzo degli sconfitti, la Repubblica, 7 febbraio 1997

sabato 24 aprile 2021

Dolce sera: la luna si disfoglia


Maria Luisa Spaziani - Fonte: La Stampa

III
L'esordio poetico: Le acque del Sabato
Sere di inverno
Sere di inverno al mio paese antico,
dove piomba il falchetto dentro i pozzi
d'aria, tra l'uno e l'altro campanile.
Sere rapite a un'onda di sambuchi
invisibili, ai vetri dei muretti
d'ultimo sole accesi, dove indugia
non so che gusto d'embrici e di neve.
Vorrei cogliervi tutte, o mie nel tempo
ebbre, sfogliate voci lungo l'arida
corona dell'inverno,
e ricomporvi in musica, parole
sopra uno stelo eterno
.
- M.L. Spaziani, Le acque del Sabato -
[...] In una intervista del 1977 la Spaziani, ancora in proposito alla scelta del titolo, dice: "Mi aveva colpito l'espressione: il fiume che scorre il sabato non ha lo stesso ritmo morale, per così dire, del fiume che scorre negli altri giorni, perché è un'acqua sacralizzata. L'acqua della poesia è diversa: è l'acqua del sabato: è l'acqua della festa, l'acqua del rito."
Inizialmente vi fu un silenzio totale della critica, finché il 12 ottobre 1954 non uscì sul “Corriere della Sera” un articolo di Emilio Cecchi, il quale definiva la raccolta poetica di Maria Luisa Spaziani come "uno dei libri più magnanimi delle recenti generazioni, dove la cultura si sposa con la natura".
[...] Le acque del Sabato raccoglie componimenti scritti dalla poetessa tra i venticinque e i trent'anni. Questa prima opera è fortemente legata ai luoghi d'infanzia, in particolare alla “villetta dei ciliegi” e alla campagna astigiana (la madre nacque a Mongardino d'Asti) e, non a caso, verrà definita come "il libro della mia preistoria".
Sono anni in cui la Spaziani viaggia molto e nella raccolta si possono scorgere poesie su Venezia, Edimburgo e Parigi, oltre che ai sopracitati luoghi natii ai quali rimase sempre molto legata. La contrapposizione fra la patria e l'estero è quella fra immobilità dell'essere e la mobilità del viaggio, mezzo di conoscenza, punto per una nuova partenza: "Mille strade ci attendono ancora".
In questa prima raccolta vengono anticipati temi che ricorreranno insistentemente nella produzione successiva: la solitudine, la distanza e la rievocazione dei luoghi amati, per quanto riguarda la sfera emozionale, la luna e il mare come elementi della natura che di volta in volta si fanno portatori di significati diversi. Inoltre emerge fin dai primi scritti la centralità della parola, strumento di verità; essa, come si diceva, è esatta ed incisiva, volta a cogliere la concretezza della vita.
[...] Luigi Baldacci definisce la poesia della Spaziani come "una poesia di voce, ricca di quel suono che Leopardi riteneva intrinseco alla funzione della poesia, prima che i moderni ne smarrissero l'eco e i vestigi". Da questa breve affermazione emerge l'idea fondamentale della prima raccolta e di quelle successive, e cioè l'unione fra canto e parola.
La poetessa rivendica una propria autonomia nel quadro letterario a lei contemporaneo, e afferma che la sua poesia ha subito degli influssi shopenaueriani, per quanto riguarda la "radice nera" di sottofondo, e che la sua formazione è avvenuta su autori francesi come Baudelaire e Rimbaud, attraverso la lettura delle emozionati poesie di Anna Achmatova e dalla scrittura etica e spirituale di Rilke. Sicuramente in ambito italiano sono state fondamentali le personalità di Pascoli per quanto riguarda la metrica, d'Annunzio per il panismo, Montale emerge nell'uso aperto del pronome "Tu" e nell'endecasillabo montaliano più volte ricordato, Saba e Quasimodo, poeti a lei contemporanei che pubblicarono le loro prime poesie sulla rivista "Il Dado". Tuttavia, come bene ha osservato Paolo Lagazzi, la Spaziani con la sua originalità ha saputo confondere le acque e nascondere le tracce.
In proposito alla “radice nera” presente nella sua poesia, mi affiora subito alla mente il componimento posto in apertura de Le acque del Sabato:
Non fare che ti tocchi
l'ansito cupo, il battito sulfureo
che dalla terra mascherata,
primavera, si svincola feroce.
Corri, stagione, sul tuo filo azzurro
di polline e di vento.
Cielo per noi sarebbe
fin la maceria sotterranea
se nei meandri sconosciuti, tetri
come le nostre viscere,
il dilagante fiore nero
per noi felici maturasse in segreto
.
[...] Le acque del Sabato rievocano la dimensione del ricordo e della memoria che trasfigurano in un linguaggio poetico che tenta di squarciare il "velo di maya" per penetrare nel profondo e raggiungere il nocciolo della vita.
La Spaziani ricorda che vi è un contrappunto fra la realtà vissuta e la realtà ricordata, tema prettamente proustiano. La poetessa è debitrice della teoria della memoria di Proust, il quale distingueva la memoria volontaria rievocata dall'intelligenza e per questo arida, e la memoria involontaria che riemerge tramite le sensazioni pure.
La reminiscenza quindi affiora dalla memoria involontaria, attraverso essa vi è il recupero del passato che altrimenti cadrebbe nell'oblio. La poesia della Spaziani è fatta di ricordi, di sensazioni e di oggetti concreti, ci ripropone momenti quotidiani in chiave lirica, momenti che talvolta vengono trasfigurati dalla riflessione poetica.
La poesia come contemplazione infatti si riferisce ad oggetti concreti, ma tende a creare intorno a loro un alone di solitudine, questo il motivo principale dei toni malinconici della raccolta.
Ora scende il grigiore
Ora scende il grigiore in mezzo ai vicoli
che un liuto strazia e allarga oltre l'umano
mio tempo, arido ai ricordi.
E mattini ritornano leggeri,
agili sui selciati di rugiada
i nostri passi, i nostri lunghi indugi
sugli eroi dell'Iliade.
O mattini d'estate che memoria
del dolore gelosa in sé contrasta!
Un liuto sospirava una canzone
dietro le canne polverose.
Memoria-autunno-morte, biondo cerchio,
sempre più oscurandoti mi stringi,
feroce amore.

Nel componimento sopracitato è vivo il tema della memoria del passato che ritorna al di fuori del tempo, che sembra essere restio ad accogliere il ricordo.
[...] Ma la luna diventa emblema della solitudine quando la poetessa si trova lontano dalla sua patria, in una città fredda dalle tinte fosche non paragonabili alle luci mattutine italiane.
Edimburgo
Se qui la fredda luce non risveglia
le tinte dei mattini della patria
non chiamarmi, città. Piovono oscure
non so che angosce, o attese, o solitudini.
S'animano le caserme nella sveglia
dell'alba. Ulula un cane da un balcone.
Passa un carretto solitario, un nome
nessuna cosa più scandisce.
Contro il cielo che imbianca,
solo un cipresso e il campanile e un roco
carosello di rondini s'imbruna.
Ma l'Italia è lontana. E questa è valle
e tempo e suono della luna.

La malinconia viene descritta in modo diverso nel componimento Giudecca, la città di Venezia porta con sé un alone di mistero e di attesa e la poetessa osserva i giochi d'acqua della laguna, ascolta il canto lamentoso dei gondolieri che si inabissa nelle acque scure. L'atmosfera è dominata dalla luna, forse il sole splende in un altro luogo rigoglioso e proteso verso la vita. Al v.6 compare la cicogna che nell'immaginario collettivo porta il pargolo e quindi a livello generale annuncia ancora una volta la nascita/rinascita.
Giudecca
Dolce sera: la luna si disfoglia
lenta sulla palude dell'attesa.
Passano i gondolieri, il loro grido
sprofonda, e mai più al mondo tornerà.
Lontanissimo forse il sole splende
su voli in gloria di cicogne, forse
una bionda stagione i ricchi frutti
per te matura, per te s'inghirlanda.
Io qui raccolgo i cerchi che la riva
pigra rimanda. Sono la tua statua
senza occhi né mani.
Quella storia che chiamano la vita
avrà un senso domani
.
Intensa la descrizione della luna, vista come un foglio che si adagia sull'acqua, lì si riflette e sembra “disfogliarsi” perché muta continuamente i suoi contorni incerti sulla laguna mossa dal passaggio di una gondola. I contorni incerti della luna sono gli stessi della vita, che non sempre sembra aver un senso.
Un componimento che, a mio avviso, sintetizza molto bene il concetto della solitudine. Tale sensazione la troviamo soprattutto nella prima quartina, dove si pone l'accento sull'attesa e sul grido dei gondolieri che naufraga nella laguna solitaria. Anche la luna ha una sua importanza nella lirica sopracitata, infatti è descritta come elemento naturale che sottende al ciclo vitale, concetto che nella raccolta La radice del mare (1999) verrà nuovamente ribadito. Le maree vengono qui accostate al pensiero intermittente, che cala e che cresce, che ora è produttivo e ora è spento. La poetessa colloquia con la luna in giorni di triste solitudine e ma anche di felicità.
Nella nebbia dormiamo, eppure la luna c'è,
se ne sta assorta e remota nei suoi feudi lontani.
Non vista comanderà nelle maree,
sui miei pensieri in alto intermittenti?
Con lei ho colloquiato in giorni di solitudine,
quando fra grigio e nero, s'intrecciava il mio tempo.
Nemmeno quand'ero felice l'ho dimenticata,
e nei suoi mari senz'acqua saltavo, delfino in amore
. [...]
Giulia Dell'Anna, L'universo poetico di Maria Luisa Spaziani, Tesi di laurea, Università Ca' Foscari, Venezia, Anno Accademico 2011/2012, pp. 19-34

lunedì 19 aprile 2021

Vi sono anche le bande di Nice, di Finale e di Alassio

Una ormai datata immagine del posto di frontiera, con annessa Dogana, di Ponte San Luigi a Ventimiglia (IM) - Fonte: Alessandra Maini

Il posto di frontiera di Ponte San Luigi visto, nel 1958, dalla parte francese. Fonte: Collezione Sansoni

Quindi tutte insieme le ragazze intonano qualche nota della simpatica vecchia canzonetta che ripete quelle parole:
No, ma cherie no,
ainsi non va
disons adieu à l'amour
si dans l'amour
il n'y à pas... de felicité...

Più tardi, piano piano, Fofò ed il Brigadiere ritornano in Dogana e Gianni dice loro che il Direttore li desidera.
Con un ragionamento molto equilibrato, il Direttore commenta il fatto di poco innanzi e li incita a far meglio nel futuro.
Fofò cerca di scusarsi e fa presente che è stato il Vicedirettore a far partire la macchina senza permettere che lui parlasse.
Il Direttore li assicura di aver telefonato alla Volante di Ventimiglia di fermare la macchina, farsi dare i documenti e portarli in Dogana con una delle loro veloci motociclette per provvedere alla mancata registrazione ed ai dovuti  visti.

Fuori c'è il signor Di Pietra che li attende, ma Fofò, senza dargli tempo di aprir bocca, gli dice che per star bene e far le cose giuste, bisogna essere sempre tranquilli [...]

p. 141

Il Trofeo di Augusto a La Turbie - Fonte: Wikipedia

Davanti a quel monumento [ndr: il Trofeo di Augusto a La Turbie, Costa Azzurra], tutti restano attratti in muta ammirazione. La ciclopica opera d'arte è fatta interamente con enormi massi di pietra, lavorati e squadrati con una perfezione sorprendente, tanto più che in quell'epoca non avevano alcuna macchina di moderna invenzione. Quei pesantisimi massi furono sollevati e messi a posto con grande precisione ad altezze considerevoli.
Un'ampia base quadrata alta una decina di metri; poi un colonnato snello ed alto riunito tutto insieme da un unico gigantesco capitello.
Ena fa notare che un altro monumento dello stesso stile, ma più piccolo, si trova a Pompei, il monumento degli Istacidii.
Fanno delle fotografie e prendono un caffè, una tazza di caffè stile francese, come un decotto diluito ed abbondante.
Ripartono; adesso la macchina discende: si va verso Nizza. In tutta la zona attraversata vi sono ricche e splendide ville che sono dei veri gioielli d'arte incastonati in angoli naturali di incomparabile bellezza.
A Nizza l'autobus sosta per tre ore circa. Ne approfittano per passeggiare un po', pranzano, si fermano negli ampi giardini ove i passerotti rubano ai colombi i pezzetti di pane, che lanciano i bambini.

p. 197

Uno scorcio della Battaglia di Fiori di Ventimiglia (IM), anno 1956 - Fonte: Giuseppe Silingardi

Vi sono anche le bande di Nice, di Finale e di Alassio; quest'ultima è preceduta da un piccolo stuolo di belle ragazze che spargono profumi con appositi spruzzatori.
Sembra di vivere in un mondo irreale.
Il bel sole, caldo e chiaro, avvolge tutto con la sua luce più bella, sembra che anche lui intervenga alla festa ed i suoi raggi danno maggior vita a tutto lo scenario. Ognuno si sente come dominato ed esaltato.
Dopo alcuni giri fatti dai carri, sempre accompagnati da ben meritati applausi, gli altoparlanti danno l'ordine di sostare un po' e di prepararsi per la battaglia; per chi non lo sa, gli altoparlanti precisano che, appena si rimettono in moto i carri, incomincia la Battaglia dei fiori. Una vera battaglia, ove i proiettili sono graziosamente rappresentati da fiori, fiori e fiori.
È assolutamente proibito raccogliere fiori in terra o strapparli dai carri. La maggior parte dei fiori sono applicati ai carri con speciali chiodi sottili e lunghi, il cui lancio è pericoloso.
Per le tribune circolano delle ragazze con i classici e simpatici costumi antichi di Ventimiglia, portano cestini e panieri di fiori, piccoli fasci che offrono gratuitamente agli spettatori, affìnché possano rispondere ai tiri  provenienti dai carri.
La lotta si presenta accanita.  

p. 244

Luigi Nicodemi, Fofò in Dogana, Edizioni Europa, 1957

martedì 13 aprile 2021

La Lima, antico settimanale socialista di Oneglia, in una lettera di Alessandro Natta

 

Fonte: Op. cit. infra




Oneglia, 24 Dicembre 2000

CARO LIBERO,
grazie molto per il dono bello e dolce! Ed io, come ti avevo promesso, trascrivo alcune delle notizie curiose che avevo stralciato da “la Lima”, qualche anno fa quando studiavo le vicende di Giacinto Menotti Serrati.
Non posso naturalmente tracciare tutta la storia, di grande interesse, del settimanale socialista di Oneglia. Voglio solo ricordarti che è nato un anno dopo la fondazione a Genova (1892) del Partito Socialista: il primo numero de “la Lima” porta la data del 4 giugno 1893!
I promotori sono stati quel gruppo di giovani professionisti, per lo più avvocati, di famiglie “risorgimentali”, che allora abbracciarono gli ideali socialisti nel nostro ponente ligure: Canepa, Gandolfo, Rossi, Raimondo, Bruno, ecc. 

Il nostro Giacinto Menotti Serrati - nel '93 era un ventenne alla ricerca di un mestiere perché la morte del padre lo aveva costretto ad abbandonare gli studi - fu tra i primi entusiasti collaboratori e continuò a scrivere su “la Lima” sempre, anche quando divenne direttore (alla fine del 1914) de “l'Avanti”.
[...] 
La prima notizia significativa che ho trovato è sul numero del 21 settembre 1912: una lettera di mio padre, Antonio Natta, sul prezzo delle carni, con una replica de “la Lima”, che naturalmente li riteneva troppo alti!
Mio padre ricompare tra gli abbonati del 1913. (Tra parentesi: negli anni tra la guerra di Libia - 1911 - e la guerra mondiali - 1915 - “la Lima” è di grande interesse per gli articoli di Serrati e di Mussolini, ed anche per la polemica tra i due, e per l'attività politica e giornalistica di nuovi personaggi, come gli avvocati Nino Bruno, Secondo Gissey, ed anche di Orazio Raimondo, che è eletto deputato, il primo deputato socialista della provincia, nel 1913, nel collegio di Sanremo.

Il nome di tuo padre - Nicola Nante - compare nel numero del maggio 1914 nel quale si dà notizia del congresso del Psi (26/28 aprile) in cui si discute il problema della massoneria, e viene espulso, per iniziativa di Mussolini, proprio il famoso deputato di Sanremo Orazio Raimondo. Ecco l'esito della votazione: favorevoli alla espulsione dei massoni 27.398, per la compatibilità 1.819, per non occuparsi del problema 2.485! La sezione di Oneglia aveva dato mandato al delegato Nicola Nante di disinteressarsi alla Ponzio Pilato della questione.
[...] 
Nel numero del 6 febbraio 1915 c'è il resoconto del comizio di Orazio Raimondo (interventista) - con il titolo “Il concerto di lunedì” - in cui si racconta che prima che Raimondo cominciasse a parlare si levò un grido: «La parola a Girella!». Nei racconti che ho sempre sentito, in casa mia, a pronunciare nel teatro quella battuta sarebbe stato proprio Coluccio Nante!
Il numero del 3 luglio 1915, sotto il motto “Frangar non flectar”, cominciano le sottoscrizioni del periodo bellico: nell'elenco ci sono tutti i socialisti onegliesi!
[...]  
Ma riprendiamo con le notizie di cronaca.
Nel 1917 l'abbonamento a “la Lima” costava tre lire; quello sostenitore cinque lire. In questo periodo bellico “la Lima” è spesso vittima della censura; a volte l'intero numero è oscurato. E alla censura si aggiunge la mancanza di carta.
Ma nel numero del 17 marzo un trafiletto in prima pagina porta questa notizia: «Mentre stiamo per andare in macchina i giornali recano che un gran moto rivoluzionario è scoppiato in Russia e che… lo Zar Nicola ha abdicato».
È l'inizio della rivoluzione. 

Anche “la Lima” è costretta, non per la questione della carta, ma per stretta contro i pacifisti, ad interrompere le pubblicazioni, dal 26 maggio 1917 fino a tutto il 1918.
Riprende con il primo gennaio 1919 con un saluto augurale di F. Rossi che tra l'altro scrive: «Non dimenticate... un giusto orgoglio. È quello d'aver avuto tra voi, per molti anni, G. M. Serrati: scrivete nel primo numero, nella prima pagina, nella primissima linea il suo nome e avanti!».
Il motivo di questo così solenne omaggio è che Serrati, direttore de “l'Avanti!”, e in sostanza capo del Partito socialista, è stato arrestato nel 1918 e processato per i moti di Torino - manifestazione nel 1917 per il pane con molti morti - e condannato.
Da molti mesi è in carcere (lui penserà che tutta questa storia sia stata una manovra di V. E. Orlando, capo del governo per colpire l'ala più intransigente del Psi) e dal carcere Serrati uscirà solo ai primi di marzo. Verrà il 13 marzo ad Oneglia, da trionfatore, e sarà accolto da una grande manifestazione popolare sul Rondò, dove parlerà da una vettura l'avvocato Nino Bruno e risponderà il nostro G. M.! “La Lima” farà un resoconto commovente, che io ritengo sia stato scritto da Nanollo Piana.
[...]  
Comincia la stagione accesa della battaglia aperta, del grande successo, nelle elezioni politiche del 1919, del Psi, delle grandi speranze, e anche delle molte illusioni; e prende avvio anche la lotta via via più aspra con i fascisti (è dell'aprile 1919 il primo assalto e la devastazione de “l'Avanti!” a Milano).
Nel numero del primo maggio 1919 “la Lima” pubblica un articolo straordinario di Virgoletta (certamente Nanollo Piana) [...] 
In questo articolo vengono ricordati alcuni compagni: «Gli anziani Agostinetto Berio (ferrea dili- genza) … il serafico Manlio … Narduccio sempre in faccenda … Felicino Musso (il miracolo del primo avanzo di cassa!) Coluccio Nante (disastro) Massobrio (il tipo del miglior amministratore) …».
Li riconosci questi nomi? Berio, detto “u roudon”, era un barbiere, e sarà anche sindaco socialista, dopo Piana, di Oneglia nel 1922; Manlio Serrati, fratello di G. Menotti e padre del medico Bruno; Narduccio è Dulbecco che sarà nel 1921 il capo dei comunisti; Musso, sindaco socialista di Castelvecchio, poi pasticciere sotto i Portici, e infine costretto all'esilio in Francia e in Spagna, con i due figli Ornella e “Sumi” che avrai conosciuto, penso, nella Resistenza; Massobrio il barbiere.
[...] 
Nel numero del 29 giugno vengo immortalato anch'io: «Sottoscrizione pro “Lima”: trovato dal bimbo Alessandro Natta L. 1 (avevo 18 mesi!!). Ora comincia la propaganda per la solidarietà con la Russia e cominciano anche le discussioni e i contrasti dentro il Psi, tra massimalisti e riformisti e tra le diverse tendenze del massimalismo. 

Nel numero del 6 settembre 1919 compare - mi sembra per la prima volta - il termine “fascista” e nella sottoscrizione quello del mio futuro cognato Zanetta Tomaso L. 1 (mia sorella Teresita, invece, sottoscriveva L. 5: ma lei era la figlia di Tugnen il macellaio, e lui un povero operaio, di Renzetti…).
 [...] 
Ma ora siamo ancora al 1919, e alla cronaca onegliese.
A settembre viene fondata la sezione fascista da Agostino Scarpa, un ex sindacalista, passato dall'altra parte.
A ottobre muore Francesco Ughes (“Pacichen”), che era stato al domicilio coatto alle Tremiti e a Porto Ercole, pioniere del socialismo.
Al congresso di Bologna, in ottobre, il capo acclamato del Psi è senza dubbio G. Menotti Serrati, e Bordiga appare come un leader tra le giovani generazioni. Hanno vinto i massimalisti elezionisti, ma nell'unità del partito. E tutti, da Serrati a Turati, sono favorevoli all'adesione alla Internazionale comunista appena fondata da Lenin. E Serrati dà il via alla pubblicazione di una nuova rivista, con il titolo chiaro ed emblematico: “Comunismo”.
Nel numero de “la Lima” del 17 ottobre viene pubblicata la lista dei candidati del Psi alla Camera, in perfetto ordine alfabetico: Abbo Pietro, poi c'è Marco Donzella (di Sanremo) e ancora Serrati Carlo Lucio.
L'esito delle elezioni del novembre segna un successo clamoroso del Psi (160 deputati), del Ppi (103 deputati), poi distanziati 14 Repubblicani e 23 Riformisti! I giolittiani, i fascisti, i democratici monarchici di tutte le risme sono [...]
In Liguria sono eletti: i socialisti Abbo, Rossi, Binotti, Bacigalupi, Serrati Lucio, Riba; i popolari: Cappa, Agnesi, Boggiano, Zunini; i democratici: Celesia, Guida; i ministeriali: Casoretto, Cerpelli, Poggi e infine Giulietti per il Partito del Lavoro e Macaggi per i combattenti.
Per queste elezioni Natta Antonio sottoscrive 20 lire e sottoscrivono anche Teresa Natta e Pietro Natta; e Coluccio Nante - tieniti forte - sottoscrive 500 lire: una cifra enorme che non credo di aver trascritto male, né che “la Lima” abbia cambiato un 50 in 500! Ma ormai è fatta. In compenso nel numero del 28 novembre “la Lima” annuncia il matrimonio di Coluccio Nante e Nannina Forlino.
Il 1919 si conclude - dice sempre “la Lima” - con una mascalzonata nazionalista: l'aggressione a Roma, a dicembre, dei deputati socialisti Abbo, Serrati, Murari, Bellagarda, Romita.

Nel 1920 l'abbonamento al settimanale diventa di 6 lire, un numero costa 20 centesimi, ma cresce anche la solidarietà, e in ogni elenco è presente con somme notevoli Nante Nicola, ed anche Natta Antonio, tanto che mi sono domandato se in quegli anni ci fosse ad Oneglia qualche altro socialista che si chiamava Natta Antonio (e forse sì!) e se quel Nante Nicola fosse proprio Coluccio!! Di altri socialisti che ho ben conosciuto, come Romolo Crivelli, anche lui generoso, non posso dubitare perché di Crivelli ad Oneglia c'era solo lui.
[...]
Il 23 luglio su “la Lima” c'è la notizia dell'incendio de “l'Avanti!” a Roma: “l'Avanti!” allora aveva tre edizioni - Milano, Torino, Roma - ed era uno dei quotidiani di maggior prestigio e diffusione.
Nello stesso numero è rilevante che il Circolo Giovanile socialista indichi tra i sottoscrittori del prestito comunista: Ughes Gaetano, Natta Pietro, Zanetta Tommaso, Senardi Stefano, Troni Giovanni, Amoretti Riccardo, rag. M. Valentini: saranno tutti ben noti!
Ed anche Natta Antonio sottoscrive, la settimana successiva, due cartelle: ed io mi interrogo sempre se si tratta proprio di mio padre (mentre non ho dubbi su Teresa e Pietro Natta, che sono mia sorella e mio fratello, su Tommaso Zanetta, mio futuro cognato).
Ad agosto a Giovanni Perasso viene data per appalto la gestione del teatro Umberto, per il 1920/’21. E dal numero de “la Lima” del 27 agosto si apprende che Nante Nicola era il presidente della Cooperativa Sociale di consumo.
 [...]
Il 10 settembre c'è l'annuncio della occupazione delle fabbriche, che non avrà un esito positivo. E la notizia del matrimonio con rito civile di Romolo Castagno e Rosa Persico.
 [...]
A novembre sarà memorabile, sia al teatro Umberto che al Cavour, la celebrazione del terzo anniversario della rivoluzione. Parleranno Piana, e poi Menotti Serrati, che è stato a Mosca al secondo congresso della Internazionale comunista, dove ha discusso in modo aperto con Lenin. Serrati al suo ritorno ha detto (come riferisce “la Lima”, con il linguaggio tipico dell'epoca e di Nanollo): «Le verità più crude ma anche più sante…».
Lui, il difensore primo della Russia e della rivoluzione, ha parlato delle condizioni drammatiche, delle difficoltà enormi, della guerra civile con cui i comunisti russi sono alle prese, ed anche dei punti di differenza e di contrasto tra gli orientamenti dell'Internazionale e le posizioni che sono proprie di Serrati e che egli sosterrà tenacemente fino alla tragica rottura, nel congresso di Livorno del gennaio 1921, proprio nel campo del massimalismo, tra Serrati e il grosso del partito socialista e i suoi allievi, Bordiga, e il gruppo torinese di Gramsci, Terracini, Togliatti, che daranno vita al partito comunista. Anche su “la Lima” è venuta accendendosi la discussione tra le diverse tendenze; e, anche se il settimanale è chiaramente sulle posizioni di Serrati, non mancano gli interventi che possiamo definire “bordighiani”.
[...] 
Ora però, negli ultimi mesi del 1920, compaiono articoli con la firma “Vladimiro”, a nome del “Circolo Giovanile socialista”.
Non so chi c'è dietro questo nome leninista (forse Leonardo Dulbecco?), ma so che ci sono i “bor- dighiani” che nel 1921 andranno nel partito comunista, e tra loro mia sorella Teresita e mio fratello Petruccio, e così io avrò la guerra in casa perché Zanetta, divenuto mio cognato, resterà fedele sempre a Serrati. Anche Piana e Nante continueranno a seguirlo fino a Livorno, ma non molto oltre perché in loro prevalse, e per sempre, l'anima del riformismo.
In crisi però non è solo il campo della sinistra, ma anche quello della democrazia liberale, che passa da un governo all'altro - da Orlando a Nitti, da Nitti a Giolitti. Nell'aprile del 1921 viene sciolta la Camera. 
Alle elezioni sono presenti le liste dei socialisti (ancora Abbo e Lucio Serrati), dei comunisti (credo Dulbecco), nello schieramento dei liberali e fascisti c'è il generale Asclepia Gandolfo; e si presenta anche il democratico Giacomo Molle, che “la Lima” prende un po' in giro («così giovane e già commendatore»). 

Verso la fine di aprile, la campagna elettorale viene funestata ad Oneglia da un tragico incidente nel corso del comizio di A. Gandolfo e Coda e del contraddittorio di Dulbecco e in attesa del discorso di Nino Bruno. Pare vi sia stata qualche provocazione dei fascisti, o comunque qualche intemperanza dei campi opposti, che determinò un intervento della polizia, che sparò ed uccise Maurizio Gorlero, uno di Porto Maurizio, che non era né fascista né socialista.
Questo episodio sensazionale che “la Lima” raccontò in due pagine - «La tragica domenica di sangue: la punizione contro Oneglia rossa…» - entrò nell'immaginario collettivo e famigliare, ed io l'ho sentito rievocare tante volte che più tardi mi sembrava di averlo vissuto!
Naturalmente ci furono gli strascichi polizieschi e politici: la chiusura, ancora una volta, del “Caffè del Popolo”; l'arresto per alcuni giorni dell'avvocato Nino Bruno; le polemiche dure contro i fascisti “colti”, i ragionieri Emilio Varaldo, Carlito Muratorio (mio cugino), Granara e, come diceva, “simili”.
Intanto l'avvocato Molle veniva escluso dalla lista del blocco giolittiano e il generale Gandolfo era chiamato in causa anche lui per l'incidente del Rondò.
L'esito delle elezioni fu sorprendente, in particolare per la tenuta del Psi, ed anche dei popolari. Nella nuova Camera entrarono 125 socialisti, 16 comunisti, 7 repubblicani, 107 popolari, 20 fascisti, 252 deputati del “minestrone” liberaldemocratico conservatore, e 8 tedeschi e slavi.
Ma in Liguria i “rossi” restarono forti, risultando eletti: Abbo, Baratono, Binotti, Faralli, Rossi, socialisti; Graziadei, comunista; Canepa Giuseppe, autonomo; quattro popolari e sei rappresentanti del Blocco. Poi Faralli risultò non eletto e il seggio toccò invece al popolare onegliese Agnesi. Il generale Gandolfo venne “trombato” e preso in giro da “la Lima”, ma fece in tempo, prima di scomparire prematuramente nel 1926, a fondare la milizia fascista!

È presente come sempre “milite devotissimo e disciplinato”, ma con la sua fede cocciuta ed intransigente, anche Menotti Serrati. Lui scomparirà nel maggio del 1926. Ma ad Oneglia i suoi compagni, i “terzini”, così erano chiamati, da Pietro Abbo a Goffredo Alterisio, da Gaetano Ughes a Menicco Amoretti, a Tommaso Zanetta saranno il nerbo del Pci e i suoi dirigenti di prima fila nella Resistenza, nella lotta di Liberazione e poi nella rinascita dell'Italia.
 [...]
“La Lima” si consente gli ultimi sfoghi contro le imprese criminali dei fascisti; e con le affermazioni incredibili (allora, ma anche oggi a rileggerle) di Ivanoe Bonomi, che aveva detto: «Il fascismo è nato per affermare i valori spirituali della nostra razza» e che “la Lima” bollava definendolo «pagliaccio e sanguinario come tutti i transfuga».
Siamo a dicembre del 1921.
Non c'è ancora il senso della sconfitta, anche se le preoccupazioni diventano sempre più acute e assillanti - ma intanto continua la sottoscrizione, e all'Umberto I si svolge, prima di Natale, la veglia rossa: «Dopo mezzanotte canta applauditissimo alcune romanze il dilettante baritono compagno Zanetta!».

L'abbonamento per il 1922 è salito a 10 lire.
“La Lima” continua imperterrita la sua battaglia: ricorda a tre anni dalla morte Rosa Luxembourg
 [...]
Ad aprile appare tuttavia un rimprovero esplicito di Serrati che scrive: «“La Lima” da qualche tempo è un giornale del più puro riformismo, che si rifiuta persino di pubblicare il pensiero della Direzione».
Seguono, naturalmente, spiegazioni e giustificazioni, ma è vero che il settimanale socialista viene perdendo il tono vigoroso, e si fa via via più scialbo.
E intanto anche ad Oneglia i fascisti fanno nuove reclute, in tutta Italia si fa più duro e distruttivo l'attacco dei “nuovi Unni” alle case del popolo, alle sedi delle Camere del lavoro, dei giornali, dei comuni; e ai militanti della sinistra.
Anche lo sciopero di agosto non riesce ad arginare la marea montante.
Ad Oneglia e a Porto si tengono nei teatri due comizi, nei quali parlano Nanollo Piana, Abbo, Nino Bruno, Ericario, Lucio Serrati, Alterisio.
Ma a Castelvecchio i fascisti distruggono il monumento ai caduti che portava l'iscrizione «Guerra al regno della guerra».
 [...]
Ma le sconfitte non sono mai corroboranti, e le rinascite esigono tempi lunghi e sforzi inauditi, eroici.
Per il momento il fascismo, «sorto tra le simpatie e sotto gli auspici di tutte le gamme più svariate del padronato italiano», va all'assalto del potere. Ad Oneglia anticipa: sotto i colpi del manganello cadono ora anche i popolari; anche Lucio Serrati viene aggredito da una squadra, guidata da “Sciguretta” (Ardoino).
Nel comune l'amministrazione socialista di Piana e poi di Agostino Berio, sistematicamente oggetto di critiche e attacchi furibondi per la politica fiscale da parte di tutti “i signori”, viene messa in mora ad agosto con l'invio di un commissario e a settembre si dimette la giunta e si scioglie il consiglio comunale.
È la fine. Anche per “la Lima” che chiude la sua grande e gloriosa vicenda con l'ultimo numero del 30 settembre 1922.

CARO LIBERO,
mi sono fatto prendere la mano e, anche se ho cercato di tenermi alla cronaca e di lasciare da parte la grande politica, ho finito per non resistere alla rievocazione sommaria delle vicende grandi e drammatiche vissute dai nostri vecchi nei primi venti anni del XX secolo!
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Io sento assai forte l'orgoglio per ciò che le forze di sinistra - i comunisti e i socialisti - anche attra- verso tante traversie e contrasti, sono riuscite a fare nell'ultimo cinquantennio.
Ed oggi il mio auspicio più schietto, insistente e grande, è che si riprenda con chiarezza e vigore la via dell'unità e del socialismo.
Non so se mi perdonerai di avere trasformato un ricordo e un omaggio per Coluccio, per Nanollo, per mio padre e i miei in questa pappardella.
E non me la prenderò se non riuscirai a leggerla interamente.
tuo
SANDRO NATTA

Alessandro Natta (1918-2001), in PAGINE NUOVE DEL PONENTE, bimestrale di politica e cultura, Imperia, ANNO III n. 4 - luglio-agosto 2001